Campagna vaccinale: salvare vite o riaccendere l’economia?

Il primo problema dell’Italia, sul versante sanitario, è che nonostante i notevoli progressi delle ultime settimane la campagna di vaccinazione arranca. E la notizia di ieri, secondo cui Johnson & Johnson dovrà buttare alle ortiche 15 milioni di dosi (per un incredibile errore commesso negli Stati Uniti), non fa che aggravare il quadro. L’ottimismo della volontà ci fa sperare che nei mesi prossimi tutto si aggiusti, ma i dati della campagna vaccinale suggeriscono che, quest’estate, il numero di vaccinati si aggirerà intorno al 50% della popolazione italiana, e non al 70 o 80% come tutti auspichiamo.

Che succederà, a quel punto? Possiamo sperare che, almeno, il numero di morti, che oggi sono circa 450 al giorno, non dico si azzeri, ma scenda a un livello molto più basso? Stiamo facendo tutto il possibile per arrivare a questo risultato minimale?

No, non stiamo facendo tutto il possibile, né nell’immediato, né in prospettiva.

Nell’immediato, stiamo commettendo l’errore più grosso che si può concepire: lasciare indietro gli anziani, che contribuiscono al 90% della mortalità. Sembra incredibile, ma ancora oggi – dopo la somministrazione di circa 11 milioni di dosi – quasi la metà degli over-75 (che sono circa 7 milioni) non è ancora vaccinata, e solo 1 su 5 ha ricevuto entrambe le dosi. In compenso sono stati vaccinati (oltre a medici, infermieri e persone fragili, com’era giusto) ogni sorta di categorie: professori, magistrati, avvocati, giornalisti, personale amministrativo degli ospedali, insieme a legioni di parenti, infiltrati, passanti. E, come spesso accade in Italia, l’indignazione si è scaricata sui singoli “furbetti del vaccino” anziché sulle Regioni che hanno gestito arbitrariamente le dosi, e sul Governo che avrebbe dovuto imporre linee guida tassative e vincolanti: se le istituzioni facessero il loro dovere, con ordine e con serietà, a nessun furbetto sarebbe possibile approfittare della confusione per saltare la fila. Né le cose sono destinate a migliorare a breve, visto che la vaccinazione sui luoghi di lavoro (che pure ha una sua logica, se non altro organizzativa), finché le dosi scarseggeranno non potrà che ritardare ulteriormente la copertura completa dei segmenti vulnerabili della popolazione.

Con questo non voglio certo dire che il continuo aumento dei morti osservato nelle ultime 5 settimane sia colpa delle follie della campagna vaccinale. Se ai primi di marzo avevamo 270 morti al giorno e oggi ne abbiamo 450 è perché per mesi e mesi abbiamo giocato ai 4 colori, baloccandoci nell’ingenua illusione che lo stop and go ci avrebbe permesso di convivere con il virus. Ma è proprio perché quasi nulla di incisivo si è fatto per fermare la circolazione del virus che la carta di una vaccinazione ultra-tempestiva e ultra-selettiva degli anziani non doveva essere sprecata.

Né le cose appaiono più confortanti in prospettiva. La corsa all’accaparramento del vaccino, cui partecipa con entusiasmo la popolazione non anziana, punta dritto alla nobile meta delle “vacanze serene”, non certo al prosaico obiettivo di fermare l’ecatombe di anziani. Di qui l’attesa messianica del passaporto vaccinale, italiano o europeo che sia: l’idea è che, una volta vaccinati, si possa tornare a una vita quasi normale, con conseguente allentamento di restrizioni e limitazioni che metterebbero a repentaglio le lunghe (peraltro meritatissime) vacanze estive. Vista da un marziano, che giudicasse solo dai fatti e non dalle intenzioni, la campagna vaccinale italiana – con la sua dimenticanza per gli anziani e la sua attenzione ad assicurare la mobilità di produttori e consumatori – non somiglia a uno sforzo titanico per ridurre i decessi, ma a una macchina per riaccendere l’economia.

Ma c’è un equivoco: per ora nulla assicura che i vaccinati, oltre ad assicurare a sé stessi una protezione dalla malattia, non contagino gli altri. Detto in termini un po’ tecnici, un vaccino può benissimo essere molto ‘efficace’ (nel proteggere dal virus) e al tempo stesso poco ‘efficiente’ (nel bloccare la trasmissione). Se questo fosse il caso, potremmo persino assistere, nei prossimi mesi, a un ulteriore aumento (o mancata riduzione) dei morti in quanto sarebbero i vaccinati stessi, grazie al falso senso di sicurezza indotto dalla vaccinazione, a favorire la circolazione del virus. E molto mi sorprende che questo interrogativo (i vaccini bloccano la trasmissione oppure no?), sia quasi del tutto espunto dal dibattito pubblico, come se si trattasse di un’eventualità che non vogliamo nemmeno prendere in considerazione.

E non è tutto. Come hanno talora, più o meno cripticamente, avvertito diversi esperti, l’eventualità che i vaccini non siano sterilizzanti (ossia capaci di bloccare la replicazione e la trasmissione) rende particolarmente insidioso il rischio che la vaccinazione di massa, attuata senza aver prima abbattuto la circolazione del virus, favorisca la formazione di nuove varianti, più trasmissibili e/o più resistenti ai vaccini.

Ed eccoci a un’altra cosa che non stiamo ancora facendo in misura adeguata: potenziare la capacità di sequenziamento dei laboratori italiani. Avere una elevata (e tempestiva) capacità di sequenziamento, infatti, potrebbe diventare il nostro principale strumento di difesa se, il prossimo autunno, dovessero emergere varianti ancora più trasmissibili di quelle attualmente più diffuse in Italia (inglese, brasiliana, sudafricana). A quel punto, non potendo bloccare per l’ennesima volta un intero paese, la nostra unica arma di difesa (a parte nuovi vaccini, che richiedono tempo) diventerebbe l’isolamento tempestivo e totale delle zone in cui emergono le varianti più pericolose.

Viste da questa angolatura, le discussioni attuali sulle riaperture, che qualcuno vorrebbe rimandare a maggio, altri anticipare ad aprile “se i dati miglioreranno”, appaiono completamente fuori strada. Se una cosa è certa, perché ce la insegna l’esperienza degli altri paesi, è che i dati non potranno migliorare in modo apprezzabile prima di un mese o due, e che anche solo l’obiettivo minimale di avere meno di 100 morti al giorno richiede parecchio tempo, o sacrifici che quasi nessuno è disposto a fare, meno che mai con la bella stagione alle porte. Raggiunto il picco dei contagi, nessun paese è riuscito a dimezzarli in meno di un mese. Ma, al tempo stesso, non mancano i paesi che, intervenendo al momento giusto con la necessaria energia, sono riusciti ad abbattere il numero dei casi di oltre il 90% in meno di 2 mesi, a dispetto delle varianti e senza l’aiuto della vaccinazione di massa (in Europa, ad esempio, Irlanda, Portogallo, Danimarca, Islanda).

Ecco perché, a mio parere, la domanda se i dati siano in miglioramento o meno è futile e fuorviante. La vera domanda è: abbiamo quasi 500 morti al giorno, di quanto li vogliamo ridurre prima di riaprire tutto o quasi?

Ma a questa domanda nessuno ha voglia di rispondere.

Pubblicato su Il Messaggero del 3 aprile 2021




Un’analisi interdisciplinare: come (e perché) ottimizzare la campagna vaccinale in Italia

“La via per uscire passa dalla porta. Chissà perché nessuno la prende mai”, diceva il filosofo cinese Confucio. Forse avrebbe pensato la stessa cosa se avesse assistito all’inizio della campagna vaccinale italiana anti-COVID, che fino a tutto marzo è stata praticamente un disastro, sia in termini assoluti sia se la si confronta con quelli di altri Paesi non solo extra-UE, ma anche della stessa Unione Europea. Ciò non solo per le disparità nei criteri adottati fra le varie regioni e per il fenomeno degli “imbucati” o “saltafila”, ma perché sono state vaccinate scientemente milioni di persone di fasce di età (ad esempio, quelle dei 20, 30 e 40 anni) che non avrebbero dovuto essere neanche vagamente considerate in questa fase, salvo poche eccezioni. In questo articolo vedremo come – e perché – sarebbe necessario ottimizzare quanto prima la campagna di vaccinazione per non pagare assai più caramente le conseguenze del ritardo accumulato.

Analisi spazio-temporale della mortalità da COVID-19 in Italia

L’ottimizzazione di una campagna vaccinale per il COVID-19 in presenza di una scarsità di vaccini non può prescindere dall’approfondita comprensione della mortalità per tale malattia attraverso un’attenta analisi della sua evoluzione nel tempo e della sua distribuzione nello spazio. In altre parole, non ci si può limitare alla sola (banale) constatazione che la mortalità è maggiore al crescere della classe di età.

E per poter analizzare questi aspetti aggiuntivi a cui facevo cenno non si può, naturalmente, prescindere dai dati. Partiamo quindi dalla seguente tabella fornita dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) [1], che mostra la percentuale di morti per COVID-19 in Italia per regione e per periodo, dall’inizio della pandemia fino al 1° marzo 2021. Viene mostrata, in particolare, la percentuale di morti nella prima “ondata” (marzo-maggio 2020), nella seconda “ondata” (ottobre 2020-marzo 2021) e nel periodo relativamente tranquillo fra le due ondate (giugno-settembre 2020), quando a molti politici il peggio sembrava passato. 

Tabella 1. Percentuale di morti per COVID-19 in Italia per regione e per periodo, dall’inizio della pandemia fino al 1° marzo 2021. Viene mostrata, in particolare, la percentuale di morti nella prima ondata (marzo-maggio 2020), nella seconda ondata (ottobre 2020-marzo 2021) e nel periodo fra le due (giugno-settembre 2020). (fonte: Rapporto ISS [1])

In questa tabella risulta interessante notare, innanzitutto, come vi siano state – analizzando i totali dopo un anno di pandemia – delle regioni italiane nettamente più colpite delle altre in termini di percentuale di morti sul numero totale dei deceduti per COVID: la Lombardia (29,2% dei morti totali), l’Emilia Romagna (11,0%), il Veneto (10,2%), il Piemonte (8,6%), il Lazio (6,1%). Tutte le altre regioni mostrano percentuali inferiori al 5%, mentre le 5 regioni considerate hanno visto morire ben il 65,1% dei deceduti totali per COVID-19, ovvero ben i due terzi del totale, cosa ben illustrata dal seguente grafico a torta.

Percentuale di morti per COVID-19 in Italia per regione dall’inizio della pandemia fino al 1° marzo 2021. Si noti come circa i due terzi dei morti siano concentrati in appena cinque regioni delle 21 che compongono il nostro Paese. (fonte: elaborazione dell’Autore)

L’altra cosa che è interessante notare nella tabella dell’Istituto Superiore di Sanità è il fatto che ben 4 di queste 5 regioni (Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte) sono state in testa a questa spiacevole classifica della percentuale di morti in tutte e tre le fasi considerate (1a ondata, 2a ondata, interregno fra le due). La Lombardia è sempre stata di gran lunga prima, ma nella prima ondata è stata seguita dall’Emilia-Romagna e dal Piemonte, mentre nella seconda ondata è stata seguita dal Veneto e dall’Emilia-Romagna (come, del resto, era avvenuto anche nel periodo di interregno fra le due ondate).

Per comprendere quanto questa distribuzione della percentuale di morti da COVID-19 a livello italiano sia del tutto anomala basta guardare la Tabella 2 qui sotto in cui ho mostrato, oltre alla percentuale di morti da COVID per regione dall’inizio della pandemia fino al 1° marzo 2021, anche: la popolazione di ciascuna regione; la percentuale della popolazione che risiede in quella regione rispetto al totale della popolazione italiana (59,6 milioni di persone) al 1° gennaio 2020; la mortalità da COVID-19 per regione, ovvero il rapporto fra i morti COVID nel periodo considerato e la popolazione della regione.

Tabella 2. Distribuzione per regione della popolazione italiana e dei morti da COVID-19 dall’inizio della pandemia fino al 1° marzo 2021. Viene mostrata anche la mortalità da COVID-19 per regione (ovvero la percentuale dei morti sulla popolazione della regione stessa) nel medesimo periodo di tempo. (fonte: elaborazione dell’Autore su dati Istat e ISS)

Come si può facilmente vedere da questa mia Tabella 2, la mortalità da COVID-19 (cioè la percentuale di morti sulla popolazione della regione) – che è il parametro davvero importante in quanto disconnesso dal numero assoluto di abitanti residenti nella regione – è maggiore per certe regioni (non necessariamente le 5 citate in precedenza o le più popolose, come illustra il caso della Val d’Aosta) e minore per altre. Per capire se c’è uno schema che emerge dalla distribuzione della mortalità da COVID-19, è necessario ordinare le regioni in ordine inverso di mortalità, cosa che ho fatto nel grafico qui sotto (parte superiore).

Parte superiore: Andamento decrescente della mortalità da COVID-19 fra le varie regioni italiane (sempre nel periodo che va dall’inizio della pandemia fino al 1° marzo 2021), alla ricerca di uno schema interpretativo. Parte inferiore: come la precedente, ma con la mortalità riferita non alla popolazione totale della regione, ma alla sola popolazione over 70 (fonte: elaborazione dell’Autore su dati Istat [2] e ISS)

Il grafico in alto mostra chiaramente che le regioni caratterizzate da una maggiore mortalità da COVID-19 sono tutte regioni del Nord Italia (Valle d’Aosta, Lombardia, Emilia-Romagna. Liguria, Friuli-Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Veneto, Piemonte), seguite da regioni del Centro Italia (Marche, Toscana, Umbria, Lazio) con l’aggiunta di 2 del Sud (Abruzzo e Molise), a loro volta seguite da tutte regioni del Sud Italia e Isole (Puglia, Sicilia, Campagna, Sardegna, Basilicata, Calabria). Dunque, lo schema emerge eccome! Al Nord si muore di COVID-19 più che al Centro, ed al Centro più che al Sud.

Poiché è interessante capire se questo schema sia dovuto – ed eventualmente, in che misura – alla diversa percentuale di anziani nelle varie regioni, nel grafico in basso sono mostrate le regioni in ordine decrescente di mortalità ma quest’ultima è calcolata relativamente alla sola popolazione over 70: in altre parole, è ottenuta dividendo i morti totali per COVID in quella regione per il numero di over 70 di quella regione. Il risultato, come si vede, a parte qualche piccolo spostamento di alcune regioni, sostanzialmente non cambia: la mortalità mostra un gradiente, diminuendo dal Nord verso il Centro e il Sud. Insomma, la cosa sembra non essere casuale (e in effetti, in un futuro articolo, vedremo che non lo è).

Importanza dell’uscire velocemente dalla pandemia

A differenza di quanto accaduto in altri Paesi europei, l’impatto economico su centinaia di migliaia fra attività commerciali al dettaglio (in Italia nel 2018 erano circa 735.000) e piccole e medie imprese (che erano circa 148.000 a inizio 2020), nonché su intere filiere (cultura, turismo, ristorazione, palestre, etc.), è stato disastroso, soprattutto perché da noi i “ristori” sono stati praticamente simbolici e non accompagnati da altre misure tese a mitigare i danni, per cui in questi mesi un numero enorme di attività hanno già chiuso per sempre i battenti e ancor più sono, a loro volta, sull’orlo della chiusura definitiva.

Purtroppo, la maggior parte dei politici che ci governano – dispiace dirlo, ma basta aver ascoltato un qualsiasi talk show negli ultimi mesi per potersene rendere conto – appaiono totalmente disconnessi dalla realtà (oltre ad avere davvero seri problemi con la matematica e con la logica). Non sembrano capire che anche soli 2 o 3 mesi di ritardo nel raggiungimento dell’obiettivo della campagna vaccinale (per un’errata strategia messa in atto dalle Autorità nazionali e locali) possono fare una differenza abissale per quanto riguarda l’impatto sul sistema economico e su quello sociale, anche per la presenza in tali sistemi di soglie critiche poco conosciute che si può scoprire di aver superato quando ormai è troppo tardi [3].

Secondo un’analisi [4] svolta a febbraio da Euler Hermes & Allianz Economic Research, un team di economisti esperti che analizzano i settori e i rischi paese per fornire una visione globale per i responsabili delle decisioni, il ritardo di 5 settimane nelle vaccinazioni accumulato dall’Europa costerà al Vecchio Continente qualcosa come 90 miliardi di euro nel 2021. Inoltre, secondo questi analisti, le implicazioni negative dovute al ritardo per alcuni Paesi dell’Unione Europea saranno enormi: “i Paesi che toccheranno per primi il traguardo saranno premiati con forti moltiplicatori positivi, mentre i ritardatari resteranno bloccati in modalità crisi, trovandosi ad affrontare costi economici e politici sostanziali”.

Le difficoltà di approvvigionamento dei vaccini, con i colli di bottiglia emersi nella produzione e nella distribuzione degli stessi, hanno portato l’UE, nel gennaio 2020, a un ritmo di vaccinazioni quattro volte inferiore a quello del Regno Unito e degli Stati Uniti. Poiché ogni settimana di prolungamento delle restrizioni sanitarie riduce di 0,4 punti percentuali la crescita del PIL trimestrale dell’Unione Europea, secondo il team di economisti “l’attuale ritardo equivale a circa 2,0 punti percentuali in meno, ovvero circa 90 miliardi di euro”. La cosa interessante è che questo valore “supera di ben 4 volte quello degli accordi che la Commissione Europea ha firmato con i produttori di vaccini per le dosi ordinate”.

Secondo lo studio citato, il costo economico del ritardo nelle vaccinazioni risulta essere dunque in rapporto di 4 a 1 con il costo di acquisto dei vaccini. In altre parole, un euro speso per accelerare la vaccinazione (ad esempio per realizzare infrastrutture per l’aumento della produzione di vaccini) potrebbe far risparmiare ai Paesi dell’UE quasi quattro volte questa cifra. Il vaccino agisce inoltre da “moltiplicatore degli investimenti e di consumi privati” e può permettere di “far ripartire l’economia dei servizi, liberare i risparmi forzati accantonati a titolo precauzionale e recuperare gli investimenti delle imprese”. Portare avanti le vaccinazioni il più celermente possibile è, dunque, fondamentale per il nostro Paese.

Fra l’altro, è interessante notare come i Governi dei diversi Paesi abbiano seguito strategie diverse per i vaccini. Ad esempio, gli Stati Uniti si sono comportati da “venture capital”, finanziando lautamente lo sviluppo di vaccini e raccogliendone ora i dividendi. La Svizzera ha puntato invece tutto sui vaccini di nuova generazione (quelli a mRNA Pfizer e Moderna) e alla data del 18 marzo la sua agenzia regolatoria ancora risultava non aver approvato il vaccino Astrazeneca. Il Regno Unito ha puntato sulla rapidità della vaccinazione con accordi “lampo” con le case farmaceutiche. L’Unione Europea, invece, ha puntato a spuntare il prezzo migliore, salvo farsi raggirare bellamente nelle clausole contrattuali.

Come lo studio concludeva, “per permettere una ripresa economica almeno nella seconda metà del 2021, i Paesi dell’UE devono intraprendere urgentemente un programma di vaccinazione mirato sulle persone a rischio (20-30% del totale, a seconda della composizione demografica) entro la metà del 2021, così da allentare le restrizioni senza pesare sul sistema sanitario”[4]. Ciò significa, in pratica, aumentare fortemente il numero delle somministrazioni giornaliere di vaccini e cercare di far salire anche la disponibilità a breve termine dei vaccini, autorizzandone di nuovi e stringendo nuovi accordi con i relativi produttori, nonché cercando di rimuovere i “colli di bottiglia” nella produzione di quelli già in commercio, ad esempio con lo sviluppo di nuovi siti produttivi, che torneranno molto utili nelle future campagne di richiamo.

La vaccinazione come metodo di controllo di un’epidemia

Nell’epidemiologia delle malattie infettive, l’efficacia di una strategia di controllo è spesso espressa nella capacità della strategia di ridurre il potenziale naturale di riproduzione del patogeno (Ro) o il numero di riproduzione calcolato nel corso del tempo (Rt) o, ancora, il numero giornaliero di contagiati, poiché si dà per scontato che, riducendo ad es. l’Rt a un valore inferiore a 1, siccome ciò vuol dire che una persona tende in media a infettarne meno di una l’epidemia tende gradualmente a estinguersi e, di conseguenza, prima o poi deve calare necessariamente anche il numero dei decessi giornalieri associati.

Vi sono molti modi per intervenire nel corso di un’epidemia per ridurre il numero delle infezioni e il numero dei morti. Gli interventi si possono distinguere, fondamentalmente, in due diversi tipi: (1) quelli farmaceutici (comprendenti l’uso domiciliare o ospedaliero di integratori, farmaci, anticorpi monoclonali, vaccini, etc.) e (2) non farmaceutici. Questi ultimi includono l’uso delle mascherine, il distanziamento sociale, misure come le restrizioni sui viaggi e la chiusura delle scuole, etc. La vaccinazione è uno dei più efficaci modi per ridurre il numero delle infezioni (se si usano vaccini cosiddetti “sterilizzanti”) o anche solo la mortalità (come nel caso dei vaccini anti-COVID attualmente in commercio) [5].

I principali mezzi usati fino ad oggi dalle autorità politiche e sanitarie per ridurre il numero di infezioni e/o di morti per COVID-19. (fonte: elaborazione dell’Autore)

Infatti, i vaccini sviluppati dall’uomo per sé o per gli animali possono essere fondamentalmente di due tipi: vaccini sterilizzanti (cioè che impediscono a un agente patogeno di replicarsi nelle cellule e quindi di trasmettere l’infezione ad altri, come avviene ad esempio con il vaccino del morbillo e con altri vaccini tradizionali) oppure vaccini “leaky” (letteralmente “che perdono”), cioè che bloccano i sintomi e impediscono la morte delle persone ma non prevengono l’infezione o la trasmissione successiva ad altri. Quest’ultimo è verosimilmente il caso degli attuali vaccini anti-COVID [6], che prendono di mira la sola proteina “spike”, l’uncino che si lega alle cellule in cui verrà poi iniettato l’RNA da replicare.

In linea del tutto generale, una vaccinazione permette alle persone di sfuggire all’infezione in due modi: o direttamente o indirettamente. L’effetto diretto è misurato come la proporzione di individui che vengono vaccinati e quindi immunizzati. L’effetto indiretto – noto come “immunità di gregge” [7]  – è misurato come la proporzione di individui non vaccinati che sfuggono all’infezione grazie alla “terra bruciata” creata dalla vaccinazione. Si noti che il numero finale di infetti al termine di un’epidemia è uguale al numero totale di persone che si sono infettate, ovvero alla popolazione meno il numero di quelle che sono sfuggite all’infezione, perciò viene limitato dall’effetto totale della vaccinazione, diretto e indiretto.

In generale, la vaccinazione protegge gli individui inducendo una risposta immunitaria, che può durare per un certo periodo di tempo. Mentre la vaccinazione pediatrica è però una forma di vaccinazione pre-pandemica (cioè gli individui vengono vaccinati per evitare un’epidemia), quella attualmente in corso in Italia e in molti altri Paesi è una vaccinazione durante una pandemia, che, a causa del tipo di vaccini molto specifici e non sterilizzanti al momento usati, pone numerosi rischi a medio termine [6], oltre che un problema di ottimizzazione per riuscire a ridurre nel più breve tempo possibile l’impatto sul sistema sanitario e quindi, a cascata, su quello economico per via dei lockdown imposti.

L’ottimizzazione matematica di una campagna vaccinale è un’affascinante problema di matematica applicata [5] e dipende innanzitutto dall’obiettivo della campagna vaccinale. Essa ha interesse rilevante non solo in una situazione di scarsità di vaccini – come quella attuale – ma anche per il futuro, poiché tale necessità si potrebbe ripresentare in un prossimo futuro o per l’emergere di altri virus (questo è il terzo coronavirus in pochi anni ad aver fatto il “salto di specie”, dopo quelli responsabili della SARS e della MERS) o per l’emergere di nuove varianti del SARS-CoV-2 in grado di “bypassare” i vaccini attuali, situazione che potrà essere risolta solo quando si disporrà di vaccini “universali” (ad es. a virus inattivato) [6].

I possibili obiettivi di una campagna vaccinale, in generale, possono essere diversi. Uno potrebbe essere, ad esempio, quello di minimizzare il numero degli infetti, cosa possibile però con i vaccini sterilizzanti o solo debolmente “leaky”. Un altro potrebbe essere l’abbattimento del numero di morti legati alla diffusione del virus. Un altro ancora potrebbe essere il raggiungimento dell’immunità di gregge. Infine, un altro obiettivo – ancora più ambizioso – potrebbe essere l’eradicazione del virus, cosa che richiede non soltanto l’impiego di vaccini sterilizzanti ma anche una vaccinazione rapida ed estesa alla popolazione dell’intero globo (non a caso l’unico virus eradicato con la vaccinazione è stato quello del vaiolo).

Importanza della pianificazione di una campagna vaccinale

La pianificazione di una campagna vaccinale (tanto più quella fatta durante una pandemia con vaccini autorizzati in emergenza con procedura “fast track”) non dovrebbe essere in alcun caso trascurata o data per scontata – come invece sembra essere accaduto in Europa e in particolar modo in Italia con la vaccinazione anti-COVID – e, come avviene solitamente per le vaccinazioni “normali”, dovrebbe essere incardinata intorno all’analisi accurata di quattro aspetti fondamentali [5]:

  1. Prodotto – Che tipo di vaccino dovrebbe essere usato?
  2. Produzione – Quante dosi devono essere prodotte o acquistate?
  3. Allocazione – Chi dovrebbe essere vaccinato?
  4. Distribuzione – Come fornire i vaccini alle persone?

I vaccini sono beni di pubblico interesse, per tale motivo vengono di solito acquistati da un’autorità centrale a livello nazionale o dell’Unione Europea (quest’ultima, però, non ha alcuna esperienza in tal senso). Non è facile stimare la dose di vaccini da ordinare quando i prodotti sono solo “promesse” o “scommesse”. Inoltre, se ci si tiene stretti negli ordini, una consegna in ritardo o un taglio nelle consegne previste per le più svariate ragioni si possono tradurre in una carenza di vaccini sul breve o sul medio termine, anche se il rifornimento è di solito garantito sul lungo termine. Per tali ragioni, è largamente raccomandabile avere una produzione di vaccini nazionale e il controllo dell’intera filiera sul proprio territorio.

Uno degli aspetti cruciali di una vaccinazione di successo è il tempo. Poiché un’infezione si può propagare rapidamente attraverso una popolazione, in generale prima le persone vengono immunizzate e meglio è, se i vaccini sono sterilizzanti. Poiché questo sappiamo non essere, verosimilmente, il caso degli attuali vaccini anti-COVID, i decisori politici e sanitari devono ottimizzare la velocità della vaccinazione e l’efficacia della risposta in termini di vite salvate: quest’ultima non è solo legata all’efficacia del vaccino nei trial e alla sua efficienza nel proteggere la popolazione sul campo (due concetti diversi che ho illustrato in un precedente articolo [8]), ma anche al vaccinare per prime le persone “giuste” (e non i parenti o “gli amici degli amici”); mentre la velocità dipende anche dalla logistica, dall’organizzazione, etc.

L’allocazione ottimale dei vaccini dovrebbe, in generale, massimizzare il beneficio per la salute, che nel caso italiano non significa minimizzare il numero di infetti bensì il numero di quelli che, essendo più suscettibili a forme gravi della malattia, più rischiano il ricovero in terapia intensiva e la morte. Poiché la maggior parte dei vaccini anti-COVID attuali necessitano di due dosi, quando le dosi sono scarse l’impiego di una singola dose su un numero doppio di persone (ritardando quindi un po’ la seconda dose) può essere un’opzione da valutare, come fatto ad es. nel Regno Unito, che pensa già alla somministrazione di una terza dose agli over 70 in autunno, poiché gli effetti dell’immunità possono svanire nel tempo e potrebbero arrivare intanto delle varianti che la “bypassano” (un vaccino a mRNA può essere adattato ad esse in un mese).

Tale strategia, infatti, consente: (1) di massimizzare il numero di vite salvate (una dose basta ad abbattere la probabilità di effetti gravi); (2) di guadagnare tempo prezioso (specie per quei Paesi, come l’Italia, che non hanno ancora un vaccino proprio e tantomeno, attualmente, la presenza dell’intera filiera di produzione di vaccini terzi sul proprio territorio; (3) di avere una prospettiva a medio e a lungo termine (dove pesa come una spada di Damocle l’incognita di possibili nuove e più temibili varianti, “sorprese” che possono emergere in qualsiasi momento e in qualsiasi Paese), una visione che sembra mancare del tutto nella miope campagna di vaccinazione italiana, fatta piuttosto come “se non ci fosse un domani”. Ma il “vivere alla giornata”, in questo tipo di crisi, è un errore che può costare davvero molto caro.

Un numero relativamente limitato di dosi singole possono sembrare una goccia nell’oceano se rapportate alla popolazione dell’intero Paese, ma queste possono avere un impatto piuttosto rapido sulla curva dei morti giornalieri se vengono somministrate alle persone “giuste”, ovvero a quelle che presentano almeno i primi due dei tre fattori di rischio che ormai sappiamo essere associati alle morti per COVID-19 [9, 10]: (1) un’età avanzata; (2) la presenza di comorbidità; (3) l’avere un basso livello di vitamina D nel sangue. Per tale ragione, fra l’altro, l’invito (ad es. con spot televisivi) a integrare la vitamina D3 (con la cui assunzione si ha poco da perdere ma potenzialmente tanto da guadagnare) sarebbe una misura da adottare in parallelo – oltretutto sarebbe a costo zero – ed i cui effetti sarebbero quasi immediati [9].

La forte relazione fra mortalità per COVID-19 e la classe di età, relativa ai 96.149 deceduti COVID in Italia dall’inizio della pandemia fino al 1° marzo 2021. Dunque l’età rappresenta un importante fattore di rischio per l’esito infausto della malattia. (elaborazione dell’Autore su dati ISS [1] e Istat)

Infine, la campagna vaccinale anti-COVID andrebbe organizzata non tanto come una soluzione di emergenza, bensì con una visione a lungo termine: è infatti probabile che la vaccinazione debba essere ripetuta con i dovuti richiami, e che in ogni caso negli anni a venire ci si trovi ad affrontare situazioni simili. Proprio per questo diventa necessario consolidare le conoscenze in modo da avere, in qualsiasi momento sia necessario, una risposta rapida ed efficiente. In questo senso, risulta molto utile il “Decalogo sulle vaccinazioni” [11], di recente redatto dalla Società italiana di igiene, medicina preventiva e sanità pubblica in collaborazione con l’Osservatorio italiano della prevenzione (OIP) e la Fondazione Smith Kline.

Qual è l’obiettivo reale della vaccinazione anti-COVID?

I possibili obiettivi di una campagna vaccinale – come abbiamo visto – possono essere diversi. Nel caso italiano, poiché il nostro Paese è andato in lockdown molte volte a causa dell’elevato livello di ospedalizzazioni di malati da COVID-19 in reparti a bassa intensità di cura (complice la mancanza di prevenzione e di terapie domiciliari adeguate) e dell’elevato livello di occupazione delle terapie intensive, l’obiettivo dovrebbe essere semplicemente quello di ridurre quanto prima questi numeri, per avere il più presto possibile due risultati: (1) la possibilità di riaperture e (2) abbassare il numero di morti giornalieri.

Purtroppo, però, molte persone – inclusi i decisori politici e sanitari regionali – hanno mostrato di avere le idee alquanto confuse sugli obiettivi di una campagna vaccinale anti-COVID: alcuni pensano che i vaccini siano utili anche ai giovani e che vaccinando le persone si possa renderle non infettive, e molti appaiono convinti che si possa raggiungere l’“immunità di gregge”. Purtroppo, però, si tratta allo stato solo di “credenze”, che per ora non trovano fondamento nei dati pubblicati ufficialmente, che anzi vanno, semmai, nella direzione opposta. Inoltre, pare esserci una profonda crasi fra la comunità scientifica e la classe politica, poiché i messaggi rilevanti a riguardo non paiono arrivare a chi decide.

Nel mio articolo “Pillole” anti-COVID: quelle che non vi hanno mai dato” [8], ho mostrato come, se si analizza il rapporto costi-benefici per i vaccini attualmente usati in Italia (Pfizer, Moderna, Astrazeneca), questo risulti raggiungere un punto di pareggio per i giovani di circa 25 anni. Infatti, la mortalità legata ai tre vaccini risulta essere, sia negli Stati Uniti che nel Regno Unito, di 20-30 casi per milione di dosi. Tenendo conto della diversa letalità del virus per le varie classi di età, si scopre che il rischio di morire per il vaccino piuttosto che per il COVID-19 è maggiore per i giovani al di sotto di circa 25 anni, che pertanto – considerati anche i rischi a medio e lungo termine cui sarebbero esposti – non dovrebbero vaccinarsi.

In generale, la vaccinazione produce benefici in due modi: direttamente per le persone che vengono vaccinate, e indirettamente per quelli che non sono vaccinati riducendo la loro esposizione alla malattia nel corso dell’epidemia, fino al raggiungimento – se si vaccina una certa percentuale della popolazione – della cosiddetta “immunità di gregge”. Ma questo vale per i vaccini sterilizzanti, come ad es. quello per il morbillo, la poliomelite, etc. Per i vaccini “leaky”, che come sappiamo non impediscono a un vaccinato di trasmettere l’infezione, l’immunità di gregge è un’utopia. E nessuno finora ha portato alcuna prova scientifica che i vaccini anti-COVID attuali non si comportino così [6].

Inoltre, come illustrato molto bene da un articolo pubblicato su Nature [12], comunque l’immunità di gregge sarebbe raggiungibile: (1) solo con elevati tassi di vaccinazioni, cioè con una campagna vaccinale di breve durata; e (2) con una somministrazione coordinata su scala globale, poiché l’Italia non è certo isolata dagli altri Paesi, come ad esempio il Sud del mondo; inoltre, (3) con le nuove varianti più trasmissibili la soglia per l’immunità di gregge si innalza e bisognerebbe vaccinare una percentuale della popolazione ben più elevata, giovani compresi; infine, (4) se nascono nuove varianti resistenti ai vaccini, l’immunità acquisita potenzialmente svanisce e ci possiamo trovare a dover affrontare future ondate; e, in ogni caso, (5) l’immunità di un vaccino così specifico non dura per sempre.

Dunque, vaccinare i più suscettibili di infezione con i vaccini anti-COVID attuali, in una situazione di scarsità di vaccini, non ha senso. Infatti, l’idea di fondo dietro questa strategia è che la popolazione può essere suddivisa in tre gruppi [5]: (a) i suscettibili di infezione; (b) gli infetti e (c) i “rimossi”. Questi ultimi possono diventare tali in tre modi: (1) perché guariscono (oppure sono già guariti) e quindi vengono immunizzati naturalmente; (2) perché vengono immunizzati tramite il vaccino; (3) perché muoiono. Di conseguenza, se vaccino i più suscettibili di infezione in realtà non risolvo il problema, se non alla lunga; lo risolvo assai prima se vaccino prioritariamente le persone con più alta probabilità di morire per COVID.

Poiché il 96% dei morti per COVID-19 in Italia sono over 60 (con una percentuale di letalità che in generale tende ad aumentare al crescere della classe di età), gli “utilizzatori finali” dei vaccini anti-COVID dovrebbero quindi essere, essenzialmente, gli over 60 e le persone “fragili” (immunodepressi, diabetici, obesi, etc.), ed in via prioritaria – all’interno della categoria degli over 60 – le persone con comorbidità, poiché l’analisi di un campione di 6.713 pazienti deceduti per COVID [1] ha mostrato come il 66,6% avessero 3 o più patologie pregresse, il 18,5% 2 patologie e l’11,9% 1 patologia. Si noti come la popolazione da proteggere sia, sostanzialmente, simile a quella oggetto delle campagne di vaccinazione antinfluenzale.

Il disastro italiano: come “predicare bene e razzolare male”

Perciò, secondo il “Piano strategico sulle vaccinazioni” approvato dal Parlamento italiano lo scorso 2 dicembre, dopo i medici, gli infermieri e gli ospiti delle RSA, avrebbero dovuto essere vaccinati gli over 80 (circa 4,5 milioni di persone), poi, procedendo per età decrescenti, entro l’estate gli over 60 (altre 13,4 milioni di persone) e coloro che hanno almeno due patologie croniche, immunodeficienza o fragilità, e così via. Tutto bellissimo e perfetto, sulla carta. Ma le cose sono andate davvero così?

Alla data del 27 marzo, dei 9 milioni di dosi di vaccini somministrate in Italia, incredibilmente solo 3,77 milioni (pari ad appena il 42% del totale) erano state somministrate a over 70 [13], quando è ben noto che la popolazione di medici e infermieri (l’unica con priorità assoluta) in Italia ammonta a circa 1 milione di persone, per cui tutte le altre (tolto solo un numero relativamente piccolo di dosi di Astrazeneca quando questo vaccino era ancora limitato agli under 55 o 65) sarebbero dovute andare agli over 80, a cominciare dalle RSA, e poi agli over 70. Ma mentre gli ospiti di queste ultime sono state vaccinati (anche perché erano fisicamente facili da raggiungere), la maggior parte degli over 70 sono stati del tutto ignorati.

Il numero di dosi di vaccini anti-COVID somministrate in Italia alla data del 30 marzo 2020, ovvero dopo circa 3 mesi di campagna vaccinale. Si noti come, addirittura, il numero di dosi date ai ventenni sia maggiore di quelle date ai settantenni. (fonte: Ministero della Salute)

Le regioni italiane, anche per incapacità propria e pressate dalle lobby più varie, hanno invece seguito una strategia “ibrida” del tutto inefficace ed inutile, vaccinando a destra e a manca persone giovani o di mezza età che non rientravano affatto fra gli obiettivi prioritari della vaccinazione, come si può capire rileggendo il “Piano strategico delle vaccinazioni” sbandierato dal Ministero della Salute (e questo per tacere del circa 15% di “imbucati”, che non avrebbero dovuto essere tollerati), quasi inseguendo una sorta di “equità” sociale invece che una pragmatica efficacia. Il tutto senza che il Governo centrale – e men che mai il Ministero della Salute – muovessero un dito per impedire questa anarchia delle regioni.

Ben diversamente sono andate le cose negli altri Paesi, ed in particolare nel Regno Unito, che avremmo invece dovuto seguire come esempio. Là, infatti, si è adottata la strategia dell’avere come obiettivo principale la rapidità nel risultato. Pertanto, si sono vaccinati “a tappeto” – e prioritariamente – gli anziani, sia con Pfizer che con Astrazeneca (impiegato in due casi su tre), il che ha contribuito al rapido declino nella curva del numero di morti giornalieri, come del resto era già avvenuto in Israele, il Paese più avanti di tutti nella campagna di vaccinazione anti-COVID. Dunque, la strada era chiaramente tracciata da questi coraggiosi Paesi “apripista”, e bastava solo seguirla: in altre parole, “copiare”.

Si noti che la strategia del Regno Unito di una dose singola al maggior numero di persone corrisponde a una strategia rapida, mentre la strategia seguita pedissequamente dall’Italia – quella delle due dosi – ha, sulla carta, una più alta efficacia, ma ha senso solo quando si ha a disposizione un grandissimo numero di dosi, che non era certamente il caso del nostro Paese, con i tagli annunciati dai produttori di due dei vaccini su cui avevamo puntato di più. Si potrebbe obiettare che il vaccino Astrazeneca non copre granché dalla variante sudafricana, ma nella situazione attuale era assolutamente idoneo a svolgere la funzione che gli si chiedeva anche usandolo sugli over 70, e cioè farci uscire il prima possibile dalla crisi in atto.

L’AIFA, dal canto suo, ha contribuito non poco al disastro della campagna vaccinale italiana. Il 18 gennaio l’EMA autorizza il vaccino Astrazeneca per gli over 18. Ma il 2 febbraio l’AIFA lo autorizza solo per gli under 55, ed il 23 gennaio, su pressione del Ministero della Salute, per gli under 65, togliendo solo il 19 marzo i limiti di età. Mi duole dirlo – anche perché conosco e stimo molto il suo presidente, il prof. Palù – ma l’AIFA, nella persona del suo Direttore si è mostrata a mio parere del tutto inadeguata nel gestire questa materia, come già del resto era successo con i protocolli delle cure domiciliari (tema trattato in un mio precedente articolo [8]): l’ha gestita come se fossimo in uno scenario normale, “business as usual”, non nel mezzo di una pandemia che sta completamente paralizzando il Paese, e dove il tempo è un fattore.

L’andamento, nel mese di marzo 2020, del numero di morti COVID-19 per milione di persone della popolazione residente in tre diversi Paesi dell’Europa (geograficamente intesa): Italia, Francia, Germania, Regno Unito. Già da questo grafico si capisce come il nostro Paese si trovi in una pessima situazione, tanto più rispetto agli altri tre, come in una vera e propria guerra con tanto di morti e feriti, non certo uno scenario “business as usual”. (fonte: elaborazione dell’Autore con il tool online Our World in Data)

Fra i vari motivi della disastrosa campagna vaccinale italiana vi è poi il fatto che si è trattato di un evento che ha colto tutti di sorpresa (e il problema è che questa non è una battuta! Ad es. per fare la piattaforma di vaccinazione in Lombardia ci si è ridotti agli ultimi giorni utili, con l’esito noto), lasciando spazio alla più totale improvvisazione: non a caso solo “in corso d’opera” sono stati incaricati di occuparsene la Protezione civile e le Forze Armate, ovvero le uniche due strutture statali che hanno la necessaria flessibilità e capacità di pianificazione operativa. Ma ormai era troppo tardi: il gap accumulato con gli altri Paesi e con il Piano vaccinale del Ministero era abissale. Inoltre, probabilmente non ci si è resi conto del fatto che non sono tanto gli over 70 a dover andare verso i centri vaccinali, bensì il vaccino dagli over 70.

Infatti, molti over 70 vivono in piccoli paesini, tanti non guidano più, altri sono malati cronici, e pretendere che si facciano 50 km o più accompagnati da non si sa bene chi per scoprire che l’sms di chiamata era arrivato per errore (non a caso sto citando alcuni dei numerosi incredibili fatti realmente capitati) non sta né in cielo né in terra. Del resto, a parte Pfizer, gli altri vaccini sono facilmente trasportabili, almeno finché non arriva il caldo (un altro motivo per cui è fondamentale la velocità della campagna): ad es. Moderna può resistere fuori dal frigo fino a 6 ore, un tempo sufficiente per portarne uno stock in un piccolo paese e per vaccinare localmente gli over 80 e molti (se non tutti gli) over 70 presenti, con il supporto delle Autorità locali e dei volontari opportunamente coordinati. Sempre che lo si voglia fare.

Come ottimizzare la campagna vaccinale in Italia

I decisori politici e sanitari devono tipicamente confrontarsi con risorse limitate all’inizio di una pandemia o – come nel caso, in particolare, dell’Italia – anche nelle fasi successive a causa della scarsa capacità di organizzazione e di pianificazione. Le disponibilità di vaccini anti-COVID per la popolazione italiana sono attualmente limitate. Ciò porta a problemi di allocazione ottimale. Come dovrebbero essere suddivisi e somministrati i vaccini disponibili per raggiungere l’obiettivo desiderato (che, lo ricordiamo, non è vaccinare chi rischia di più l’infezione ma chi rischia di più di morire)?

In generale, la dinamica non lineare di un’epidemia rende il problema dell’allocazione dei vaccini difficile da ottimizzare. Tuttavia, si può trovare la migliore allocazione possibile in accordo a dei criteri ben definiti [5], ed in funzione dell’obiettivo da raggiungere. Nel caso italiano, si tratta di dividere fra popolazioni multiple (quelle di 21 regioni) un numero limitato di vaccini che poi devono essere somministrati dalle regioni stesse alle persone in modo tale non da eradicare il virus o da minimizzare il numero di infetti, bensì l’impatto sulle ospedalizzazioni per COVID e sui ricoveri di malati COVID in terapie intensive (ed, a cascata, sulle morti per COVID). Il tutto con un’epidemia in corso e anche piuttosto galoppante.

Attualmente, le dosi dei vari vaccini anti-COVID vengono distribuite alle varie regioni semplicemente in quantità proporzionali alle popolazioni delle regioni. Questa allocazione, però, è assolutamente non ottimizzata, poiché – come abbiamo visto in precedenza – le popolazioni delle varie regioni sono: (1) colpite dalla mortalità del COVID in modo tutt’altro che omogeneo a livello nazionale; e (2), poiché sono debolmente interagenti fra loro per le restrizioni poste agli spostamenti fra regioni, tali disomogeneità sono destinate a permanere. Dunque, si presenta il seguente problema di ottimizzazione: come somministrare i vaccini in modo da ridurre nel più breve tempo possibile la mortalità verso zero?

Per ottimizzare l’intervento vaccinale e, al tempo stesso, misurarne l’impatto, possiamo utilizzare come guida la distribuzione dei morti per COVID nella popolazione italiana, che come abbiamo visto è maggiore in determinate regioni, oltre che in ben note classi di età. Anche se solo circa il 15% dei morti da COVID-19 in Italia in realtà muore passando per le terapie intensive (il resto delle persone muoiono in altri reparti o a casa), minimizzando con la campagna vaccinale il problema della mortalità da COVID verrebbe automaticamente ridotta anche la pressione sulle strutture ospedaliere, giacché le persone che arrivano in Pronto Soccorso appartengono, in gran parte, alle stesse classi di età dei morti.

Dunque, dovendosi semplicemente minimizzare i morti da COVID-19 – e non disponendo di vaccini per l’intera popolazione che si intende vaccinare – si tratta semplicemente, in prima approssimazione, di “replicare”, nella distribuzione del vaccino: (1) la distribuzione per fasce di età della letalità del COVID-19 (quindi procedere partendo rigorosamente dai più anziani e passando via via a quelli un po’ meno anziani: prima over 80, poi over 70, etc.) e (2) la distribuzione geografica della mortalità per l’allocazione delle dosi alle diverse regioni, dando quindi più dosi in particolare (o quanto meno) alle 4-5 regioni che hanno avuto in questa pandemia la mortalità più alta, e menzionate all’inizio di questo articolo.

Un ulteriore livello di ottimizzazione della campagna vaccinale si avrebbe, infine, implementando il sistema di prioritizzazione basato sullo studio “Stress” dell’Università di Milano-Bicocca, il quale assegna un punteggio prognostico in grado di attribuire a ogni cittadino di età compresa fra 18 e 79 anni un “indice di fragilità” rispetto al rischio di sperimentare forme cliniche critiche del COVID-19. L’indice di fragilità viene calcolato incrociando le informazioni della banca dati regionale degli assistiti con i flussi di sorveglianza dei tamponi, dei ricoveri e dei decessi per COVID. Ciò ha consentito di identificare e pesare le 23 condizioni patologiche che, oltre all’età e al genere, sono risultate predittori del rischio clinico.

I benefici forniti da un insieme limitato di dosi di vaccini anti-COVID diminuiscono, evidentemente, quando (e tanto più) ci si allontana dalla strategia appena illustrata per andare in altre direzioni. In alcune situazioni, però, non sono le dosi di vaccino che limitano una vaccinazione, bensì la partecipazione della popolazione al programma di vaccinazione. L’Italia dovrebbe quindi considerare anche l’uso di incentivi quasi simbolici (come ad es. la birra gratis offerta in Israele ai vaccinati più giovani) per convincere tutti – o quasi – gli appartenenti ai gruppi vulnerabili (in particolare gli over 65), che più beneficeranno della vaccinazione, e in pratica gli unici che, vaccinandosi, possono farci uscire da questo dramma.

In conclusione, se il Governo centrale e il Ministero della Salute non si danno una bella regolata facendo il proprio dovere, che è quello di imporre le linee guida e sanzionare gli amministratori locali ed i sanitari che non le rispettano – invece che fare inutili multe a cittadini senza colpa – non è difficile prevedere che il disastro italiano proseguirà. Soprattutto ora che si avvicina la bella stagione e la gente si renderà conto che, per farsi una bella vacanza all’estero o per partecipare a certi eventi, servirà il pass vaccinale e quindi molti giovani o persone che non avrebbero reale bisogno del vaccino (specie in questa fase) faranno di tutto per “saltare la fila” e ritardare ancor più la vaccinazione completa degli over 70 e degli over 60.

Riferimenti bibliografici

[1]  Istituto Superiore di Sanità, “Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da SARS-CoV-2 in Italia – Dati al 1° marzo 2021”, EpiCentro, marzo 2020.

[2]  Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), “Popolazione per età, sesso e stato civile 2020 – Piramide per età delle singole regioni”, Tuttitalia.it, 2021.

[3]  Menichella M., “Mondi futuri. Viaggio fra i possibili scenari”, SciBooks Edizioni, Pisa, 2005.

[4]  Ludovic S. et al., “Il ritardo delle vaccinazioni costerà all’Europa 90 miliardi di euro nel 2021”, Allianz Research, 2 febbraio 2021.

[5]  Duijzer L.E., “Mathematical Optimization in Vaccine Allocation”, Tesi di laurea, Università di Rotterdam, 2017.

[6]  Menichella M., “I vaccini anti-COVID: perché ci attende un futuro pieno di incognite”, Fondazione David Hume, 10 marzo 2021.

[7]  Fine P., “Herd immunity: history, theory, practice”, Epidemiologic Reviews, 15, pp. 265-302, 1993.

[8]  Menichella M., “’Pillole’ anti-COVID: quelle che non vi hanno mai dato”, Fondazione David Hume, 25 marzo 2021.

[9]  Menichella M., “Vitamina D e minore mortalità per COVID: le evidenze e il suo uso per prevenzione e cura”, Fondazione David Hume, 23 febbraio 2021.

[10]  Infante M. et al., “Low Vitamin D Status at Admission as a Risk Factor for Poor Survival in Hospitalized Patients With COVID-19: An Italian Retrospective Study”, J. Am. Coll. Nutr., Febbraio 2021.

[11]  Società Italiana di Igiene, Medicina Preventiva e Sanità Pubblica, “Decalogo per il piano vaccinale anti-COVID-19”, Vaccinarsi.org, marzo 2020.

[12]  Aschwanden C., “Five reasons why COVID herd immunity is probably impossible”, Nature, 591,  pp. 520-522, 18 marzo 2021.

[13]  Ministero della Salute, “Report vaccini anti COVID-19” aggiornato al 27 marzo 2021, Governo.it.




Indice DQP: per l’immunità di gregge dobbiamo aspettare gennaio 2022

Le autorità politiche e sanitarie, in particolare il ministro Roberto Speranza e la sottosegretaria Sandra Zampa, hanno ripetutamente dichiarato che la campagna di vaccinazione serve a raggiungere la cosiddetta immunità di gregge:

5 dicembre: “Il nostro obiettivo è l’immunità di gregge grazie al vaccino” (Roberto Speranza).

17 dicembre: “Immunità di gregge a settembre-ottobre prossimi (Sandra Zampa).

28 dicembre: “Oggi il ministro Speranza ha precisato che entro marzo raggiungeremo la quota di 13 milioni di italiani vaccinati contro Covid-19, e quindi in estate potremo già essere molto avanti nel perseguimento dell’obiettivo immunità di gregge data dal 70%” (Sandra Zampa).

9 gennaio 2021: “Per arrivare all’immunità di gregge dobbiamo vaccinare l’80% di 60 milioni di italiani” (Sandra Zampa).

Per “immunità di gregge” si intende una situazione nella quale ci sono abbastanza persone vaccinate (e non in grado di trasmettere il virus) da portare la velocità di trasmissione del virus (Rt) al di sotto di 1, con conseguente progressiva estinzione dell’epidemia.

Ma quante settimane occorreranno per vaccinare un numero di italiani sufficiente a raggiungere l’immunità di gregge?

A rispondere a questa domanda provvede l’indice DQP (acronimo di: Di Questo Passo), che stima il numero di settimane che sarebbero ancora necessarie se – in futuro – le vaccinazioni dovessero procedere “di questo passo”.

A metà della tredicesima settimana del 2021 (giovedì mattina, 1° aprile) il valore di DQP è pari a 40 settimane, il che corrisponde al raggiungimento dell’immunità di gregge non prima del mese di gennaio del 2022.

Il valore del DQP è nettamente migliorato rispetto a quello della settimana scorsa (immunità di gregge a marzo 2022).

Per raggiungere gli obiettivi enunciati dalle autorità sanitarie (immunità di gregge entro settembre-ottobre 2021), il numero di vaccinazioni settimanale dovrebbe essere un po’ meno di una volta e mezzo quello attuale (2 milioni la settimana, anziché 1.600.000). Quanto al numero di vaccinazioni al giorno, su cui normalmente ragionano i media, ne basterebbero circa 300 mila al giorno (compresi il sabato e la domenica), contro le 230 mila attuali.


Nota tecnica

Le stime fornite ogni settimana si riferiscono ai 7 giorni precedenti e si basano sui dati ufficiali disponibili la mattina del giorno in cui viene calcolato il DQP (quindi possono subire degli aggiornamenti).

Va precisato che la nostra stima è basata sulle ipotesi più ottimistiche che si possono formulare, e quindi va interpretata come il numero minimo di settimane necessarie.

Più esattamente l’interpretazione dell’indice è la seguente:

DQP = numero di settimane necessario per raggiungere almeno il 70% degli italiani con almeno 1 vaccinazione completa procedendo “Di Questo Passo”.

A partire dalla prima settimana completa dell’anno (da lunedì 4 a domenica 10 gennaio) la Fondazione Hume calcola settimanalmente il valore dell’indice DQP (acronimo per: Di Questo Passo).

L’indice si propone di fornire, ogni settimana, un’idea vivida della velocità con cui procede la vaccinazione, indicando l’anno e il mese in cui si potrà raggiungere l’immunità di gregge procedendo “Di Questo Passo”.

Il calcolo dell’indice si basa su 4 parametri:

  1. una stima del numero di italiani vaccinati necessario per garantire l’immunità di gregge;
  2. quante vaccinazioni sono state effettuate nell’ultima settimana considerata;
  3. quante vaccinazioni erano già state effettuate dall’inizio della campagna (1° gennaio 2021) fino alla settimana anteriore a quella su cui si effettua il calcolo;
  4. che tipo di vaccini verranno presumibilmente usati (a 2 dosi o a dose singola).

Nella versione attuale l’indice si basa sulle ipotesi più ottimistiche possibili sul funzionamento del vaccino e sull’andamento della campagna vaccinale. Più precisamente:

  • i vaccini somministrati non solo proteggono i vaccinati dall’insorgenza della malattia, ma impediscono la trasmissione dell’infezione ad altri (immunità sterile);
  • l’obiettivo è vaccinare il 70% della popolazione (anziché l’80 o il 90%, come potrebbe risultare necessario);
  • sul mercato vengono introdotti vaccini per tutte le fasce d’età, compresi gli under 16 (i vaccini attuali sono testati solo su specifiche fasce d’età);
  • ci si accontenta di vaccinare ogni italiano in modo completo una sola volta, trascurando il fatto che, ove la campagna di vaccinazione dovesse prolungarsi per oltre un anno, bisognerebbe procedere a un numero crescente di rivaccinazioni.



Riaprire le scuole?

Da qualche tempo si riparla di aprire le scuole, o perlomeno le scuole materne ed elementari. Il tema della riapertura delle attività culturali sta particolarmente caro alla sinistra, come quello della riapertura delle attività commerciali alla destra. E’ dunque probabile che, nelle prossime settimane, assisteremo a esperimenti di riapertura su entrambi i fronti.

Ma che cosa ci dicono i dati dell’epidemia?

I dati dell’epidemia parlano purtroppo piuttosto chiaro. Fra le società avanzate, l’Italia continua a primeggiare sia in termini di nuovi casi sia in termini di decessi. Quel che è più grave, però, è il trend: in Italia, come in molti altri paesi avanzati, dopo un periodo di rallentamento dell’epidemia (gennaio-febbraio), è partita una nuova ondata: la terza, dopo quelle di marzo-aprile e ottobre-novembre dell’anno scorso.

Perché, ancora una volta, siamo stati colti di sorpresa? Perché non riusciamo a contenere la circolazione del virus? Perché gli ospedali e le terapie intensive sono di nuovo al collasso?

La spiegazione prevalente, su cui convergono mass media, autorità sanitarie e politici di ogni schieramento, punta il dito sui ritardi della campagna vaccinale. Questa spiegazione trova (apparente) sostegno nel fatto che nei tre paesi che sono più avanti nella campagna vaccinale, e cioè Israele, Regno Unito, Stati Uniti l’epidemia è in ritirata. Ma è una spiegazione fasulla, per almeno due motivi. Primo, perché la inversione delle loro curve epidemiche è avvenuta a gennaio, ben prima del decollo delle campagne vaccinali. Secondo, perché ci sono almeno quattro paesi importanti (Portogallo, Irlanda, Canada, Sud Africa) in cui la campagna vaccinale arranca almeno quanto in Italia ma l’epidemia è in ritirata spettacolare fin da gennaio. In tutti e sette i paesi che abbiamo ricordato l’epidemia è stata riportata sotto controllo nel giro di poche settimane.

C’è anche una spiegazione di riserva, però. Secondo molti la colpa delle difficoltà dell’Italia e di altri paesi starebbe nella diffusione delle varianti, e in particolare di quella cosiddetta inglese. La loro crescente trasmissibilità e letalità sarebbe all’origine della terza ondata, e spiegherebbe l’aumento dei casi e dei morti che stiamo osservando in Italia. Ma, di nuovo, è una spiegazione incompatibile con i dati. La variante inglese si è diffusa innanzitutto nel Regno Unito e in Irlanda, e ciò nonostante entrambi i paesi sono riusciti a far retrocedere rapidamente l’epidemia. Quanto alla variante sudafricana, non ha impedito al Sud Africa di invertire la curva fin dal 12 gennaio, senza alcun aiuto da parte delle vaccinazioni, che sono tuttora abbondantemente sotto l’1% (noi siamo vicini al 15%). Del resto un’analisi statistica più generale, che correla diffusione delle varianti e andamento dell’epidemia, rivela che le differenze nella capacità dei vari paesi di contrastare l’epidemia non dipendono in modo apprezzabile né dalla diffusione delle varianti, né dallo stato di avanzamento della campagna vaccinale.

Spiace doverlo ammettere, ma è inevitabile concludere che quel che ci differenza dai paesi che stanno efficacemente contrastando l’epidemia non è né il ritardo della campagna vaccinale né la diffusione delle varianti, ma sono le nostre politiche e i nostri comportamenti.

In che senso?

In due sensi. Primo, non abbiamo fatto e continuiamo a non fare le molte cose che potrebbero servire a contrastare il virus senza lockdown, dalla messa in sicurezza di scuole e traporti pubblici alle politiche di sorveglianza attiva. Secondo, il nostro lockdown – reso inevitabile dall’inerzia del governo Conte – non è un vero lockdown. Se, usando i dati di mobilità resi pubblici da Google, proviamo a misurare il grado di confinamento effettivamente messo in atto nei vari paesi, scopriamo che nei mesi critici di gennaio e febbraio siamo rimasti a casa circa la metà del tempo dell’Irlanda. Non solo, ma se facciamo una graduatoria dei paesi in base al grado di rispetto del lockdown troviamo ai primi posti precisamente i paesi che più hanno avuto successo nel contrastare l’epidemia: Irlanda, Portogallo, Regno Unito, Sudafrica, Canada, Israele. In questa graduatoria l’Italia è solo 21-esima (su 36 paesi). Detto altrimenti, l’andamento dell’epidemia nelle società avanzate è strettamente connesso al rispetto delle misure di confinamento, specie nei mesi critici di dicembre-gennaio-febbraio (figura 1).

Né le cose vanno in modo sostanzialmente diverso se, anziché guardare ai comportamenti della popolazione, ci rivolgiamo ai provvedimenti adottati dalle autorità politico-sanitarie. Una comparazione sistematica fra paesi mostra che la misura più efficace nel contenere l’epidemia è stata la chiusura più o meno totale delle scuole, seguita dalla limitazione degli spostamenti sui trasporti pubblici: la capacità di contenimento dell’epidemia migliora man mano che le chiusure delle scuole diventano più sistematiche e generalizzate (figura 2).

Questo, purtroppo, dicono i dati se li si analizza senza pregiudizi (cosa sempre più difficile, stante la spinta bipartisan alle riaperture). Dobbiamo concludere che il lockdown è l’unica strada?

No, il lockdown non solo non è l’unica strada, ma è la strada sbagliata. Il lockdown è semplicemente l’arma dei governi inerti, che a un certo punto se lo ritrovano come unica arma disponibile perché – prima – non hanno fatto nulla o quasi nulla di quel che avrebbero dovuto fare. E’ quel che è successo a noi in autunno (ai tempi della seconda ondata), ed è risuccesso quest’anno, quando – non avendo di nuovo fatto nulla – ci siamo esposti alla terza.

E ora?

Ora è tardi, perché nel governo la linea del lockdown breve ma durissimo, invano caldeggiata da Walter Ricciardi (consulente di Speranza) fin da ottobre scorso, è stata definitivamente sconfitta, a favore di una linea del tipo “apriamo appena possibile”, che tradotto in pratica significa: apriamo appena c’è abbastanza posto negli ospedali e nelle terapie intensive per accogliere i nuovi malati. E’ possibile che questa linea, che già ci è costata almeno 40 mila morti non necessari da dicembre a febbraio, ce ne costi ancora “solo” alcune migliaia in più nei prossimi mesi, perché un miracolo farà improvvisamente decollare la campagna vaccinale, abbassando drasticamente il numero di morti quotidiano, e perché nessuna nuova variante riuscirà ad eludere i vaccini.

Ma è anche possibile che le cose non vadano così, e che una campagna vaccinale zoppicante combinata con un’altra estate incauta ci espongano, a settembre-ottobre, all’arrivo di una quarta ondata, ancora una volta amplificata dal ritorno a scuola. Possiamo, almeno questa volta, sperare che si faccia finalmente qualcosa, e che lo si faccia in tempo?

Ad alcune misure si sta già per fortuna pensando, ad esempio a tamponi e test periodici a studenti e professori. Poco si sta facendo, invece, sulle due misure chiave: garantire il distanziamento sui mezzi pubblici e mettere in sicurezza le aule. Eppure, se si vuole davvero riaprire definitivamente le scuole, sarebbero due mosse cruciali. Perché le misure di sicurezza dentro le scuole non sono sufficienti se il contagio avviene fuori, nel tragitto casa-scuola e ritorno. E, quanto alle misure interne, quella cruciale è garantire la qualità dell’aria, o mediante filtri che la depurano, o mediante impianti di ricambio con l’esterno (il costo sarebbe inferiore a quello sostenuto per i banchi a rotelle).

Speriamo tutti che, quest’autunno, l’epidemia sia sostanzialmente sotto controllo. Ma sarebbe imperdonabile che la prossima stagione fredda, per sua natura favorevole al virus, dovesse trovarci ancora una volta spiazzati, traditi dalla nostra attitudine ad auto-illuderci.

Pubblicato su Il Messaggero del 27 marzo 2021




“Pillole” anti-COVID: quelle che non vi hanno mai dato

Una delle cose che mi hanno più colpito negativamente in questo anno di pandemia è stata la quasi più totale assenza – se si eccettua lo spot iniziale sull’igiene delle mani e quello sull’app Immuni – di campagne di informazione e prevenzione del Ministero della Salute attraverso il mezzo televisivo, e in particolare la mancanza di una comunicazione rivolta agli anziani, che, oltre a rappresentare la stragrande maggioranza delle vittime del COVID, sono persone che, in molti casi, si informano esclusivamente attraverso la televisione. Oltre a ciò, ho notato che vari temi rilevanti per la prevenzione del COVID non sono stati trattati tout court, neppure in trasmissioni giornalistiche e medico-scientifiche. In questo articolo affronterò, perciò, 10 fra le principali questioni che la gente a casa si è posta o trovata ad affrontare in questi mesi senza ricevere, a mio parere, delle risposte o delle indicazioni soddisfacenti.

In particolare, cercherò di fornire qui, nei limiti di una trattazione divulgativa ed al meglio delle conoscenze attuali disponibili, delle “pillole” di informazioni utili che purtroppo non sono mai state date da chi avrebbe dovuto farlo: (1) Quali sono i sintomi del COVID-19 e qual è l’evoluzione della malattia? (2) Come capire chi è davvero più a rischio di morte per il COVID-19? (3) Perché le cure domiciliari dei pazienti COVID sono fondamentali? (4) Perché il fattore tempo è così importante nella cura del COVID-19? (5) Quali integratori sono utili contro il COVID secondo la letteratura scientifica? (6) Perché la carica virale è importante nell’infezione da COVID-19? (7) Mascherine, sterilizzatori, pulsossimetri, etc.: cosa devo sapere? (8) Una domanda dei medici: come vanno trattati i pazienti a casa? (9) Come posso confrontare l’efficacia dei vari vaccini anti-COVID? (10) I vaccini anti-COVID sono sicuri o corro qualche pericolo?

1) Quali sono i sintomi del COVID-19 e qual è l’evoluzione della malattia?

Gli studi nella letteratura medica pubblicata in questo anno di pandemia riportano che i pazienti ammalati di COVID-19 possono presentare, come sintomi all’esordio: febbre, tosse secca, fame d’aria e affaticamento. Sono stati segnalati come possibili sintomi in pazienti infetti anche mal di gola, congestione nasale e naso che cola. Un numero significativo di pazienti (20%-60%) sembra avere una perdita dell’olfatto (nota anche come anosmia), che può essere il primo sintomo di presentazione [1].

Secondo quanto diffuso dai Centers for Diseases Control (CDC) di Atlanta, che negli Stati Uniti si occupano di epidemie e malattie emergenti, nei pazienti infetti sono stati segnalati anche brividi e tremore persistente, dolori muscolari, mal di testa, nonché cambiamenti nel senso del gusto. Un sintomo del contagio è talvolta la congiuntivite, per chi entra a contatto con il virus attraverso la mucosa degli occhi. Un altro disturbo che può emergere è la comparsa di vescicole sulla pelle, lesioni pruriginose e necrosi.

Nei casi più gravi, l’infezione può causare polmonite virale. Ed in circa il 90% delle diagnosi di ricovero ospedaliero di pazienti italiani morti per COVID-19 nel 2020 sono menzionate o condizioni (ad es. polmonite, insufficienza respiratoria) o sintomi (ad es. febbre, affanno, tosse) riconducibili, per l’appunto, al SARS-CoV-2 [2]. Nei ricoverati in Cina nel gennaio 2020 (relativi a 552 ospedali del Paese), la febbre era presente nel 44% dei pazienti all’ammissione, il secondo sintomo più comune era la tosse (68%), mentre nausea e vomito (5%) e diarrea (3,8%) erano poco comuni [3].

Il COVID-19 è una malattia caratterizzata da tre fasi [4], la prima delle quali è una fase virale che dura 7-10 giorni a partire dalla prima manifestazione dei sintomi. In approssimativamente il 20% dei casi è seguita da un secondo stadio – quello infiammatorio – annunciato da marcatori pro-infiammatori (ferritina, proteina C reattiva, etc.) e caratterizzato dall’apparizione di infiltrati nei polmoni, che sono seguiti in alcuni casi dal calo del livello di ossigeno nel sangue (ipossemia), rivelabile tramite un comune saturimetro.

Quest’ultima terza fase – che si verifica solo in un piccolo sottoinsieme dei pazienti iniziali (circa il 5%) – è caratterizzata da un’iperinfiammazione, che porta a una cosiddetta “tempesta citochinica” (una reazione immunitaria sistemica con cui il sistema immunitario combatte i microrganismi patogeni e induce le cellule a produrre altre citochine), che causa la “Sindrome di Distress Respiratorio Acuto” (ARDS), patologia potenzialmente fatale per la quale i polmoni non sono in grado di funzionare correttamente.

Le tre fasi della malattia COVID-19. Come vedremo, è molto importante agire già sulla prima fase, sia attraverso una prevenzione fai-da-te con opportuni integratori sia con il supporto di terapie domiciliari adeguate somministrate dai medici di base o dalle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA). Tutto ciò è ancora più determinante con la comparsa di varianti del SARS-CoV-2 più virulente.

Come spiega il prof. Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, “la prima fase, quella asintomatica che dura da 3 a 5 giorni, è caratterizzata da un’alta carica virale, che aumenta ulteriormente con la comparsa dei sintomi. La malattia va quindi affrontata prima che scenda ai polmoni. Se si parte presto, di solito è possibile evitare il ricovero” [5]. È ovviamente fondamentale, allo scopo, avvertire ai primi sintomi il medico, cui spetta di indicare i farmaci da assumere e le dosi (alcuni possono avere effetti collaterali, specie se presi in concomitanza con altri).

Con la cosiddetta “variante inglese” (B.1.1.7), oggi predominante anche in Italia, la prima fase si è però ridotta a soli 2-3 giorni. Ciò suggerisce che il virus si replichi più velocemente dando meno tempo al nostro sistema immunitario per sviluppare gli anticorpi. Ma, soprattutto, secondo uno studio di Grind et al. [10], la variante inglese del SARS-CoV-2 risulta essere più letale rispetto alla variante originale, con un rischio di morte di ben il 67% maggiore, a conferma della maggior virulenza di questa variante. Come vedremo nella risposta all’ultima domanda, quest’ultimo è un effetto che potrebbe essere legato ai vaccini oggi usati.

2) Come capire chi è davvero più a rischio di morte per il COVID-19?

Sono ormai noti tre diversi fattori di rischio che caratterizzano un esito infausto nel COVID-19: (1) l’età, dato che ben l’85% delle vittime italiane hanno più di 70 anni (e circa il 95% delle vittime ha più di 60 anni); (2) la presenza di comorbidità (anche i pochi morti italiani sotto i 40 anni presentano, nella maggior parte dei casi, gravi patologie preesistenti: cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità [2]); (3) la carenza di vitamina D (nel sangue), come evidenziato da numerosi studi nel mondo [6, 7].

Si noti che, all’interno del 20% di pazienti la cui condizione, dopo la prima settimana di malattia COVID-19, può all’improvviso deteriorare si trovano anche persone che inizialmente avevano una sintomatologia lieve [4]. Di conseguenza risulta vantaggioso avere la capacità di distinguere – al di là della semplice valutazione dei fattori di rischio – i casi che avranno un andamento clinico non complicato da quelli che hanno maggiore probabilità di sviluppare distress respiratorio e che necessitano di terapie precoci.

Uno studio svolto da Cabanillas et al. [4] ha mostrato che, sebbene fra i malati di COVID-19 vi fossero differenze statisticamente significative fra i casi a basso rischio di morte e quelli a basso rischio, tuttavia non era possibile identificare uno o più fattori nella manifestazione clinica della malattia che potevano essere usati in modo affidabile per classificare i pazienti in gruppi a basso rischio o a ad alto rischio, in modo da riservare il ricovero ospedaliero soltanto a quelli del secondo gruppo e da curare a casa gli altri.

Infatti uno si aspetterebbe, intuitivamente, che la frequenza dei sintomi sia minore nei casi a basso rischio. Ma, contrariamente alle aspettative degli autori dello studio, la maggior parte dei casi seguiti – e rivelatisi a posteriori a basso rischio – presentavano, al momento della diagnosi, due o tre sintomi, il che indica come non potessero essere identificati come tali sulla base della sola sintomatologia.

Tuttavia, gli stessi autori hanno suggerito dei criteri nuovi sulla base dei quali i casi a basso rischio possono essere identificati e monitorati a casa, anche senza trattamento farmacologico (l’integrazione di vitamina D3 è comunque consigliabile anche in questi casi, dato l’elevato profilo di sicurezza nelle dosi consigliate dagli esperti a scopo preventivo: 4.000 UI al giorno, in particolare per anziani e persone “fragili” [8]), piuttosto che ricorrere all’ospedalizzazione o alla cura ambulatoriale del paziente COVID.

Il loro approccio è basato su una serie di parametri misurabili (Interleuchina-6, ferritina, D-dimero, proteina C reattiva, colesterolo HDL, linfopenia, saturazione dell’ossigeno) comprendenti essenzialmente marcatori infiammatori basati sul sangue. Questo metodo ha mostrato un’eccellente correlazione con l’esito clinico e costituisce un miglioramento rispetto al metodo del “Punteggio CALL” (che considera l’età, la presenza di comorbidità, il livello HDL e la linfopenia per assegnare un punteggio prognostico).

Infine, molte fonti di informazioni suggeriscono che in una grossa percentuale di casi la trasmissione virale avvenga in casa. Quando possibile, e in assenza di COVID hotel, gli altri contatti stretti sani dovrebbero lasciare il domicilio o quanto meno rimanere isolati in modo assai stretto. Ciò riduce la re-inoculazione del virus attraverso l’inspirazione di bioaerosol virale [9] in caso di successiva (o precedente) infezione di altri conviventi, cosa che può potenzialmente aumentare la gravità della malattia. Dunque, le persone che vivono in famiglia possono essere più a rischio rispetto a quelle che vivono da sole.

3) Perché le cure domiciliari dei pazienti COVID sono fondamentali?

Nella pandemia da COVID-19, in Italia a livello sanitario ci si è concentrati principalmente su due tipi di risposta: (1) il contenimento della diffusione dell’infezione e (2) la riduzione della mortalità dei pazienti ricoverati. Sebbene questi sforzi fossero ben giustificati, nella prima fase si sono trascurati del tutto i pazienti rimasti a casa [6], cui veniva negato l’accesso alle cure ambulatoriali del proprio medico curante. In seguito le cose non sono migliorate molto, poiché in quasi tutte le regioni le unità USCA nate allo scopo sono poche ed i loro medici sono spesso giovani con poca esperienza e iniziativa.

D’altra parte, l’attento studio dell’epidemiologia dei ricoverati suggerisce fortemente che si dovrebbe, al contrario, puntare moltissimo proprio sulle cure a domicilio dei pazienti COVID. Infatti, la maggior parte dei pazienti che arrivano ai Pronto soccorso degli ospedali con sintomi di COVID-19 non necessitano, inizialmente, di cure mediche avanzate: solo il 25% ha bisogno di ventilazione meccanica, supporto circolatorio avanzato o di terapia sostitutiva renale (per il filtraggio del sangue dei reni) [9].

Quindi, è ragionevole pensare che una buona parte – se non la maggior parte – dei ricoveri potrebbero essere tranquillamente evitati con una cura a casa dei pazienti come primo approccio, cosa che richiede il solo potenziamento dell’accesso ai farmaci ed all’ossigeno, nonché a un fondamentale dispositivo low-cost di monitoraggio come il pulsossimetro. Quest’ultimo, peraltro, potrebbe venire anche acquistato del tutto autonomamente dal paziente, se questi solo venisse meglio informato, anche con degli spot, della sua utilità, soprattutto nel rilevare forme silenti di scarsa ossigenazione del sangue (ipossemia) [11].

In altri Paesi, e anche in Italia, le cure domiciliari – per quei pochi medici che le hanno praticate e in più usando un protocollo di cura autogestito in deroga a quello stabilito dall’AIFA – hanno contribuito a trattare in sicurezza i pazienti con diversi gradi di complessità raggiungendo bassissimi tassi di ospedalizzazione e di mortalità se confrontati con quelli delle case di cura [12] oppure con quelli dei pazienti “trattati” con il protocollo dell’AIFA del 9/12/20, basato essenzialmente su un antipiretico, la tachipirina (dal prof. Remuzzi ritenuta inutile e controproducente) e sulla “vigile attesa” (come dire: aspetta e spera…).

Dunque le cure domiciliari, se fatte con protocolli opportuni, non solo (1) riducono gli accessi agli ospedali dei malati di COVID, ma anche – a cascata – (2) i ricoveri in terapia intensiva e (3) i morti, che sono i tre numeri che l’Italia non è riuscita a controllare, al punto da dover ricorrere a lockdown prolungati. Se ciò poteva forse essere tollerabile nella prima fase primaverile del 2020, quando si era del tutto impreparati, ciò non avrebbe dovuto ripetersi nell’autunno, quando c’erano tutto il tempo e il know-how necessari per spostare gran parte delle cure dalla fase tardiva ospedaliera a quella precoce domiciliare.

In Italia, alcuni medici di base di tutte le regioni si sono riuniti in un gruppo, il “Comitato per le Cure Domiciliari COVID-19”, che ha messo a punto e testato sui propri pazienti un protocollo di cura. È grazie a loro e all’efficacia dimostrata sul campo dal loro protocollo che l’Italia ha avuto un po’ meno morti di quelli che avrebbe potuto avere, dato che solo una percentuale del tutto irrisoria dei loro pazienti ha richiesto in seguito il ricovero. Tuttavia si è trattato di una goccia del mare, poiché tutti gli altri medici di base e quelli delle USCA si sono invece attenuti al protocollo ufficiale, quello dell’“aspetta e spera” [13].

Il Comitato in questione – che comprende anche uno stimato medico ospedaliero, l’oncologo Luigi Cavanna – è nato inizialmente sui social, dove è seguito da oltre 100.000 persone, e poi si è tramutato in un’associazione, la quale da tempo chiede che il proprio protocollo di cura basato sull’uso precoce di certi farmaci (quali idrossiclorochina, azitromicina, eparina, etc. e anche vitamina D) venga riconosciuto ufficialmente a seguito dell’efficacia mostrata dai numeri. Esso è in contatto con medici all’estero (Brasile, Stati Uniti, etc.) che hanno sperimentato con analogo successo protocolli molto simili.

4) Perché il fattore tempo è così importante nella cura del COVID-19?

Sebbene ora siano disponibili opzioni di cura per i pazienti con malattia COVID grave che richiedono il ricovero in ospedale, è urgentemente necessaria l’adozione di interventi che possano essere somministrati precocemente a casa durante il corso dell’infezione per prevenire la progressione della malattia e le complicanze a lungo termine [14]. I trattamenti precoci per il COVID-19, tanto più se associati a un vaccino efficace, avrebbero implicazioni rilevanti per la capacità di porre fine a questa pandemia.

Il vantaggio di curare precocemente le infezioni da agenti patogeni (e ridurre così la probabilità di ricoveri e di esiti infausti) è noto da oltre un secolo, ma per ridurre i costi e gli effetti collaterali i farmaci sono tipicamente prescritti come trattamento terapeutico, il che significa solo dopo che si sono manifestati i sintomi della malattia [15]. Inoltre, in Italia molte persone sono morte di COVID perché anche quei 2-3 giorni o più per aspettare l’esito del tampone prima di dare dei farmaci ha fatto spesso la differenza.

I medici di base del già citato “Comitato per le Cure Domiciliari COVID-19” hanno avuto successo non solo perché hanno usato un buon protocollo di cura, ma anche perché non hanno aspettato l’esito di tamponi, bensì hanno dato subito i farmaci (come del resto suggerito pubblicamente anche dal prof. Remuzzi). Chi disponeva di un ecografo portatile l’ha usato per diagnosticare la polmonite interstiziale, e l’acquisto di tale strumentazione – che è poco costosa – per medici di base e USCA sarebbe stato un investimento del Governo molto più saggio rispetto a quello per i banchi di scuola.

Lo studio sulla risposta immunitaria al COVID-19 suggerisce che un intervento precoce potrebbe aiutare a bilanciare la risposta immunitaria efficace contro l’azione dannosa causata dal SARS-CoV-2, in modo da costruire una risposta forte per combattere il virus. Poiché i pazienti con malattia moderata non hanno ancora sviluppato danni agli organi terminali, i dati suggeriscono che l’inizio del decorso della malattia è il momento migliore per intervenire con varie opzioni di trattamento per prevenire gli squilibri immunitari, proteici e metabolici osservati con la malattia più grave degli stadi successivi [16].

È proprio la fase iniziale  del COVID-19, quella in cui appaiono i primi sintomi, ad essere quella più ottimale per trattare la malattia, prima che la risposta infiammatoria passi da utile a dannosa in quanto assolutamente eccessiva. In parole povere, questi risultati suggeriscono che l’intervento con vari integratori antivirali e immunomodulanti nelle prime fasi del COVID-19 (ad es. vitamina D, lattoferrina, etc.) potrebbe limitare la disfunzione nella risposta del sistema immunitario alla lotta contro il virus [16].

La cosa non è difficile da capire. Nella prima fase della malattia, assistiamo a una sorta di gara fra, da una parte, la replicazione del virus che si moltiplica creando sempre più unità di se stesso e, dall’altra, il sistema immunitario che deve produrre velocemente sempre più anticorpi per neutralizzare le particelle del virus. Gli integratori a loro volta agiscono, da una parte, rallentando la replicazione del virus (azione antivirale) e, dall’altra, favorendo la produzione di anticorpi (azione immunomodulante). Dunque, facilitano di molto il rapido prevalere dei “difensori” (gli anticorpi) rispetto agli “attaccanti” (le particelle virali).

La “guerra” di un organismo contro il COVID-19 è, inizialmente, una battaglia fra la replicazione virale del SARS-CoV-2 e la produzione di anticorpi neutralizzanti queste particelle virali. Alcuni integratori (ad es. vitamina D, lattoferrina, etc.), grazie alla loro azione antivirale e immunomodulante, se presi quotidianamente come forma di prevenzione della progressione della malattia verso stadi più gravi, in caso di contagio rallentano la moltiplicazione delle particelle di virus e aiutano le difese immunitarie.

L’importanza del favorire i nostri “difensori” naturali, del resto, è palese anche con gli attuali vaccini anti-COVID, che stimolano l’organismo umano a produrre anticorpi (e una memoria immunitaria) contro la famosa proteina “spike” (una delle 26 proteine del SARS-CoV-2), che è l’uncino con cui si lega alle nostre cellule. Infatti, quando una persona viene infettata da questo virus, la risposta del sistema immunitario di un vaccinato è rapida e imponente proprio poiché “l’esercito” di anticorpi è già pronto e l’organismo non è preso alla sprovvista, come invece avviene a un non vaccinato (e non immunizzato).

5) Quali integratori sono utili contro il COVID secondo la letteratura?

La patogenesi del COVID-19 è altamente complessa e comporta la soppressione della risposta immunitaria innata e antivirale dell’ospite, l’induzione di stress ossidativo seguita da iperinfiammazione descritta come “tempesta di citochine”, che causa il danno polmonare acuto, fibrosi tissutale e polmonite [17]. Attualmente, ancora diversi farmaci sono in fase di valutazione per la loro efficacia, sicurezza e per la determinazione delle dosi per il COVID-19, ma ciò richiede molto tempo per la loro convalida.

Pertanto, esplorare la riproposizione di composti naturali contro il COVID-19 può fornire alternative sul breve termine, in quanto questi non presentano effetti collaterali e sono di basso costo e di facile reperibilità per il grande pubblico. Diversi nutraceutici hanno una comprovata capacità di potenziare il sistema immunitario e di agire come antivirali, antiossidanti e antinfiammatori. Questi includono la vitamina D, la vitamina C, la lattoferrina, lo zinco, la curcumina, i probiotici, la quercetina, etc.

Assumere alcuni di questi fitonutrienti sotto forma di integratore alimentare può dunque aiutare a rafforzare il sistema immunitario, rallentare la replicazione del virus, precludere la progressione della malattia allo stadio grave e sopprimere ulteriormente l’iperinfiammazione fornendo supporto sia profilattico che terapeutico contro il COVID-19, come sottolineato da uno studio [17] svolto da un gruppo di ricercatori indiani e pubblicato su una importante rivista di immunologia. Tra l’altro, potrebbe non essere un caso che l’India abbia avuto 10 volte meno morti COVID (per milione di abitanti) rispetto all’Italia.

La carenza di vitamina D è risultata essere, secondo svariati studi scientifici anche a livello di meta-analisi [5], un fattore di rischio indipendente per le forme gravi di COVID-19, per cui può essere usata sia in ambito preventivo (in dosi di 4.000 UI al giorno nella sua forma di vitamina D3), sia in ambito terapeutico (ad alte dosi). Pure la lattoferrina – una proteina che, come la vitamina D, ha proprietà antivirali, immunomodulanti e anti-infiammatorie – ha mostrato una notevole efficacia negli studi clinici [18, 19] nell’abbattere il rischio di forme gravi di COVID-19, e viene perciò assunta da tempo da moltissimi medici e farmacisti.

La vitamina C può potenzialmente proteggere dalle infezioni a causa del suo ruolo essenziale sulla salute immunitaria. Questa vitamina supporta la funzione di varie cellule immunitarie e migliora la loro capacità di proteggere dalle infezioni. È stato dimostrato che l’integrazione con Vitamina C riduce la durata e la gravità delle infezioni delle vie respiratorie superiori (la maggior parte delle quali si presume siano dovute a infezioni virali), compreso il comune raffreddore, che può essere prodotto da alcuni tipi di coronavirus con cui la nostra specie convive da tempo [20]. La dose raccomandata di Vitamina C varia da 1 a 3 g / giorno.

Lo zinco è un metallo essenziale coinvolto in una varietà di processi biologici grazie alla sua funzione di cofattore, molecola di segnalazione e elemento strutturale. Regola l’attività infiammatoria e ha funzioni antivirali e antiossidanti. Lo zinco è considerato il potenziale trattamento di supporto contro l’infezione da COVID-19 a causa dei suoi effetti antinfiammatori, antiossidanti e antivirali diretti. Quest’ultimo effetto è ottenuto riducendo l’attività dell’ACE-2, la proteina delle cellule a cui l’uncino (spike) del SARS-CoV-2 si lega per entrare nella cellula [17]. La dose raccomandata da vari studi varia da 20 a 92 mg / settimana.

La curcumina, che possiamo assumere aggiungendo un cucchiaino di curcuma al cibo, ha un ampio spettro di azioni biologiche, comprese attività antibatteriche, antivirali, antimicotiche, antiossidanti e antinfiammatorie [21]. Inoltre inibisce la produzione di citochine pro-infiammatorie nelle cellule, ed esercita un effetto antivirale su un’ampia gamma di virus, tra cui virus dell’influenza, adenovirus, epatite, virus del papilloma umano (HPV), virus dell’immunodeficienza umana (HIV), etc. [22]. Pertanto, la curcumina potrebbe essere un altro integratore interessante nella lotta alla patogenesi del COVID-19.

6) Perché la carica virale è importante nell’infezione da COVID-19?

Come per qualsiasi altro agente patogeno (batteri, funghi, etc.) o veleno, i virus sono di solito più pericolosi quando si presentano in quantità maggiori. Sola dosis venenum facit, ovvero “è la dose che fa il veleno”, dicevano i latini e il concetto si applica, mutatis mutandis, anche ai virus. “Piccole esposizioni iniziali tendono a portare a infezioni lievi o asintomatiche, mentre dosi più grandi possono risultare letali”, come ha spiegato molto bene il professore di chimica e genomica Joshua Rabinovitz.

Lo sappiamo bene nel caso dei batteri, in quanto è proprio la concentrazione di noti batteri indicatori di contaminazione fecale – l’Escherichia coli e gli enteroccchi intestinali – a definire se un’acqua costiera è balneabile o meno. Ad es., il valore limite dei primi è di 500 UFC (Unità Formanti Colonie) / 100 ml di acqua. Oltre questa soglia la balneazione è vietata, poiché alcuni ceppi di questi batteri possono causare nell’uomo infezioni a carico del tratto digerente, delle vie urinarie o di molte altre parti del corpo.

La cosiddetta “carica virale” è invece un’espressione numerica della quantità di virus in un dato volume di fluido corporeo (ad es. l’espettorato, il plasma sanguigno, etc.). Ogni virus ha la capacità di sopravvivere per un certo tempo nell’ambiente all’interno del fluido, ma è necessaria una carica virale minima per produrre l’infezione negli esseri umani: ad es. sono sufficienti circa 100 particelle virali nel caso del norovirus [23] – il virus a RNA responsabile della diarrea – e tale quantità minima è diversa da virus a virus.

Pertanto, per proteggersi dal COVID-19, occorre cercare di prevenire l’esposizione ad alte dosi di virus. In pratica, entrare in un palazzo di uffici in cui qualcuno è stato con il coronavirus non è così pericoloso come sedersi accanto a quella persona per un’ora in treno. Perciò, la durata breve dell’esposizione – così come il distanziamento sociale e una corretta igiene – aiutano a ridurre la dose di virus che possiamo inalare. Anche le mascherine FFP2 possono contribuire ad abbattere di molto la dose in questione.

L’esposizione ad alte dosi di SARS-CoV-2 è più probabile nelle interazioni ravvicinate fra le persone, come nel corso di riunioni o in bar affollati, o nel toccarsi il naso o la bocca dopo aver ricevuto quantità sostanziose di virus sulle mani. Le ricerche hanno mostrato che le interazioni interpersonali sono più pericolose in spazi chiusi e a breve distanza, con un’escalation nelle dosi che aumenta con il tempo di esposizione. Quest’ultimo rappresenta quindi una variabile molto interessante.

Più tempo si trascorre in un ambiente chiuso o semichiuso con aria infetta dal virus e maggiori sono le probabilità di infettarsi, a parità di altre condizioni. L’uso della mascherina, se questa è scelta e indossata correttamente, può abbattere quindi di molto la probabilità di contagio e, quando anche quest’ultimo si verificasse, la barriera costituita dalla mascherina permette di assorbire una carica virale inferiore.

Un esperimento effettuato dall’Istituto per le Malattie infettive americano (NIAD) [24] ha mostrato come il virus SARS-CoV-2 possa rimanere sospeso nell’aria, sotto forma di aerosol, fino a 3 ore. Tuttavia, la quantità di virus si dimezza nel giro di un’ora ed è bassa negli spazi aperti. Pertanto, la minaccia di contagio può arrivare soprattutto dai luoghi chiusi (o semi-chiusi) e affollati, con i mezzi di trasporto (metropolitane, autobus, tram, treni locali, etc.) a farla da padrone per l’elevata densità di persone associata.

Una volta capito il concetto di carica virale, si può comprendere facilmente perché il COVID-19 ha spesso sterminato intere famiglie: in Cina come in Italia e in altri Paesi sono state innumerevoli le famiglie i cui membri si sono tutti ammalati e sono morti uno dopo l’altro in casa (per la saturazione degli ospedali e per la mancanza dei cosiddetti “COVID hotel”). Infatti, il non usare le mascherine in famiglia e il non isolare subito i contagiati espone gli altri familiari a dosi di virus assai elevate, donde gli esiti infausti.

7) Mascherine, sterilizzatori, pulsossimetri, etc.: cosa devo sapere?

Secondo uno studio anticipato dal The New England Journal of Medicine [25], la carica virale del SARS-CoV-2 rilevata nei pazienti COVID asintomatici era simile a quella dei sintomatici, il che dà un’idea quantitativa del potenziale di trasmissione dei soggetti asintomatici o minimamente sintomatici rispetto ai sintomatici. Dato che non possiamo sapere se siamo nei pressi di un soggetto asintomatico o paucisintomatico che potrebbe trasmetterci l’infezione, l’indossare una mascherina di protezione è fondamentale.

La mascherina non serve solo a impedire l’infezione, ma anche a ridurre la carica virale cui potremmo essere esposti. Oltre all’utilità nella protezione individuale, l’uso di massa delle mascherine può ridurre di molto la trasmissione dei virus respiratori. Ad es., secondo uno studio di Wu et al. [26], durante l’epidemia di SARS del 2003 l’abbattimento della trasmissione virale è stato addirittura del 70%. E, sempre grazie all’uso delle mascherine, nell’inverno 2002-2003 a Hong Kong l’influenza di fatto non circolò.

Esistono, come è noto, tre diversi tipi di mascherine di tipo medico: (1) chirurgiche (di forma rettangolare, sono inadatte a un filtraggio superiore al 65%, non essendo aderenti al viso); (2) respiratorie di tipo FFP2 (o N95), che filtrano almeno il 95% delle particelle di 0,6 micron o più grandi; (3) respiratorie di tipo FFP3 (o N99), che filtrano almeno il 99% delle particelle di 0,6 micron o più grandi. Queste ultime, però, se espellono l’aria della persona tramite una valvola non proteggono le altre persone (sono perciò dette “egoiste” e non devono mai essere usate per la protezione dal SARS-CoV-2).

Poiché le nuove varianti attecchiscono molto più facilmente, è senza dubbio raccomandabile l’utilizzo di mascherine FFP2, ma è importante accertarsi che siano prodotte in Italia e che forniscano una certificazione rilasciata da un ente del settore. Oggi le si possono trovare facilmente digitando nei siti di commercio elettronico “mascherine ffp2 italiane certificate”. Ovviamente, vanno poi indossate bene adattando l’archetto metallico alla forma del proprio naso. Una FFP2 è garantita per un uso di almeno 8 ore, ma se la usate solo negli ambienti chiusi (e all’esterno usate una chirurgica) di solito dura di più.

Le mascherine e le superfici possono essere sterilizzate in modo assai efficace con una soluzione idroalcolica al 70%, come illustrato in un mio articolo sull’argomento [3]. Gli ambienti, invece, possono essere sterilizzati facilmente usando lampade germicide a raggi UV-C, che vanno usate sempre solo in assoluta assenza di persone, poiché i raggi UV-C sono cancerogeni per la pelle e molto pericolosi per gli occhi. Per sterilizzare una grande stanza in 10 minuti, servono circa 5 W di UV-C [4]. Sconsiglio invece l’uso di ozonizzatori, perché potrebbero operare nella regione “tossica” per i polmoni.

Consiglio inoltre di avere a casa un saturimetro, detto anche pulsossimetro (tenetevi invece alla larga dalle app per misurare l’ossigeno). I modelli con il miglior rapporto qualità / prezzo sono quelli marchiati GIMA, usati anche dagli equipaggi delle ambulanze, mentre eviterei quelli cinesi low-cost, quasi del tutto inutili. Un normale livello di ossigeno nel sangue (SpO2), per polmoni sani, è compreso in genere fra il 95% ed il 100%. In generale, una lettura del saturimetro inferiore al 95% è considerata bassa. Pertanto, già al di sotto di questa soglia – specie se il trend è decrescente – andrebbe avvisato il medico.

Nel caso ci si dovesse mai trovare in una situazione come quella verificatasi nella primavera del 2020 – con gli ospedali pieni e le persone malate di COVID che si dovevano curare a casa da sole, ma il loro numero era tale che c’era scarsità di bombole di ossigeno – è bene sapere che, in assoluta mancanza di alternative, per una persona che ha difficoltà nel respirare si può usare, in associazione a una maschera per ossigenoterapia, un concentratore di ossigeno, che lo produce da solo per cui il gas non si esaurisce mai. Ormai ne esistono sul mercato vari modelli, ed i migliori producono 6-8 litri al minuto [4].

8) Una domanda dei medici: come vanno trattati i pazienti a casa?

Come in tutte le aree della medicina, anche per le cure domiciliari il grande studio clinico “randomizzato, controllato con placebo, a gruppi paralleli in pazienti appropriati a rischio con esiti significativi” rappresenta il gold standard teorico per raccomandare la terapia. Questi standard, però, non sono abbastanza rapidi o rispondenti alla pandemia COVID-19 [9], in quanto seguire i pazienti a casa per uno studio controllato rappresenta uno sforzo organizzativo ed economico molto grande da affrontare.

Se gli studi clinici controllati sui pazienti a casa non sono facili, è evidentemente necessario esaminare altre informazioni scientifiche relative all’efficacia e alla sicurezza dei farmaci. Pertanto, nel contesto delle attuali conoscenze, data la gravità della malattia e la relativa disponibilità, costo e tossicità delle terapie, ogni medico e paziente devono fare una scelta: vigile attesa passiva in auto-quarantena o trattamento attivo più o meno “empirico” allo scopo di ridurre le probabilità ospedalizzazione e la morte [9], ad es. sfruttando il protocollo dei colleghi medici di base del già citato “Comitato per le Cure Domiciliari COVID-19”.

Quest’ultimo si basa principalmente sull’idrossiclorochina in associazione con l’azitromicina, nonché sull’eparina e altri farmaci, secondo lo schema molto dettagliato pubblicato in uno studio di McCoullogh et al. [9], coordinato dall’epidemiologo statunitense Harvey Risch. Uno studio condotto in Francia su pazienti ricoverati e positivi al SARS-CoV-2, e confermato da uno successivo più ampio, ha in effetti evidenziato che l’aggiunta di azitromicina all’idrossiclorochina ha determinato una riduzione della carica virale e un significativo miglioramento del decorso della patologia [29].

Algoritmo di trattamento per la malattia COVID-19 confermata in pazienti ambulatoriali a casa in quarantena automatica. BMI = indice di massa corporea; CKD = malattia renale cronica; CVD = malattia cardiovascolare; DM = diabete mellito; Dz = malattia; HCQ = idrossiclorochina; Mgt = gestione; O2 = ossigeno; Ox = ossimetria; Yr = anno. (fonte: McCoullogh et al. [9])

L’infezione da SARS-CoV-2, come molte altre, può essere più suscettibile di terapia nelle prime fasi del suo corso, ma probabilmente non risponde agli stessi trattamenti molto tardi nelle fasi ospedaliere e terminali della malattia. Perciò, è necessario iniziare il trattamento prima che i risultati di tamponi PCR siano noti. Inoltre, poiché il COVID-19 esprime un ampio spettro di malattie che progrediscono dall’infezione asintomatica a quella sintomatica fino alla fulminante sindrome da distress respiratorio e al cedimento del sistema multiorgano, è necessario personalizzare la terapia [9].

L’estensione a livello nazionale del protocollo adottato di recente dal Piemonte, mutuato dall’esperienza del“Comitato per le Cure Domiciliari” (e basato sull’impiego della vitamina D  della idrossiclorochina, etc.) – e che pare aver dato risultati notevoli, sebbene non pubblicati per le ragioni di cui sopra – sarebbe forse preferibile rispetto all’adozione di linee guida “teoriche” (come quelle proposte da Remuzzi [30], da Matteo Bassetti, etc.), che si basano su studi di farmaci testati in fasi di cura del COVID più avanzate, ma non ancora in fase precoce con studi controllati (tuttavia uno studio sull’approccio Remuzzi è in corso).

In ogni caso, perfino uno di questi ipotetici protocolli “sintetici”, teorici, non ancora validati in fase precoce rappresenterebbe, quasi certamente, un notevole “upgrade” rispetto alle indicazioni terapeutiche fornite a novembre dal Ministero della Salute nella circolare dal titolo “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” [31], basata sulle raccomandazioni dell’AIFA (e sospesa dal TAR del Lazio il 4/3/21). In base a tale documento, si possono usare antinfiammatori come paracetamolo (ad es. Tachipirina) o FANS per pazienti sintomatici, in particolare in caso di febbre, dolori articolari o muscolari.

Il testo dichiara, inoltre, che “l’uso dei corticosteroidi è raccomandato nei soggetti con malattia COVID-19 grave che necessitano di supplementazione di ossigeno”. Invece, l’eparina è indicata solo nei soggetti immobilizzati per l’infezione in atto. Al medico, infine, la circolare suggerisce di avere un approccio di “vigile attesa” con “misurazione periodica della saturazione dell’ossigeno” tramite il saturimetro. Nel documento si suggerisce poi di monitorare i parametri vitali tramite un punteggio: quello consigliato è il “Modified Early Warning Score”. Ma quanti medici di base hanno l’hanno davvero calcolato?

9) Come posso confrontare l’efficacia dei vari vaccini anti-COVID?

Nel valutare i vaccini, in realtà, si usano due diversi tipi di indicatori – l’efficacia e l’efficienza – e poiché i media non spiegano mai la differenza fra i due, è facile che nei lettori si ingeneri una grande confusione, poiché non si può confrontare ad es. l’efficacia di un vaccino X con l’efficienza di un vaccino Y, poiché sarebbe un po’ come confrontare le mele con le pere: semplicemente non ha senso. Inoltre, quella che ci interessa da un punto di vista pratico è più l’efficienza che non l’efficacia.

La cosiddetta “efficacia” (efficacy) di un vaccino è la percentuale di riduzione dell’incidenza della malattia in un gruppo vaccinato rispetto a un gruppo non vaccinato in condizioni ottimali. La cosiddetta “efficienza” (effectiveness) del vaccino, invece, è la capacità del vaccino nel prevenire esiti di interesse per il “mondo reale” [2]. La seconda dà una valutazione meno rigorosa (anche perché non è ottenuta attraverso uno studio controllato randomizzato su un campione prescelto) ma più rilevante dal punto di vista sanitario.

In termini statistici, l’efficacia è un’unità di misura che definisce quanto un vaccino riduce il rischio di contrarre una malattia, come ad esempio il COVID-19. In pratica, nei trial si osserva quante persone vaccinate con il vaccino in esame hanno contratto il SARS-COV-2 e si compara questo dato con quante persone (che hanno ricevuto soltanto il placebo) si sono ammalate. La differenza risulta nella percentuale di efficacia dichiarata dai produttori (ad es. 95% per il Pfizer contro la variante originale del virus).

Zero efficacia significa che i vaccinati corrono lo stesso rischio delle persone che non hanno ricevuto il vaccino. Un’efficacia del 100% vuol dire che il rischio di contrarre la malattia è risultato azzerato. Solitamente, però, l’efficacia varia a seconda del Paese in cui viene effettuato lo studio. Ad esempio, le sperimentazioni dei vaccini anti-COVID in genere mostrano un’efficacia più bassa in Sudafrica o in Sud America, dove sono largamente presenti due varianti verosimilmente indotte dai vaccini stessi [32].

L’efficienza di un vaccino, invece, è la sua capacità di ridurre esiti spiacevoli per la persona o per il sistema sanitario, che nel caso del COVID-19 sono, essenzialmente tre: (1) l’ospedalizzazione in reparti a bassa intensità di cura; (2) il ricovero nel reparto di terapia intensiva; (3) la morte del paziente. Da questo punto di vista, ad esempio, il vaccino Pfizer con cui in Israele si è vaccinato oltre il 95% della popolazione ha mostrato di avere una capacità assai elevata di prevenire tutti e tre questi esiti.

Dunque, per poter confrontare i vari vaccini anti-COVID, in realtà conoscere la sola efficacia risultante dai trial (in cui il vaccino è somministrato a un campione di persone sane selezionate ad hoc) risulta utile fino a un certo punto. Una volta che il vaccino viene impiegato sul campo per la vaccinazione di massa, è l’efficienza il dato che dobbiamo valutare e confrontare, anche se la somministrazione a una popolazione non selezionata può introdurre dei bias, e quindi i dati ottenibili sono meno “solidi”.

Dai dati disponibili finora, i vaccini attualmente usati in Italia (Pfizer, Moderna e Astrazeneca) mostrano tutti una buona efficienza contro la variante inglese (B.1.1.7), che dunque non è resistente agli anticorpi neutralizzanti da essi indotti. Al contrario, la variante sudafricana (B.1.351) pone maggiori problemi, non tanto per i vaccini a mRNA (Pfizer e Moderna), quanto per Astrazeneca, i cui anticorpi neutralizzanti hanno mostrato un’attività molto bassa contro questa variante, un serio segnale di allarme sui problemi che i virus resistenti possono porre nel prossimo futuro [33].

10) I vaccini anti-COVID sono sicuri o corro qualche pericolo?

La sicurezza di un vaccino dipende dai suoi effetti collaterali. Questi possono essere divisi, essenzialmente, in tre diversi tipi: (1) effetti a breve termine (minuti, ore, pochi giorni), (2) effetti a medio termine (settimane, mesi), e (3) effetti a lungo termine (anni). In un vaccino normale vengono studiati tutti e tre i tipi di effetti, ma nel caso dei vaccini anti-COVID – sviluppati frettolosamente per uso “in emergenza”: (a) gli effetti a lungo termine non sono stati studiati; (b) si tratta, fondamentalmente, di vaccini “leaky” (vedi  [32]), il che può comportare una serie di conseguenze imprevedibili sul medio termine.

Ma vediamo le cose più in dettaglio. Gli effetti a breve termine dei vaccini anti-COVID attualmente in commercio in Italia (Pfizer, Moderna, Astrazeneca) non pongono particolare motivo di preoccupazione, se non forse per le donne incinte, per chi avesse un’infezione COVID in corso (altra circostanza non testata nei trial, per cui potrebbe essere prudente realizzare un test antigenico prima del vaccino), e – verosimilmente – per la popolazione più giovane. Infatti, come ora vedremo, il rapporto rischi/benefici sembra invertirsi al di sotto di una certa età, sebbene non esistano dati diretti sull’argomento.

Grazie al database USA degli effetti avversi (VAERS), l’ing. A. Tsiang ha stimato [34], in modo semplice ed elegante, che le morti per milione di dosi somministrate associate ai vaccini Pfizer + Moderna sono state circa 100 volte maggiori di quelle segnalate per la vaccinazione antinfluenzale 2019-20 (vedi l’Appendice qui sotto). In pratica, le morti imputabili a questi due vaccini anti-COVID sono pochissime: solo 23 per milione di dosi (in ottimo accordo con i 21,2 e 28,3 morti/milione segnalati, rispettivamente, per Pfizer e Astrazeneca nel database del Regno Unito (MHRA) [35]. Ciò significa che il rischio di morire per il vaccino uguaglia quello di morire per COVID-19 per i ragazzi di circa 25 anni (vedi Appendice).

Il rischio di morire per una dose di vaccino anti-COVID posto nella giusta prospettiva. Anche considerando un numero di dosi ricevute di vaccino anti-COVID pari a 2 o 3, si tratta comunque di un rischio di morte statisticamente molto basso rispetto ad altri cui siamo esposti comunemente nel corso della nostra vita. (fonte degli altri rischi: U.S. National Safety Council – Center for Health Statistics)

Per quanto riguarda invece gli effetti a medio termine dei vaccini anti-COVID in commercio, attualmente non si conosce la loro incidenza (ad es. quella di complicazioni tromboemboliche o di eventuali risposte infiammatorie che portino a condizioni autoimmuni) a molte settimane dalla dose ricevuta (quando tali eventi vengono più difficilmente inseriti nei database degli affetti avversi) e tanto meno conosciamo gli effetti di tali vaccini quando l’immunità tende a svanire, verosimilmente dopo molti mesi. Inoltre, prima o poi potrebbero emergere nuove varianti del virus che “bypasseranno” del tutto i vaccini attuali e/o saranno più virulente e pericolose per la popolazione, come ho illustrato con vari esempi storici qui [32].

Il virologo e grande esperto di vaccini Geert Vanden Bossche (che ha lavorato per OMS, FDA, CDC, GAVI, Bill e Melinda Gates Foundation, etc.) è assai preoccupato: fare una vaccinazione di massa a pandemia in corso, con vaccini “non sterilizzanti” (come quelli ora usati [32]) ha un’altra importante conseguenza: la soppressione temporanea del baluardo contro questo virus costituito dall’immunità naturale “innata”, cosa assai problematica (specie fra i più giovani), poiché prima o poi la pressione evolutiva esercitata dai vaccini può selezionare ceppi mutanti di SARS-CoV-2 resistenti ai vaccini – come sta già accadendo con la resistenza agli antibiotici – rendendo addirittura controproducente l’immunità artificiale indotta dagli attuali vaccini, che è solo “proteina spike-specifica” [36, 37].

Infine, normalmente il processo per approvare un nuovo vaccino richiede un decennio, così da poter escludere effetti a lungo termine. La durata troppo breve degli studi fatti per ottenere le autorizzazioni “in emergenza” dalle autorità regolatorie (FDA, EMA, etc.) – la FDA ad es. richiede solo 2 mesi di dati raccolti – non consente una stima realistica degli effetti tardivi. Ad esempio, per i vaccini a mRNA (mai usati prima!) non è stato studiato l’impatto sulla fertilità e l’eventuale trasmissione alla progenie di mutazioni dannose e, per quelli a vettore virale, l’eventuale cancerogenesi. Non a caso, a chi fa il vaccino anti-COVID in Italia viene fatto firmare un modulo di consenso informato che nell’allegato  recita “non è possibile al momento prevedere danni a lunga distanza”.

In conclusione, poiché i vaccini devono essere somministrati solo se i benefici superano i rischi, in considerazione: (1) di quanto fin qui illustrato, (2) del fatto che i vaccini “leaky” non producono immunità di gregge, e (3) tenendo conto del fatto che circa il 96% dei morti per COVID in Italia sono costituiti da over 60 [38] (più alcuni individui fragili), a mio avviso si dovrebbe vaccinare solo la popolazione a rischio – appunto, over 60 e persone “fragili” di ogni classe di età (ad es. immunodepressi, etc.), come del resto avviene da sempre per la vaccinazione contro i virus dell’influenza – senza far correre alla popolazione più giovane anche i rischi sul medio e lungo termine, oggi del tutto imprevedibili per dei vaccini sperimentali.

APPENDICE – Stima della mortalità legata ai vaccini anti-COVID negli USA

L’ing. A. Tsiang dell’Environmental Health Trust (EHS) statunitense, ispirato da un articolo apparso sulla testata The Epoch Times [39], ha stimato i tassi di mortalità legati ai due vaccini anti-COVID usati negli USA (Pfizer e Moderna) tramite un attento confronto, possibile grazie al database pubblico VAERS, con i tassi di mortalità riscontrati nella vaccinazione antinfluenzale 2019-20, che sono risultati essere di circa 100 volte più bassi. Infatti, se le morti segnalate come affetti avversi dei vaccini anti-COVID fossero per la maggior parte casuali, logicamente dovrebbero essere simili (in percentuale sulle dosi somministrate) a quelle segnalate per l’influenza, e non due ordini di grandezza più grandi. Ma ecco quanto ha trovato.

Poiché i morti negli USA segnalati al VAERS nella campagna antinfluenzale 2019-2020 sono stati circa 45 su 170 milioni di vaccinati, l’incidenza è stata dello 0,000026%, pari a circa 0,26 morti per milione di dosi. Viceversa, poiché i morti segnalati in relazione ai vaccini anti-COVID negli USA sono stati, dal 14 dicembre 2020 al 19 febbraio 2021 (circa 2 mesi), 966 su 41.977.401 dosi somministrate, l’incidenza è stata dello 0,0023%, pari a circa 23,0 casi per milione di dosi. Dunque, i morti in eccesso prodotti dai 2 vaccini anti-COVID Pfizer + Moderna sono stimabili in (23,0 – 0,26 =) 23 morti per milione di dosi somministrate. Siamo quindi ora in grado di stimare il rapporto rischi-benefici per le varie classi di età.

Si noti che il tasso di mortalità da infezione COVID negli USA è stato, secondo i CDC di Atlanta, dello 0,003% per la fascia di età 0-19 anni, e dello 0,02% per la fascia di età 20-49 anni. Quindi il rapporto rischi-benefici nel fare questi due vaccini sembra essere maggiore solo per le persone di età, verosimilmente, maggiori di circa 25 anni. Per le persone più giovani di (all’incirca) questa età, il rischio di morire per il vaccino o per il COVID-19 sembra essere dunque praticamente equivalente, e ciò dovrebbe essere un aspetto da valutare con attenzione in una seria politica di salute pubblica, anche in considerazione del fatto che poco o nulla si sa sui possibili effetti a medio o a lungo termine dei vaccini a mRNA (mai usati prima sull’uomo).

Vorrei sottolineare che questo risultato si può considerare molto “solido”, poiché:

  1. La platea dei vaccinati per l’antinfluenzale è composta per lo più da anziani, quindi in realtà se si facessero le correzioni per età il rapporto in questione (100 x) risulterebbe ancora più grande.
  2. Entrambe le vaccinazioni sono state fatte a una platea di persone vastissima (decine di milioni di persone), perciò l’errore statistico risulta essere del tutto ininfluente.
  3. Vi è un ottimo accordo con i dati ottenuti per il Regno Unito dal database MHRA [35] e con quelli ottenibili, sia pure indirettamente, per l’Italia (ciò sarà mostrato in un futuro articolo).
  4. Secondo l’ultimo rapporto dell’AIFA, il numero di segnalazioni (per 100.000 dosi) degli effetti avversi dei vaccini anti-COVID appare essere maggiore per le classi di età più giovani [40].

Riferimenti bibliografici

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[32]  Menichella M., “I vaccini anti-COVID: perché ci attende un future pieno di incognite”, Fondazione David Hume, 10 marzo 2021.

[33]  Moore J.P., “Approaches for Optimal Use of Different COVID-19 Vaccines Issues of Viral Variants and Vaccine Efficacy”, JAMA, 4 marzo 2021.

[34]  Tsiang A. (Environmental Health Trust, USA), “200X Higher Overall Deaths after COVID-19 vs. Flu vaccines”, Comunicazione tramite mailing list, 11 marzo 2021.

[35]  Ricolfi L., Analisi dei dati del database MHRA degli effetti avversi nel Regno Unito (per un articolo in preparazione), Comunicazione personale, 19 marzo 2021.

[36]  Vanden Bossche G., “Mass Vaccination in a Pandemic – Benefits versus Risks”, Intervista effettuata dal Dr. Philip McMillan, YouTube, 6 marzo 2021.

[37]  Vanden Bossche G., “Public Health Emergency of International Concern”, appello indirizzato alle principali Autorità sanitarie di tutto il mondo, Agenzia Stampa Italia, 2020.

[38]  Menichella M., “Perché la vaccinazione degli anziani va maneggiata con cura: un’analisi per scenari”, Fondazione David Hume, 4 febbraio 2021.

[39]  Farber C., “Adverse incident reports show 966 deaths following vaccination for COVID-19”, The Epoch Times, Febbraio 2021.

[40]  Agenzia Italiana del Farmaco, “Secondo Rapporto sulla sorveglianza dei vaccini COVID-19 (27/12/2020 – 26/2/2021)”, Sito web dell’AIFA, 2020.