Molestie: meglio denunce in procura che processi mediatici.

Il futuro appartiene alle Lady Weinstein in gonnella, il che mi rincuora.  Le donne scalano posizioni di potere, presto o tardi tra loro, anzi tra noi, affioreranno i casi di quelle sessualmente infoiate che fanno chiacchierare di sé poiché aduse, in preda alla frenesia erotica, a molestare giovani e ambiziosi sottoposti pur di non rincasare, da sole, a tarda sera. Non tutte si accontentano di sorseggiare una tazza di latte, e di valletti disposti a portarti a letto per ottenere un favore il mondo è affollatissimo. Il sofà del produttore, come la poltrona del politico, la scrivania del magistrato, il dopocena con il direttore, sono luoghi dove il fascino del potere e il suo abuso si riflettono dinanzi allo specchio della coscienza individuale. Non a caso, al produttore potente come pochi e allupato come innumerevoli altri, alcune aspiranti attrici replicavano ‘no, grazie’, altre si spalmavano le mani di unguento. Uno stupro, con cortese richiesta di servigi sessuali e attesa di risposta e convenevoli vari, non si era mai visto. Nei giorni nostri, in cui non Weinstein ma la virilità in quanto tale è categoria spregevole del genere umano, vilipesa e mortificata (come se mascolinità e machismo fossero sinonimi), ci siamo inventati lo ‘stupro cordiale’, preludio di relazioni pluriennali, collaborazioni professionali, vacanze e tate condivise, che spettacolo.

Verrebbe da ridere se non fosse che la violenza contro le donne è un abisso di lacrime. Da qui il mio accorato appello: chi si ritiene vittima di reato deve correre in procura e denunciare secondo i tempi e i modi stabiliti dalla legge. Rivolgersi alle redazioni giornalistiche, e non agli uffici giudiziari, evoca una concezione di giustizia vendicativa di stampo tribale. Mai mi schiererò dalla parte di chi usa la gogna contro un presunto colpevole. Se il porco è anche orco, lo decida un tribunale, non uno studio televisivo. Per il resto, vi confesso che resto in trepidante attesa che un prode maschietto squarci il velo dell’ipocrisia pudica, si levi in piedi e punti il dito contro la Weinstein sui tacchi a spillo. Per la normale routine rosa, vale la saggezza antica: sotto i diciotto anni una ragazza è protetta dalla legge, sopra i sessantacinque dalla natura, nel mezzo è caccia aperta. Attente al lupo.

Pubblicato il 19 dicembre 2017



Elogio del corteggiamento

Non so se gli operai stradali, o i carpentieri intenti a tirar su qualche casa sulla pubblica via, usino ancora fischiare dietro un paio di belle gambe (una volta accadeva regolarmente), ma se per caso ancora lo facessero, mi spiacerebbe fossero denunciati per molestie. Capisco che una fanciulla possa sentirsi imbarazzata (una volta sarebbe arrossita) da un fischio che, ahimè, rileva in modo così marcato una sua qualità meramente fisica, ma non direi che debba sentirsi offesa, e meno che mai vittima di una violenza; spero sia attrezzata a sopportare questa che, per quanto rozza e inopportuna, è solo, da che mondo è mondo, un segnale di ammirazione.

Si parla molto, in questi giorni, del rapporto tra uomini e donne, di violenza, stupro, molestie, soprattutto in ambiente di lavoro. Non voglio addentrarmi in tali complicate e drammatiche questioni. Se ne occupa già un nugolo piuttosto cospicuo di “esperti”, anche molto agguerriti. Dico solo che qua e là, nei giorni scorsi, m’è parso di notare una certa confusione: non mi sembra bello, per chi è stato vittima di un vero stupro, essere più o meno indirettamente equiparata all’attrice che, per calcolo o per voluttà, decide di concedersi per una sera alle pressioni del suo regista o produttore. Distinguerei con grande cura!

Userei anche una certa attenzione a non dare l’idea che ogni avance maschile sia già in qualche modo una forma di violenza, come non mi ha mai convinto l’idea, molto di moda mezzo secolo fa, che la trasmissione culturale sia una forma di “violenza simbolica”. Mi viene paura che, a forza di sentirsi accusati di violenza, gli uomini si prendano paura; non tanto che si tengano lontani da noi donne, ma decidano che è più prudente e saggio smettere quella pratica antica ma, almeno da noi popoli mediterranei, molto consueta e diffusa che si chiama corteggiamento. Mi dispiacerebbe. E non per ragioni nostalgico-passatiste, ma per ragioni, direi, letterarie.

Mi sembra che il corteggiamento sia, innanzi tutto, un’attività piuttosto gratuita, faccia parte cioè di quella visione della vita che è il contrario dell’utilitarismo, e si avvicina semmai all’idea di spreco. Una forma di generosità di sé, in qualche modo. Uno “si spreca”, si butta via, si dà all’altro e si com-promette (attraverso parole, gesti, doni). Si gioca la faccia, in poche parole. È vero che in genere si corteggia per ottenere un favore, ma è anche vero che si sa perfettamente di rischiare l’insuccesso, il rifiuto, il non conseguimento del fine. Corteggiare risulta quindi, in qualche misura, qualcosa di fine a se stesso, che trova in sé il suo senso compiuto, fuori da ogni concreta realizzazione. È un investimento a perdere, un desiderio assoluto, cioè sciolto, svincolato. È una delle forme supreme della felicità, qualcosa che, per la sua miscela di libertà, rischio, imprevedibilità, improvvisazione, sembra contenere in sé tutti gli ingredienti che Ortega y Gasset, in uno dei suoi scritti più suggestivi, ritrovava nell’attività venatoria (Discorso sulla caccia, 1942).

Ed è qualcosa che ha molto a che fare col tempo, si nutre di tempo, e si svolge in un tempo, che può essere anche molto lungo. Un corteggiamento può durare anni. E si basa sull’attesa: prelude a un tempo che non c’è ancora e potrebbe non esserci mai. Il corteggiamento convoca quel tempo futuro, lo pre-figura, distogliendoci dal mero e piatto presente, dalla limitatezza di ciò che avviene per certo, e soltanto in concreto.

Nelle forme più alte, corteggiare è una semplice dichiarazione di… ammirazione. Ammirare. Mirare, guardare. Implica di per sé distanza. Stare da lontano a guardare la tua bellezza, le tue qualità, fisiche e non. Ad-mirarti. L’amore da lontano, di provenzaleggiante memoria. Quell’amor cortese (appunto! l’origine etimologica è sempre la corte) che ha fondato tutta la nostra poesia d’amore dallo Stilnovo in poi. Ci si innamorava anche solo per sentito dire, di una donna lontana e mai vista e che mai si potrà incontrare. O si amava una donna sposata ad altri, o addirittura morta. Comunque assente, irraggiungibile, inarrivabile, perduta per sempre. Un amore sublimato e traslato. Non attuato. Trasferito, per esempio, sulla scrittura. E differito. Sognato, immaginato. Insomma, la vittoria dell’astratto, del fantasticare, del fantasma. Non ti posso avere, non ci sei, non sei vera: ma scriverò di te tutta la vita. Petrarca, Dante…

Non vorrei però deviare eccessivamente dal tema. Troppo facile buttarla sul letterario. E allora racconterò un piccolo aneddoto mio personale. Ho vissuto un anno in Svezia, quand’ero molto giovane, e subito all’inizio mi capitò una serata strana. Un collega mi invitò a cena a casa sua. Era un bel giovane del Nord della Svezia; non ero particolarmente attratta, ma molto curiosa, e mi parve bello fare un po’ amicizia. Ci andai, a piedi; era una piacevolissima serata nevosa. Dopo cena quel ragazzo, che non ricordo come si chiamava, mi chiese di andare a vivere con lui, in quella casa. “Ho bisogno di una donna”, mi disse. Fu più o meno questa la frase che usò. Rimasi basita. Ma come? Pensai: questo tale finora, in ufficio, non mi ha quasi mai rivolto la parola, ora m’invita a cena, è la prima volta che ci vediamo, non mi dice se gli piaccio, se si è innamorato di me, non prova a baciarmi, non mi sfiora neanche una mano, neanche per sbaglio, e poi su due piedi, tranquillamente seduti qui in salotto, mi chiede se vengo a vivere con lui? Ma cosa vuol dire?

Mi guardai intorno e, siccome notai per casa un certo disordine, gli risposi: Sì, vedo che hai bisogno di una donna: ma delle pulizie…

Non fui gentile, lo so. È che non ci capii nulla. Semplicemente lui aveva usato un codice che non era il mio, e che mi era totalmente oscuro. Popoli del Nord e popoli del Sud? Può darsi. Non mi aveva corteggiata, ecco tutto. Non aveva messo in atto tutta quella serie di gesti strategici che devono durare un certo tempo e ti preparano, ti fanno capire e non capire, accennano, alludono: ti inducono insomma a una comprensione di cui però non sarai mai certa.

Il corteggiamento apre alla fantasia. Immette in zone narrative illimitate, e libere. Segnali lampeggianti, bagliori, flash. Lettere, messaggini, fiori, cenette, passeggiate, con gelato o senza, piccoli (o grandi) regali, peluche, orecchini, diademi… Non importa cosa, come. Il corteggiamento è tutta una complessa, articolata e suggestiva costruzione fantasmagorica di un senso alluso, posticipato, mai chiarissimo, anzi, ambiguo (com’è ambiguo il linguaggio poetico, appunto), sospeso, intermittente, depistante. E sommamente affascinante. È come entrare al Luna Park, e prender posto sul trenino fantasma: tutto buio, ogni tanto ti sembra che qualcuno o qualcosa ti tocchi, ti sfiori i capelli, ogni tanto un angolo s’illumina e poi si spegne, a ogni curva ti chiedi cosa ti aspetta.

Il corteggiamento è teatro, poesia, narrazione romanzesca. Differisce qualcosa nel tempo, costruisce un’attesa, presuppone un altro e un altrove. In questo senso è letteratura: perché è metafora, porta il senso al di là, lo devia dal letterale, trasfigura, trasporta. È tutto ciò che si oppone alla concretezza bieca, alla lettera di un senso subito chiarito, compreso perché piattamente univoco.

Il ragazzo svedese del Nord, non avendomi corteggiata, mi privò di tutta quell’apertura fantasiosa e ambigua. Fermò la realtà a quel che era. Troppo poco, per me. Mi accompagnò a casa nella notte, nella neve ormai altissima. Gentile, educato. Forse mi avrebbe amato, chissà. Forse avremmo davvero felicemente vissuto insieme. E forse è stato solo un vuoto di parole, che mi ha respinta, una mia incapacità, un mio eccesso di desiderio simbolico. L’amore per la letteratura gioca brutti scherzi.

Insegnavo proprio Letteratura Italiana, lassù, in una bellissima e antica Università. Avevo allievi sui vent’anni. Soprattutto allieve, di cui diventai anche amica. Mi capitò quindi di andare a casa di alcune di loro, e di notare la foto del loro fidanzato, da qualche parte, ben incorniciata: quasi tutte avevano il fidanzato italiano, del Sud Italia. Mi colpì molto. Vedevo quelle foto di ragazzi bruni, dai capelli e dalle barbe folte, ispide, nere. Molti erano pescatori isolani, bruciati dal sole. Mi parvero così in contrasto, quelle immagini, con la fisionomia eterea, allampanata e bionda delle mie allieve svedesi che un giorno ne chiesi conto a una di loro: Ma si può sapere perché avete tutte il fidanzato italiano? Sorrise, e mi svelò l’arcano: Chiaro, mi disse, da voi gli uomini sanno corteggiare.

Non vorrei che adesso, a poco a poco, gli uomini diventassero tutti nordici. Vorrei che ci invitassero ancora a cena, ecco. A una cena tranquilla e serena in cui, sì, tutto può succedere, sia che ci si lasci con una stretta di mano sulla porta, sia che si finisca a passar la notte a casa dell’uno o dell’altra. Senza che ci si debba vicendevolmente tutelare, magari con un contratto preventivamente stipulato, una specie di consenso informato. Come in ospedale, prima di un’operazione.

Tutelarsi, sempre? Abbiamo battezzato in tanti modi l’epoca in cui viviamo: società dello spettacolo, dell’intrattenimento, società liquida. Aggiungerei “società del ricorso”. Viviamo sul chivalà, sospettosi, infidi, pronti a rivalerci, accusare, denunciare. Il genitore dell’allievo bocciato denuncia l’insegnante, il figlio del malato che non guarisce denuncia il medico. Mai il caso, la sfortuna, il destino, o la propria responsabilità. Sempre vittime di errori e ingiustizie, mai soggetti attivi della nostra vita. Né disposti ad accettare gli eventi, casuali, inevitabili; ad aprirci all’imprevedibilità, a sorprenderci e lasciarci andare all’imprevisto, accettando quel che ci viene. Non abbiamo più nessun’idea trascendentale, e magica, dell’esistenza. Forse per questo ci accusiamo-denunciamo l’un l’altro.

Comunque, sono rimasta in Svezia solo un annetto: ho disdetto il mio contratto (biennale e rinnovabile), e son tornata in Italia. E siccome lassù avevo buone possibilità di proseguire la carriera accademica, potrei dire questo (se non credessi alle scelte e al destino): che devo la mia mancata carriera a un uomo che non mi ha corteggiata.

Articolo pubblicato il 26 novembre 2017 su Il Sole 24 Ore



Sexgate: cercasi eroina.

Io non ne volevo scrivere, così come non ho voluto andare a chiacchierarne in televisione, del caso Weinstein & soci. Perché non l’ho capita, quella faccenda. Non ho capito niente. A partire dallo stupore. Non ho capito lo stupore. E, a seguire, non ho capito lo scandalo, non ho capito l’onda lunga innescata da una palpatina del 2002 e tanto impetuosa da travolgere il palpeggiatore in questo disincantato 2017 (mi riferisco al Ministro UK). In questo 2017 di sesso su Tinder, a portata di isolato, di questo sesso geolocalizzato e fruibile in tempi così rapidi da costringerti a rimpiangere quella che con disprezzo veniva chiamata “sveltina”, di questo sesso per appuntamento, come il parrucchiere, come il dentista.
Non ho capito il coro angelico delle violate, non ho capito i coming out tardivi e commossi, i potenti che riciclano l’arroganza in pentimento, non ho capito gli schieramenti, quelli che “Povere donne ricattate” e quelli che “per è da duemila anni ci stanno”. Non ho capito la morale, perché c’è sempre una morale nelle storie raccontate, non ho capito se si stigmatizza chi tace per anni e poi parla, se la si stigmatizza perché ha taciuto (prima) o perché ha parlato (tardi). Oppure si stigmatizza chi, iterativamente, ha abusato del proprio potere, del proprio ruolo nel mondo, della propria forza fisica o sociale, della propria superiorità anagrafica (per le donne è pura perdita invecchiare, per gli uomini di successo no, invecchiare aumenta il loro peso contrattuale), della propria ricchezza.
Si stigmatizzano tutti e due? Eh, no, nelle storie ben raccontate se stigmatizzi sia protagonista che antagonista, ci deve essere un terzo, l’eroe, meglio l’eroina, visto che la figura più penosa la fanno i maschi, con cui il lettore si identifica.
Non ho capito chi è l’eroina.
E allora, per esercizio narrativo, faccio tutte le ipotesi.
L’eroina è quella che non è stata mai palpata, paccata, indotta a fare sesso senza voglia.
Ne conosco. Dicono: “con me non ci hanno mai provato”, e mettono su un cipiglio da leonesse. Sottotesto: non sono il tipo che ci sta in cambio di favori. Si vede subito. L’uomo è bestia ma non è scemo, se ci prova è perché vi mostrate disponibili. Carine, spogliatine, civettine.
Quindi? Tutte in burka e poi ne riparliamo?
No, non è lei l’eroina. Non possiamo accettare che l’esercizio della seduzione (legittimo e benedetto) sia oggetto di autocensura.
Le donne hanno diritto a essere rispettate anche se girano in mutande.
Non è lei l’eroina neanche nella variante “prima della classe”, quella che dice: con me non ci hanno mai provato perché ho talento. Quindi nessuno può farsi la fantasia di avere accesso alle mie grazie in cambio carriera.
L’eroina è forse quella che è stata palpata più volte ma ha sempre preso a schiaffi il palpeggiatore, gli ha morso la mano destra, l’ha accecato con uno spillone, gli ha accorciato i genitali con un calcio? Certo non ha mai subito altro che il primo tentennante approccio, non ha fatto né ricevuto massaggi, e ha continuato la sua cavalcata di amazzone nonostante i trabocchetti del patriarcato.
Ma non è nemmeno lei l’eroina.
Perché in un Paese civile farsi giustizia da sé non è un comportamento virtuoso.
Allora l’eroina è quella che denuncia subito? Quella che esce dal boudoir del produttore e si infila nella prima caserma dei carabinieri?
Oppure l’eroina è quella che tace, elabora l’imbarazzo e l’umiliazione, non frequenta più il palpeggiatore e magari ne paga il prezzo. Resta al palo. Non riceve la parte, il lavoro, il privilegio, la raccomandazione.
No, nemmeno lei, non si può eleggere eroina chi subisce.
Anche se spesso è molto difficile reagire, e chi l’ha provato (cioè il 90% delle donne che accedono al mondo del lavoro) lo sa benissimo.
Ammettiamo che questa sia una storia senza eroine e senza eroi (il maschio che non usa il suo potere per fottere esiste, ma non è un eroe, è semplicemente una persona per bene), che cosa vogliamo fare? Continuare a denunciare, ciascuno cercando il suo riscatto o il suo palcoscenico? Far finta che la società non si sia trasformata in un gigantesco e implacabile mercato dove il sesso è una delle più tristi ma non certo l’unica merce di scambio? Regolamentare la relazione fra i sessi con apposito decreto legislativo, dove al comma 22 si stabilisce che cosa è legittimo riconoscimento sociale (quello sfiorarsi di gote da foyer del teatro la sera della prima) e che cosa è sexual harassement?
Meglio sarebbe andare, sobriamente, alla radice del problema.
La pratica dell’abuso del corpo femminile ha una storia lunga come l’umanità.
Nasce dalla convinzione, radicata nei secoli, che le donne siano umani inferiori, oggetto del desiderio maschile e quindi ammesse a vivere, inadatte a stimolare il desiderio maschile e quindi neglette. Non basta avere un pugno di ministre al governo e qualche quintale di retorica da 8 marzo per ritenere superata questa convinzione profonda.
I cattivi imprenditori di Hollywood con le attrici, gli attori famosi con gli attori non ancora famosi, i ricchi con le povere (Cenerentola docet) ma anche il capufficio con la stagista, il professore con l’assistente, il professionista con la segretaria, il padrone del negozio con la commessa eccetera eccetera vivono una relazione fondamentalmente asimmetrica. Da una parte c’è chi detiene un potere, dall’altra chi non lo detiene.
Gli uomini detengono il potere quasi sempre, le donne molto meno.
Spesso le donne, per attingere a un qualche potere, imparano la lingua degli uomini. E perdono la loro.
Se la relazione fra i generi fosse tra pari, se gli uomini (tutti, non soltanto i migliori) fossero profondamente consapevoli della pari dignità, fra donne e uomini, del pari valore, pur nella sacrosanta diversità, non coverebbero, in un angolo delle loro testoline, l’illusione di farci un favore, quando ci mettono le mani addosso.
Bisognerebbe partire da lì, dalla causa, non ingarbugliare il discorso, commentandone ossessivamente gli effetti.
Il rischio è, se continua questa battuta di caccia al maiale, di paralizzare ogni slancio, anche quello, innocente del corteggiamento
Siamo stati governati per vent’anni da un esemplare praticamente perfetto di potente da rimorchio, uno che le donne se le comprava a casse, le esibiva le scambiava, le copriva di soldi, di privilegi, le infilava nei film, in televisione, in politica.
Lo si è sopportato, in silenzio, dal 1993 al 2011, quando un milione di donne in Piazza del Popolo hanno detto “Basta”! Si erano date un nome significativo, “se non ora quando”, perché erano (eravamo) stanche di subire l’immaginario da barzelletta scollacciata del Capo del Governo.
Quell’immaginario offendeva tutte le donne.
Di quell’immaginario è figlio anche il sexgate che sta scombussolando Hollywood.
Intanto Silvio, che nessuno ha citato in queste cronache, è tornato fra noi.

Pubblicato il 13 dicembre 2017



A chi piace la bufala politicamente corretta

Le fake news sono tali solo se non riguardano un tema politicamente corretto. C’è una specie di indulgenza quando le bufale sono scritte a titoli cubitali su un giornale progressista e riguardano una causa giudicata buona: la notizia resta falsa, anche se il fine è sacrosanto. Cerchiamo di andare al concreto. Ieri Repubblica a pagina 4 sparava con grande evidenza un numero impressionante: 6.788.000. E la didascalia recitava: “Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito qualche forma di violenza pari al 31,6%”. Questa notizia è falsa, doppia come un gettone. Il tutto a corredo di un pezzo che chiede maggiori risorse contro il femminicidio: cioè maggiori tasse per far sì che una donna su tre (così spiega la didascalia) non debba più subire ignobili violenze. Giusto evitare le violenze, sbagliato tirare in ballo un numero falso. Così come è vero che Boschi e Boldrini non hanno partecipato al funerale di Riina, ma sbagliato che ci sia un fotomontaggio che le ritragga a quel funerale. Come nel caso della foto falsa bisogna andare alla fonte del numero. Anche se per la foto è più semplice capire che si tratta di una bufala. Quel numero è un macigno. Non basta fare clic con il tasto destro del proprio mouse per vedere chi lo ha prodotto. Né il giornale antibufale per eccellenza, e cioè Repubblica, ci dice da dove esce.

Ve lo diciamo noi.

Tutto nasce da un rapporto Istat del 2015 sui dati del 2014, fatto su mandato del ministero sulle pari opportunità. Non si tratta di un dato puntuale, ma di un sondaggio. Cioè non ci sono 6,7 milioni di donne che hanno denunciato o lamentato o raccontato una violenza. C’è un sondaggio su un campione di 24.761 donne. Avete capito, si tratta di un sondaggio. Ma non basta. Nella didascalia di Repubblica, e non solo, si dice che il 31,6% delle donne italiane subisce violenza.

In realtà la maggior parte di loro subisce la cosiddetta violenza psicologica: il 22% della popolazione nazionale secondo l’Istat, e cioè 4,4 milioni su 6,7 milioni delle loro stime si lamenta solo della violenza psicologica e non già di quella fisica. Grave comunque, Ma ci sarà una differenza tra l’una e l’altra.

L’indagine è stata condotta facendo delle domande al campione scelto dall’Istat: la maggior parte riguardano proprio le ipotesi di violenza psicologica. Il questionario elaborato in collaborazione con le operatrici dei centri antiviolenza (per i quali sono reclamati maggiori finanziamenti) prevede infatti sette domande sulla violenza fisica, otto su quella sessuale e la bellezza di 20 su quella psicologica.

I ricercatori hanno messo in evidenza questa emergenza italiana con questo genere di domande: “Il suo partner si arrabbia se lei parla con un altro uomo? La critica per il suo aspetto, per come si veste o si pettina ad esempio dicendole che è poco attraente, inadeguata? È costantemente dubbioso sulla sua fedeltà? Controlla costantemente quanto e come spende? Il suo partner minaccia di uccidersi?” E così via.

A ciò si aggiunga, come ammettono i ricercatori, che le intervistate spesso non hanno la percezione di aver subito violenza. Sono i ricercatori che sanno meglio delle presunte vittime cosa possa essere considerata violenza nei loro confronti. Il timore è che le donne (trattate come dei soggetti inferiori) siano tutte vittime psicologiche dei propri carnefici maschi, non in grado di rispondere adeguatamente ad una serie di domande dirette sul fatto di aver subito o meno una violenza psicologica. Le donne non capirebbero da sole che quando il maschio dice che il risotto fa schifo le sta violentando psicologicamente.

Tutte cose brutte, indelicate, sgarbate. Ma davvero possiamo giudicare la violenza nei confronti delle donne con un questionario del genere?

La statistica al servizio di un’ideologia è quanto abbiamo appena descritto. Sono sconfitte proprio le donne che subiscono violenza. Dire che una donna sua tre in Italia subisce violenza, ridicolizza la denuncia. È buono per un titolo dei giornali e per un tweet, ma non per combattere la violenza vera. Può essere utile per trovare qualche finanziamento a nuove ricerche, a centri burocratici che dovrebbero spiegarci come rispondere a tono al proprio compagno, ma non a salvare una dottoressa di un pronto soccorso siciliano che viene brutalmente violentata nel suo turno di notte, perché nessuno ha previsto un presidio di sicurezza. Come è avvenuto nei mesi scorsi in Sicilia.

Articolo uscito su Il Giornale