I dubbi sull’efficacia dei vaccini anti-Covid e le conseguenze per la campagna vaccinale in Italia

Nel nostro Paese, è da poco partita l’inedita e complessa campagna vaccinale multivaccino (ne sono infatti previsti ben 5 diversi nella prima metà dell’anno), ma essa andrà attentamente monitorata insieme a quelle dei Paesi “pionieri”, e soprattutto governata in maniera “attiva”. Nelle ultime settimane, infatti, all’estero sono stati sollevati alcuni dubbi sull’efficienza dichiarata di alcuni dei vaccini (Pfizer-Biontech e Oxford-Astrazeneca) che costituiscono i “cavalli di battaglia” su cui ha puntato la campagna vaccinale italiana, in particolare per la vaccinazione degli over 70. Qualora tali dubbi si rivelassero fondati, quali sarebbero le conseguenze sul raggiungimento dell’immunità di gregge? Come vedremo, anche in scenari meno pessimistici, il raggiungimento attraverso i vaccini dell’agognata immunità di gregge potrebbe rivelarsi una chimera, indipendentemente dalla disponibilità di dosi e di tempo.

Il 27 dicembre scorso è iniziata simbolicamente la campagna vaccinale europea e dunque anche quella dell’Italia. Secondo il “Piano strategico sulle vaccinazioni”, approvato dal Parlamento lo scorso 2 dicembre, dopo i medici, gli infermieri e gli ospiti delle RSA, saranno vaccinati gli over 80 (circa 4,5 milioni di persone), poi entro l’estate gli under 60 (circa 13,5 milioni di persone), coloro che hanno almeno due patologie croniche, immunodeficienza o fragilità, e così via. Per il momento saranno inoltre totalmente esclusi dalle vaccinazioni gli under 18, per i quali non ci sono state le dovute sperimentazioni e autorizzazioni.

Di qui a giugno, dovrebbero essere inoltre impiegati ben cinque tipi diversi di vaccini: Pfizer-Biontech e Moderna (entrambi a mRNA, e dunque compatibili fra loro), Oxford-Astrazeneca, CureVac e Johnson & Johnson, con diverse quantità di dosi previste (v. Tabella 1) e diversi requisiti per la catena del freddo. L’obiettivo dichiarato della campagna vaccinale italiana è il raggiungimento della ormai famosa “immunità di gregge”. Secondo le dichiarazioni pubbliche degli addetti ai lavori, l’obiettivo dovrebbe essere raggiunto entro la fine dell’estate, e dunque prima del nuovo anno scolastico 2021-2022.

Immunità di gregge: la soglia prevista per il SARS-CoV-2

La “soglia di immunità di gregge” – ovvero la percentuale della popolazione che deve diventare immune a una malattia infettiva in modo che le persone senza immunità abbiano una probabilità bassa, di interagire con una persona infetta e di essere infettate – tipicamente si ottiene quando una larga percentuale della popolazione (che dipende dall’agente patogeno in questione) è resa immune da vaccinazioni e/o infezioni naturali. Tuttavia, anche se l’immunità di gregge viene raggiunta, potrebbe non essere uniforme in tutta la popolazione, quindi potrebbero ancora verificarsi dei focolai epidemici.

Per determinare la soglia di immunità di gregge, i ricercatori devono sapere quanto è contagiosa la malattia, cosa che include la determinazione del numero di persone non immunizzate che una persona infetta può infettare. Gli scienziati hanno stimato quanto sia contagioso il SARS-CoV-2, ma le incertezze su fattori come l’accuratezza di alcuni test diagnostici rendono difficile questo calcolo. Fontanet & Cauchemez (2020) hanno stimato che per la Francia la soglia di immunità di gregge per il SARS-CoV-2 dovrebbe richiedere circa il 67% di immunità della popolazione. Un valore simile è atteso anche per l’Italia, e nel caso del nostro Paese corrisponderebbe a circa 40,4 milioni di persone.

Efficacie dichiarate e tempi “sperati” per l’immunità di gregge

L’efficacia dichiarata dalla Pfizer-Biontech per il proprio vaccino è del 95% a 7 giorni, mentre quella dichiarata da Moderna è del 94,1% a 14 giorni. Per quanto riguarda il vaccino Oxford-Astrazeneca, sebbene questo sia più economico e più facile da distribuire rispetto ai due rivali americani, è stato tormentato dall’incertezza sul suo dosaggio più efficace da quando i dati pubblicati hanno mostrato che una mezza dose seguita da una dose intera ha avuto un tasso di efficacia del 90%, mentre due dosi intere erano efficaci solo al 62%. Infine, sui vaccini Johnson & Johnson e CureVac ancora non si hanno dati ufficiali.

Pertanto, se il vaccino Astrazeneca verrà autorizzato – come è probabile – nella versione con la mezza dose, e anche i vaccini J.& J. e CureVac avessero un’efficacia dichiarata superiore al 90%, ci si potrebbe attendere che, per raggiungere con questi 5 vaccini l’immunità di gregge nella popolazione italiana (che è composta da 60,3 milioni di persone), sia sufficiente vaccinare all’incirca 44 milioni di persone (e non 40,4 milioni!), cosa che dovrebbe avvenire entro la fine del secondo trimestre (v. Tabella 2), come annunciato.

Spesso, però, “il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”, come dice il famoso proverbio, ed è legittimo chiedersi se, sulla base delle informazioni disponibili, le cose potrebbero per qualche ragione andare in modo diverso da quanto ottimisticamente ci si aspetterebbe in base ai “proclami” delle Autorità.

I dubbi del prof. Doshi sull’efficacia dei vaccini Pfizer e Moderna

La precedente domanda non è peregrina, in quanto nelle scorse settimane una persona decisamente competente – il prof. Peter Doshi, docente presso la Scuola di Farmacia dell’Università del Maryland (USA), nonché editor associato della prestigiosa rivista The British Medical Journal (BMJ) – ha pubblicato sul BMJ la sua opinione sull’efficacia dei vaccini Pfizer e Moderna, in un articolo dal titolo “Peter Doshi: Pfizer and Moderna’s “95% effective” vaccines—let’s be cautious and first see the full data” (Pfizer e Moderna “95% di efficacia” – dobbiamo essere cauti e prima vediamo i dati completi).

Doshi ha esaminato le pubblicazioni ed i dati forniti alla FDA dalle due aziende, relativi ai due vaccini in questione, evidenziando alcune “stranezze” relative ai dati forniti ed a quelli scartati, le quali farebbero pensare a un’efficacia reale dei vaccini inferiore a quella dichiarata pubblicamente. Nel caso di Pfizer, la sua “lettura” dei dati lo porta a interpretare l’efficacia del vaccino Pfizer del 29% anziché del 95% dichiarato. Inoltre, osserva che entrambi i produttori di vaccini hanno fornito alla FDA informazioni lacunose, lasciando molti dubbi e impedendo di trarre conclusioni quantitative certe sulla loro efficacia.

Il “pasticcio” nella fase di sperimentazione del vaccino Astrazeneca

Le cose, però, non vanno molto meglio neppure per il vaccino Oxford-Astrazeneca. Il fatto che nel piccolo gruppo vaccinato con una prima dose dimezzata il vaccino abbia mostrato un’efficacia del 90% contro il 62% del gruppo vaccinato con una prima dose intera è decisamente controintuitivo. Sono state avanzate varie spiegazioni, più o meno arzigogolate, per giustificare questo strano risultato, ma è evidente che anche qui le dichiarazioni sull’efficacia prevista vanno prese decisamente con le molle.

Da alcuni esperti è stata avanzata l’interessante ipotesi che la maggiore efficacia sia dovuta non alla mezza dose ma al maggior intervallo fra le due dosi: nel piccolo gruppo, molti hanno avuto la seconda dose tardi, fino a 26 settimane più tardi; mentre, in quelli che l’hanno avuta entro 12 settimane, l’efficacia è stata solo del 70%. Dunque, se le due dosi in Italia saranno somministrate in modo ravvicinato – come è possibile – c’è il rischio che anche l’efficacia di questo vaccino si riveli molto più bassa di quanto sperato.

Il numero massimo e minimo di immunizzati raggiungibile in Italia

Per capire quale sia l’impatto sulla campagna vaccinale di un’efficacia reale dei vaccini inferiore a quella su cui il Piano strategico è incardinato, risulta assai utile ragionare, come fanno per l’appunto gli strateghi (ad esempio in ambito militare), per scenari, analizzando dapprima quello migliore possibile e poi quello peggiore possibile: infatti, in questo modo lo scenario che si verificherà nella realtà si collocherà in qualche punto a metà strada fra questi due estremi, rispettivamente, iper-ottimistici e iper-pessimistici.

Ebbene, come scenario migliore possibile (o iper-ottimistico) ho considerato che “il vino sia favoloso come dichiara l’oste”, ovvero ho stimato il numero di immunizzati raggiungibile ipotizzando che l’efficacia dei vari vaccini sia quella dichiarata dalle rispettive case produttrici, e che ho menzionato in precedenza (95% per Pfizer, 94,1% per Moderna, 90% per Astrazeneca). Per gli altri due vaccini di cui non si hanno ancora dati, ho attribuito loro un’efficacia pari a quella migliore dei vaccini della stessa classe.

Infatti, i 5 vaccini che verranno usati (salvo imprevisti) nella prima metà del 2021 si suddividono in due grandi tipologie completamente diverse fra loro: i vaccini a mRNA (Pfizer, Moderna e CureVac) ed i vaccini a vettore virale (Astrazeneca e Johnson & Johnson). Pertanto, al CureVac ho attribuito “sulla carta”, nelle mie semplici simulazioni che fra poco vedremo, un’efficacia del 95%, praticamente come quella di Pfizer e Moderna. Mentre al Johnson & Johnson ho attribuito un’efficacia del 90%, come quella di Astrazeneca.

Invece, per simulare lo scenario peggiore possibile (o iper-pessimistico), ho usato le seguenti efficacie: per i tre vaccini a mRNA, quella stimata da Doshi per Pfizer, ovvero del 29%; per Astrazeneca, quella del 62% ottenuta con la sperimentazione sul gruppo principale e ampio di popolazione e la distanza ravvicinata fra le due dosi; mentre per Johnson & Johnson ho ipotizzato che non si ripeterà il “pasticcio” fatto da Astrazeneca e che quindi avrà un’efficacia del 90%.

Le “sorprese” che saltano fuori calcolando i vari scenari

A questo punto, se si va a vedere cosa salta fuori dalle simulazioni numeriche con queste ipotesi, si scoprono tante cose davvero interessanti. I risultati sono tabulati nella tabella qui sotto, che mostra il numero di immunizzati nei due scenari estremi, per cui avremo il numero massimo (max) possibile di immunizzati semplicemente usando le efficacie massime illustrate prima e il numero minimo possibile (min) di immunizzati usando, analogamente, le efficacie minime appena descritte.

Ebbene, nel caso iper-ottimistico in cui le efficacie reali dei vaccini siano quelle dichiarate dai produttori, per raggiungere i circa 40,4 milioni di immunizzati necessari per avere l’immunità di gregge occorrerebbe vaccinare circa 43,3 milioni di persone. Il risultato sarebbe quindi effettivamente raggiungibile entro la fine di giugno, come previsto dal Piano vaccinale. Tuttavia, considerato che al momento i circa 9 milioni di under 18 non sono vaccinabili (e potrebbero non esserlo a lungo per alcuni vaccini), occorrerebbe vaccinare 43,3 milioni di persone su 51 milioni, ovvero circa l’85% degli over 18, un risultato difficilmente raggiungibile senza imporre – direttamente o indirettamente – l’obbligatorietà del vaccino.

Invece, nel caso iper-pessimistico in cui le efficacie reali dei vaccini siano assai più basse di quelle che vengono implicitamente e ottimisticamente considerate dal Piano strategico vaccinale, per raggiungere i circa 40,4 milioni di immunizzati necessari per avere l’immunità di gregge, occorrerebbe vaccinare… circa 70 milioni di persone (cosa ovviamente impossibile poiché la popolazione italiana è di 60,3 milioni). Pertanto, non si raggiungerebbe affatto l’immunità di gregge via vaccino, a meno che non si ipotizzi, nella seconda metà dell’anno, una seconda vaccinazione (magari con un diverso vaccino) di larga parte della popolazione.

Lo scenario reale si colloca fra i due precedenti: cosa ci insegna?

A questo punto, dovrebbe essere chiara la conseguenza di un’efficacia media reale dei vaccini inferiore a quella dichiarata dai produttori: più questa efficacia è bassa e più la campagna vaccinale si complica, perché diventa più difficile (o, all’estremo, addirittura una chimera, se non tramite gli infetti-guariti o una seconda vaccinazione) raggiungere l’immunità di gregge sperata, ed al tempo stesso i tempi dell’eventuale raggiungimento dell’immunità di gregge si dilatano oltremisura, certamente al di là di quanto il tessuto socio-economico del Paese potrebbe sopportare senza andare incontro ad esiti potenzialmente catastrofici.

In pratica, affinché l’immunità di gregge possa essere ottenuta vaccinando il 100% della popolazione italiana, occorre che l’efficacia reale media dei vaccini sia uguale o superiore alla soglia di immunità di gregge che è necessario raggiungere, e che per l’Italia abbiamo assunto essere del 67%. Ed, in ogni caso, per ottenere questo risultato, non basterebbe procedere come si sta facendo ora: bisognerebbe rendere la vaccinazione in qualche modo – ripeto, diretto o indiretto – coercitiva.

Come detto in precedenza, lo scenario reale si collocherà in qualche punto intermedio fra i due scenari estremi analizzati in dettaglio: il “dove” dipenderà dall’efficacia media reale dei 5 vaccini. E se a qualcuno l’idea che l’efficacia media reale possa essere inferiore all’ottimistico 90-95% sbandierato dalle case produttrici apparisse fantasiosa, mi permetto di ricordare che, nel 2018, uno studio pubblicato nel “Morbidity and Mortality Weekly Report” a cura dei Centres for Disease Control and Prevention (CDC) di Atlanta ha trovato che l’efficacia generale del vaccino antinfluenzale è di appena il 36%!

L’effetto delle varianti “iperveloci” sugli scenari illustrati

Come se non bastasse, tutto quanto fin qui illustrato si basa sull’idea che la soglia di immunità di gregge sia del 67%, come stimato dai francesi e sostanzialmente ipotizzato anche dalle nostre Autorità (in realtà con i vaccini basta “qualcosa” meno del 67%, poiché una piccola parte della popolazione italiana è già venuta a contatto con il virus e dovrebbe essere quindi già immunizzata). Ma la stima del 67% risale a prima della recente comparsa delle varianti “iperveloci” (Inglese, Sudafricana, Brasiliana, etc.), che hanno cambiato completamente le carte sul tavolo da gioco, e non certo in una direzione favorevole.

Infatti, l’immunità di gregge si ottiene quando una persona infetta in una popolazione genera in media meno di un caso secondario, che corrisponde al fatto che il “numero di riproduzione effettiva” R (cioè il numero medio di persone infette da un caso), scende al di sotto di 1 in assenza di altri interventi. Di conseguenza, la soglia dell’immunità di gregge è legata direttamente al numero medio di persone infettate (in assenza di altri interventi) da un soggetto positivo al CoV-SARS-2. E una variante “iperveloce” fa sì che un positivo infetti in media più persone, facendo crescere la soglia di immunità di gregge.

Stimare di quanto aumenti esattamente la soglia di immunità di gregge con le nuove varianti iperveloci va, naturalmente, al di là degli scopi del presente articolo. Tuttavia, sappiamo ad esempio che nel caso del morbillo, in cui ogni “positivo” ne infetta circa 12-18, la soglia da raggiungere per avere l’immunità di gregge è intorno al 94%! Dunque, nell’attuale Piano vaccinale italiano è implicito uno scenario iper-ottimistico che è tale non solo perché prende per scontale le dichiarazioni dei produttori senza avere dati di terze parti, ma anche perché le nuove varianti iperveloci (che si trasmettono all’incirca del 30-40% più rapidamente) lo rendono (quanto meno in parte) superato.

Cosa occorrebbe fare per evitare possibili disastri

Dunque, occorre sperare il meglio ma essere già preparati al peggio. In questi mesi, sono state fatte dalle Autorità preposte certamente alcune cose molto valide (come la “zonizzazione a colori”, che però ora andrebbe a mio avviso estesa capillarmente a livello provinciale o quanto meno alle 6-7 più grandi aree metropolitane) ed altre palesemente errate (si legga in proposito il libro appena uscito di Luca Ricolfi, La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia, edito da La nave di Teseo). Pertanto, non ci si possono permettere altri errori o sottovalutazioni, che impatterebbero sia sul numero di morti sia sull’economia.

Sebbene quanto fin qui esposto sia sufficiente agli “addetti ai lavori” per prendere le necessarie contromisure, cioè per adattare il Piano strategico vaccinale alla realtà dei fatti che sembra essere molto diversa da quella che appariva appena qualche mese fa, mi permetto di fornire un suggerimento peraltro ovvio per chi maneggia abitualmente numeri e grafici, e cioè quello di procedere a un’ottimizzazione in tempo quasi reale del Piano strategico vaccinale. Mi spiegherò ora meglio.

Alcuni Paesi sono più avanti di noi nella campagna vaccinale. In particolare Israele ha già vaccinato il 20% della sua popolazione e sarà relativamente presto il primo Paese vaccinato (con il Pfizer). Pertanto, sarà estremamente importante che l’Istituto Superiore di Sanità (o chi per esso) monitori l’impatto della vaccinazione israeliana sulla popolazione (numero di positivi, di ospedalizzati, di ricoverati in terapia intensiva, morti, etc.) al fine di stimare lo scostamento fra previsione e realtà fattuale, nonché per stimare l’efficacia reale del vaccino Pfizer, su cui l’Italia ha puntato molto specie per gli over 70.

Analogamente, sarà necessario valutare in tempo quasi reale – e non aspettando i report o le pubblicazioni di terze parti – l’efficacia reale degli altri vaccini nei Paesi “pionieri”, cioè più avanti di noi nelle vaccinazioni. Anche dati relativamente grezzi sull’efficacia reale dei vari vaccini potranno essere infatti impiegati per ottimizzare l’efficienza della campagna vaccinale italiana, ed eventualmente decidere di destinare un certo tipo di vaccino a una determinata fascia di popolazione e un altro tipo di vaccino a un’altra fascia.

Infatti, nella realtà accadrà che i 5 vaccini impiegati nei primi due trimestri avranno cinque diverse efficacie (che indicherò, rispettivamente, con A, B, C, D ed E, dove A è quella più elevata ed E quella più bassa, potenzialmente parecchio più bassa di A). Certamente non vorremmo che gli over 70 venissero vaccinati con il vaccino che ha l’efficacia E o comunque con un vaccino diverso dai due che hanno l’efficacia più alta. Per ottenere questo risultato, occorre non solo realizzare un monitoraggio in tempo quasi reale delle efficacie reali dei vari vaccini, ma anche gestire in modo fortemente “attivo” la campagna vaccinale.

Riferimenti bibliografici

[1] Fontanet A., Cauchemez S., “COVID-19 herd immunity: where are we?”, Nature Reviews Immunology 20, pp.583-584, 9 Settembre 2020, https://www.nature.com/articles/s41577-020-00451-5

[2] Doshi P., Peter Doshi: Pfizer and Moderna’s “95% effective” vaccines—let’s be cautious and first see the full data”, The British Medical Journal, 26 Novembre 2020, https://blogs.bmj.com/bmj/2020/11/26/peter-doshi-pfizer-and-modernas-95-effective-vaccines-lets-be-cautious-and-first-see-the-full-data/

[3] Smouth A., “No half measures and mind the gap: UK nod for AstraZeneca vaccine raises more questions”, Healthcare & Pharma, 30 Dicembre 2020, https://www.reuters.com/article/us-health-coronavirus-britain-vaccine-ap/no-half-measures-and-mind-the-gap-uk-nod-for-astrazeneca-vaccine-raises-more-questions-idUSKBN2941WR




Indice DQP: per l’immunità di gregge dobbiamo aspettare novembre 2023

Le autorità politiche e sanitarie, in particolare il ministro Roberto Speranza e la sottosegretaria Sandra Zampa, hanno ripetutamente dichiarato che la campagna di vaccinazione serve a raggiungere la cosiddetta immunità di gregge:

5 dicembre: “Il nostro obiettivo è l’immunità di gregge grazie al vaccino” (Roberto Speranza).

17 dicembre: “Immunità di gregge a settembre-ottobre prossimi (Sandra Zampa).

28 dicembre: “Oggi il ministro Speranza ha precisato che entro marzo raggiungeremo la quota di 13 milioni di italiani vaccinati contro Covid-19, e quindi in estate potremo già essere molto avanti nel perseguimento dell’obiettivo immunità di gregge data dal 70%” (Sandra Zampa).

9 gennaio 2021: “Per arrivare all’immunità di gregge dobbiamo vaccinare l’80% di 60 milioni di italiani” (Sandra Zampa).

Per “immunità di gregge” si intende una situazione nella quale ci sono abbastanza persone vaccinate (e non in grado di trasmettere il virus) da portare la velocità di trasmissione del virus (Rt) al di sotto di 1, con conseguente progressiva estinzione dell’epidemia.

Ma quante settimane occorreranno per vaccinare un numero di italiani sufficiente a raggiungere l’immunità di gregge?

A rispondere a questa domanda provvede l’indice DQP (acronimo di: Di Questo Passo), che stima il numero di settimane che sarebbero ancora necessarie se – in futuro– le vaccinazioni dovessero procedere “di questo passo”.

All’inizio della terza settimana del 2021 (lunedì mattina, 18 gennaio) il valore di DQP è pari a 147 settimane, il che corrisponde al raggiungimento dell’immunità di gregge non prima del mese di novembre del 2023.

Il valore del DQP è leggermente peggiorato rispetto a quello della settimana scorsa (143 settimane, immunità di gregge a ottobre 2023).

Per raggiungere gli obiettivi enunciati dalle autorità sanitarie (immunità di gregge entro settembre-ottobre 2021), il numero di vaccinazioni settimanale dovrebbe essere circa il quadruplo di quello attuale (2 milioni la settimana, anziché 500 mila).


Nota tecnica

Va precisato, comunque, che la nostra stima è basata sulle ipotesi più ottimistiche che si possono formulare, e quindi va interpretata come il numero minimo di settimane necessarie.

Più esattamente l’interpretazione dell’indice è la seguente:

DQP = numero di settimane necessario per raggiungere almeno il 70% degli italiani con almeno 1 vaccinazione.

A partire dalla prima settimana completa dell’anno (da lunedì 4 a domenica 10 gennaio) la Fondazione Hume calcola settimanalmente il valore dell’indice DQP (acronimo per: Di Questo Passo).

L’indice si propone di fornire, ogni lunedì, un’idea vivida della velocità con cui procede la vaccinazione, indicando l’anno e il mese in cui si potrà raggiungere l’immunità di gregge procedendo “di questo passo”.

Il calcolo dell’indice si basa su 4 parametri:

  1. una stima del numero di italiani vaccinati necessario per garantire l’immunità di gregge;
  2. quante vaccinazioni sono state effettuate nell’ultima settimana (da lunedì a domenica);
  3. quante vaccinazioni erano state effettuate dall’inizio della campagna (1° gennaio 2021) fino alla settimana anteriore a quella su cui si effettua il calcolo;
  4. che tipo di vaccini verranno presumibilmente usati (a 2 dosi o a dose singola).

Nella versione attuale l’indice si basa sulle ipotesi più ottimistiche possibili sul funzionamento del vaccino e sull’andamento della campagna vaccinale. Più precisamente:

  • i vaccini somministrati non solo proteggono i vaccinati dall’insorgenza della malattia, ma impediscono la trasmissione dell’infezione ad altri (immunità sterile);
  • l’obiettivo è vaccinare il 70% della popolazione (anziché l’80 o il 90%, come potrebbe risultare necessario);
  • sul mercato vengono introdotti vaccini per tutte le fasce d’età, compresi gli under 16 (i vaccini attuali sono testati solo su specifiche fasce d’età);
  • ci si accontenta di vaccinare ogni italiano una sola volta, trascurando il fatto che, ove la campagna di vaccinazione dovesse prolungarsi per oltre un anno, bisognerebbe procedere a un numero crescente di rivaccinazioni.

 

 




Vaccinare non basta

Mentre i politici sono impegnati con i giochi di palazzo, le preoccupazioni degli italiani vanno da tutt’altra parte, e girano intorno a due semplici domande: quando ci ridaranno la libertà? sarà grazie alla vaccinazione di massa che torneremo a vivere (quasi) normalmente?

E allora proviamo a rispondere, partendo dalle dichiarazioni delle autorità sanitarie, in ordine di tempo.

5 dicembre: “Il nostro obiettivo è l’immunità di gregge grazie al vaccino” (ministro Speranza).

17 dicembre: “Immunità di gregge a settembre-ottobre prossimi” (Sandra Zampa, sottosegretario al ministero della salute).

28 dicembre: “Oggi il ministro Speranza ha precisato che entro marzo raggiungeremo la quota di 13 milioni di italiani vaccinati contro Covid-19, e quindi in estate potremo già essere molto avanti nel perseguimento dell’obiettivo immunità di gregge data dal 70%”(Sandra Zampa).

9 gennaio 2021: “Per arrivare all’immunità di gregge dobbiamo vaccinarel’80% di 60 milioni di italiani” (Sandra Zampa).

Dunque il percorso è chiaro. Fra dicembre 2020 e gennaio 2021, molto opportunamente, le autorità sanitarie hanno spostato l’asticella dell’immunità di gregge dal 70 all’80%, presumibilmente per tenere conto della maggiore trasmissibilità di alcune varianti del virus. E, anche qui assai saggiamente, hanno indicato ottobre come data limite, per evitare di trovarci di nuovo impreparati all’inizio della stagione fredda.

Se questa è la tabella di marcia, si tratta di vaccinare 13 milioni di italiani entro il 31 marzo, e 48 milioni di italiani entro il 31 ottobre. Tenuto conto del fatto che, per ora, i vaccini richiedono 2 dosi, l’obiettivo si raggiunge con circa 2 milioni di vaccinazioni alla settimana. Attualmente ne facciamo poco più di mezzo milione, quindi per raggiungere l’obiettivo dobbiamo circa quadruplicare il ritmo. Se il ritmo rimanesse quello degli ultimi 7 giorni, per il 31 ottobre i vaccinati totali (con 2 dosi ciascuno) sarebbero  più o meno il 20%, ossia 1 italiano su 5. E l’obiettivo dell’80% di vaccinati non si raggiungerebbe mai, nemmeno in seguito (a meno si scoprisse che una sola vaccinazione basta, e che non occorre rivaccinare tutti ogni anno).

E’ realistico pensare di raggiungere l’80% di vaccinati entro ottobre di questo anno?

Secondo molti no, per un complesso di ragioni. La più decisiva è che, per ora, non abbiamo vaccini testati su tutte le fasce d’età, e in particolare mancano del tutto vaccini per la fascia fino a 16 anni. Come ha fatto notare nei giorni scorsi l’immunologia Antonella Viola, se non si possono vaccinare anche i giovani, l’immunità di gregge entro l’estate è un miraggio.

Questa è una pessima notizia, perché significa che, anche riuscissimo ad avere le dosi e a somministrarle al ritmo richiesto, nell’autunno prossimo non saremmo ancora protetti attraverso il meccanismo dell’immunità di gregge. E ancora peggiore è la notizia, arrivata in queste ore, secondo cui Pfizer non riuscirà a consegnare nei tempi e nelle quantità previste le dosi di vaccino promesse alla Commissione europea.

Ma supponiamo, per un attimo, che nonostante tutto si riesca a vaccinare l’80% degli italiani entro la fine di ottobre. Questo risultato assicurerebbe l’immunità di gregge?

Per rispondere alla domanda bisogna capire bene che cosa “immunità di gregge” significa. Immunità di gregge, in buona sostanza, significa che il numero di persone immuni (perché vaccinate, o dotate degli anticorpi necessari), è sufficientemente alto da portare Rt (la capacità di trasmissione) al di sotto di 1, con conseguente più o meno rapida estinzione dell’epidemia.

C’è un piccolo dettaglio, però. Se l’immunità di gregge viene perseguita mediante la vaccinazione di massa, occorre che i vaccini prescelti non si limitino ad assicurare al soggetto vaccinato di non contrarre la malattia, ma anche di non trasmettere il virus. Altrimenti può succedere che i neo-immunizzati diventino addirittura più pericolosi di prima come fonti infezione (chi è tranquillo per sé stesso rischia di attenuare le precauzioni che usava precedentemente). Sfortunatamente, per ora nessuno è in grado di dire se i vaccini attualmente autorizzati proteggano solo dalla malattia, o anche dal rischio di trasmissione.

Questo renderebbe la campagna di vaccinazione inutile?

Assolutamente no. Il grandissimo pregio di una campagna di vaccinazione di massa, specie se parte dai più esposti al rischio di contrarre il Covid in forma grave, è quello di abbassare drasticamente il tasso di mortalità, anche in assenza di immunità di gregge. Vaccinare le categorie più a rischio (operatori sanitari, anziani, soggetti affetti da altre patologie gravi) è comunque estremamente utile e opportuno. Il problema è che, almeno nell’orizzonte dei prossimi 9 mesi, non basterà a consentire la riapertura in sicurezza delle attività economiche.

Per questo obiettivo occorrerà che il governo si decida a fare finalmente le troppe cose che finora non ha fatto, o non ha fatto in misura adeguata: tamponi di massa, contact tracing efficiente, Covid-hotel per le quarantene, controllo dei voli e delle frontiere, rafforzamento del trasporto pubblico, messa in sicurezza delle scuole e delle università, riorganizzazione della medicina territoriale, solo per ricordare quelle più importanti.

Se continuerà a non farle, avremo ancora un lungo periodo di chiusure-riaperture, e la danza dei quattro colori (ora c’è anche il bianco…) ci accompagnerà almeno fino all’estate. Sarebbe l’errore più grande: puntare tutto sull’arma finale del vaccino, coltivando l’illusione che le armi convenzionali non servano più.

Pubblicato su Il Messaggero del 16 gennaio 2021




Indice DQP: per l’immunità di gregge dobbiamo aspettare ottobre 2023

Le autorità politiche e sanitarie, in particolare il ministro Roberto Speranza e la sottosegretaria Sandra Zampa, hanno ripetutamente dichiarato che la campagna di vaccinazione serve a raggiungere la cosiddetta immunità di gregge:

5 dicembre: “Il nostro obiettivo è l’immunità di gregge grazie al vaccino” (Roberto Speranza).

17 dicembre: “Immunità di gregge a settembre-ottobre prossimi (Sandra Zampa).

28 dicembre: “Oggi il ministro Speranza ha precisato che entro marzo raggiungeremo la quota di 13 milioni di italiani vaccinati contro Covid-19, e quindi in estate potremo già essere molto avanti nel perseguimento dell’obiettivo immunità di gregge data dal 70%” (Sandra Zampa).

9 gennaio 2021: “Per arrivare all’immunità di gregge dobbiamo vaccinare l’80% di 60 milioni di italiani” (Sandra Zampa).

Per “immunità di gregge” si intende una situazione nella quale ci sono abbastanza persone vaccinate (e non in grado di trasmettere il virus) da portare la velocità di trasmissione del virus (Rt) al di sotto di 1, con conseguente progressiva estinzione dell’epidemia.

Ma quante settimane occorreranno per vaccinare un numero di italiani sufficiente a raggiungere l’immunità di gregge?

A rispondere a questa domanda provvede l’indice DQP (acronimo di: Di Questo Passo), che stima il numero di settimane che sarebbero ancora necessarie se – in futuro– le vaccinazioni dovessero procedere “di questo passo”.

All’inizio della seconda settimana del 2021 (lunedì mattina, 11 gennaio) il valore di DQP è pari a 143 settimane, il che corrisponde al raggiungimento dell’immunità di gregge non prima del mese di ottobre del 2023.

Va precisato, comunque, che la nostra stima è basata sulle ipotesi più ottimistiche che si possono formulare, e quindi va interpretata come il numero minimo di settimane necessarie.

Più esattamente l’interpretazione dell’indice è la seguente:

DQP = numero di settimane necessario per raggiungere almeno il 70% degli italiani con almeno 1 vaccinazione.


Nota tecnica

A partire dalla prima settimana completa dell’anno (da lunedì 4 a domenica 10 gennaio) la Fondazione Hume calcola settimanalmente il valore dell’indice DQP (acronimo per: Di Questo Passo).

L’indice si propone di fornire, ogni lunedì, un’idea vivida della velocità con cui procede la vaccinazione, indicando l’anno e il mese in cui si potrà raggiungere l’immunità di gregge procedendo “di questo passo”.

Il calcolo dell’indice si basa su 4 parametri:

  1. una stima del numero di italiani vaccinati necessario per garantire l’immunità di gregge;
  2. quante vaccinazioni sono state effettuate nell’ultima settimana (da lunedì a domenica);
  3. quante vaccinazioni erano state effettuate dall’inizio della campagna (1° gennaio 2021) fino alla settimana anteriore a quella su cui si effettua il calcolo;
  4. che tipo di vaccini verranno presumibilmente usati (a 2 dosi o a dose singola).

Nella versione attuale l’indice si basa sulle ipotesi più ottimistiche possibili sul funzionamento del vaccino e sull’andamento della campagna vaccinale. Più precisamente:

  • i vaccini somministrati non solo proteggono i vaccinati dall’insorgenza della malattia, ma impediscono la trasmissione dell’infezione ad altri (immunità sterile);
  • l’obiettivo è vaccinare il 70% della popolazione (anziché l’80 o il 90%, come potrebbe risultare necessario);
  • sul mercato vengono introdotti vaccini per tutte le fasce d’età, compresi gli under 16 (i vaccini attuali sono testati solo su specifiche fasce d’età);
  • ci si accontenta di vaccinare ogni italiano una sola volta, trascurando il fatto che, ove la campagna di vaccinazione dovesse prolungarsi per oltre un anno, bisognerebbe procedere a un numero crescente di rivaccinazioni.



Di mutazioni e vaccini

Ma guarda un po’ che strano: il virus è mutato!

Lì per lì la notizia ha suscitato il solito bailamme mediatico, con l’annesso linguaggio “bellico” a cui siamo ormai abituati (purtroppo, perché in realtà è gravemente fuorviante), che però quasi subito è stato sopraffatto dall’analogo ma ancor più ampio bailamme sui vaccini, con gli “opposti estremismi” subito al lavoro, da una parte per esaltarne con toni irragionevolmente miracolistici le virtù salvifiche, dall’altra per denunciarne con toni altrettanto irragionevolmente apocalittici i presunti rischi. Tuttavia, le due questioni sono per molti versi connesse, per cui cercherò di chiarirle insieme, anche se per quanto riguarda i vaccini mi limiterò a quelli che ci riguardano da vicino, dato che in totale pare ce ne siano allo studio ben 237 (!) tipi diversi.

E cominciamo dalla prima brutta storia, cioè la variante inglese del virus. Qui la prima cosa da chiarire è che la sorpresa è del tutto ingiustificata, poiché questa non è affatto la prima variante del virus contenente mutazioni (in questo caso ben 17, acquisite apparentemente “in un colpo solo”), ma soltanto la prima che si è stabilizzata e che sta diffondendosi rapidamente. I virus, infatti, mutano in continuazione, dato che in sostanza sono dei frammenti di DNA o RNA che penetrano nelle cellule e sfruttano il loro sistema di trascrizione e traduzione genetica per produrre altre copie di sé stessi, cosa che da soli non sarebbero capaci di fare (il che, tra parentesi, è uno dei motivi per cui molti non considerano i virus degli esseri viventi a tutti gli effetti).

Ora, durante tale processo possono verificarsi degli errori, che danno origine alle mutazioni, il che accade ancor più frequentemente nei virus a RNA, come sono tutti i coronavirus, compreso quello del Covid, di cui infatti erano già state scoperte diverse mutazioni, che però finora avevano avuto una diffusione molto limitata. Il motivo è che la mutazione è solo il primo fattore dell’evoluzione. Il secondo è rappresentato, come sappiamo fin dai tempi di Darwin, dalla selezione naturale, che preserva solo le mutazioni che favoriscono la riproduzione e di conseguenza la sopravvivenza di ciascun organismo, virus compresi. Perciò, benché le mutazioni, essendo totalmente casuali, possano essere di qualsiasi tipo, quindi sia vantaggiose che svantaggiose per gli “ospiti” (cioè noi), verranno selezionate solo quelle che permettono al virus di produrre un maggior numero di “figli”, cioè di copie di sé stesso.

Questo ci fa capire quanto siano insensate e fuorvianti le idiozie che si continuano purtroppo a sentire, anche dai sommi vertici delle istituzioni, sulla “nuova offensiva” del virus o, peggio ancora, sul fatto che il virus avrebbe come “scopo” quello di ucciderci tutti: non solo, infatti, i virus non hanno alcuno scopo e non pianificano offensive di sorta, ma, se potessero, farebbero semmai il contrario, dato che sono essenzialmente parassiti e il parassita ideale non è quello che uccide il proprio ospite, ma quello che riesce a conviverci nel modo più efficiente.

E infatti a propagarsi su vasta scala sono sempre e solo le mutazioni che producono o una minor letalità (perché ciò aumenta il numero di individui che possono trasmettere il virus) o una maggior contagiosità (perché ciò aumenta il numero di individui a cui può essere trasmesso il virus), come è appunto il caso del ceppo inglese. Al contrario, le mutazioni che producono patologie più gravi tenderanno a estinguersi, e ciò tanto più rapidamente quanto più sono pericolose per noi, giacché quanto più presto e gravemente uno si ammala, tanto più rapidamente e rigorosamente viene isolato, riducendo così le opportunità di diffusione del virus, che si annullano addirittura quando uno muore.

Il problema è che purtroppo stavolta il ceppo più contagioso si è sviluppato prima di quello meno letale e un maggior numero di contagi significa anche un maggior numero di morti in termini assoluti (benché non in percentuale), ma ciò non toglie che la tendenza di lungo periodo di tutti i virus sia quella di diventare non più bensì meno pericolosi. Anzi, è già accaduto molte volte che dei virus (così come molti altri tipi di parassiti) si siano integrati a tal punto con i loro ospiti, compresi noi umani, da diventare non soltanto innocui, ma addirittura utili. Per esempio, tutti abbiamo certamente sentito parlare dell’importanza della cosiddetta flora batterica intestinale, ma quello che in genere non si dice è che i batteri sono solo una componente di essa, che in gran parte è composta proprio da virus, nonché da altri microrganismi di vario genere, tanto che in effetti dovrebbe più correttamente essere chiamata col suo nome tecnico di “microbiota”.

Ma c’è di più. Molti virus, infatti, sono addirittura entrati a far parte stabilmente del nostro DNA (si stima che ne costituiscano circa il 10%), perlopiù senza causare danni (anche perché quelli che l’avessero fatto si sarebbero rapidamente estinti) e a volte addirittura contribuendo con il DNA da loro apportato a salti evolutivi della massima importanza: di nuovo solo per fare un esempio, generalmente si ritiene che sia nata così la placenta in cui si sviluppano gli embrioni di gran parte dei mammiferi, compresi i nostri.

Questa è la base per rispondere anche all’obiezione principale che molti hanno sollevato contro i vaccini di nuova concezione che ci apprestiamo ad usare, cioè essenzialmente quelli di Pfizer/BioNTech, di Moderna e di AstraZeneca-Oxford: quello russo, infatti, è simile per concezione a quello di Oxford, ma mancano ancora dati affidabili sulla sua efficacia e sicurezza, così come anche su quello cinese e quello indiano, peraltro entrambi di tipo tradizionale. Poiché infatti i tre vaccini suddetti contengono frammenti di RNA virale (i primi due) o di DNA virale (il terzo), alcuni temono che possano causare mutazioni stabili nella specie umana. Per capire perché non è così, però, prima bisogna capire come funzionano. E, prima ancora, bisogna capire come funziona il virus del Covid (alzi la mano chi lo sa: credo che, nonostante tutto, siano ancora molto pochi).

Di per sé, il suo modo di agire non è molto diverso da quello degli altri coronavirus già noti: il suo genoma produce una certa proteina S (che sta per “spike”, ovvero protuberanza: sono infatti quelle che si vedono all’esterno e che gli danno la sua forma caratteristica) che si attacca a un’altra proteina, detta recettore, posta sulla superficie esterna delle nostre cellule, permettendogli di entrare al loro interno e quindi di sfruttare, come già detto, i loro meccanismi per generare copie di sé stesso. Quando ciò, accade, il nostro organismo ovviamente reagisce, in primo luogo con il sistema immunitario innato, che costituisce una difesa “generica” e che attacca per primo i corpi estranei, mentre al tempo stesso “sveglia” il resto del sistema, composto dai linfociti T e B, che generano reazioni più mirate, che però proprio per questo richiedono più tempo.

Ora, se il sistema immunitario innato funziona bene, facendo subito fuori una buona parte degli “intrusi”, allora l’organismo fa in tempo ad aspettare l’arrivo dei linfociti, che fanno piazza pulita prima che si sviluppino sintomi seri: questo è ciò che accade nella maggior parte dei casi ed è il motivo per cui la maggior parte dei contagiati resta asintomatica o quasi. Se però il sistema innato ha dei problemi, come spesso succede nelle persone più anziane e/o già debilitate da altre patologie, la sua reazione può essere troppo debole, nel qual caso il virus può produrre danni irreparabili generando gravi infiammazioni, oppure, all’inverso, può essere troppo violenta, nel qual caso l’infiammazione viene prodotta involontariamente dallo stesso sistema immunitario. In entrambi i casi, si crea un problema su cui i linfociti, quando arrivano, non sono più in grado di agire e che causerà sintomi gravi dati dalla distruzione dei tessuti, il danno irreversibile ad organi e, spesso, la morte.

Orbene, i vaccini a RNA di Pfizer/BioNTech e Moderna sono basati sul frammento del codice genetico del virus che produce la proteina S, che viene incorporato in una breve stringa di RNA messaggero, quello che serve a “tradurre” il nostro DNA nelle proteine di cui è fatto il nostro corpo. In tal modo, quando il frammento di RNA viene assorbito da una cellula, il meccanismo interno di quest’ultima entra in funzione, esattamente come farebbe per qualsiasi altro RNA messaggero, producendo la suddetta proteina S, che di per sé è innocua. Tuttavia, diffondendosi nell’organismo, essa viene riconosciuta come un corpo estraneo dal sistema immunitario innato, che si mobilita contro di essa, ma soprattutto “allerta” i linfociti T e B, che così sono già pronti ad attaccare il virus non appena dovesse entrare nell’organismo, dato che esso è per l’appunto ricoperto da tale proteina.

Poiché l’RNA è molto fragile, per impedire che venga distrutto prima di giungere a destinazione viene inglobato in una minuscola gocciolina costituita essenzialmente da lipidi (grassi), tutti normalmente presenti nel nostro corpo, stabilizzati da una sostanza sintetica chiamata polietilenglicolo (PEG). I casi di allergia di cui tanto si è parlato (peraltro pochi e non particolarmente gravi) sono stati causati proprio da tale sostanza e non dalla parte attiva del vaccino, che non si vede come possa dare problemi, dato che l’RNA messaggero è presente normalmente e in quantità ben maggiori in ogni cellula del nostro corpo.

Il vaccino di AstraZeneca-Oxford segue una logica simile, ma mantiene alcuni aspetti “classici”. Anch’esso, infatti, ha alla base l’idea di far produrre alle nostre cellule la proteina S senza introdurre nel nostro corpo il virus morto o indebolito, come fanno i vaccini tradizionali, però utilizza a tale scopo non un frammento di RNA, bensì di DNA, che viene inserito nel DNA di un adenovirus, capace di penetrare nelle nostre cellule senza causarci danni, dato che per noi è sostanzialmente innocuo. Ciò ha il vantaggio di basarsi su un metodo già collaudato, però rispetto ai vaccini a RNA implica un passaggio in più, giacché il DNA virale dovrà prima essere “trascritto” dalle nostre cellule in un RNA messaggero e solo successivamente potrà essere “tradotto” nella proteina S, il che aumenta il rischio che qualcosa vada storto.

In ogni caso, tutti questi vaccini presentano tre notevoli vantaggi rispetto a quelli tradizionali. Anzitutto, infatti, non c’è bisogno di introdurre nel nostro organismo il coronavirus, né vivo né morto, ma solo una sua piccola parte del tutto innocua. Inoltre, in tal modo si attivano sia i linfociti T che i B, mentre i vaccini tradizionali attivano solo questi ultimi, che sono meno efficaci. Infine, è relativamente facile modificare il vaccino se il virus dovesse mutare o anche qualora ci fosse bisogno di produrne una nuova versione contro un altro tipo di coronavirus, poiché a tal fine basta sostituire il frammento di codice genetico che codifica per la proteina S con un altro adatto alla nuova situazione.

Quanto all’eventualità che il frammento di RNA virale possa venire inglobato stabilmente nel nostro DNA, pur non potendola completamente escludere, dato che, come abbiamo visto, ciò si è già verificato nel corso dell’evoluzione (benché finora mai per un coronavirus), la cosa appare estremamente improbabile, giacché per entrare a far parte del nostro DNA il frammento di RNA virale dovrebbe prima entrare nel nucleo della cellula, mentre il processo di produzione della proteina S si svolge interamente al suo esterno, nel citoplasma, e al suo termine la molecola di RNA messaggero viene distrutta, esattamente come accade nel normale processo di trascrizione del nostro DNA.

In ogni caso, se anche per assurdo ciò dovesse accadere, quel che verrebbe eventualmente inglobato non sarebbe tutto il genoma del virus, ma solo un singolo gene che codifica per una proteina innocua e che oltretutto molto probabilmente resterebbe inattivo. Di sicuro, c’è una probabilità maggiore (benché sempre molto bassa) che ciò accada se ci si becca il virus, che, a differenza del frammento di RNA, quando è dentro al nostro corpo si moltiplica, moltiplicando così anche le occasioni di causare un pasticcio genetico: quindi, anche da questo punto di vista vaccinarsi non solo non aumenta il rischio, ma anzi lo riduce.

Quanto infine all’eccessiva fretta con cui i vaccini sarebbero stati approvati, anzitutto sarà bene ricordarci che noi abbiamo fretta, perché il nostro mondo non può reggere ancora a lungo in questa situazione e se dovesse mai verificarsi un collasso dell’economia su scala globale le conseguenze sarebbero pari a quelle di una guerra mondiale: anche correre qualche rischio più del normale sarebbe quindi più che giustificato. Ma la realtà è che non stiamo correndo nessun rischio particolare, giacché la parte più lunga della sperimentazione sui vaccini è quella necessaria a stabilire per quanto tempo ci garantiscono protezione, mentre quella per controllarne efficacia e assenza di pericolosità può essere svolta in pochi mesi, soprattutto se, come in questo caso, sono state messe a disposizione tutte le risorse necessarie. La miglior controprova è data dal vaccino dell’influenza, che è causata anch’essa da un virus a RNA, ma ancor più mutevole (circa il doppio) di quello del Covid, sicché ogni anno bisogna produrre un nuovo vaccino, cosa che viene fatta regolarmente in pochi mesi senza che finora abbia mai causato problemi.

Perché, allora, tutto questo allarmismo? La risposta è tanto evidente quanto preoccupante. Anzitutto, c’è il fortissimo stress emotivo a cui tutti da oltre dieci mesi siamo sottoposti, a causa della perversa combinazione di terrorismo mediatico, caos istituzionale, misure restrittive e sostanziale inefficacia delle stesse, il che genera una crescente difficoltà a mantenerci lucidi e obiettivi nei nostri giudizi. In secondo luogo, va considerata la sempre più evidente incapacità delle nostre classi dirigenti (e dicendo “nostre” intendo in particolare quella italiana, ma anche quelle del resto dell’Occidente: vedi i miei precedenti articoli del 29/10 e 23/12) di gestire adeguatamente la situazione e spesso perfino semplicemente di capirla, il che produce una diffidenza generalizzata verso le autorità di qualsiasi tipo, non solo politiche, ma anche mediche e scientifiche. Infine, abbiamo la tendenza, che va avanti ormai da lungo tempo, a dare sempre più credito alle teorie pseudoscientifiche e, più in generale, a ogni forma di complottismo, che in parte è certamente anch’essa frutto della perdita di credibilità delle nostre classi dirigenti, ma ha anche cause autonome, di cui una volta o l’altra dovremo pur cominciare a parlare.

In ogni caso, una cosa è certa: poiché sia la mutazione del virus che l’opposizione ai vaccini erano largamente prevedibili fin dall’inizio dell’epidemia, avere scelto di conviverci anziché provare ad estinguerla, come invece altri paesi hanno fatto con successo, è stata decisamente una pessima idea. E anche di questo dovremo riparlare.

(Ha collaborato Alberto Vianelli, biologo, docente di “Storia e storie della vita” presso l’Università dell’Insubria)