Rubrica A4 – Riflessioni sulla guerra ucraina

Più penso alla vicenda ucraina, più mi rafforzo nell’idea che quell’irresponsabile di Vladimir Putin abbia fatto, inconsapevolmente, il gioco di una potenza da tempo in declino come gli S.U. Grazie all’invasione ucraina, l’Europa è ridiventata il vassallo di Washington e della Nato, il suo braccio armato nel vecchio continente. La Germania merkeliana, con la sua politica estera autonoma (v. il gasdotto fatto saltare in aria, probabilmente con la complicità di Kiev: il fatto che non se ne parli più è non poco significativo) non esiste più e gli stati europei sono come le poleis greche sotto il dominio romano. Non osano neppure proporre l’invito degli stati in guerra – e non solo di quelli in guerra formalmente – a un tavolo di negoziazione per risolvere una crisi scoppiata ‘sotto casa’ loro. E, anzi, talvolta – come Petain, che, in fatto di ebrei, precorreva i desideri di Hitler – diventano persino più realisti del re -v. Scholz e Macron, desiderosi di inviare non solo munizioni ma anche soldati in Ucraina. Clamorosamente sconfitti alle urne, “entrambi hanno pagato, tra l’altro, il prezzo del loro oltranzismo atlantico” come ha detto Massimo L. Salvadori in una recente intervista a l’ ‘Unità’. I governi europei sanno solo tremare come foglie al vento se Biden fa intravvedere, dopo l’Ucraina, l’attacco di Putin ai paesi della Nato, uno dopo l’altro. Per i nostri scienziati politici e columnists
di regime – dal ‘Corriere della Sera’ a ‘Repubblica’, passando per ‘Il Foglio’ – dovremmo ritenere plausibile una nuova invasione della Polonia, come se Mosca avesse davvero le risorse economiche e militari per mettersi contro tutta l’Europa. Il saggio di Manlio Graziano, Disordine mondiale (ed, Mondadori) è illuminante al riguardo.
Gli eventi di questi ultimi anni sembrano quasi preludere a una riedizione di Yalta ma, questa volta tra due potenze azzoppate e che oggi ridefiniscono le aree di influenza in maniera più vantaggiosa per la potenza occidentale (grazie al nuovo, maldestro, zar, Vladimir Putin, della razza degli apprentis sorcièrs).                                                                                                                                           E le stelle “stanno a guardare”, con la scusa di non avere armi a sufficienza per svolgere una politica estera autonoma. E, in effetti non ne hanno per attaccare ma ne hanno per difendersi … ma poi da chi? Ci vuole un’Europa unita e più forte, squillano le trombe politologiche italiane sennonché è proprio l’Ucraina la tomba dell’europeismo. E’ a Mosca e a Washington che si deciderà il destino del martoriato paese e lo si deciderà quando si verificherà un incontro di convenienze. Per ora il piano di pace di Putin – che pretende anche terre non ancora conquistate – e quello non meno pazzesco di Zelensky che, per sedersi al tavolo delle trattative, esige il ritiro totale della Russia dall’Ucraina (un paese impegnato in una disperata resistenza che detta le sue condizioni al vincitore, non si era mai visto nella storia), non fanno sperare nulla di buono. Non sono un elettore del generale Vannacci né mi è simpatico il personaggio (come ho scritto in un lungo articolo su HuffPost), ma non ho esitato a dargli ragione, quando a ‘Quarta Repubblica’, ha detto che nessuna pace è giusta e che, per ottenere la cessazione delle ostilità, i paesi in guerra a qualcosa debbono pur rinunciare. (Ne sa qualcosa l’Italia che dovette firmare – e non poteva fare diversamente – un trattato di pace talmente iniquo che un vecchio liberale come Benedetto Croce si rifiutò di approvarlo).




La frattura tra ragione e realtà 7 / Il fallimento degli esperti di guerra – Parte prima: Ucraina

Dalla pessima gestione del Covid i governanti occidentali e gli esperti che dovrebbero consigliarli sembrano non avere imparato nulla, tant’è vero che stanno ripetendo gli stessi errori anche nella gestione di altre emergenze cruciali, come le guerre in Ucraina e Palestina, dove, continuando così, rischiamo di far vincere i nostri nemici, con conseguenze disastrose. Alla base di tutto c’è sempre la drammatica frattura tra ragione e realtà che caratterizza il nostro strano tempo e da cui non sembrano essere immuni nemmeno gli esperti di geopolitica e gli stessi vertici militari. Qui parlerò dell’Ucraina, mentre in un prossimo articolo mi occuperò della Palestina.

Covid, una lezione non appresa

La quarta di copertina di Covid, la lezione del Pacifico, libro che ho scritto insieme a Silvia Milone e Loredana Parolisi raccogliendo gli articoli più significativi da noi pubblicati su questo tema nel sito della Fondazione Hume, si chiudeva spiegando che riflettere su quanto era accaduto era importante «non solo per capire gli errori commessi, ma soprattutto per non ripeterli quando dovremo affrontare problemi ben più gravi come quelli ecologici, che potrebbero portare alla fine della nostra civiltà».

Ciò continua ad essere vero e negli ultimi articoli ho iniziato a documentarlo, ma nel frattempo si è aggiunto un altro fattore di rischio allora difficilmente prevedibile: la guerra in Ucraina, a cui negli ultimi mesi si è aggiunta quella in Palestina.

Era invece (purtroppo) prevedibile che anche in questo caso gli esperti o presunti tali non ci avrebbero aiutato, come è puntualmente accaduto, se possibile in misura ancor più ampia che col Covid (con poche lodevoli ma isolate eccezioni, come per esempio Vittorio Emanuele Parsi). Ma che fosse prevedibile non lo rende meno grave, né, soprattutto, meno preoccupante, in particolare per quanto riguarda l’Ucraina: perché in Ucraina (e non in Palestina) ci stiamo giocando la pelle e per quel che si vede sembra che nemmeno ce ne rendiamo conto. È quindi fondamentale cercare di capire cosa sta succedendo nella testa di quelli che dovrebbero aiutarci a fare le scelte giuste e invece continuano a portarci sistematicamente fuori strada.

Premesso che alla base di tutto c’è sempre la frattura tra ragione e realtà a cui è dedicata questa serie di articoli, essa però a seconda delle situazioni si manifesta in modi diversi, che andremo ora a discutere. Tuttavia, per molti aspetti anche nelle due guerre in corso si stanno ripresentando dinamiche già viste con il Covid, la cui lezione evidentemente non è stata affatto appresa.

Gli errori sul Covid sono stati causati essenzialmente da cinque fattori:

1) anzitutto le regole perverse del sistema mediatico, che sceglie i suoi ospiti fissi principalmente in base alla loro disponibilità a spararle grosse e ad alimentare la rissa anziché il dialogo;

2) quindi il desiderio di visibilità, che ha spinto molti pseudo-esperti ad accettare di occuparsi di cose che non conoscevano bene e molti veri esperti a piegarsi alle regole del sistema suddetto;

3) la pessima lettura, quando non addirittura la completa non considerazione, dei dati statistici;

4) la conseguente tendenza a trattare come eventi naturali ineluttabili fenomeni che erano in realtà mere conseguenze delle nostre scelte;

5) infine, la non comprensione del fondamentale principio enunciato da Ricolfi per cui «se vuoi fare qualcosa, più tardi lo fai, più costerà caro a tutti» (La notte delle ninfee, p. 21), che ci ha portato a rincorrere gli eventi anziché anticiparli.

Oggi le stesse perverse dinamiche si stanno ripetendo anche nelle altre crisi che ci troviamo ad affrontare, a cominciare dalla guerra in Ucraina, ma in forme, se possibile, ancor più sconcertanti.

Le assurdità sulla guerra in Ucraina

Per esempio, così come era successo col Covid, anche sull’Ucraina ci sono stati diversi casi di presunti “esperti” che in realtà non erano affatto tali, ma come tali sono stati presentati e hanno detto cose che non stavano né in cielo né in terra. Neanche col Covid, però, ricordo di avere mai assistito a uno spettacolo così assurdo come quello andato in scena il 30 ottobre 2022 a Mezz’ora in più, quando Paolo Garimberti e Duilio Giammaria, presentati da Lucia Annunziata come grandi esperti del tema, hanno candidamente ammesso di non avere la minima idea di quale sia il raggio dell’esplosione di un’atomica tattica (cioè di potenza limitata, anche se la sua esatta definizione è in realtà più complicata: vedi Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta-4-il-grande-spauracchio-parte-prima-il-nucleare-bellico/).

Ora, di questo nessuno avrebbe potuto far loro una colpa, giacché, pur avendo entrambi una grande esperienza come cronisti di politica estera (e Gianmaria anche di guerra), non hanno nessuna preparazione scientifica. È invece una colpa (molto grave) che abbiano accettato di parlare di qualcosa che non conoscevano, senza nemmeno fare lo sforzo di dare un’occhiata a Wikipedia, che almeno un’idea di massima su questo punto te la dà. I due, invece, hanno buttato lì un’ipotesi inventata sul momento, ovviamente del tutto sballata (10 km di raggio, mentre non si arriva neanche a 2: vedi l’articolo appena citato), dopodiché si sono messi a discutere su di essa (cioè sul nulla) per almeno dieci minuti, senza il minimo imbarazzo e senza che la Annunziata avesse nulla da ridire, dichiarandosi anzi grata ed entusiasta della grande competenza (!) da loro dimostrata.

Un caso analogo è quello del recentemente defunto Andrea Purgatori, il quale, durante una puntata del suo programma Atlantide su LA7 (credo quella del 29 marzo 2022, ma non sono sicuro), per illustrare le conseguenze di un possibile incidente nella centrale nucleare di Zaporizhzhya ha trasmesso un documentario in cui si ripeteva per ben due volte che a Chernobyl si era verificata un’esplosione atomica, il che non solo è falso, ma è fisicamente impossibile, perché le centrali nucleari usano un tipo di uranio diverso da quello delle bombe (su ciò si veda Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta-5-il-grande-spauracchio-parte-seconda-il-nucleare-civile/).

Un’altra cosa veramente incredibile – e che la dice lunga su come (non) funziona l’informazione dell’era digitale – l’ho scoperta cercando su Wikipedia notizie sui carri armati. Come d’uso ormai da un po’ di tempo, all’inizio della pagina dei risultati appare automaticamente una “tendina” intitolata Le persone hanno chiesto anche, che si aggiorna, sempre automaticamente, in base a quello che uno sta cercando. In essa al quinto posto compare la domanda: «Chi ha i carri armati più potenti al mondo?», a cui viene data la seguente risposta: «Graduatoria nella quale la Russia guarda tutti dall’alto, Stati Uniti compresi. Non soltanto perché l’esercito del Cremlino è l’unico a disporre di due dei migliori dieci tank al mondo, ma anche perché può contare sul migliore, il mezzo che rappresenta l’eccellenza del settore: il T90-MS».

Sono andato a cercare la fonte e ho scoperto che è un articolo del Messaggero del 22 aprile scorso (https://www.ilmessaggero.it/mondo/carri_armati_russia_classifica_mezzi_piu_potenti_t_14-6651976.html#:~:text=Graduatoria%20nella%20quale%20la%20Russia%20guarda%20tutti%20dall’alto%2C%20Stati,settore%3A%20il%20T90%2DMS.), scritto dal giornalista sportivo (!) Gianluca Cordella, il quale a sua volta afferma di basarsi su «una classifica dei carri armati più potenti al mondo pubblicata da Hot Cars», di cui non conoscevo neanche l’esistenza. Sono andato a cercarla e ho scoperto che si tratta di una rivista online sulle automobili (https://www.hotcars.com/) con tendenza al sensazionalismo, visto che la maggior parte dei suoi articoli sono dedicati a “qual è il più … (qualsiasi cosa) … del mondo”. Insomma, una fonte del tutto inattendibile.

In effetti, pure il giornalista qualche dubbio lo avanza, notando che in Ucraina stanno combattendo principalmente vecchi T-72 di fabbricazione sovietica, mentre questi fantomatici super carri armati russi (dopo due anni) non si sono mai visti. Ma poi si adegua a ciò che afferma la classifica suddetta (fatta non si sa da chi né con quali criteri) secondo la quale gli Abrams americani, cioè il modello di punta prodotto dalla prima superpotenza del pianeta, sono appena al nono posto.

Ora, che un singolo giornalista scriva una stupidaggine è un problema suo, ma che Google la faccia propria e la proponga in evidenza come la risposta migliore trovata dai suoi algoritmi è un problema di tutti. Che diventa ancor più grave se si considera che i suddetti algoritmi sono più o meno gli stessi che stanno alla base dei tanto strombazzati programmi di Intelligenza Artificiale e che, funzionando esclusivamente su base statistica, non ci propongono affatto la risposta migliore, bensì la più frequente tra quelle che si trovano su Internet (giacché per la IA ciò che non è su Internet semplicemente non esiste) o, come in questo caso, quella che usa le parole più simili a quelle della loro ricerca, anche se la risposta in questione è stupida.

Ma ancor più preoccupante è che assurdità colossali sono state dette con allarmante frequenza anche da veri esperti di cose militari.

Ho già citato l’incredibile “show” di Andrea Margelletti a Porta a porta, in cui pretendeva che bastasse una sola atomica tattica per spazzare via l’intero esercito ucraino, dispiegato in una zona grande quanto l’intera pianura padana, quando invece ci vorrebbe almeno un quindicesimo dell’intero arsenale atomico russo (vedi ancora https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta-4-il-grande-spauracchio-parte-prima-il-nucleare-bellico/). Ma non si è certo trattato di un caso isolato. Sul rischio atomico, sia come conseguenza di un possibile uso di armi nucleari che di possibili danni alle centrali nucleari ucraine, è stata detta una quantità di sciocchezze da parte un po’ di tutti (su tutto ciò si veda ancora l’articolo appena citato).

Anche su altre questioni tecniche sono state prese cantonate notevoli. Solo per fare un esempio, per parecchio tempo si è continuato a ripetere che i missili ipersonici Iskander, che all’inizio della guerra hanno effettivamente causato danni gravissimi alle città ucraine, erano praticamente impossibili da abbattere. Invece, è bastato fornire agli ucraini dei sistemi antimissile efficaci e degli Iskander non si è più sentito parlare.

Tutto ciò però non è nulla di fronte ai due clamorosi errori di fondo che abbiamo commesso: la sopravvalutazione della reale forza della Russia e la sottovalutazione della reale entità dell’aiuto da dare all’Ucraina.

La sopravvalutazione del nemico

Fin dall’inizio della guerra c’è stata da parte di tutti, militari compresi, una clamorosa quanto irragionevole sopravvalutazione della reale forza dell’esercito russo, che, inspiegabilmente, dura tuttora, a dispetto di tutte le evidenze contrarie.

Per esempio, il generale Claudio Graziano, già capo di Stato Maggiore dell’esercito italiano nonché presidente del Comitato Militare della UE, intervistato da Lucia Annunziata, ha affermato: «Oggi non abbiamo più paura delle forze convenzionali russe. Se ne avessimo parlato a novembre [del 2021] ne avremmo avuto paura. […] Nessuno si aspettava la resistenza che hanno messo in campo gli ucraini» (Mezz’ora in più, 20/11/2022). E addirittura il generale Ben Hodges, ex comandante delle forze USA in Europa, ha confessato stupito: «Non credevo che la Russia avrebbe fatto così male»(Mezz’ora in più del 06/11/2022).

Ora, come è possibile che perfino quelli che avevano la responsabilità diretta della difesa militare dell’Europa (e che quindi avevano anche accesso alle migliori informazioni disponibili, comprese quelle supersegrete) si siano sbagliati così clamorosamente nel valutare la forza di quello che, nonostante le relazioni relativamente pacifiche che si erano stabilite negli ultimi anni, restava pur sempre, almeno potenzialmente, il nostro più pericoloso nemico?

Oltretutto, non era difficile capire che l’esercito russo era in realtà una tigre di carta e che con solo un po’ di aiuto da parte nostra gli ucraini avrebbero potuto fermarlo. Io, per esempio, senza avere accesso a nessuna informazione riservata, ma con una semplice analisi di pochi dati basilari facilmente reperibili su Internet, lo avevo detto già dopo un paio di settimane (si veda il mio articolo https://www.fondazionehume.it/reality-check/e-se-sulla-no-fly-zone-avesse-ragione-zelensky/). Era infatti evidente che, se l’esercito russo era dieci volte più grande di quello italiano, ma spendeva per il suo mantenimento appena il 50% in più, doveva necessariamente essere obsoleto, dato che la tecnologia avanzata costa.

E non era solo la tecnologia ad essere obsoleta, ma anche la strategia, che era ancora basata su quella messa a punto nell’URSS degli anni Settanta, guarda caso proprio quando Putin serviva come ufficiale del KGB. Quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina ho avuto un fortissimo senso di “dejà vu”, ma non riuscivo a ricordare dove l’avessi visto. E poi ho capito: non era qualcosa che avevo visto, ma qualcosa che avevo letto.

Infatti, il modo in cui l’esercito russo si muoveva sembrava tratto di peso dal libro La terza guerra mondiale, scritto nel 1978 dal generale inglese John Hackett, ex comandante delle Armate del Nord della NATO, insieme ad altri ufficiali e analisti americani ed europei. Benché scritto in forma di romanzo, è in realtà un saggio poderoso (435 pagine), basato su documenti segreti sovietici trafugati dal nostro controspionaggio e pensato per convincere i paesi europei a ridurre il preoccupante gap rispetto all’URSS nelle armi convenzionali (l’obiettivo venne almeno in parte raggiunto e, anche se non lo sapremo mai con certezza, ciò potrebbe essere stato decisivo per dissuadere i sovietici dall’attaccarci).

Nel libro Hackett spiegava come nel 1975 la dottrina militare russa, da sempre incentrata su attacchi in massa di carri armati, a seguito della comparsa di efficaci armi anticarro era stata integrata con «una combinazione di tiro di distruzione di artiglieria e di attacchi aerei al suolo […] e […] azioni ad alta velocità, […] in grado di eliminare, con un attacco preventivo, la minaccia dei missili guidati e dei pezzi controcarro per i carri dell’ondata successiva». Per questo si prevedeva di usare delle colonne miste, composte da carri armati, pezzi di artiglieria leggera e mezzi blindati per il trasporto di unità di fanteria, con un limitato supporto aereo.

Ebbene, l’invasione dell’Ucraina si è svolta esattamente così. Ma questa nuova dottrina non era mai stata testata sul campo e (per fortuna) alla prova dei fatti si è dimostrata inefficace: i russi non sono riusciti a distruggere i missili anticarro nemici in misura significativa e così gli ucraini hanno fatto il tiro al bersaglio sulle lente e pesanti colonne russe, facendole letteralmente a pezzi (non dimentichiamo che il territorio a nord di Kiev è stato interamente liberato dagli ucraini usando solo le armi che già avevano prima dell’inizio della guerra, moderne, certo, ma non modernissime: quelle più avanzate sono arrivate solo alcuni mesi dopo).

Di fronte a questa disfatta, ancor più grave in quanto totalmente inattesa, i russi hanno reagito nel solo modo che conoscono, secondo una tradizione ancestrale che risale addirittura al tempo dei primi Zar: con la forza bruta, triplicando la massa di truppe sul terreno. Per un po’ questo ha funzionato, ma, siccome seguivano sempre la stessa strategia antiquata, non appena abbiamo fornito agli ucraini un po’ di tecnologia davvero avanzata i russi hanno subito un’altra disfatta, ancor più grave, perdendo in pochi giorni, nell’estate del 2022, gran parte dei territori che avevano conquistato in mesi di sanguinosi combattimenti e a prezzo di perdite terribili.

Eppure, incredibilmente, questa irragionevole sopravvalutazione della forza militare della Russia è continuata, così come è continuata questa sorprendente cecità mentale, per cui molti sembrano incapaci di riconoscere per quello che è ciò che sta accadendo proprio sotto il loro naso.

Così, per oltre due mesi, quasi tutti gli esperti di geopolitica e di strategia militare avevano ironizzato sulla controffensiva ucraina “che non partiva mai”, senza rendersi conto che quello a cui stavano assistendo era esattamente lo stesso che avevano fatto gli americani all’esercito di Saddam Hussein durante la prima Guerra del Golfo: prima una lunga opera di distruzione delle infrastrutture logistiche e poi una rapidissima avanzata contro un esercito ormai non più in grado di combattere (anche i tempi, tra l’altro, sono stati abbastanza simili: 5 settimane di bombardamenti e 4 giorni di offensiva terrestre). Ma neanche questo è bastato a smuoverli dalle loro posizioni preconcette.

Per fare solo un esempio particolarmente clamoroso, a un Porta a porta del giugno 2023 (non ricordo esattamente quale) ancora Margelletti, Lucio Caracciolo e Dario Fabbri hanno reiteratamente sostenuto che il prolungamento della guerra favorisce la Russia perché avendo una popolazione più numerosa poteva mettere in campo più soldati e più mezzi di quanti noi possiamo fornire all’Ucraina. E a nulla valeva che un sempre più stranito Bruno Vespa cercasse vanamente di far loro notare come fino ad allora la realtà aveva mostrato esattamente il contrario.

Un altro esempio, molto più recente, è quello di Avvenire online del 22 febbraio scorso. In un articolo introdotto in sommario dalla roboante affermazione che «tra gli analisti c’è una certezza: nessuno potrà mai vincere la guerra in Ucraina», Giorgio Ferrari, che pure ha una lunghissima esperienza come cronista di guerra, sosteneva che «non è solo questione di munizioni, di armamenti, ma di un elementare calcolo che ogni professionista con le stellette sa fare: per ogni colpo sparato dai cannoni ucraini, la Russia ne spara dieci».

Ora, di queste due affermazioni la seconda è vera ma fuorviante, mentre la prima è semplicemente priva di senso. Cosa vuol dire, infatti, quel “mai”? C’è forse qualche legge di natura che lo impedisce? Non c’è nulla di ineluttabile in ciò che sta accadendo in Ucraina. La situazione attuale è stata determinata dalle nostre scelte: cambiandole, cambierà anche la situazione. Il problema è se si vuole cambiarle.

Quanto alla seconda affermazione, per fare il calcolo in realtà basta un bambino delle elementari. Il “professionista con le stellette” servirebbe invece per spiegare che, contrariamente a ciò che pensa Ferrari, il calcolo in questione è irrilevante, perché sparare dieci o anche cento colpi contro uno non serve a niente se il nemico ha cannoni con una gittata di molto superiore ai tuoi e quindi può distruggerti prima ancora che tu possa inquadrarlo nel mirino. Questo è appunto il caso degli Abrams rispetto ai carri armati russi, checché ne pensi Hot Cars. Il problema è che finora di Abrams (e, più in generale, di carri armati moderni) agli ucraini ne abbiamo fornito solo una manciata: se gliene avessimo dati qualche centinaio, la guerra starebbe andando ben diversamente.

Su questa base di pessima comprensione si innesta poi l’articolo di Giuseppe Notarstefano, presidente nazionale della Azione Cattolica, e Sandro Calvani, presidente dell’Istituto Toniolo, due pezzi da novanta del laicato cattolico italiano (https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/dopo-due-anni-di-guerra-in-europa-venuta-lora-di-negoziati-di-pace). Dopo avere anch’essi diligentemente ripetuto il mantra circa il presunto «flusso senza precedenti di aiuti militari occidentali» e avere ribadito che «allo stato attuale delle cose, risulta estremamente improbabile un’affermazione militare di uno dei due contendenti», i due si chiedono che fare (dando per scontato che provare a cambiare “lo stato attuale delle cose” non rientri fra le opzioni). E quale geniale soluzione tirano fuori dal cappello? Ma è ovvio: «L’apertura di negoziati ufficiali presso la sede ONU di Ginevra»! Eh, già, chissà come abbiamo fatto a non pensarci prima…

Dopodiché i due si dilungano a illustrare tutte le meravigliose opportunità che questa «buona pratica» offrirebbe (si noti la terminologia presa di peso dall’insopportabile burocratese politically correct, una “cattiva pratica” che il Covid ha contribuito moltissimo a diffondere). Purtroppo, però, non dicono una sola parola sui mezzi che andrebbero usati a tale scopo, senza la definizione dei quali i fini proposti restano parole vuote (dire che si «potrebbero offrire forti incentivi economici e politici per convincere Russia e Ucraina» non chiarisce nulla, perché sono parole così generiche da risultare anch’esse vuote).

Infine, dopo aver riconosciuto che «forse tali negoziati potrebbero durare anni», concludono che «ciononostante sono sempre preferibili allo status quo, in cui parlano solo le armi», senza però spiegare (anzi, senza neanche chiedersi) che cosa si dovrebbe fare nel frattempo, dato che, quand’anche per miracolo i negoziati iniziassero davvero, fino a quando non si giunga a un accordo continuerebbero comunque a parlare le armi. Se questo è il meglio che sa esprimere il mondo cattolico italiano (e, temo, non solo italiano), siamo davvero messi male…

Ora, anche da questa breve ma abbastanza rappresentativa rassegna mi pare evidente che quello che si continua a non capire (o a far finta di non capire) è che nella guerra moderna la superiorità numerica non conta nulla: quella che conta è la superiorità tecnologica, che per fortuna è ancora a nostro favore. Per capire fino a che punto, possiamo guardare alle ultime guerre “tradizionali” (cioè contro un esercito e non contro la guerriglia) combattute dalla NATO, in particolare la Guerra del Golfo, perché l’esercito iracheno era più o meno delle stesse dimensioni e usava più o meno gli stessi armamenti, in gran parte ancora di fabbricazione sovietica, del contingente russo in Ucraina.

La coalizione guidata dagli americani aveva un numero di soldati (640.000) di poco superiore al mezzo milione schierato da Saddam Hussein e solo 250.000 vennero effettivamente impiegati nella campagna di terra. Ciononostante, l’esercito iracheno venne completamente distrutto nel giro di appena cento ore. La coalizione perse in combattimento meno di 200 uomini, mentre le perdite irachene sono tutt’oggi molto controverse, ma anche secondo le stime più prudenti furono almeno 20.000 e secondo altre arrivarono addirittura a 200.000, con un rapporto che anche nel caso più favorevole è di oltre cento contro uno e in quello più sfavorevole addirittura di mille a uno.

Quanto ai carri armati, in quella che fu la più grande battaglia di mezzi corazzati della storia, nota come 73Easting, gli USA persero appena 36 veicoli, di cui solo 4 Abrams, distruggendo 1350 carri armati iracheni dei circa 2000 mandati da Saddam a combattere nel deserto (perlopiù vecchi T-72 di fabbricazione sovietica, proprio come quelli che agiscono in Ucraina), più migliaia di altri mezzi militari di vario tipo, per un totale di 4193: di nuovo, cento a uno (cfr. Stephen Biddle, Victory misunderstood, https://doi.org/10.2307/2539073).

Comunque la si voglia mettere, è chiaro che non fu una guerra, ma una rapida ed efficiente campagna di annientamento di un nemico del tutto impotente. E più o meno lo stesso rapporto di (almeno) cento a uno lo troviamo anche nel 1999 nella guerra contro la Serbia (1031 morti contro 2) e nel 2003 nell’invasione dell’Iraq (da 30 a 45 mila morti contro 238).

Si obietterà che da allora gli altri paesi hanno fatto dei progressi. Ed è vero. Ma questo non vuol dire che abbiano ridotto le distanze in maniera significativa, perché noi ne abbiamo fatti altrettanti, se non di più. Solo la Cina è riuscita ad avvicinarsi, anche se resta ancora lontana (per fortuna, data la natura criminale del suo regime, che troppo spesso dimentichiamo). Ma non certo la Russia, che è sostanzialmente un paese sottosviluppato: basti dire che il bilancio della NATO del 2023 è stato di 1100 miliardi di dollari (www.nato.int/nato_static_fl2014/assets/pdf/2024/3/pdf/sgar23-en.pdf), che equivale a circa la metà dell’intero PIL russo dello stesso anno.

Di conseguenza, se la guerra fosse davvero troppo costosa per noi, come sostengono i suddetti esperti o presunti tali, lo sarebbe a maggior ragione per la Russia. È vero che, essendo un dittatore, Putin, a differenza di noi, può permettersi di finanziarla anche a costo di affamare il suo popolo, ma le sue risorse sono incomparabilmente minori: neanche usando tutto il denaro dello Stato per la guerra (cosa che, per ovvie ragioni, neppure lui può fare) sarebbe in grado di tenere il nostro passo. Inoltre, non è solo questione di soldi: serve anche tempo. Per ricuperare un ritardo tecnologico come quello accumulato dalla Russia ci vogliono decenni, anche investendo una fortuna.

A questo punto mi immagino che molti si staranno chiedendo come è possibile, se quello che sto dicendo è vero, che la guerra non sia ancora finita.

È una domanda giusta, perché in effetti è esattamente così: la guerra poteva – e quindi doveva – finire già un anno fa, con la totale distruzione dell’esercito russo, la liberazione di tutta l’Ucraina e la caduta (e conseguente morte) di Putin. E allora perché non è successo?

Qui viene in ballo il secondo, gravissimo errore che abbiamo commesso e che, purtroppo, continuiamo a commettere: la sottovalutazione dell’aiuto da dare all’Ucraina.

La sottovalutazione dell’aiuto

La risposta alla domanda di cui sopra è infatti tanto semplice quanto sconcertante: la guerra non è ancora finita perché quella che abbiamo speso finora per l’Ucraina non solo non è affatto una cifra enorme, ma è una cifra semplicemente ridicola.

In genere si ritiene che nei primi due anni di guerra abbiamo fornito aiuti militari per circa 70 miliardi di dollari. Può sembrare tanto, ma si tratta di appena la metà di quanto è costata la Guerra del Golfo (61 miliardi di dollari di allora, equivalenti a 137 miliardi di oggi), che durò solo sei settimane (dal 17 gennaio al 28 febbraio 1991), mentre due anni equivalgono a centoquattro settimane.

Ciò significa che in proporzione abbiamo fornito agli ucraini un aiuto 35 volte inferiore, anche se in realtà sarebbe bastato molto meno, purché dato subito, perché in tal caso la guerra sarebbe stata vinta rapidamente e sarebbe quindi durata molto meno. Pur con questa precisazione, tuttavia, è evidente che gli aiuti che abbiamo fin qui dato all’Ucraina sono di gran lunga insufficienti e a volte addirittura surreali: per esempio, è di questi giorni la notizia che il Belgio si è impegnato a fornirle 30 cacciabombardieri F-16 per… il 2028!

Inoltre, la gran parte di questi soldi (intorno ai 50 miliardi) sono stati messi dagli USA. Considerando che gli altri paesi membri sono 28 (escludendo i neoarrivati Svezia e Finlandia e la Turchia, che nella NATO ormai ci sta solo nominalmente), ciò significa che in due anni ciascun paese membro ha speso in media poco più di 700 milioni, ovvero circa 360 milioni all’anno. E infatti il 28 marzo scorso, durante il question time alla Camera, il Ministro della Difesa Guido Crosetto ha dichiarato che nel 2023 l’Italia ha dato all’Ucraina 417 milioni di euro di aiuti militari (non sono riuscito a trovare il dato del 2022, ma è ragionevole pensare che sia simile). In altre parole, finora per fermare Putin abbiamo speso appena un decimo di quello che ci è costato il reddito di cittadinanza. E gli altri paesi europei hanno fatto più  o meno lo stesso.

Confesso che quando mi sono finalmente deciso, dopo mesi di crescente disagio, ad andare a vedere le cifre ho sperimentato di nuovo lo stesso senso di rabbiosa incredulità che avevo provato quando ero andato a vedere per la prima volta i dati della OMS sul Covid, rendendomi conto che raccontavano una storia diametralmente opposta a quella che ci andava propinando la stessa OMS insieme a (quasi) tutti i governi del pianeta, senza che nessuno sentisse il bisogno di andare a controllare. Ma stavolta è stato anche peggio, perché allora almeno i dati erano molti e qualche calcolo, sia pur elementare, bisognava farlo, mentre in questo caso basta cercare pochi numeri (che si trovano in cinque minuti) e metterli a confronto così come sono, senza nessuna elaborazione, per capire come stanno le cose. Eppure, una volta di più, sembra che nessuno l’abbia fatto né abbia intenzione di farlo.

E così, proprio come col Covid, non guardare i numeri impedisce di capire la reale dimensione delle cose di cui si parla. È chiaro infatti che con cifre del genere i rifornimenti di armi davvero ad alta tecnologia (contro cui i russi sono impotenti, quale che sia la loro superiorità numerica) non possono essere stati molti. Ed è proprio così. Oltre ai sistemi antimissile, gli unici che gli abbiamo finora fornito sono stati i micidiali Himars, missili teleguidati a lungo raggio che hanno permesso agli ucraini di colpire i depositi di armi e munizioni e le linee di rifornimento nelle retrovie russe, consentendo loro di lanciare la spettacolare controffensiva dell’estate 2022, che ha liberato gran parte dei territori conquistati a partire dal 24 febbraio.

Da allora, i russi sono stati costantemente costretti a difendersi e hanno continuato a perdere terreno, anche se molto più lentamente. Come è logico, dato che nel frattempo gli ucraini non hanno più ricevuto nessuna fornitura militare in grado di produrre un nuovo salto di qualità e a causa di ciò i russi hanno avuto il tempo di fortificare a dovere le zone ancora sotto il loro controllo. Solo nelle ultime settimane hanno ricominciato ad avanzare, benché di poco, guarda caso proprio in coincidenza con il blocco degli aiuti USA da parte dei repubblicani.

Ma anche questo dato, come tutto il resto, viene sempre presentato in modo gravemente distorto, perché si parla sempre della percentuale di territorio ucraino oggi controllato dai russi, ma non si spiega mai che gran parte di esso (tutta la Crimea e la maggior parte del Donbass) era già in mano loro prima dell’inizio della guerra, essendo stato annesso nel 2014. Al contrario, di quello che avevano conquistato nella fase iniziale dell’invasione del 2022 gli è rimasto ben poco. Alimentare la confusione su questo punto fa apparire l’azione degli ucraini molto meno efficace di quanto sia, il che induce nella nostra opinione pubblica dubbi ingiustificati sull’utilità degli aiuti militari.

Tutto ciò è stato spiegato molto chiaramente da Garri Kasparov, l’ex campione mondiale di scacchi che dal 2005 è diventato uno dei pochi oppositori democratici di Putin, contro il quale si candidò alle presidenziali del 2008, vedendosi però costretto a rinunciare per le intimidazioni del regime. Recentemente Putin lo ha addirittura inserito nell’elenco dei terroristi (!) ricercati dalla Russia per le sue dichiarazioni che lo incolpavano per la morte di Navalny. In un articolo del 6 novembre  2023 (https://www.lastampa.it/esteri/2023/11/06/news/dallucraina_al_medio_oriente_i_passi_falsi_di_biden_in_politica_estera-13838505/) Kasparov scriveva: «Il temporeggiare dell’Amministrazione Biden ha avuto pesanti conseguenze. Se gli Stati Uniti avessero procurato all’Ucraina il sistema missilistico Atacms, gli F-16 e i carri armati fin dal primo giorno, avrebbero sconfitto l’esercito russo sul campo e vinto la guerra prima che i soldati russi si barricassero. Adesso, dopo due anni di combattimenti e dopo mezzo milione di morti, la Russia si è arroccata in profondità e ogni avanzata ucraina avverrà a carissimo prezzo».

Cionondimeno, è vero, purtroppo, che il prolungarsi della guerra rischia di favorire la Russia, ma per un motivo molto diverso da quello addotto dai presunti (e presuntuosi) “esperti”. Il vero problema è che col passare del tempo il nostro già timido appoggio all’Ucraina sta diventando sempre più timido.

Ora, questo si deve anzitutto a un’opinione pubblica composta in gran parte da persone viziate e immature (la “società signorile di massa” di Ricolfi), abituate ad avere tutto e subito, senza dover mai fare nessun vero sacrificio e ideologicamente avverse all’idea stessa che possa esistere una guerra giusta. Ma ancor di più si deve a discorsi irresponsabili di questo tipo, che inculcano negli ascoltatori l’idea che abbiamo già fatto uno sforzo economico gigantesco che non possiamo più reggere a lungo, onde per cui, se neppure questo è bastato a vincere la guerra, allora vuol dire che ciò non è possibile e che bisogna rassegnarsi a trattare con Putin (benché – piccolo ma non trascurabile dettaglio – lui non abbia nessuna intenzione di trattare con noi).

Parafrasando Agatha Christie, potremmo dire che una previsione sbagliata è solo una previsione sbagliata, due previsioni sbagliate sono solo due previsioni sbagliate, ma tre o più, soprattutto se vengono da fonti ritenute autorevoli, fanno una tendenza. In altre parole, abbiamo qui a che fare con la classica profezia che si autoavvera – o quantomeno rischia di farlo, se andiamo avanti così: l’opinione pubblica diventa sempre più scettica, i governi riducono il loro impegno, le cose sul campo peggiorano, ciò viene addotto come prova che la guerra non si può vincere, e così via, in un cortocircuito logico micidiale che stravolge il corretto rapporto tra teoria e realtà.

E qui c’è un punto su cui dissento in parte da Ricolfi. Condivido pienamente la sua preoccupazione per l’intolleranza che sta crescendo un po’ da tutte le parti, così come sono d’accordo con lui che se si invita qualcuno a parlare in televisione poi non ha senso pretendere che non dica ciò che pensa. Ma il problema è appunto questo: è accettabile che si inviti a parlare in televisione anche chi sostiene idee che se fossimo formalmente in guerra con la Russia verrebbero considerate disfattismo e comporterebbero conseguenze molto pesanti (una volta c’era addirittura la fucilazione)?

È vero che formalmente non siamo in guerra con la Russia e che quindi formalmente ognuno ha il diritto di dire ciò che vuole al riguardo. Però la libertà di pensiero non include il diritto di manifestarlo in televisione, che è invece un privilegio, riservato a pochissime persone e spesso neanche meritatamente. Pertanto, a mio giudizio, diversamente dal Covid, che era un problema scientifico e che perciò richiedeva la discussione critica più ampia possibile, non sarebbe così scandalosa un po’ di censura preventiva nei confronti di chi rischia oggettivamente di favorire un nostro mortale nemico, tanto più, poi, se dice cose manifestamente false. Il problema, semmai, è che, se facessimo davvero così, in televisione rischierebbe di non andarci più nessuno, a cominciare dai conduttori…

Comunque, qualsiasi cosa si pensi di ciò, il punto centrale della questione è che, se perfino aiuti così inadeguati come quelli fin qui forniti agli ucraini sono stati sufficienti a ribaltare completamente il corso della guerra, sarebbe bastato (e basterebbe tuttora) un altro sforzo, relativamente piccolo, per chiuderla del tutto.

Ma allora perché non lo si è ancora fatto?

Perché tutto questo: la politica

Per quanto riguarda i politici, purtroppo, non c’è da stupirsi. Da tempo, infatti, in Occidente c’è un drammatico vuoto: di idee, di leadership, di autorevolezza, di tutto. Per capire quanto siamo messi male basta guardare i due candidati alle prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti: un ultraottantenne mezzo rincoglionito e un quasi ottantenne mezzo matto. È già sorprendente che il suddetto ultraottantenne e gli imbelli leader della (dis)Unione Europea abbiano deciso di aiutare l’Ucraina, sarebbe stato stupefacente se l’avessero fatto anche in modo intelligente.

Non dimentichiamo che quando ci fu l’invasione (a cui fino al giorno prima nessuno credeva – o meglio, nessuno volevacredere, nonostante i continui e dettagliatissimi avvertimenti della intelligence americana), al di là delle solite parole di condanna e della rituale minaccia di sanzioni economiche, che non hanno mai fermato nessun dittatore, non sembrava affatto esserci una reale volontà di sostenere l’Ucraina, anche perché tutti credevano che non ci sarebbe neanche stato il tempo, essendo convinti che la Russia avrebbe vinto nel giro di un paio di settimane.

Biden, in particolare, dopo aver già regalato l’Afghanistan ai Talebani, con le catastrofiche conseguenze che abbiamo sotto gli occhi, era pronto a fare lo stesso con l’Ucraina, offrendo al Presidente Zelensky e al suo governo un esilio dorato negli USA, senza rendersi conto che questo sarebbe stato interpretato da tutti i nostri nemici come un ulteriore invito ad attaccarci, visto che ormai basta fare la faccia cattiva per farci battere in ritirata (non è certo un caso che tutti – ma proprio tutti – i regimi anti-occidentali siano diventati molto più aggressivi dopo la nostra vergognosa fuga dall’Afghanistan).

Le cose cambiarono solo quando Zelensky rifiutò l’offerta con le celebri parole (spero destinate a passare alla storia come l’inizio della fine della minaccia russa in Europa): «Non mi serve un taxi, mi servono armi».

Oltre ad ottenere il sostegno (quasi) convinto degli USA e della UE, per qualche tempo il Presidente ucraino, con il suo mix di coraggio, fermezza ed equilibrio (davvero notevole per uno che rischia la pelle tutti i giorni), riuscì perfino nel miracolo di far sì che quest’ultima si ricompattasse intorno ai suoi valori fondativi, anziché pensare solo ai soldi e accapigliarsi su ridicole questioni ideologiche, tipo l’auto elettrica (ne parleremo presto) o la teoria di gender. Di fatto, oggi Zelensky è l’unico vero leader che abbia l’Occidente e, soprattutto, l’unico che creda ancora «nell’Europa dei popoli e delle culture, dall’Atlantico agli Urali» (per usare due celebri espressioni di Giovanni Paolo II) e non solo nell’Europa dell’euro e della BCE, oltretutto gestita in modo orribile da quando al posto di Draghi è arrivata quella inetta di Christine Lagarde (anche di questo parleremo a breve).

Ma la luna di miele è durata troppo poco. Di fatto, dopo il clamoroso successo della controffensiva del 2022 è diventato presto evidente che i nostri leader credevano (o volevano credere) che ormai gli ucraini potessero farcela da soli. Certo, continuando a rifornirli delle munizioni per le armi che già avevano (impegno, peraltro, anch’esso clamorosamente disatteso, visto che gli abbiamo dato appena il 30% di quanto promesso), senza però bisogno di ulteriori salti di qualità, come la fornitura di carri armati Abrams e cacciabombardieri F-16, più volte richiesti da Zelensky ai suoi riottosi alleati, che non si sono mai mostrati troppo entusiasti dell’idea.

L’Oscar della discussione più delirante sul tema spetta senz’altro alla distinzione tra armi offensive e armi difensive, che semplicemente non esistono. Ciò che rende una guerra difensiva è il fine a cui tende (la liberazione del proprio paese e non la conquista di quello nemico), non i mezzi con cui la si combatte, che sono sempre gli stessi e hanno sempre lo stesso obiettivo: l’uccisione dei nemici e la distruzione dei loro armamenti. Ma provate a dirlo in pubblico e si scatenerà il finimondo (in effetti, molti europei non ritengono nemmeno che abbiamo dei nemici). Che non si riesca neanche più a riconoscere l’elementare verità che le armi servono a uccidere e che a volte ciò è purtroppo necessario la dice lunga sul livello di alienazione dalla realtà a cui siamo arrivati.

Tuttavia, va anche detto che questa in gran parte è una scusa, con cui i nostri governi cercano di nascondere i veri motivi di tale resistenza a fornire armamenti avanzati in grandi quantità, che sembrano essere essenzialmente due.

Anzitutto, lo si giudica un costo eccessivo, senza rendersi conto di quanto maggiormente ci costerebbe, non solo in termini di soldi, ma anche di devastazioni e di vite umane, una vittoria russa in Ucraina. In secondo luogo, molti temono che una vittoria troppo netta degli ucraini possa indurre Putin a usare le armi nucleari, senza rendersi conto di quanto improbabile sia in realtà questo rischio (vedi ancora il mio già citato https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta-4-il-grande-spauracchio-parte-prima-il-nucleare-bellico/) e di quanto più plausibile e più grave sia invece il rischio che la vittoria ucraina non sia abbastanza netta da provocare la caduta di Putin. O, peggio ancora, che non ci sia una vittoria ucraina.

Tuttavia, queste motivazioni sono forse più comprensibili di quella ufficiale, ma non meno preoccupanti, perché questo errore rischiamo di pagarlo carissimo. E benché stavolta la colpa sia innanzitutto dei politici, non per questo gli esperti ne escono innocenti: quasi tutti, infatti, hanno giustificato questa scellerata decisione ricordandoci che in ogni caso per addestrare adeguatamente i piloti di questi mezzi ci vorrebbe un anno. Peccato solo che la guerra stia andando avanti ormai da due anni, per cui se glieli avessimo forniti subito sarebbero entrati in azione già un anno fa.

Ma la cosa più assurda è che aver commesso questo errore fatale all’inizio del conflitto viene spesso usato come giustificazione per continuare a ripeterlo. Se, per esempio, questi armamenti glieli avessimo forniti l’anno scorso, al posto delle poche decine di vecchi carri armati che gli abbiamo elemosinato di malavoglia, certo si sarebbe dovuta rimandare la controffensiva di primavera (che peraltro non ha dato risultati troppo brillanti, proprio per la carenza di mezzi adeguati), ma almeno adesso gli ucraini sarebbero adeguatamente equipaggiati e non dovremmo temere che i russi possano tornare a prendere il sopravvento. Ora, come si possa pensare che l’Ucraina (o qualunque altro paese) possa vincere una guerra senza aerei e senza carri armati, è un mistero.

O forse no. Perché in effetti molto spesso si è avuta l’impressione che anche queste siano scuse e che in realtà i nostri cari leader non vogliano affatto che l’Ucraina vinca e che, invece di levarsi dai piedi Putin una volta per tutte, preferirebbero indurlo ad accettare (benché – sempre lo stesso fastidioso dettaglio – nessuno sappia come) una qualche sorta di spartizione dell’Ucraina stile guerra fredda, in cui lui si prenderebbe la Crimea e parte del Donbass, come anche la maggior parte degli esperti da sempre suggerisce. Perché mai, però, una soluzione del genere dovrebbe convenirci più dell’altra, che porterebbe alla sua eliminazione, è a sua volta un mistero.

Una spiegazione, che qualcuno ha effettivamente proposto, potrebbe essere che i nostri governi non trovino molto tranquillizzante l’idea di dover convivere in futuro con una Ucraina col morale alle stelle per la vittoria sulla Russia e dotata, grazie al nostro aiuto, di un esercito tecnologicamente all’altezza di quelli delle principali potenze europee, ma di essi molto più numeroso e agguerrito.

Non mi sento di escludere questa ipotesi, ma, se è vera, allora significa che i nostri governanti sono ancora più stupidi di quel che sembrano. Dopo una guerra del genere, infatti, l’ultima cosa che potrebbe venire in mente agli ucraini sarebbe minacciare o anche solo infastidire i loro alleati, di cui continuerebbero ad avere bisogno a lungo, sia per ricostruire il paese, sia per mantenere in efficienza gli armamenti che gli avremo fornito, che ancora per molto tempo non saranno in grado di produrre e riparare da soli. I loro sforzi militari sarebbero invece concentrati nel tenere a bada la Russia, onde evitare che possa cercare una rivincita, il che converrebbe a tutti.

Converrebbe agli USA, che avrebbero finalmente all’interno della NATO un alleato politicamente fedele, militarmente forte e geograficamente collocato nella posizione più strategica che si possa immaginare, sicché per molti decenni potrebbe fare, molto meglio degli imbelli paesi europei, da “cane da guardia” nei confronti della Russia, ma anche di un eventuale tentativo turco o cinese di espandersi nelle repubbliche ex sovietiche attualmente controllate da Putin.

Ma converrebbe ancor di più a noi, che di spendere i nostri soldi o (non sia mai!) le nostre vite per difenderci proprio non ne abbiamo nessuna voglia: meglio quindi lasciare che se ne occupino i più battaglieri ucraini. Eppure, non pare che sia questo il modo in cui ragionano i nostri leader politici, sia di maggioranza che di opposizione.

Un’altra ipotesi, avanzata ancora da Kasparov, è che gli Stati Uniti «temevano il caos potenziale di una sconfitta della Russia più di quanto temessero la distruzione dell’Ucraina». Ma, se è così, allora gli americani sono stati ancora più stupidi di noi, giacché in questo modo «stanno ottenendo proprio quello che paventavano maggiormente: dittatori ringalluzziti e caos dilagante » (si veda ancora l’articolo citato in precedenza, così illuminante che consiglio a tutti di leggerlo per intero: https://www.lastampa.it/esteri/2023/11/06/news/dallucraina_al_medio_oriente_i_passi_falsi_di_biden_in_politica_estera-13838505/).

Ma forse la spiegazione più vera del comportamento ondivago e incerto dei nostri leader va cercata, ancora una volta, nella tragicomica vicenda del Covid. Infatti, la “legge di Ricolfi” («se vuoi fare qualcosa, più tardi lo fai, più costerà caro a tutti») non vale solo per le pandemie, ma per tutte le situazioni di crisi, compresa questa. Se avessimo fatto subito quello che andava fatto, certamente ci sarebbe costato più caro sul momento, ma la guerra sarebbe stata vinta rapidamente e quindi il saldo finale sarebbe stato ampiamente positivo, da tutti i punti di vista. Ma purtroppo, come già ai tempi del Covid, sembra proprio che questo i politici non riescano a capirlo. E così, ancora una volta, invece di anticipare gli eventi, li rincorrono.

Speriamo solo che la piega preoccupante che stanno prendendo gli eventi serva a dar loro la sveglia e che gli aiuti necessari per vincere la guerra vengano forniti al più presto, ovviamente insieme ad altri aiuti più urgenti che servono per consolidare il fronte in attesa che i mezzi più moderni siano pronti a entrare in azione. Lo sblocco degli aiuti americani è già qualcosa, ma è ancora ben lungi dall’essere sufficiente. Timor Dei initium sapientiae, dicevano gli antichi: a volte la paura può anche essere buona consigliera…

Perché tutto questo: gli esperti

Più difficile è capire perché non solo gli pseudo-esperti, ma anche gli autentici esperti di cose militari continuino a ripetere come un disco rotto le assurdità che abbiamo visto e molte altre ancora. È mai possibile che davvero non si rendano conto che sono assurdità? Oppure ci sono altre spiegazioni?

Certamente anche qui, come già col Covid, pesa molto l’indisponibilità a riconoscere i propri errori. Praticamente tutti, all’inizio, avevano previsto che la Russia avrebbe vinto facilmente e ora sembra quasi che molti sperino che ci riesca, solo per avere l’amara soddisfazione di dimostrare che avevano ragione (mentre ad altri, più modestamente, sembrerebbe bastare che la Russia, se proprio non può vincere, almeno non perda). Capire fin dove arriva la malafede e in che misura invece si tratta di una vera e propria incapacità di abbandonare convinzioni troppo radicate è probabilmente impossibile e sicuramente inutile: quale che sia il motivo, infatti, resta che si sta facendo prevalere la teoria sulla realtà e che questo rappresenta la negazione più radicale che si possa immaginare del metodo scientifico e, più in generale, di qualsiasi forma di conoscenza degna di tal nome.

Ma c’è anche un altro fattore da tenere in conto, che col Covid non era molto rilevante, mentre qui, trattandosi di guerra, lo è: il peso delle motivazioni ideologiche, che condizionano anche gli esperti. E ciò accade assai più spesso di quanto sembra. Non dimentichiamo, infatti, che il più efficace metodo di propaganda consiste nel travestire le proprie opinioni soggettive da previsioni oggettive.

Così, se uno ritiene che non si debba aiutare l’Ucraina in nome del pacifismo, per difendere gli interessi dei nostri imprenditori che esportano in Russia o, peggio ancora, perché sotto sotto parteggia per Putin, anziché manifestare apertamente le proprie idee, che difficilmente sarebbero accettate, potrebbe trovare più conveniente cercare di convincere i suoi interlocutori che aiutare gli ucraini è inutile o addirittura contro il loro stesso interesse, perché servirebbe solo a prolungare le loro sofferenze senza impedire la “inevitabile” vittoria finale russa. Discorsi del genere si sono effettivamente sentiti molte volte (soprattutto nella prima parte della guerra, quando le cose andavano peggio, ma anche dopo) e venivano sempre da persone che notoriamente condividevano l’una o l’altra delle suddette posizioni ideologiche.

L’ideologia più micidiale di tutte, però, non ha un preciso colore politico, anche se storicamente è figlia del comunismo, ma ormai ha contagiato un po’ tutti: è quella del dialogo-che-risolve-tutti-i-problemi (cfr. Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/politica/la-frattura-tra-ragione-e-realta-3-marx-e-vivo-e-lotta-dentro-a-noi-dodici-idee-comuniste-a-cui-credono-anche-gli-anticomunisti/). Essa infatti, mescolandosi al sempre più dilagante (e sempre più delirante) complottismo, ha già convinto milioni di persone che l’unica via di uscita dalla guerra sono le mitiche “trattative di pace” e che se queste non sono ancora iniziate è solo perché “manca la volontà politica”, con il che in realtà si intende che manca la nostra volontà politica, perché secondo questa mentalità per definizione i “cattivi” siamo noi.

Questa idea, inoltre, è condivisa anche da molti “liberal” non di sinistra e perfino da molti “comunitari” (destra più frange di marxisti ortodossi; per questa distinzione vedi l’articolo appena citato), che ne respingono la versione “buonista” di cui sopra, tipica della sinistra e del mondo cattolico, ma ne accettano un’altra che proclamano essere una semplice questione di realismo: siccome le guerre, come qualsiasi altra cosa, sono dovute agli interessi (ultimamente economici) delle parti in causa, l’unico modo di farle finire è mettere da parte le questioni morali e trovare un bilanciamento degli interessi in gioco che lasci tutti ugualmente soddisfatti (o tutti ugualmente insoddisfatti, secondo la celebre battuta di Henry Kissinger).

Ora, nessuno più di me è favorevole al realismo, ma già a priori è evidente che questo ragionamento è piuttosto una forma di cinismo amorale. Il realismo autentico, infatti, consiste nel cercare di seguire le indicazioni della realtà, per cui già il fatto in sé di identificarlo a priori con una specifica soluzione è contraddittorio. Inoltre, è falso che le guerre (o qualsiasi altra cosa) siano sempre dovute a questioni di interesse, come ho cercato di illustrare ancora nell’articolo sulle Dodici idee comuniste, a cui perciò rimando.

Ma, soprattutto, la storia dimostra che (tranne quando, come per esempio nella guerra Iran-Iraq, i contendenti giungono contemporaneamente all’esaurimento delle forze) non è mai l’inizio delle trattative a determinare la fine della guerra, ma è piuttosto la fine della guerra (determinata dalla vittoria di una parte e dalla sconfitta dell’altra) a permettere l’inizio delle trattative. Ed è facile capirne il motivo.

Nessuno, infatti, neppure un dittatore psicopatico come a suo tempo Hitler e oggi Putin o i capi di Hamas, inizia una guerra a cuor leggero, se non altro perché non può farla da solo e ha quindi bisogno che almeno un certo numero di persone lo sostengano per convinzione e non solo per paura, perché la guerra può fare più paura di qualsiasi dittatore. Inoltre, una guerra si può perdere e quando a perderla è un dittatore ciò in genere ne determina la caduta e spesso anche la morte. La guerra, quindi, è certamente una tragedia, ma non è affatto una follia, come continua purtroppo a ripetere Papa Francesco, evidentemente anche lui molto mal consigliato dai suoi “esperti” (una volta o l’altra dovrò scrivere qualcosa sulle stranissime idee del cattolicesimo contemporaneo circa la politica internazionale), bensì una scelta accuratamente ponderata che ha sempre una sua logica, perfino quando è la logica di un folle.

La famosa frase di Von Clausewitz per cui «la guerra non è altro che la continuazione della politica con altri mezzi» non è soltanto una battuta brillante e un po’ cinica, ma una precisa descrizione di ciò che accade. Alla guerra, infatti, si arriva quando almeno una delle parti in causa ritiene che la situazione che si è creata non le permetta più di raggiungere i propri obiettivi attraverso le vie della politica: perché mai, quindi, tale parte dovrebbe accettare di tornare a trattare prima che qualcosa di sostanziale sia cambiato? Pretendere poi che ciò possa accadere addirittura il giorno dopo l’apertura delle ostilità (come quasi tutti hanno fatto, sia per l’Ucraina che per Gaza) non è soltanto ingenuo, ma semplicemente stupido.

Ma forse c’è anche un altro motivo, stavolta non ideologico, anche se si tratta comunque di un pregiudizio infondato. Ed è che dopo l’11 settembre tutti gli scontri tra noi e le varie dittature nostre nemiche non sono avvenuti nella forma di guerre tradizionali, bensì di “guerre asimmetriche” contro la guerriglia, a parte la seconda guerra con l’Iraq (che però si è presto trasformata anch’essa in una guerra di questo tipo) e l’intervento in Serbia (troppo breve per fare testo).

Questo tipo di guerra, infatti, riduce notevolmente il peso della nostra superiorità tecnologica, creando la sensazione che i nostri nemici siano diventati più forti e che anche in uno scontro tradizionale avremmo delle difficoltà a spuntarla. Ma questa è, appunto, solo una sensazione, priva di qualsiasi fondamento nella realtà dei fatti. In Ucraina non si combatte tra le montagne, ma in una vastissima pianura quasi completamente priva di ripari naturali, che rappresenta lo scenario ideale perché le nostre armi ad alta tecnologia possano dispiegare tutto il loro potenziale. E, di fatto, così è già accaduto con quelle che fin qui abbiamo dato agli ucraini. Non c’è quindi nessuna ragione di pensare che le cose vadano diversamente con quelle che (si spera) gli daremo in futuro.

Ciò che è sorprendente è che questa falsa impressione abbia contagiato anche buona parte degli analisti e degli stessi vertici militari. Eppure, è accaduto. E forse non è neanche tanto sorprendente.

Siamo noi, infatti, che tendiamo a mitizzare gli esperti, come se fossero persone dotate di una razionalità superiore e immuni alle debolezze della gente comune. Ma in realtà studiosi di geopolitica, professori universitari, politici e generali (sì, anche loro) sono esseri umani come noi, anch’essi figli del nostro tempo. Un tempo in cui l’apparenza e l’emotività tendono a prevalere sulla conoscenza e sulla razionalità, fino al punto di generare delle vere e proprie forme di “bispensiero” orwelliano, per cui si è convinti che una certa cosa è vera, eppure al tempo stesso si nutre anche una convinzione contraddittoria con la prima, senza nemmeno accorgersi che è contraddittoria.

E tuttavia dobbiamo accorgercene. Perché se non lo faremo al più presto, liberandoci di queste forme sbagliate di pensiero, in Ucraina finirà col vincere Putin. Che non si fermerà certo lì: e allora, oltre ai soldi, dovremo metterci anche i soldati. Che però non abbiamo, perché da noi nessuno ha più voglia di morire per la libertà (o per qualsiasi altra cosa).

Molto meglio per noi, quindi, che a fare il lavoro sporco siano gli ucraini, che non sono ancora così rammolliti e, soprattutto, hanno ancora abbastanza senso della realtà da capire che le pallottole non si fermano con le chiacchiere.

Se non per generosità, aiutiamoli almeno per egoismo.




“Lo Zar è autentico oppure no?” – Sulla morte di Evgenij Prigozhin

La morte (ampiamente annunciata) di Evgenij Prigozhin, avvenuta mercoledì 23 agosto, ha riproposto tutti gli interrogativi sulla sua apparentemente incomprensibile rivolta e la sua ancor più incomprensibile resa.

Almeno una, fra le tante ipotesi avanzate, cioè quella complottista, per cui sarebbe stata tutta una farsa, orchestrata di comune accordo con Putin per far “venire allo scoperto” i potenziali traditori, dovrebbe essere stata spazzata via, visto che il suo presunto complice l’ha appena fatto fuori (anche se i suoi fautori difficilmente se ne daranno per intesi, dato che per loro non vale né il principio di realtà né quello di non contraddizione).

Ma se questa ipotesi è certamente sbagliata, è difficile dire quale sia invece quella giusta, anche perché il fallimento della rivolta ha impedito di cogliere appieno l’enormità dell’evento, che appare invece in tutta la sua imponenza se si pensa a cosa sarebbe successo se la Wagner fosse arrivata a Mosca e Prigozhin avesse preso il potere, come a un certo punto è sembrato perfettamente possibile. Si sarebbe infatti trattato del primo colpo di Stato riuscito in Russia dopo quello della Rivoluzione d’Ottobre del 1917, oltre un secolo fa, nonché dell’unico finora verificatosi in una moderna superpotenza.

Tenendo presente questo, i fatti, già di per sé sconcertanti, diventano quasi incomprensibili, a cominciare da quale fosse il vero obiettivo della rivolta.

È difficile credere che Prigozhin volesse davvero prendere d’assalto la capitale del più grande Paese del mondo con appena ventimila mercenari e senza nessun appoggio evidente da parte di altri poteri dello Stato. Ma è almeno altrettanto difficile credere che abbia intrapreso un’azione così dirompente e senza ritorno solo per qualche rivendicazione “sindacale” (il non assorbimento della Wagner nell’esercito russo) o politica (la testa dei suoi nemici Shoigu e Gerasimov).

E poi, altre domande. Come è stato possibile che la Wagner abbia potuto penetrare come un coltello nel burro per centinaia di chilometri nel territorio della seconda superpotenza del mondo, che per giunta si trovava già da tempo in stato di mobilitazione generale a causa della guerra? E perché la rivolta di Prigozhin ha avuto un così entusiastico sostegno popolare? Chi l’ha fermato e come, se fino a quel momento nessuno aveva mosso un dito? O, se si è fermato da solo, perché l’ha fatto, sapendo perfettamente che con ciò avrebbe firmato la sua condanna a morte?

Alcune risposte sensate sono state date, ma mi sono sempre sembrate insufficienti.

Sul primo punto, per esempio, Lucio Caracciolo aveva sostenuto che ciò era dipeso dal fatto che Putin ha mandato in Ucraina tutti i soldati che ha potuto, lasciando quasi completamente sguarnito il territorio del suo immenso paese, il che sembra plausibile (benché contraddica l’altra tesi dello stesso Caracciolo secondo cui la Russia sarebbe in grado di continuare la guerra praticamente all’infinito; ma questo è un altro discorso, che prima o poi riprenderò).

Ciò però non spiega perché da parte dell’esercito russo non ci sia stata la benché minima reazione all’avanzata della Wagner  (un paio di aerei militari abbattuti e una dozzina di soldati uccisi non indicano certo una resistenza organizzata, ma piuttosto delle sporadiche iniziative individuali, verosimilmente non autorizzate). E ciò benché il suo primo passo sia stato occupare il centro di comando di Rostov che presiedeva all’intera “Operazione Speciale”, cioè il luogo meglio difeso di tutta la Russia.

Quanto al perché Prigozhin si sia fermato, il mistero è ancor più fitto. Uno dei nostri generali a riposo che collaborano come esperti con le televisioni (non mi ricordo più chi, forse Angioni) aveva detto che la Wagner non poteva essere già arrivata così vicino a Mosca come Prigozhin sosteneva, perché i mezzi militari non si muovono così rapidamente. Anche questo sembra plausibile, ma, di nuovo, non spiega granché. Infatti, quando pure gli ci fosse voluto ancora un giorno o due per raggiungere la capitale, non sarebbe cambiato molto, dato che nessuno sembrava volersi muovere per difenderla.

Personalmente, ho sempre pensato che Prigozhin si sia fermato di sua iniziativa, semplicemente perché non c’è il minimo indizio che sia stato fermato da qualcun altro. Ma perché mai abbia deciso di farlo e di cercare un accordo con Putin pur sapendo perfettamente che era un suicidio, questo davvero non riuscivo a capirlo.

Poi giovedì scorso, proprio il giorno dopo la sua morte, ho ascoltato una lettura “alternativa” di questi eventi fatta dal grande scrittore russo dissidente Mikhail Shishkin che ho trovato molto convincente e che perciò qui vi ripropongo.

Intervenendo alla tavola rotonda Tra democrazia e autocrazia: il destino della libertà nell’ambito del 44° Meeting di Rimini, Shishkin ha spiegato che in Occidente abbiamo un’idea dei russi basata essenzialmente sulla loro grande letteratura, che si interroga continuamente sul male, sulla colpa, sulla responsabilità, ecc. Ma in realtà questo modo di pensare è limitato a una ristretta élite di persone istruite, mentre alla grandissima maggioranza dei russi di tutte queste grandi domande non importa nulla, essendo ancora legati a una concezione della politica di tipo zarista.

Per loro la vera questione da porsi «era ed è e resta tuttora: “Lo Zar è autentico oppure no?” Questa è la principale domanda russa, perché se lo Zar è autentico, allora ci sarà l’ordine, se invece lo Zar è falso, allora ci sarà l’anarchia, i torbidi, il caos». E l’unico modo per capire se lo Zar è autentico oppure no è vedere se vince.

Per questo Stalin, che ha ucciso milioni di persone, ma ha vinto la guerra contro Hitler, è ancor oggi amatissimo dal popolo, mentre Gorbacev, che ha cercato di modernizzare il paese, ma ha perso la guerra in Afghanistan e la guerra fredda contro l’Occidente, è generalmente disprezzato.

Sempre per questo, mi permetto di aggiungere (perché di questo Shishkin non ha parlato, ma mi sembra coerente con la sua logica), è un errore di prospettiva pensare, come molti fanno, che il tentativo di democratizzare la Russia sia fallito quando Boris Eltsin prese a cannonate il Parlamento che gli si era ribellato (peraltro ancora dominato dai comunisti irriducibili che avevano tentato il golpe contro Gorbacev, quindi non esattamente dei campioni della democrazia). Al contrario: ciò agli occhi del popolo avrebbe dovuto legittimare Eltsin come “autentico Zar”, il che semmai lo avrebbe aiutato a continuare il processo di democratizzazione. A impedirglielo (oltre alla vodka…) fu la crisi cecena, che non riuscì a domare e che pertanto lo delegittimò.

E infatti il suo successore Putin, che da ex ufficiale del KGB conosceva bene i meccanismi del potere in Russia, iniziò la sua carriera politica promettendo di vincere la guerra in Cecenia con qualsiasi mezzo («inseguiremo i terroristi dovunque si nascondano, anche dentro il cesso»). Avendo mantenuto la promessa, pur usando una brutalità inaudita, venne accettato da tutti come autentico Zar. E ancor più lo divenne nel 2014, con l’annessione della Crimea e di parte del Donbass.

A questo punto qualcuno potrebbe osservare che tutti i regimi usano le guerre per rafforzarsi, in modo da unire il popolo contro il nemico esterno e sviare la sua attenzione dai problemi interni. Questo è certamente vero, ma non è esattamente la stessa cosa. Secondo Shishkin, infatti, in Russia il semplice richiamo patriottico all’unità contro il nemico esterno non basta, perché se il popolo ha la sensazione che lo Zar non sia in grado di vincere perderà la fiducia in lui e non sarà più disposto a seguirlo, nonostante la minaccia incombente.

Non è che il patriottismo per i russi non conti: conta moltissimo, invece. Però non c’entra nulla con la loro concezione del potere, che è pragmatica fino alla brutalità e non contiene alcun elemento di idealismo. La vittoria dello Zar non ha (non primariamente, almeno) lo scopo di garantire il bene della patria e del popolo, bensì quello di dimostrare la sua forza e la sua capacità di imporsi a tutti. Perciò lo Zar non deve necessariamente fare la guerra, ma, se la inizia, deve necessariamente vincerla (il che, fra parentesi, significa che è illusorio sperare che Putin si decida a trattare: sa bene, infatti, che se lo fa è morto).

Per questo, secondo Shishkin, Putin è ormai da tempo considerato un falso Zar e tutti stanno aspettando che ne sorga un altro che possa prendere il suo posto. Prigozhin aveva le caratteristiche giuste: era forte; era spietato (caratteristica negativa per un leader occidentale, ma non per uno Zar); era l’unico che era riuscito a vincere (a Bakhmut) da quando Putin aveva iniziato a perdere; era l’unico che aveva osato denunciare pubblicamente la debolezza del falso Zar; e infine aveva avuto l’ardire supremo di muovere in armi contro di lui.

Quindi l’azione di Prigozhin era davvero ciò che sembrava: un tentativo di colpo di Stato. E, a dispetto delle apparenze, non era affatto campato in aria, ma poteva davvero riuscire. Il motivo per cui nessuno l’ha appoggiato apertamente, ma nessuno l’ha nemmeno ostacolato, infatti, è che erano tutti in attesa di vedere che cosa avrebbe fatto. Se fosse andato fino in fondo, sarebbe stata la prova che era proprio lui il vero Zar che aspettavano e allora tutti l’avrebbero seguito.

Ma perché Prigozhin invece si è fermato?

Perché, ha risposto Shishkin, mentre «tutta la popolazione era pronta ad accettare il fatto che lui potesse diventare il nuovo Zar della Russia, l’unico a metterlo in dubbio era lo stesso Prigozhin, che psicologicamente si è dimostrato non pronto a prendere il potere, che avrebbe avuto ai suoi piedi».

Quella esitazione è stata fatale. Una volta fermatosi, Prigozhin non poteva più ripartire: per tutti, ormai, compresi i suoi stessi uomini, era diventato anche lui un falso Zar. E a quel punto non gli restava che sforzarsi di credere alle promesse di Putin, pur sapendo benissimo che erano false.

A chi ha una concezione razionalista della storia, per cui il suo svolgersi è il prodotto di cause sempre perfettamente logiche e perfettamente coerenti, questa spiegazione apparirà di sicuro insoddisfacente. A chi, come me, è invece convinto che la storia non è fatta da forze impersonali, ma dagli esseri umani, che non agiscono solo in base alla ragione, ma anche alle emozioni, dovrebbe sembrare molto plausibile.

D’altronde, tante volte abbiamo visto campioni affermati e blasonati giungere a un passo dal trionfo agognato per tutta la vita e poi farsi prendere dal panico e fallire proprio quando bastava allungare la mano per raccoglierlo – o meglio, proprioperché bastava allungare la mano per raccoglierlo. E se succede nello sport, dove in fondo è in gioco solo la gloria o al massimo i quattrini, perché mai non dovrebbe accadere anche in situazioni ben più drammatiche, in cui è in gioco la vita, propria e altrui, e magari anche il destino del mondo?

Inoltre, la lettura di Shishkin ha anche un altro punto a suo favore: è l’unica (almeno fra quelle fin qui proposte) che si accordi con tutti i fatti attualmente noti. Magari un giorno verranno alla luce altri fatti che la smentiranno, ma per ora le cose stanno così. E ciò non è poco.

Resta però ancora una domanda: cosa succederà adesso?

Secondo Shishkin, anche se per il momento Putin è rimasto al potere, la sua condizione non è cambiata, perché non è lui che ha vinto, ma Prigozhin che ha perso, mentre la situazione in Ucraina resta critica. Di conseguenza, tutti continuano provvisoriamente ad ubbidire all’attuale Zar, ma continuano a considerarlo delegittimato e perciò continuano ad aspettare che sorga un nuovo pretendente a cui non tremino il cuore e la mano nel momento supremo.

Shishkin ritiene che ciò accadrà molto presto, perché è convinto che Putin sia gravemente malato e che quello che si vede in pubblico sia ormai da tempo un suo sosia. In ogni caso, quando ciò accadrà, sia domani o più tardi, chiunque prenda il suo posto metterà subito fine alla guerra, esattamente come avrebbe fatto Prigozhin se avesse avuto successo.

Non ho elementi per dire se la prima convinzione di Shishkin sia giustificata, anche se lo spero, ma almeno la seconda mi sembra plausibile, posto (ovviamente) che la sua chiave di lettura sia corretta.

La ragione, infatti, è sempre la stessa: per legittimarsi lo Zar deve vincere e in Ucraina, ormai, ciò non è più possibile. Prigozhin lo sapeva bene, avendo visto con i suoi occhi la situazione sul campo e i cadaveri dei suoi uomini, che aveva perfino mostrato in diretta televisiva al “falso Zar” che intendeva spodestare. Ma nessuno che aspiri al ruolo di “autentico Zar” di tutte le Russie può permettersi di cominciare il suo regno facendosi logorare dal terribile tritacarne ucraino.

Perciò, chiunque sarà il successore di Putin, secondo Shishkin per prima cosa cercherà di chiudere quella nefasta partita il più presto possibile, riconoscendo la sconfitta, ma dandone la colpa al “falso Zar” appena abbattuto, per poi cercare la sua definitiva legittimazione attraverso una vittoria di altro tipo, presumibilmente contro i suoi nemici interni.

Non resta che augurarci che abbia ragione.




La frattura tra ragione e realtà 1 / Su Mosca sventola bandiera rossa

Da quando è iniziata la guerra in Ucraina va di moda ripetere che Putin sarebbe un “fascista”. Eppure, sia la logica che i dati di fatto dicono il contrario: Putin è a tutti gli effetti un comunista e anche i suoi comportamenti che possono a prima vista apparire “di destra” in realtà si collocano tutti perfettamente nel solco della tradizione sovietica in cui si è formato. Perché allora questa idea si è diffusa al punto che oggi viene data praticamente per scontata non solo da tutta la sinistra, ma anche da gran parte dei moderati? In parte si tratta di opportunismo politico, ma la ragione più profonda è la perdurante assenza di un giudizio chiaro sulla natura totalitaria del comunismo.

Con questo articolo inizio una serie di interventi su problemi abbastanza diversi fra loro, ma unificati dal tema della frattura tra ragione e realtà, che aveva suscitato un certo dibattito anche fuori dal sito della Fondazione Hume e con il quale avevo concluso i miei contributi sul Covid (che, per la cronaca, usciranno fra poco raccolti in un libro, Covid, la lezione del Pacifico, scritto a sei mani con le mie dottorande Silvia Milone e Loredana Parolisi e con una prefazione di Luca Ricolfi, di cui siamo profondamente onorati e per la quale colgo l’occasione per ringraziarlo pubblicamente).

Anche se la maggior parte di tali interventi riguarderà temi legati alla scienza, che è il mio principale campo di ricerca, voglio dedicare i primi tre (che idealmente costituiscono un unico articolo in tre parti) a una grande questione culturale in cui la suddetta frattura tra ragione e realtà è particolarmente grave, non solo per la sua importanza intrinseca, ancor maggiore dopo le ultime elezioni, ma anche perché ha spesso conseguenze rilevanti per gli altri temi che toccherò in seguito.

Per farlo partirò da una delle cose più surreali che si siano sentite in questi mesi e di cui avevo già parlato in precedenza, ma solo brevemente (https://www.fondazionehume.it/politica/la-prevedibile-caporetto-di-putin-e-quella-inquietante-degli-esperti/): il fatto, cioè, che la sinistra italiana, dopo aver deciso di schierarsi (quasi) compattamente contro Putin, cosa di per sé lodevole, abbia sempre più accentuato le accuse di “populismo” e “sovranismo” che già da tempo gli rivolgeva, fino ad arrivare al paradosso di definirlo esplicitamente “fascista”.

Tale posizione è stata espressa nel modo più chiaro qualche mese fa da Giuseppe Provenzano (non proprio uno qualunque, visto che si tratta del vicesegretario del PD) nella seguente dichiarazione resa a Annalisa Cuzzocrea: «Il problema di filo-putinismo ce l’ha la destra, in particolare quella italiana. Il silenzio di Berlusconi i legami consolidati della lega di Salvini con il partito di Putin, ma anche Giorgia Meloni, che ancora guarda a Trump, l’altro polo del vento conservatore e reazionario, che non a caso definisce Putin “un genio”. Poi c’è qualche cretino di sinistra, avrebbe detto Leonardo Sciascia. Quelli che sono talmente “complessi” da ignorare anche la verità più banale: al Cremlino non sventola bandiera rossa, sventola bandiera nera» (Giuseppe Provenzano, “Giusti gli aiuti militari a Kiev, gli amici di Putin sono a destra”, su La Stampa del 27/03/2022).

Ma se questa è la formulazione più epslicita, non è certo l’unica. Si tratta infatti di una tesi molto comune, non solo tra i politici. Per limitarci agli ultimi giorni, l’hanno ripetuta, fra gli altri, il celebre storico britannico Timothy Garton Ash, il direttore del quotidiano La stampa Massimo Giannini e un opinionista in genere moderato ed equilibrato come Paolo Mieli, che a Porta a porta di domenica 2 ottobre è arrivato addirittura ad affermare che «a parte la Camera dei Fasci e delle Corporazioni» quello di Putin è a tutti gli effetti un regime fascista.

Ma perché Putin dovrebbe essere considerato fascista, questo nessuno lo sa dire. Forse perché è un dittatore? O perché fa una propaganda spudoratamente menzognera? O perché è imperialista? O perché è guerrafondaio? Ma tutte queste caratteristiche le aveva anche il regime sovietico, di cui Putin è figlio legittimo, dato che è stato per 16 anni un alto ufficiale del KGB, ha sempre giudicato una catastrofe la dissoluzione dell’URSS e da tempo, forse da sempre, sta dedicando tutte le sue forze a ricostruirla.

Inoltre, Putin ha l’esplicito sostegno del Partito Comunista Russo, giustifica l’intervento in Ucraina dicendo che bisogna liberarla dai nazisti, chiama i paesi del Terzo Mondo a unirsi a quella che presenta come una crociata contro l’Occidente capitalista che li opprime e segue pedissequamente in ogni dettaglio i metodi dell’Unione Sovietica degli anni Settanta, sia nella comunicazione che nella repressione del dissenso interno e perfino nel modo di fare la guerra, benché ciò rischi di fargliela perdere (cfr. Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/reality-check/e-se-sulla-no-fly-zone-avesse-ragione-zelensky/). E se ancora non bastasse, pochi giorni fa ha ulteriormente chiarito il concetto mettendo a capo della sua sporca guerra il generale Sergey Surovikin, uno dei protagonisti del fallito golpe contro Gorbaciov messo in atto nel 1991 dall’ala dura del Partito Comunista Sovietico in un estremo tentativo di restaurare il vecchio assetto dell’URSS.

È pertanto evidente che chiamare Putin “fascista” è semplicemente grottesco e ricorda molto i mitici servizi del TG3, da sempre monopolio della sinistra, che, quando ci fu la caduta del comunismo in Romania, parlava degli eroici insorti che combattevano «contro i fascisti di Ceausescu» o i discorsi di tanti intellettuali di sinistra di allora sulle «sedicenti Brigate Rosse» che “in realtà” sarebbero state anch’esse “fasciste”.

Ma non solo è falso che Putin sia fascista. È falso anche che lo siano i suoi amici. Per convincersene basta guardare i risultati del voto all’ONU sui referendum-farsa in Donbass.

I 4 paesi che hanno votato a favore della Russia sono tutti retti da dittature comuniste (Bielorussia, Nicaragua e Corea del Nord) o socialiste (Siria). Quanto ai paesi che si sono astenuti (35) o non hanno partecipato al voto (10), di essi 8 sono retti da dittature comuniste (Cina, Cuba, Eritrea, Laos, Tajikistan, Turkmenistan, Venezuela, Vietnam), 11 da governi di sinistra con forti tendenze autoritarie (Algeria, Bolivia, Repubblica Centrafricana, Congo, Mongolia, Mozambico, Namibia, Tanzania, Togo, Uganda, Zimbabwe) e 3 da regimi islamici integralisti apertamente antioccidentali (Iran, Pakistan, Sudan). L’unico regime comunista che abbia votato contro Putin è la Cambogia.

Al contrario, nessun regime di destra ha votato a favore (neanche l’Ungheria del “fascista” Orbán, che anzi ha votato contro, così come il Brasile di Bolsonaro) e soltanto 7 si sono astenuti (Burkina Faso, Burundi, Eswatini, Guinea, Guinea Equatoriale, Mali, Thailandia). Completano il quadro degli astenuti o non votanti 5 repubbliche ex sovietiche, democratiche ma fortemente condizionate da Mosca (Armenia, Azerbaijan, Kazakistan, Kyrghizistan, Uzbekistan) e 10 paesi del Terzo Mondo retti da governi moderati (Camerun, El Salvador, Etiopia, Honduras, Gibuti, Lesotho, São Tomé, Sudafrica, Sud Sudan, Sri Lanka), nessuno dei quali ha mai manifestato particolari simpatie per l’estrema destra, almeno in tempi recenti, a parte l’Honduras, che però attualmente ha un governo di centrosinistra. Infine c’è l’India, che gioca una partita tutta sua, retta com’è da un governo nazionalista, ma comunque democratico e con una politica estera spiccatamente terzomondista.

Insomma, non sono esattamente i paesi che ci si aspetterebbe di vedere schierati a sostegno di un regime fascista…

E anche se guardiamo a quanto sta accadendo in Europa, il quadro non cambia molto. L’unico politico occidentale che sia finito sul libro paga di Putin alla luce del sole è il socialdemocratico tedesco Gerhard Schröder, assunto come dirigente (strapagato) di Gazprom non appena terminato il suo mandato di Cancelliere. A rompere la ritrovata solidarietà europea è stato un altro Cancelliere tedesco socialdemocratico, quello attualmente in carica, Olaf Scholz, con il suo sciagurato ostruzionismo all’introduzione di un tetto al prezzo del gas. Il pacifismo di sinistra, dopo un breve periodo di eclissi, sta tornando a riempire le piazze con manifestazioni che, pretendendosi equidistanti tra l’aggredito e l’aggressore, finiscono oggettivamente per essere a favore di quest’ultimo.

Infine, per quanto riguarda l’Italia, il partito più filo-russo attualmente è quello dei 5 Stelle, che ormai da tempo è un partito di sinistra a tutti gli effetti e il cui già annunciato voto contrario alla prossima fornitura di armi all’Ucraina pesa molto più delle parole in libertà di Berlusconi. Queste ultime, infatti, per quanto censurabili, non sono dettate da una strategia politica, bensì dal suo narcisismo e dalla sua incapacità di accettare di non essere più lui il capo, ma non hanno prodotto nessuna conseguenza pratica rilevante e verosimilmente non ne produrranno neanche in futuro.

Poi, certo, è vero che Putin in patria è sostenuto anche dai nazionalisti di destra e dai vertici della Chiesa ortodossa; che si richiama a simbologie che spesso hanno a che fare più con la tradizione zarista e, appunto, ortodossa che con quella comunista; e che, in generale, si presenta come garante dei “veri” valori tradizionali contro la corruzione morale dell’Occidente. Ed è altrettanto vero che è visto con simpatia anche da diversi partiti occidentali di destra, che ha certamente condizionato e  probabilmente pure finanziato (anche se prima di darlo per scontato sarebbe meglio aspettare di vedere le prove promesse dagli USA).

Tuttavia, il fatto che Putin collabori (anche) con forze di destra non significa che sia egli stesso di destra. Anzi, è vero esattamente il contrario: questi, infatti, sono tutti comportamenti da perfetto manuale del KGB, tanto che erano già stati tutti messi in atto da Stalin in persona.

Anzitutto, l’alleanza con forze politiche di qualsiasi orientamento, purché utili alla causa, è sempre stata praticata dall’URSS, che da questo punto di vista era di un pragmatismo, o, più esattamente, di un cinismo totale. Inoltre, ai sovietici trattare con le forze di estrema destra è sempre riuscito più naturale che avere a che fare con quelle democratiche, per via di un’affinità culturale di fondo, dato che marxismo, fascismo e nazismo hanno tutti le loro comuni radici nell’idealismo tedesco, in particolare nella dottrina hegeliana dello Stato etico, anche se dirlo è gravemente politically incorrect e può causare seri problemi (vedi il linciaggio subito per anni da Nolte e De Felice).

Oggi tutti fanno finta di dimenticarsene, ma l’Unione Sovietica è stata per ben due anni alleata della Germania nazista, in virtù dello sciagurato patto Ribbentrop-Molotov che fu all’origine della Seconda Guerra Mondiale, giacché permise a Hitler di rivolgersi contro l’Occidente sapendo di avere le spalle coperte sul fronte orientale. E se Hitler stesso non l’avesse violato, invadendo l’URSS a tradimento (con una decisione che non ha spiegazioni strategiche, ma esclusivamente psichiatriche), quest’ultima non sarebbe mai entrata in guerra al nostro fianco contro i nazisti.

D’altra parte, quando ciò accadde e la sua stessa sopravvivenza fu messa in discussione, Stalin proclamò la mobilitazione generale non in nome del comunismo o della dittatura del proletariato, ma della “Grande Madre Russia”, che (a parte la parola “Madre” al posto di “Santa”, il che obiettivamente per lui sarebbe stato un po’ troppo) si richiamava all’immaginario collettivo della Chiesa ortodossa e non certo a quello dell’Internazionale Socialista.

Ma non si trattò di un fatto episodico e strumentale. A differenza del comunismo europeo, più marcatamente laicista e scientista, quello sovietico ha sempre avuto una forte componente messianica, ascetica e quasi mistica, derivante anch’essa dalla mitologia ortodossa e, in particolare, dall’idea della “missione” unica che Dio avrebbe assegnato alla Russia.

È stato anche grazie a questa idea, sia pure opportunamente “laicizzata”, che Stalin ha potuto giustificare il suo tentativo di realizzare “il socialismo in un solo paese”, che da un punto di vista marxista è una vera e propria eresia. Ed è sempre a causa di questa idea che l’URSS, esattamente come la neo-URSS putiniana di oggi, non ha mai escluso l’uso delle armi nucleari in una guerra contro l’Occidente, anche a costo di rischiare un olocausto atomico su scala globale. In questa prospettiva, infatti, un mondo senza la Russia è letteralmente privo di senso e quindi non vale la pena che continui ad esistere, come Putin ha più volte esplicitamente affermato, benché, di nuovo, da un punto di vista marxista ciò non abbia invece alcun senso.

Eppure, non è solo Putin a dirlo: anche i sovietici ragionavano così. Chi non ci crede vada a leggersi La terza guerra mondiale di Sir John Hackett, generale inglese che per cinque anni fu a capo delle armate NATO dell’Europa Settentrionale (anche se è del 1978 si trova facilmente su Internet). Si tratta di un saggio camuffato da romanzo che a suo tempo fece scalpore e probabilmente ci evitò la terza guerra mondiale di cui parla. Hackett, infatti, riuscì a convincere i paesi europei a tornare a curare le proprie difese convenzionali, mostrando attraverso documenti originali trafugati ai sovietici che questi ultimi se si fossero convinti di poter vincere avrebbero attaccato, anche a costo di rischiare un conflitto nucleare.

Anche il sostegno del Patriarca Kirill, che è arrivato a usare toni degni degli integralisti islamici, promettendo il Paradiso a tutti quelli che moriranno in guerra (mancavano solo le 72 vergini…), è certamente scellerato, ma per niente affatto sorprendente, né tantomeno nuovo. È vero infatti che molti sacerdoti ortodossi si sono opposti eroicamente al regime sovietico e per questo hanno subito dure persecuzioni e spesso perfino il martirio. Tuttavia, storicamente i vertici della Chiesa ortodossa sono sempre stati conniventi con il potere di turno, compreso quello sovietico. E questo non solo per paura o per comodo, ma per una ragione molto più profonda.

Infatti, a differenza di quella cattolica (parola che significa “universale”), la Chiesa ortodossa ha sempre concepito sé stessa come una Chiesa intrinsecamente nazionale. E se è vero che l’amore per la patria è un valore importante, che ha prodotto frutti meravigliosi di arte, di letteratura e di santità, è altrettanto vero che questo particolare modo di concepirlo porta troppo spesso a una sua indebita sacralizzazione. Molti aspetti della cosmovisione ortodossa, pur esposti con linguaggio cristiano, sono di fatto assai più affini ai miti pagani della terra e del sangue che non al cristianesimo. E purtroppo gli dei della terra e del sangue prima o poi pretendono sempre tributi di terra e di sangue.

Su questo aveva detto parole chiarissime la grande poetessa russa Olga Sedakova (collaboratrice dell’associazione Memorial che ha appena vinto il Nobel per la pace) già nel 2014, dopo l’invasione della Crimea, che è all’origine di ciò che sta accadendo oggi e che era stata giustificata da Putin esattamente con le stesse menzogne: «Putin dice di essere il difensore dei valori tradizionali. È qualcosa di abbastanza comico, perché da noi i valori tradizionali sono stati distrutti ormai molti anni fa. […] Oggi si pensa soltanto al valore della famiglia. Si tratta, in realtà, di una polemica nei confronti della richiesta, in Occidente, di leggi per i matrimoni tra omosessuali. Ma non si parla mai di lavoro, né di persona, né di libertà. L’unica cosa che si accosta alla famiglia è il patriottismo: ognuno deve essere pronto a dare la vita per la patria. Il valore ultimo non è la persona, ma la patria. E non mi pare sia una posizione molto cristiana. […] Ai tempi di Stalin l’aborto era proibito, e le donne morivano perché abortivano clandestinamente senza medici. Esisteva il divieto, non la ragione per cui era sbagliato abortire. Così non ci si faceva problemi ad abortire clandestinamente. Trovo curioso che Stalin sia diventato il nuovo modello di moralità. La società tardo-staliniana era, potremmo dire, vittoriana. Il divorzio, ad esempio, era molto difficile da ottenere, in alcuni casi era addirittura proibito. Ma più che una difesa della famiglia, era un modo per limitare la libertà» (Olga Sedakova, L’infinito contro la noia, in Tracce n. 7, 2014, pp. 40-44).

D’altronde, anche il comunismo occidentale, pur essendo più laico di quello sovietico, in passato era piuttosto “vittoriano” (si pensi solo ai problemi che ebbe Togliatti, che pure era il capo indiscusso del PCI, quando lasciò la moglie per mettersi con Nilde Jotti). Anche da questo punto di vista, pertanto, Putin continua ad agire come un comunista sovietico degli anni Settanta, il periodo in cui si è formato e in cui, come sostengo da tempo, è rimasto mentalmente “imprigionato” (cfr. Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/reality-check/e-se-sulla-no-fly-zone-avesse-ragione-zelensky/ e https://www.fondazionehume.it/politica/la-prevedibile-caporetto-di-putin-e-quella-inquietante-degli-esperti/).

Ma se così stanno le cose, perché allora la sinistra, non solo in Italia, ma in tutto l’Occidente, continua a ripetere che Putin è fascista?

Certamente vi è un aspetto di opportunismo politico, perché ciò da un lato la aiuta a far “digerire” più facilmente la guerra ai suoi elettori, tra i quali il pacifismo è ancora molto forte, mentre dall’altro le permette di tacciare di “fascisti” tutti i partiti di destra che hanno simpatie per Putin. Tuttavia, la vera ragione, che in fondo ricomprende anche questa, è molto più profonda.

A metterci sulla strada giusta è lo stesso Provenzano nella parte finale della sua dichiarazione, laddove dice che i “cretini di sinistra” non sono disposti a condannare Putin perché non capiscono che la sua bandiera non è rossa, ma nera, cioè che non è comunista, ma, appunto, fascista. Ciò, infatti, equivale ad affermare che Putin non va condannato in quanto criminale, bensì in quanto fascista. E da questo, secondo logica, seguirebbe che se invece Putin fosse davvero comunista, allora i suddetti “cretini di sinistra” non sarebbero più tali e farebbero bene a non condannarlo anche se lui commettesse esattamente le stesse azioni criminali.

Attenzione! Non sto dicendo che Provenzano pensi realmente questo. Anzi, sono certo che non lo pensa affatto, per la semplice ragione che, come tutti i suoi colleghi, non è nemmeno in grado di concepire un pensiero simile. Infatti, per la sinistra italiana (e non solo italiana) il Male è sempre per definizione di destra e la destra è sempre per definizione il Male, mentre il Bene è sempre per definizione di sinistra e la sinistra è sempre per definizione il Bene. Ne segue che il dilemma su cosa fare se Putin fosse comunista e ciononostante commettesse ugualmente queste nefandezze semplicemente non si pone perché è logicamente impossibile: se Putin fosse comunista, infatti, non potrebbe per definizione commetterle, mentre se le commette non è per definizione comunista.

Ora, questo atteggiamento nasce dal fatto che la sinistra non ha mai fatto realmente i conti con il comunismo (intendo dire con il comunismo in quanto tale e non con questa o quella sua concreta realizzazione storica), rifiutandosi ostinatamente di riconoscerne la natura intrinsecamente totalitaria e perciò irrimediabilmente oppressiva e violenta, attribuendo tali caratteristiche solo ed esclusivamente al totalitarismo di destra. E ciò ha avuto e ha tuttora conseguenze profonde, non solo quanto al giudizio su Putin, ma anche quanto alla questione di fondo della crisi di identità della sinistra e del suo possibile (o impossibile) rinnovamento.

Ne parlerò nel prossimo articolo.

 

Paola Musso




L’arte della contro-escalation

Si comincia, finalmente, a parlare con qualche serietà di un percorso di raffreddamento delle tensioni fra Russia e Stati Uniti, che possa portare (almeno) a un cessate il fuoco, e possibilmente a passi ulteriori verso accordi di pace.

Sulle ragioni di questo, per ora timidissimo, cambiamento di clima, ci sono solo ipotesi. Le più plausibili mi paiono tre.

La prima è che gli attentati-incidenti-sabotaggi delle ultime settimane, chiunque ne sia l’autore, stiano convincendo un po’ tutti che la situazione può andare fuori controllo, a dispetto delle consultazioni continue (e riservate) fra russi e americani.

La seconda è che Biden si stia rendendo conto che arrivare alle elezioni di midterm con un’opinione pubblica spaventata dal rischio di un conflitto nucleare possa costargli caro.

La terza è che lo spettro di una recessione mondiale, provocata dalle conseguenze commerciali della rottura dell’ordine internazionale, stia inducendo i principali giocatori in campo (Cina e Usa in testa) a correre ai ripari.

Quale che sia l’origine dei nuovi segnali, la domanda è: ci sono possibilità realistiche che, alla fase di escalation finora in corso, succeda una fase di escalation inversa (o contro-escalation, o “de-escalation psicologica”)? Ci sono strumenti con i quali è possibile favorire un’inversione di fase efficace?

Non so che cosa ne pensino i veri esperti, ossia generali, strateghi, politici, studiosi di relazioni internazionali. Ma azzardo l’idea che qualcosa si possa imparare anche dagli esperti di “de-escalation” nel senso psicologico (non militare) dell’espressione, ossia psicologi, operatori sanitari, operatori sociali alle prese con interlocutori aggressivi. Se si passano in rassegna consigli e linee guida per gestire questo tipo di conflitti, si deve constatare che, fin qui, occidentali e russi hanno fatto esattamente quel che le tecniche di contro-escalation raccomandano di non fare: offese, delegittimazione dell’interlocutore, minacce, intimazioni, ingiunzioni, totale rifiuto di mettersi dal punto di vista dell’avversario.

Tutti questi comportamenti sono perfettamente comprensibili alla luce del fatto che la situazione non è simmetrica né oggettivamente (A è stato aggredito da B), né soggettivamente (A pensa di essere nel giusto). Ma occorre riflettere su un punto decisivo: anche nelle situazioni in cui si usano tecniche di contro-escalation la situazione non è mai simmetrica. L’infermiere del pronto soccorso che deve fronteggiare un paziente infuriato che agita un coltello, o l’agente di polizia che deve interagire con un rapinatore che minaccia con la pistola dodici ostaggi, non si trovano certo in una situazione simmetrica. Sanno perfettamente di avere ragione loro, non certo il paziente furioso o il rapinatore armato. Però si comportano come se la situazione fosse simmetrica, ossia come se anche il loro interlocutore fosse dotato di razionalità e di ragioni più o meno valide. Lo scopo della contro-escalation, infatti, non è affermare la propria ragione, ma evitare che il conflitto si trasformi in tragedia, con l’accoltellamento dell’infermiere o l’uccisione degli ostaggi.

Ed ecco il punto. La difficoltà del passaggio da una situazione di escalation a una di contro-escalation sta nel fatto che occorre rovesciare completamente il registro e gli obiettivi della comunicazione. E bisogna farlo in contraddizione con tutto ciò che si è fatto fino a quel momento. Un’operazione che è particolarmente dolorosa per la parte in causa che, obiettivamente, ha più ragione (o meno torto).

Ma perché è così difficile cambiare registro?

La ragione profonda della difficoltà è di tipo logico: la medesima azione cambia di significato (e di razionalità) a seconda che si sia in una fase di escalation o in una di contro-escalation.

Facciamo un esempio. Il recente gesto del ministro degli esteri Lavrov (aprire a colloqui di pace in margine al prossimo G-20) è un segnale di debolezza (Putin ha paura, eccetera) se lo collochiamo in una fase di escalation, ma diventa un segnale di apertura (Putin è disposto a trattare) se lo leggiamo in una fase di contro-escalation. Reciprocamente, la conferma delle esercitazioni nucleari Nato della prossima settimana è un messaggio di forza (mostrare i muscoli) se la collochiamo in una fase di escalation, ma diventa un segnale di chiusura (noi non cambiamo) se la leggiamo in una fase di contro-escalation.

Se vuole entrare in una fase di contro-escalation, la politica deve riuscire a non giudicare i propri atti nel registro della fase precedente. Finché si continuerà a pensare che qualsiasi gesto di apertura equivale a “dare ragione a Putin”, nessun percorso di pace sarà possibile.

Ma perché la politica non riesce a passare dalla fase di escalation a quella di contro-escalation, gove?

Fondamentalmente, perché è scomparsa la realpolitik o, se preferite, si è persa la fondamentale lezione dei classici: la distinzione fra razionalità rispetto al valore e rispetto allo scopo (Max Weber), la separazione fra morale e politica (Machiavelli). La crisi ucraina è stata affrontata, finora, esclusivamente nel registro morale, con scarsissima attenzione alle cause della guerra e alle conseguenze delle azioni che si stavano e si stanno intraprendendo. E’ venuto il tempo, se vogliamo provare a entrare in una fase di raffreddamento, o contro-escalation, di rovesciare il registro, e tornare alla politica.

Luca Ricolfi