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Sul discorso di Vance – Tradimento dei valori occidentali?

19 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

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Sulla condotta della guerra in Ucraina da parte dell’Europa e degli Stati Uniti si possono avere le idee più disparate. Non è palesemente irragionevole la posizione di quanti paventano il pericolo che la Russia voglia annettersi altre porzioni dell’Europa, e dunque pensano che abbia fatto bene la Nato a fornire aiuto alla “resistenza” ucraina. Ma non è neppure palesemente irragionevole la posizione diquanti fanno notare che la precedente espansione a est della Nato, con l’obiettivo di includere l’Ucraina nel blocco occidentale. sia stata una mossa quantomeno azzardata.

Quello che invece, personalmente, ritengo sia stato irragionevole (e anti-democratico) è la chiusura a riccio che l’informazione main stream ha adottato dallo scoppio della guerra, silenziando quasi tutte le voci esplicitamente critiche. Sulla guerra, come pochi anni prima sul Covid, i grandi media hanno scelto di tappare la bocca alle voci dissenzienti con la linea ufficiale (vaccini + armi), costrette a rifugiarsi su testate minori o siti eterodossi, con conseguente perdita di ogni possibilità di incidere sul discorso pubblico articolando punti di vista alternativi o sollevando utilissimi dubbi.

È anche a causa di questa lunga stagione di conformismo e autocensura collettiva che l’Europa si trova oggi completamente spiazzata, quasi incredula di fronte al fatto che le cose non sono andate come aveva sperato, e come fino all’ultimo si è ostinata a credere che stessero andando. Eppure non ci voleva molto ad accorgersi che la guerra di Putin era solo il secondo tempo della guerra del Donbass, o che l’espansione della Nato ai confini della Russia poteva essere percepita come una minaccia, o che le sanzioni facevano più male a noi che alla Russia, o che la controffensiva ucraina era fallita da tempo. E non occorreva essere raffinati strateghi per capire che, trattando Zelensky come una star mediatica e un eroe (ricordate i parlamenti europei collegati e
plaudenti nei primi mesi di guerra?) e Putin come nient’altro che un criminale di guerra, diventava automaticamente impossibile ritagliarsi quel ruolo di mediatori e facilitatori di un compromesso da cui ora si viene brutalmente estromessi dall’attivismo del neo-eletto presidente degli Stati Uniti.

Alla luce di queste riflessioni, non vedo nulla di strano, o di sorprendente, nei toni e nella sostanza dei discorsi di Donald Trump e di James David Vance (suo vice) quando tendono a escludere l’Europa dalla trattativa con la Russia, stante il fatto che l’Europa stessa è rigidamente schierata dalla parte di uno dei due contendenti, non ha fatto tentativi credibili di fermare la guerra, e per di più è militarmente debolissima, se non irrilevante. Dove invece il discorso tenuto nei giorni scorsi da Vance mi appare paradossale, anzi spudorato, è quando accusa l’Europa di avere tradito i valori occidentali, e in particolare la difesa della libertà di parola, il principio del free speech. Ora, è vero che Vance ammette le responsabilità del suo Paese, ma il punto è che le scarica tutte sull’amministrazione Biden (2021-2024) e sul suo ricorso alla censura con il pretesto della lotta alla disinformazione e ai discorsi d’odio. Non si può sorvolare sul fatto che proprio negli Stati Uniti è nato il politicamente corretto, è negli Stati Uniti che, intorno al 2012-2013 (ben prima dell’era Biden), è avvenuta la sua mutazione in “follemente corretto”, è dagli Stati Uniti che l’Europa ha importato quel morbo. E l’aspetto più grave del fenomeno, i licenziamenti dei professori e l’intimidazione degli studenti non allineati al credo woke, non è certo venuto meno durante il primo mandato di Trump (2017-2020), che ne ha anzi visto una recrudescenza, sotto i colpi del MeToo e del movimento Black Lives Matter, esploso dopo l’uccisione di George Floyd.

Resta il fatto, comunque, che il discorso di Vance – al di là della grande questione del modo di terminare la guerra in Ucraina – ha posto sul tappeto un tema vero: quali siano, oggi, i “valori condivisi” dell’occidente, ammesso che ne esistano. Non solo il free speech, su cui è difficile dargli torto, ma anche la democrazia stessa, messa in forse – secondo Vance – dall’annullamento delle elezioni in Romania, ma anche dal mancato rispetto della volontà popolare in materia di politiche migratorie. E, aggiungerei io, dal mancato rispetto della medesima volontà popolare in America, ai tempi dell’assalto dei trumpiani a Capitol Hill.

Ma questo, evidentemente, Vance non poteva dirlo.

[articolo uscito sulla Ragione il 18 febbraio]

A proposito del caso Almasri – Ipocrisia?

3 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

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Credo siano in pochissimi a sapere quel che davvero è successo nelle convulse giornate che hanno portato prima all’arresto, poi alla scarcerazione, infine al rimpatrio su un aereo di Stato italiano, del capo della polizia giudiziaria libica. In compenso siamo in tantissimi ad esserci fatte alcune domande fondamentali: perché il governo ha scelto di rimpatriare Almasri anziché arrestarlo? Perché Giorgia Meloni non ha detto a chiare lettere quello che quasi tutti credono di sapere, e cioè che la vera ragione del frettoloso rimpatrio di Almasri è stato il timore di ritorsioni del governo libico, pronto a scagliare verso il nostro paese orde di richiedenti asilo? E infine: perché Giorgia Meloni non ha fatto come Trump, che non ha esitato a sbandierare ai quattro venti la durezza delle proprie misure contro i migranti illegali? Perché tanta ipocrisia nella vicenda del torturatore libico?

Come cittadino, sono sconcertato come tutti. Ma, come sociologo, non lo sono per niente. Viste con la lente della mia disciplina, le vicende del caso Almasri sono perfettamente comprensibili. Uno dei cardini della sociologia, posto da Max Weber fin dal 1919 nel saggio La politica come professione, è la distinzione fra etica della convinzione, o dei principi (tipica di missionari e predicatori), e etica della responsabilità (che secondo Weber dovrebbe guidare i politici). Agisce secondo l’etica della convinzione chi opera secondo principi ritenuti giusti, senza curarsi delle conseguenze pratiche che ne possono derivare. Agisce secondo l’etica della responsabilità chi valuta le proprie azioni non solo in base a principi etici o morali, ma anche in base alle loro conseguenze. Ad esempio: un cultore dell’etica della convinzione in nessun caso potrebbe sottoporre a sevizie e torture un altro essere umano, ma che fare se torturare un terrorista è l’unico modo per evitare la morte di migliaia di innocenti minacciati da un ordigno a orologeria che solo lui può disinnescare?

Ebbene, alla luce della distinzione weberiana, è chiaro che Giorgia Meloni si è mossa secondo l’etica della responsabilità, mettendo sui due piatti della bilancia sia la palese ingiustizia di lasciare libero un criminale, sia la (meno palese) ingiustizia di esporre i cittadini italiani alle conseguenze di vari tipi di possibili ritorsioni (ripresa degli sbarchi, sequestri di cittadini italiani in Libia, per non parlare degli interessi dell’ENI in quel paese). Nell’ottica di Weber, stupefacente e discutibile sarebbe stato che il governo avesse agito secondo l’etica della convinzione, anziché secondo quella della responsabilità. Se le cose stanno così, a maggior ragione sembrerebbero porsi gli altri interrogativi: perché non proclamare le proprie ragioni davanti ai cittadini? Perché non adottare una postura trumpiana? Perché tanta reticenza e ipocrisia?

Anche qui la sociologia ha molto da dire, benché non sia stata certo la prima a farlo. Secondo Jon Elster, uno dei più grandi scienziati sociali del Novecento, l’ipocrisia praticata nella scena pubblica ha una fondamentale funzione di coesione sociale, di irrobustimento delle istituzioni, di rafforzamento di valori positivi condivisi. A suo modo, e paradossalmente, funziona come una “forza civilizzatrice”. Il cattivo che ipocritamente si finge buono, proprio attraverso quella finzione proclama il valore della bontà. È esattamente quello che, quattro secoli fa, aveva intuito François de La Rochefoucauld con il suo fulminante aforisma: “l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio tributa alla virtù”. Il vizioso che si finge virtuoso riconosce con ciò stesso il valore della virtù.

Ed eccoci al tema della mancata postura trumpiana. Perché adottare un profilo basso? Perché non maramaldeggiare assumendo atteggiamenti ostili nei confronti dei migranti detenuti in Libia?

L’interpretazione malevola è che il governo, come i governi precedenti, si vergogni degli accordi con la Libia ma in cuor suo (ammesso che un governo abbia un cuore) ne è ben felice, purché gli accordi funzionino. L’interpretazione del sociologo che ha recepito la lezione di Elster è che siamo in Europa, non in America. Il nostro orizzonte valoriale certo include la necessità di trovare una soluzione al problema della sicurezza e dei confini, ma include anche l’imperativo etico di rispettare i diritti dei richiedenti asilo. È per questo che, in Italia, nessuno – nemmeno la destra – si permette di fare la faccia feroce, come succede in America con Trump e in Germania con l’Afd di Alice Weidel. L’imbarazzo di Meloni è l’ammissione che, nell’affare Almasri, più che fare la cosa giusta il governo ha scelto il male minore, nonché l’implicito riconoscimento che i campi di detenzione in Libia sono un problema, e non da oggi (già nel 2018 ne diedero un resoconto illuminante Franco Viviano e Alessandra Ziniti in Non lasciamoli soli, Chiare Lettere).

Forse è questo il motivo per cui, nonostante la maggioranza degli italiani non approvi il comportamento del governo in questa vicenda, il consenso alla premier e al suo partito restano alti, se non in ulteriore ascesa. Segno che, almeno nei paesi mediterranei, tanto per l’opinione pubblica quanto per la classe di governo quello del rapporto con l’immigrazione resta un tragico dilemma, più che una crociata politica da intraprendere con la baldanza di chi si sente dalla parte della ragione.

[articolo uscito sul Messaggero il 2 febbraio 2025]

Oltre il follemente corretto

27 Gennaio 2025 - di Luca Ricolfi

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Ormai lo riconoscono tutti: una delle ragioni fondamentali del successo di Trump, oggi come otto anni fa, sono stati gli eccessi del
politicamente corretto. O, se preferiamo, la progressiva trasformazione del politicamente corretto in “follemente corretto”, un processo che – negli Stati Uniti – è durato una decina di anni, grosso modo dal 2012 al 2022. Pilastri di questo processo sono stati la colpevolizzazione (e discriminazione) dei bianchi, la proliferazione degli staff DEI (Diversity,Equity, Inclusion) nelle imprese e nelle amministrazioni, le transizioni di genere precoci, la diffusione della gestazione per altri (utero in affitto), le limitazioni alla libertà di espressione, la diffusione della cancel culture, la politicizzazione dell’insegnamento universitario, le discriminazioni verso docenti e studiosi non allineati, l’ingresso di maschi biologici (in transizione di genere) negli spazi delle donne, incluse carceri e gare sportive.

Tutto questo aveva cominciato a scricchiolare per conto proprio già un paio di anni fa, ma oggi – dopo la vittoria elettorale di Trump – sta franando rovinosamente, travolto non solo dalla rivolta del senso comune ma, molto più concretamente, dagli “ordini esecutivi” del neo-presidente, che uno dopo l’altro stanno smontando tutti i caposaldi economici, sociali e culturali dell’ideologia woke. Apparentemente, un grandioso contrappasso collettivo, che giustamente colpisce – e punisce – gli eccessi di una parte politica, quella liberal e progressista.

Ma è solo questo che sta accadendo?

Non mi sembra. Intanto, bisogna notare che la reazione contro la cultura woke, fortissima negli Stati Uniti, robusta nel Regno Unito, agli esordi in Canada, è debolissima se non inesistente in altre parti dell’occidente, e in particolare in alcuni paesi europei. Spagna e Germania, ad esempio, hanno entrambe varato negli ultimi anni una “Ley Trans” (legge sulla transizione di genere), che rende completamente libera la scelta del genere, suscitando la vigorosa (e indignata) reazione di parte del mondo femminile. Come spesso accade, i fenomeni culturali sono sfasati nel tempo: noi europei abbiamo importato la cultura woke dal mondo anglosassone, e ce ne stiamo ancora entusiasmando nel momento in cui loro la stanno già seppellendo.

C’è però soprattutto un altro elemento che, a mio parere, complica il quadro. Quello che sta avvenendo negli Stati Uniti, e potrebbe presto arrivare anche da noi, non è semplicemente il superamento del follemente corretto, il ritorno alla normalità, il ripristino del senso comune. Quella che si sta profilando è una sorta di sanguinosa rivincita, che rischia – insieme alle degenerazioni della cultura woke – di sopprimere anche le buone ragioni che, cinquant’anni fa, ispirarono la nascita del politicamente corretto. Trattare il prossimo con rispetto, combattere l’odio, non discriminare in base al colore della pelle o altri caratteri ascritti (sesso, razza, etnia, nazionalità), tutelare le minoranze oppresse o emarginate, cercare di includere le fasce o marginali, erano ottime cause ieri ma lo sono anche oggi. Il peccato originale della cultura woke non è di avere sollevato determinati problemi, ma di aver imposto soluzioni assurde, e di averlo fatto con hybris, ovvero con fanatismo e disprezzo per i non allineati all’ortodossia progressista.

Di qui un rischio, un grande rischio: che la reazione al follemente corretto travolga anche il nucleo etico e razionale del politicamente corretto delle origini, e che – per insofferenza agli eccessi – si finisca per “gettar via il bambino con l’acqua sporca”. L’alternativa al follemente corretto non può essere il politicamente scorretto, proclamato con baldanza e spregio delle minoranze. La vera alternativa al follemente corretto è tornare alla ragionevolezza, o se preferite al sogno di Martin Luther King, quello di una società “cieca al colore” (colour-blind), una società in cui “i miei quattro figli piccoli non saranno giudicati per il colore della loro pelle ma per ciò che la loro persona contiene”.

Questo è il sogno tradito dalla cultura woke, con la sua pretesa di regolare la vita sociale in base a caratteri ascritti e identità percepite. A quel sogno occorre tornare. E l’Europa, forse più dell’America, è oggi in condizione di provarci.

[articolo uscito sul Messaggero il 26 gennaio 2025]

Sulla svolta di Zuckerberg – Requiem per il fact checking

15 Gennaio 2025 - di Luca Ricolfi

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La marcia indietro di Zuckerberg sul fact checking e sulle politiche di assunzione pro-minoranze sessuali ha verosimilmente origine nella pavidità, o meglio nella sete di potere. Il padrone di META fa indubbiamente parte dell’establishment, e non ha laminima intenzione – ora che a comandare sono Trump & Musk – di rinunciare alla propria centralità, con i vantaggi che ne conseguono in termini di denaro, potere, prestigio. La tesi che la svolta sia maturata da una riflessione sulla libertà nella Rete, messa a repentaglio dal gigantesco apparato di algoritmi-sentinella e cacciatori di fake news, è a sua volta un tipico esempio di fake news. La libertà della Rete non c’entra nulla, e non c’è nulla di realistico nell’idea che – lasciando miliardi di utenti liberi di scorazzare e insultarsi in Rete – la verità emerga, grazie alla “mano invisibile” del web. Quel che avremo, in realtà, sarà solo un po’ più di Far West.

Detto tutto questo, però, non sono in alcun modo fra quanti rimpiangono l’era del fact checking. E non lo sono per esperienza diretta, come cittadino e come studioso.

Come cittadino, non ho apprezzato il modo in cui, durante la pandemia e la guerra in Ucraina, la macchina del fact checking – per lo più in sintonia con la grande stampa e le grandi reti tv – ha impedito ogni discussione libera, documentata e intellettualmente onesta sul vaccino e sul conflitto Russia-Ucraina. Ricordate come veniva trattato chiunque dicesse che i vaccini erano sperimentali? o chi segnalava gli effetti avversi? o chi dubitava dell’eticità delle restrizioni alla libertà di circolazione?
o chi sosteneva che i vaccinati potessero trasmettere il virus?

Non solo. Ricordate come veniva redarguito chi, a proposito di guerra in Ucraina, non iniziasse il suo intervento premettendo che c’era un aggredito e c’era un aggressore? Ricordate l’etichetta di “putinismo” appioppata a chiunque dicesse qualcosa che potesse suonare come giustificazione, o attenuazione di responsabilità, della Russia? Ricordate quante voci un tempo autorevoli sono state cancellate dal dibattito pubblico perché non sufficientemente e non abbastanza convintamente schierate con la parte giusta?

E i cosiddetti fatti? Quante ipotesi su fatti non accertati sono state bollate come bufale complottiste, salvo poi ammettere – mesi o anni dopo – che erano vere, o non del tutto destituite di fondamento?

Ma veniamo al me studioso (sociologo e analista dei dati). Per mestiere sono stato per anni un frequentatore di siti di fact checking. Ebbene, la mia esperienza è stata la seguente: quasi sempre, dopo poche righe, capivo quale era l’intenzione del fact checker, ossia qual era l’obiettivo politico del suo lavoro di smontaggio, o debunking, come ora si preferisce chiamarlo. E altrettanto quasi sempre mi rendevo conto che lo scopo del fact checking era difendere, affermare, imporre qualche variante dell’ortodossia progressista.

Non è tutto però. Qualche volta, se il fact checking era firmato, andavo a vedere quali erano le credenziali scientifiche del fact checker. E invariabilmente dovevo constatare che non avevano nulla a che fare con l’argomento affrontato. Generiche competenze
in materia di comunicazione, lauree in discipline deboli, esperienze nei campi più svariati erano alla base di analisi che, fra gli studiosi, hanno sempre richiesto competenze approfondite e specialistiche.

Dunque, il fact checking è stato, in questi anni, fondamentalmente privo dei due requisiti che, soli, lo legittimerebbero: l’imparzialità e la competenza. Più che fact checking, è stato fake checking. Un disastro frutto di due grandi processi storici: da un lato, il “tradimento dei chierici”, che negli anni ’20 del secolo scorso – come spiegò a suo tempo Julien Benda – condusse gli intellettuali a schierarsi acriticamente con i fascismi e i nazionalismi, e negli anni ’20 del nostro secolo li vede compattamente schierati con il pensiero unico progressista; dall’altro, lo sdoganamento – in nome della democrazia – di tutte le opinioni e di tutte le fonti, un processo culminato con l’ascesa dei movimenti populisti e qualunquisti.

E ora?

Ora il quadro è in rapido cambiamento: stiamo passando da un Far West in cui gli sceriffi sono quasi tutti corrotti, a un Far West senza sceriffi.

Voi che cosa preferireste?

[articolo uscito sulla Ragione il 14 gennaio 2025]

Il rebus di Elly

13 Novembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Non vorrei essere al posto di Elly Schlein. Se prima della vittoria di Trump poteva ancora accarezzare l’idea di una possibile futura vittoria della sinistra, oggi coltivare quel sogno è diventato ancora più difficile di prima. Le elezioni americane hanno mostrato infatti almeno due cose. La prima è che l’adesione acritica alla cultura dei diritti, da cui Kamala Harris non ha saputo prendere le distanze, è una pesantissima zavorra nella corsa elettorale. La seconda è che la sinistra non ha più un’idea di società, o meglio di cambiamento degli assetti sociali, capace di convincere gli strati popolari.

Il perché lo ha spiegato, con qualche tortuosità, Massimo Cacciari in un mesto articolo comparso sulla Stampa pochi giorni fa. Ridotto all’osso, il suo ragionamento è il seguente. La sinistra non ha perso per ragioni contingenti, ma per ragioni strutturali. E la ragione strutturale fondamentale è che ai ceti popolari impauriti e impoveriti la sinistra stessa non è più in grado di offrire la risposta che dava un tempo: più welfare finanziato in deficit. Di qui una certa comprensione (manifestata in altri interventi) per i limiti della legge di bilancio varata da Meloni, e il riconoscimento che – vigente il patto di stabilità europeo – ad analoghi vincoli si troverebbe soggetto un eventuale governo Schlein.

Rimedi?

Come sempre, una lieve oscurità avvolge i pensieri del filosofo veneziano, però leggendo tra le righe la risposta la si intuisce: quello su cui la sinistra dovrebbe puntare è una politica di sviluppo “radicalmente riformista”, basata su “una efficace politica ridistributiva”. In concreto: ripudio della stagione renziana, che abbassava le tasse e puntava sulla crescita, nella credenza che “quando la marea sale fa salire tutte le barche”; e ritorno a una stagione bertinottiana, in cui “anche i ricchi piangono”, perché è dalle loro tasche che vengono prelevate le risorse necessarie per rifinanziare lo stato sociale (sanità e scuola innanzitutto).

Abbiamo trovato la quadra, dunque?

In un certo senso sì. La linea Cacciari ha una sua logica. Prende atto che l’Europa non ci lascia finanziare il welfare facendo ulteriore debito, e dà per scontato il ripudio irreversibile della della “terza via”, a suo tempo entusiasticamente sottoscritta da
Renzi. Un ripudio che, a ben guardare, è un punto di forza del nuovo gruppo dirigente del Pd, che alle reiterate domande della destra “come mai, quel che proponete ora, non lo avete fatto quando eravate al governo?” può tranquillamente rispondere “noi al governo non c’eravamo, e il Pd di allora è il contrario del Pd che stiamo cercando di costruire adesso”.

Apparentemente tutto fila. C’è un punto, però, che non funziona. Finora Elly Schlein si è ben guardata dall’ammettere (come invece fa Cacciari) che, stanti i vincoli europei, non si poteva fare una legge di bilancio sostanzialmente diversa (e più pro
ceti bassi) di quella varata da Meloni. Ma soprattutto si è ben guardata dal dire la verità sulle tasse, e cioè che già solo per raddrizzare sanità e scuola occorre prevedere un prelievo fiscale aggiuntivo ingente, permanente, e inevitabilmente gravante anche sul ceto medio-alto, non certo sui soli ricchi. In breve: occorre che il Pd diventi come il Labour Party di Jeremy Corbyn, che però proprio con quel tipo di programma non era mai riuscito a battere i conservatori.

Se riflettiamo su questo nodo, forse capiamo meglio anche perché – negli ultimi anni – il Pd è diventato sempre più il partito dei diritti, attento alle rivendicazioni delle minoranze sessuali, ossessionato dalla cultura woke, irremovibile nella tutela dei migranti, paladino delle grandi battaglie di civiltà, ma dimentico dei diritti sociali, dei drammi del lavoro e dello sfruttamento: la ragione è che le battaglie sui diritti civili, a differenza di quelle sui diritti sociali, costano poco, e quindi non mettono a repentaglio i conti pubblici. Voglio dire che, paradossalmente, puntare tutte le carte sulla cultura dei diritti ha il notevole vantaggio di non esporre alla domanda delle domande: ma dove le prendete le risorse? Mentre, puntare sui diritti sociali, quella domanda non permette di eluderla facilmente (anche se, ovviamente, ogni politico fingerà di sapere dove trovarle, quelle benedette
risorse).

Conclusione: tornare a puntare sui diritti sociali, e mettere la sordina su quelli civili, può riavvicinare la sinistra alla sensibilità dei ceti popolari. Più difficile supporre che la stangata fiscale permanente che quel ritorno comporta non spaventi i ceti medi, come già è accaduto con il Labour di Corbyn nel Regno Unito e con il Fronte Popolare di Mélenchon in Francia.

Ecco perché non vorrei essere al posto di Elly Schlein.

[articolo uscito sulla Ragione il 12 novembre 2024]

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