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Lezioni americane

11 Novembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Sul fatto che le follie del politicamente corretto abbiano aiutato Trump, in questa elezione come in quella del 2016, quasi tutti convengono. Meno chiaro, invece, è quali lezioni, dalla vittoria di Trump e dalla sconfitta di Harris, possano trarre la sinistra e la destra in Europa.

A prima vista, chi ha più da imparare è la sinistra. Per lei, la lezione principale è che l’adesione acritica alle istanze del politicamente corretto (cultura woke, ideologia gender, cancel culture) è una zavorra elettorale insostenibile, tanto più se – come
accade in Italia, Francia, Germania – il mondo progressista è lacerato da profonde divisioni. È vero che la cosiddetta cultura dei diritti è diventata, da almeno tre decenni, il principale cemento identitario della sinistra e del suo sentimento di superiorità morale, ma bisognerà prima o poi prendere atto che continuare su quella strada la allontana sempre più non solo dai ceti popolari (che hanno altre priorità, a partire dalla sicurezza) ma anche da una parte del mondo femminile, che non vede di buon occhio le istanze dell’attivismo trans, specie quando comportano invasione degli spazi delle donne (carceri, competizioni sportive, centri anti-violenza, eccetera), rischi di indottrinamento nel mondo della scuola, transizioni di genere precoci per i minorenni, promozione della GPA (utero in affitto). Se vuole tornare a vincere, la sinistra dovrebbe smettere di attribuire ogni sconfitta alla disinformazione e ai poteri forti, e semmai prendere atto che aveva ragione Norberto Bobbio quando, a metà degli anni ’90, la avvertiva che rinunciare alla stella polare dell’uguaglianza a favore di quella dell’inclusione, come le suggeriva il sociologo Alessandro Pizzorno, era un errore, foriero di arretramenti e sconfitte.

Ma forse anche la destra avrebbe qualcosa da imparare, specie in Italia. Visto da destra, il follemente corretto di cui la sinistra si è resa prigioniera può diventare una straordinaria opportunità di definizione di sé stessa per così dire “a contrario”.

Culturalmente, la destra è sempre di più, non solo in Italia, l’unico argine significativo alla deriva woke negli innumerevoli campi in cui si manifesta. Anziché puntare sul controllo dell’informazione, sull’occupazione di posizioni nel mondo della cultura, su improbabili incursioni nello star system – più in generale: sul velleitario progetto di ribaltare l’egemonia culturale della sinistra – alla destra converrebbe forse prendere atto che la sua forza non sta nell’occupazione più o meno maldestra delle istituzioni, ma nell’aderenza alle istanze e alle visioni del mondo di ampi settori delle società capitalistiche avanzate.

Se le forze di destra stanno avanzando in Europa, e alcune loro istanze (come il controllo dell’immigrazione) si stanno manifestando anche a sinistra (emblematico il successo del partito di Sahra Wagenknecht in Germania), è perché quello in atto è un profondo smottamento della sensibilità collettiva. Uno smottamento che, fondamentalmente, consiste in una presa di distanze dalla cultura dei diritti e dai suoi eccessi, e si traduce in una richiesta di porre limiti, argini, freni ad alcune tendenze del nostro tempo. È dentro questa cornice che prendono forma la richiesta di contenere l’immigrazione illegale, garantire la sicurezza, ma anche frenare l’espansione di diritti percepiti come arbitrari (la scelta soggettiva del genere), o pericolosi (cambi di sesso degli adolescenti), o contrari all’ordine naturale delle cose (utero in affitto), o semplicemente pericolosi per le donne (invasione degli spazi femminili).

Già, le donne. Pochi ne parlano, ma uno dei fenomeni sociali più significativi degli ultimi anni sono i cambiamenti che stanno avvenendo nel femminismo, e più in generale nel comportamento elettorale delle donne. Nella campagna per le presidenziali americane è successo, per la prima volta, che una parte delle femministe, negli Stati Uniti (Kara Dansky) ma anche nel Regno Unito (Julie Bindel), si siano poste la domanda fatidica, fino a ieri inconcepibile: dobbiamo prendere in considerazione l’ipotesi di votare conservatore?

E non è tutto. Anche sul piano delle leadership, il panorama si sta facendo interessante. Dopo la recentissima ascesa di Kemi Adegoke, donna nera di origini nigeriane, a leader del partito conservatore britannico, sono immancabilmente donne
a guidare la destra nei quattro più grandi paesi europei: Marine Le Pen in Francia, Alice Weidel in Germania, Giorgia Meloni in Italia, e appunto Kemi Adegoke nel Regno Unito.

Insomma, sia sinistra sia a destra, il materiale di riflessione non manca.

[articolo uscito sul Messaggero il 10 novembre 2024]

Elezioni Usa – I silenzi di Harris e Trump

4 Novembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Se i sondaggi sulle elezioni americane non mentono, il risultato finale sarà vicino a un pareggio. E immancabilmente ascolteremo innumerevoli spiegazioni dell’esito del voto, che sarà agevole attribuire a specifici fattori (l’immigrazione, l’economia, la
sanità…) o a specifici gruppi sociali (i maschi bianchi, gli afro-americani, le donne…). Quando la vittoria è risicata, quasi tutto e tutti possono – con il senno di poi – apparire come decisivi, perché basta ipotizzare un piccolo spostamento di voti di una categoria o di uno Stato per immaginare un esito opposto a quello effettivo.

C’è un gruppo sociale, tuttavia, che sembra – in questa elezione – poter svolgere un ruolo particolarmente rilevante, anche a livello simbolico: quello delle donne. Questo non tanto perché le donne hanno un tasso di partecipazione elettorale più elevato di
quello degli uomini, ma perché mai come in questa occasione sono stati così centrali alcuni temi cruciali per la condizione femminile.

Sotto la voce onnicomprensiva “diritti riproduttivi”, negli Stati Uniti da anni si discute di almeno due questioni, che da noi (e più in generale in Europa), vengono trattate sotto due etichette distinte: diritti LGBT e diritto all’aborto. La cosa interessante è che le due questioni tendono a giocare un ruolo opposto nella dinamica elettorale. Detto brutalmente: parlare di diritti LGBT, tendenzialmente, favorisce Trump; parlare di diritto all’aborto, tendenzialmente, favorisce Harris.

Fra i diritti LGBT, più o meno estensivamente interpretati, rientrano rivendicazioni come l’autodeterminazione di genere o self-id (poter cambiare genere senza ostacoli o restrizioni), le transizioni di sesso/genere dei minorenni, l’accesso a tecniche riproduttive controverse, come la Pma (procreazione medicalmente assistita) e soprattutto la Gpa (gestazione per altri, o utero in affitto). Su questo terreno, i conservatori sono nettamente avvantaggiati, perché sono numerose le donne che non vedono di buon occhio l’invasione degli spazi femminili da parte di maschi transitati a femmine in luoghi come le carceri, i centri anti-violenza, le competizioni sportive (ricordate il caso Khelif?), più in generale nelle situazioni in cui le donne godono di speciali tutele e privilegi rispetto ai maschi (quote rosa, età della pensione, servizio militare ecc.).

Che questo sia un vantaggio dei conservatori e un punto debole dei democratici è del resto testimoniato dalle numerose e sempre più frequenti prese di posizione anti diritti LGBT o anti self-id da parte di donne di fede progressista, da Hillary Clinton (già due
anni fa), alle femministe americane (Kara Dansky, dirigente di Women’s Declaration International), e ora pure britanniche (Joanne Rowling e Julie Bindel pochi giorni fa). Prese di posizione che, in alcuni casi, hanno portato le protagoniste a porre la domanda scandalosa, fino a ieri impronunciabile: dobbiamo, in quanto femministe radicali, prendere in considerazione la possibilità di votare conservatore

Le cose cambiano radicalmente se, dai diritti riproduttivi in chiave LGBT, passiamo ai diritti riproduttivi in termini di contraccezione e aborto. Qui è Trump ad avere tutto da perdere, perché il recente (giugno 2022) annullamento della sentenza Roe vs Wade ha permesso a molti Stati a guida repubblicana di limitare fortemente (quando non di vietare del tutto) il ricorso all’aborto, con grave restrizione della libertà delle donne di disporre del proprio corpo. È chiaro che, questa, è una carta preziosa in mano a Kamala Harris, che può presentarsi come colei che è in grado di ripristinare una fondamentale libertà perduta.

Si capisce meglio, alla luce di queste asimmetrie, perché – sui temi che più interessano le donne – entrambi i candidati siano stati reticenti. Kamala Harris non ha mai voluto prendere le distanze, come le chiedevano alcune femministe, dalle politiche del suo vice Tim Walz che, come governatore del Minnesota, ha convintamente favorito le transizioni di sesso/genere precoci, a dispetto delle emergenti evidenze scientifiche contrarie. Analogamente, Trump non ha mai preso una posizione netta e chiara sul diritto all’aborto, preferendo – pilatescamente – rimandare tutto alle scelte elettorali dei cittadini nei singoli Stati.

Di qui, un vero rebus per le donne. Una elettrice che, come diverse femministe, considerasse l’aborto un diritto inalienabile, ma al tempo stesso fosse risolutamente contraria al self-id e ai cambi di sesso degli adolescenti, non saprebbe per chi votare.

Ecco un altro motivo per cui quel che succederà domani è terribilmente difficile da indovinare.

[articolo uscito sul Messaggero il 3 novembre 2024]

Politiche aziendali e elezioni americane – La grande ritirata

26 Agosto 2024 - di Luca Ricolfi

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Se siete italiani e sentite la parola ‘dei’ pensate agli dei dell’Olimpo: Zeus, Era, Afrodite, Ares, Poseidone… Ma se siete inglesi o americani, la prima cosa che vi viene in mente è la triade Diversity, Equity, Inclusion (DEI), che da anni impazza nelle aziende, nelle grandi burocrazie, nelle università.

Di che cosa si tratta?

Dipende. In alcuni casi è un generico impegno dell’organizzazione a tutelare le minoranze, promuovere l’inclusione dei gruppi sociali marginali, garantire un ambiente aperto e amichevole a omosessuali, transessuali e ogni altra comunità più o meno emarginata, svantaggiata, bisognosa di protezione. In altri casi significa anche l’assunzione di uno staff di specialisti per garantire il rispetto dei principi precedenti, anche con stage di sensibilizzazione-rieducazione dei dipendenti (in particolare maschi bianchi eterosessuali). In altri casi ancora significa qualcosa di ulteriormente costoso e impegnativo: una politica delle assunzioni basata sulle quote, ovvero su obiettivi di riequilibrio della composizione della forza lavoro: in genere, più donne, più neri, più ispanici, più immigrati, più omosessuali, più transgender, eccetera.

Le politiche DEI e le loro varianti esistono da parecchi anni, ma hanno avuto un boom dopo l’uccisione dell’afroamericano George Floyd (25 maggio 2020) e l’esplosione del movimento Black Lives Matter. Ultimamente, invece, sono in contrazione, e a giudicare dalle notizie più recenti la caduta si sta facendo sempre più rovinosa. Dalla cosiddetta “agenda DEI” si sono ritirate o hanno manifestato l’intenzione di fare un passo indietro aziende di ogni tipo, compresi marchi famosissimi come Jack Daniels, Harley-Davidson, Tesla, Microsoft, Google, Meta, Zoom, e molte altre.

La vicenda potrebbe sembrare poco più che una curiosità sui costumi della società americana se non fosse che ha uno stretto rapporto con le imminenti elezioni presidenziali (novembre prossimo): la precipitosa ritirata di tante organizzazioni dall’agenda DEI è anche dovuta alla mobilitazione ostile dei consumatori di orientamento conservatore o libertario, l’agenda DEI stessa sta diventando uno dei temi della campagna elettorale. Agenda DEI, infatti, significa in definitiva adesione alla visione del mondo woke, basata sulla colpevolizzazione dei bianchi, l’ossessione per il “razzismo sistemico”, i diritti LGBT+, la difesa a oltranza del politicamente corretto. Ritirarsi dall’agenda significa, di fatto, sconfessare anni di propaganda woke. Le organizzazioni sono state ben liete di promuovere obiettivi sociali finché questo migliorava la reputazione e attirava clienti, ma sono divenute repentinamente sospettose e prudenti quando si sono rese conto che frotte di clienti rischiavano di abbandonarle.

Si potrebbe pensare che, come già nel 2016, l’attacco alle follie del politicamente corretto possa essere un’arma in mano al candidato Trump. Un’arma che nelle ultime settimane è stata resa ancora più acuminata da una serie di eventi.

Le Olimpiadi di Parigi, ad esempio, hanno dato modo a Trump di posizionarsi contro la propaganda woke (cerimonia di apertura in salsa LGBT+) e soprattutto a difesa delle atlete (sul caso Khelif: “con me gli uomini non parteciperanno agli sport femminili”). Ed è dei giorni scorsi la presa di posizione di una parte delle femministe americane contro Tim Walz (il vice scelto da Kamala Harris), accusato di aver favorito – come governatore del Minnesota – le transizioni di sesso precoci, anche contro il parere dei genitori e a dispetto delle sempre più numerose evidenze scientifiche contrarie. La femminista Kara Dansky, dirigente del gruppo Women’s Declaration International, impegnato nella difesa dei diritti femminili basati sul sesso biologico, ha chiesto a Kamala Harris di dichiarare “che il sesso è immutabile e che nessun uomo sarà mai una donna”. Se non lo farà, e lascerà a Trump la difesa delle donne (e del buon senso), per molte elettrici progressiste sarà difficile votare per i Democratici.

E tuttavia non è detto che, alla fine, l’attacco all’agenda DEI e alla cultura woke basti a Trump per prevalere su Kamala Harris. La partita è più che mai aperta non solo perché – ovviamente – la campagna elettorale si giocherà anche su altri temi, ma perché in materia di diritti pure il fronte progressista ha le sue armi. Non ultima la campagna di denigrazione sistematica delle femministe ostili alle rivendicazioni trans, da anni bollate con l’acronimo dispregiativo TERF (Trans Exclusionary Radical Feminist), un epiteto toccato anche a Joanne Rowling, l’inventrice di Harry Potter.

Ma soprattutto non dobbiamo dimenticare che l’agenda DEI ora in crisi è stata in pieno vigore per almeno tre anni (dalla metà del 2020 alla metà del 2023) e le sue istanze sono profondamente penetrate nella società americana. Alcune rilevazioni del
Pew Research Center rivelano che ancora l’anno scorso il 52% dei dipendenti americani erano sottoposti all’agenda DEI sul posto di lavoro, e il 56% degli elettori ne approvava gli obiettivi progressisti.

Insomma, la partita è aperta.

[Articolo trasmesso al Messaggero il 24 agosto 2024]

Commento a Emanuele Felice. E dei rottamati sociali che ne facciamo?

18 Dicembre 2018 - di Dino Cofrancesco

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Un osservatore acuto e attento delle cose italiane, Emanuele Felice, ha scritto un articolo, Serve un’idea di società (‘Repubblica’ 12 dicembre u.s.) che, come spesso accade, ha un incipit realistico e convincente che, però, quasi subito si perde nelle nebbie della retorica dei ‘buoni sentimenti’.   Leggi di più

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