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A proposito della proposta di indulto – Scelte tragiche

30 Dicembre 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Ci sarà un indulto o un’amnistia per i detenuti?

Dopo la visita del Papa a Rebibbia e le parole dette in carcere (e prima ancora nella Bolla di indizione del Giubileo), la domanda è tornata di attualità. Ma per la verità, e giustamente, la domanda aleggiava da tempo grazie ai rapporti delle associazioni che – come Antigone – si occupano della condizione carceraria. Credo dovremmo essere grati a quanti, nella società civile e pure nel mondo politico (penso in particolare ai Radicali), tengono viva l’attenzione sul dramma delle carceri italiane: vecchie, spesso fatiscenti, indegne di un paese civile. Un dramma che, negli ultimi anni, si è aggravato per il sovraffollamento: attualmente il numero di detenuti supera del 32% i posti effettivamente disponibili, e il numero di suicidi di detenuti (89 quest’anno) ha toccato il massimo storico. In breve, le condizioni che suggeriscono un provvedimento di alleggerimento ci sono tutte.

Eppure, un tale provvedimento non arriva, e non da oggi (l’ultimo indulto è di quasi 20 anni fa). Perché?

Una spiegazione ovvia è la convenienza elettorale: né la destra né la sinistra sono pronte a intestarsi un provvedimento di clemenza, che inevitabilmente contrasterebbe con la domanda di sicurezza che proviene dall’opinione pubblica. E anche nel caso in cui, grazie alle aperture di Forza Italia e del Pd, un fronte pro-indulto si formasse, i voti in parlamento non sarebbero sufficienti: l’articolo 79 della Costituzione, infatti, prescrive che un provvedimento del genere sia sostenuto da una maggioranza qualificata (2/3 dei senatori e 2/3 dei deputati).

Ma queste sono cattive ragioni per respingere la domanda di un atto di clemenza. La domanda vera è: vi sono anche buone ragioni?

Temo di sì. La prima buona ragione è che l’esperienza del passato mostra che questo genere di provvedimenti non è risolutivo: nel giro di 2-3 anni la situazione torna ad essere quella precedente. A questo argomento si può obiettare che, per evitare un ritorno alle cifre pre-clemenza, si può – insieme all’atto di parziale svuotamento delle carceri – varare un mix di misure di alleggerimento collaterali: aumento dei posti in carcere, depenalizzazione di molti reati, potenziamento delle misure alternative al carcere. Ma qui interviene una seconda buona ragione contraria a un atto di clemenza: anche se le misure di alleggerimento collaterali, per lo più costose e di non immediata attuazione, fossero effettivamente adottate, resterebbe il fatto che una parte non trascurabile degli scarcerati tornerebbero a commettere reati più o meno gravi, di cui sarebbero vittime diverse migliaia di cittadini.

Detto brutalmente: le pagine di cronaca si riempirebbero, come accadde dopo l’ultimo indulto, di nuovi crimini commessi proprio dai beneficiari dell’atto di clemenza. Il che potrebbe non fare molta impressione finché si trattasse solo di furti e borseggi, ma diventerebbe emotivamente insostenibile di fronte ad aggressioni, rapine, violenze sessuali, uccisioni, femminicidi compiuti da soggetti che, senza l’indulto, sarebbero stati ancora in carcere. Che diremo quando scopriremo che l’ennesima ragazza stuprata o uccisa è stata vittima di un indultato?

Quello che spesso si dimentica è che, accanto alla fondamentale (e troppo poco attuata) funzione di rieducazione, il carcere svolge una non meno importante funzione di “incapacitazione”, ossia di protezione dei cittadini mettendo (temporaneamente) in condizione di non nuocere chi ha commesso reati abbastanza gravi da comportare il carcere.

Ecco perché il gesto di clemenza, pur giustificato dalla inaccettabile condizione di degrado di tanti carceri, risulta ingiustificabile da altri punti di vista, primo fra i quali quello delle future vittime. Ciò di fronte a cui ci troviamo, in altre parole, è un formidabile dilemma etico, che non vede coinvolti due soggetti – i detenuti e lo Stato – ma ne vede implicati tre: detenuti, Stato, future vittime. Se il rapporto fosse solo fra Stato e detenuti, varrebbe unicamente il principio che uno Stato non può privare della libertà un cittadino se non è in grado di assicurargli una detenzione umana. Ma essendo il rapporto a tre, vale la domanda: può lo Stato scaricare su cittadini innocenti la sua incapacità di gestire le carceri?

Non sono dilemmi nuovi, anche in campo giuridico. Se ne occuparono magistralmente, quasi mezzo secolo fa, Guido Calabresi e Philip Bobbit in un celebre libro (Tragic choices, 1978), che metteva di fronte alle decisioni che, specie in una situazione di risorse scarse, l’azione pubblica è costretta ad assumere. Ebbene, quella di un eventuale indulto è una di tali decisioni tragiche, perché qualsiasi cosa il decisore pubblico scelga, ci saranno effetti negativi e vittime incolpevoli.

Possiamo avere convinzioni più o meno ferme su quale dei due sia il male minore, ma dobbiamo avere l’onestà intellettuale di riconoscere che, qualsiasi decisione prendiamo, non potrà mai essere una decisione giusta.

[articolo uscito sul Messaggero il 29 dicembre 2024]

Femminicidi, un problema degli anziani?

4 Dicembre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

A mia memoria, non era mai successo che un problema sociale attirasse un’attenzione così enorme come quella suscitata dal dramma di Giulia Cecchettin, e al tempo stesso fosse così poco studiato, almeno in Italia. Il fatto che quasi tutti abbiano un’opinione sulle cause e sui rimedi, non deve ingannarci: in realtà non sappiamo quasi nulla, se per “sapere” intendiamo conoscere chi sono le vittime, quali sono le cause, quali possono essere i rimedi efficaci.

Finora, quasi tutte le analisi del fenomeno si sono basate su dati molto aggregati, senza riuscire a scendere nel dettaglio – caso per caso, individuo per individuo – come sarebbe necessario se vogliamo cominciare a capire. Per questo meritano una speciale riconoscenza le donne dell’associazione Non Una Di Meno (NUDM), che da alcuni anni raccolgono in un database tutte le informazioni disponibili su ogni evento in cui una donna viene uccisa, indipendentemente dal fatto che l’omicidio possa essere classificato come femminicidio oppure no (al momento non esiste una definizione statistica condivisa e facile da applicare).

Sono andato a curiosare nel database, che descrive i 110 casi del 2023, e ho provato a fare alcuni calcoli, confrontando i profili di tre insiemi: le donne uccise, i loro uccisori, la popolazione italiana di almeno 10 anni. Ed ecco alcuni risultati.

Cominciamo da quella che considero la maggiore sorpresa: l’età media. Come la maggior parte delle persone che – a titolo di curiosità – ho interrogato in questi giorni, pensavo che le fasce di età a maggiore rischio fossero quelle intorno ai 20-30 anni, o tutt’al più fino ai 40. Ebbene, niente di più sbagliato. Nella fascia 20-40 anni rientra solo 1 donna uccisa su 4. La fascia a maggiore rischio è la fascia delle donne con almeno 60 anni, e il rischio aumenta passando alla fascia delle ultra-70enni. E infatti l’età media di tutte le donne uccise è 53 anni, e quella dei loro assassini (quasi tutti maschi) è 54 anni, entrambe maggiori dell’età media degli italiani  che è di 46 anni (50 se escludiamo i bambini).

In concreto, questo significa che il rischio di essere uccisa di una donna anziana è maggiore di quello di una donna giovane o adulta. Si potrebbe pensare che questo sia dovuto al fatto che, nelle uccisioni di donne, rientrano anche i casi che non configurano un femminicidio. Ma ripetendo il calcolo per i soli femminicidi in base a due definizioni e a due dataset diversi (è stato pubblicato anche un secondo dataset, molto meno ricco), il risultato non cambia, anzi si rafforza: il rischio di essere uccisa di una anziana di almeno 60 anni è del 46% più alto di quello di una donna sotto i 60, e quello di una donna di almeno 70 anni è del 69% più alto di quello di una donna sotto i 70. In breve: il caso di Giulia non è in nessun modo tipico.

Ma questa non è l’unica sorpresa. Nel database di NUDM ci sono molte altre informazioni che, in teoria, potrebbero aiutarci a costruire un profilo tipico delle vittime e dei loro assassini. Ebbene, quel che si scopre facendo i confronti con la popolazione, è che un tale profilo non c’è, anche se – su alcune variabili – emerge una qualche specificità del campione dei femminicidi (lo chiamo così per brevità). I 108 casi registrati sono avvenuti in quasi tutte le regioni; in comuni piccoli, medi e grandi; gli autori del delitto sono operai, impiegati, dirigenti, commercianti, pensionati, disoccupati, tutti in proporzioni comparabili a quelle della popolazione maschile generale.

Solo su alcuni particolari aspetti, è possibile rintracciare scostamenti – talora grandi, talora al limite della significatività statistica – fra il campione e la popolazione. Uno scostamento macroscopico, ma forse non sorprendente, è che metà degli aggressori o si suicida (oltre 1 su 3) o è comunque in una condizione di devianza nel senso tecnico del termine (precedenti penali, prostituzione, problemi psichiatrici, vagabondaggio, eccetera). Un secondo scostamento riguarda la nazionalità delle vittime e degli aggressori. In entrambi i casi sono sovrarappresentate le persone di nazionalità straniera, ma con una importante asimmetria: nel campione il rischio che una donna italiana sia uccisa da uno straniero è quasi 7 volte più alto del rischio opposto, ossia che una donna straniera sia uccisa da un italiano.

Prendere spunto da questi dati per fare affermazioni generali sulle radici dei femminicidi sarebbe una mossa avventata. Però, forse, una piccola considerazione possiamo farla: la visione che abbiamo dei femminicidi è molto stereotipata. Il caso della giovane donna vittima di un partner possessivo, ma per il resto “normale”, è decisamente minoritario. Le donne di meno di 40 anni uccise dal partner o dall’ex sono 20 su 110, e scendono a 16 se trascuriamo i casi in cui l’aggressore è un deviante o si suicida. In altre parole: i casi analoghi a quelli di Giulia e Filippo, anche a voler considerare tutta la fascia di età fino ai 40 anni, riguardano circa il 15% delle uccisioni di donne. E tutto il resto?

Sul resto dobbiamo indagare e riflettere, sapendo però che – al centro – ci sono le donne che attraversano “il terzo tempo” della loro vita, come lo ha chiamato Lidia Ravera in un suo libro recente sulla vecchiaia. Un gruppo sociale al quale, notava fin dagli anni ’80 un’altra scrittrice – Natalia Ginzburg – la nostra società riserva una sola, ipocrita, cortesia, quella di chiamarle anziane anziché vecchie.

A proposito di stupri – Il lato oscuro della civiltà

3 Settembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Ogni tanto la stampa e le televisioni ci informano di qualche drammatica violenza su donne, ragazze, e persino bambine: stalking, abusi sessuali, stupri, femminicidi. Ultimamente, l’attenzione è caduta su due casi di stupro di gruppo avvenuti uno a Palermo, l’altro a Caivano in provincia di Napoli, in una realtà degradata e ostaggio della criminalità.

Notizie di questo tipo sono doverose, e tanto più utili quanto più accompagnate da ricostruzioni accurate del contesto economico, sociale e culturale in cui i fatti maturano. C’è un risvolto della medaglia, tuttavia. Da questo genere di episodi, di cui si parla qualche volta al mese, possono derivare credenze sostanzialmente errate. Ad esempio, che si tratti di poche decine di casi l’anno. O che la matrice siano le condizioni sociali e culturali, particolarmente problematiche nel Mezzogiorno. O che l’Italia sia una realtà particolarmente arretrata, ben lontana dagli standard di civiltà di tante altre società avanzate.

Ebbene, nessuna di queste letture, spesso stimolate dagli episodi di cronaca, regge a un’analisi dei dati (pur imperfetti e frammentari) di cui oggi disponiamo. Partiamo dal numero di stupri: le denunce sono circa 5 al giorno, con un “numero oscuro” di almeno 50 casi non denunciati ogni giorno. Una stima rozza e per difetto suggerisce che gli stupri siano dell’ordine di 20 mila l’anno.

Ma dove si concentrano gli stupri? I dati disponibili mostrano che, contrariamente a una credenza piuttosto diffusa, la frequenza è maggiore nelle regioni del Centro-nord rispetto a quelle del Sud. Secondo i dati più recenti del Ministero dell’interno, relativi al 2021, il record negativo delle violenze sessuali è detenuto dalla civilissima Emilia- Romagna, mentre la regione meno toccata è l’arretrata Calabria. Né si pensi che questa (presunta) anomalia sia una particolarità italiana. Se allarghiamo l’orizzonte, e passiamo a considerare i paesi dell’Unione europea, o l’insieme ancor più ampio dei paesi Oecd, troviamo la stessa regolarità già osservata confrontando le regioni italiane. Sulla base dei pochi dati disponibili, pare che i tassi di violenza sulle donne più alti si riscontrino nei paesi (considerati) più sviluppati, come Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Olanda, con punte inquietanti negli ultra-moderni, ultra-civili paesi del Nord: Svezia, Norvegia, Finlandia, Danimarca (per non parlare di quel che accade fra i super-privilegiati e sovra-istruiti studenti dei college americani e britannici, dove alcune inchieste indicano che le studentesse vittime di violenza sessuale sarebbero 1 su 5). Mentre i tassi più bassi si riscontrano in paesi mediterranei come Grecia, Spagna, Portogallo, Italia. In tutte le statistiche il nostro paese si trova sempre nella fascia dei paesi meno esposti alla violenza di genere.

Arrivati a questo punto, so già qual è l’obiezione: è tutta colpa del “numero oscuro”, ossia del tasso di denuncia, presumibilmente molto diverso da paese a paese, e significativamente più alto nei “paesi civili”. Se il centro-nord ha più violenze sessuali del Sud, e la Svezia ne ha molte di più dell’Italia, è solo perché nelle realtà avanzate quasi tutte le violenze vengono denunciate, mentre in quelle arretrate ciò accade soltanto per una piccola frazione del totale.

Questo argomento non è del tutto infondato, ma non basta a spiegare i fatti. Le differenze nei tassi di violenza fra un paese come l’Italia e un paese come la Svezia sono troppo ampie per attribuirle interamente a differenze nei tassi di denuncia, anche perché vari studi condotti nei paesi nordici indicano, anche lì come nel nostro paese, tassi di denuncia molto bassi, dell’ordine di 1 caso su 10 (se non peggio).

Ma c’è un modo sicuro per verificare se il “paradosso nordico” (i territori più avanzati hanno tassi di violenza sulle donne maggiori di quelli più arretrate), è una realtà e non un artefatto statistico: basta confrontare fra loro non le denunce per stupro, ma i femminicidi, per i quali il numero oscuro non può che essere vicino a zero (è molto difficile che l’uccisione di una donna non venga rilevata dalle statistiche). Ebbene, anche in questo caso i paesi del Nord hanno i tassi di femminicidio più alti, l’Italia ha valori comparativamente molto bassi e, dentro l’Italia, è il Centro-nord a primeggiare (sia pure di poco), non l’arretrato Mezzogiorno. Non solo, ma – contrariamente a un pregiudizio molto diffuso – i femminicidi “di possesso” (in cui il maschio non riesce ad accettare la perdita della donna) sono tipici del Nord, non del Sud.

Conclusione: i dati dicono che, tendenzialmente, più avanzata è una realtà dal punto di vista del benessere e della parità di genere, maggiore è il tasso di violenza sulle donne. In quale modo questa circostanza debba essere interpretata, è tutt’altro che ovvio. Ma il fatto resta. E solleva una domanda: non sarà che il nostro modello di civiltà, basato sull’espansione illimitata dei consumi e dei diritti individuali, contenga in sé un difetto di fabbricazione, una sorta di vizio nascosto?

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