Il rebus di Elly

Non vorrei essere al posto di Elly Schlein. Se prima della vittoria di Trump poteva ancora accarezzare l’idea di una possibile futura vittoria della sinistra, oggi coltivare quel sogno è diventato ancora più difficile di prima. Le elezioni americane hanno mostrato infatti almeno due cose. La prima è che l’adesione acritica alla cultura dei diritti, da cui Kamala Harris non ha saputo prendere le distanze, è una pesantissima zavorra nella corsa elettorale. La seconda è che la sinistra non ha più un’idea di società, o meglio di cambiamento degli assetti sociali, capace di convincere gli strati popolari.

Il perché lo ha spiegato, con qualche tortuosità, Massimo Cacciari in un mesto articolo comparso sulla Stampa pochi giorni fa. Ridotto all’osso, il suo ragionamento è il seguente. La sinistra non ha perso per ragioni contingenti, ma per ragioni strutturali. E la ragione strutturale fondamentale è che ai ceti popolari impauriti e impoveriti la sinistra stessa non è più in grado di offrire la risposta che dava un tempo: più welfare finanziato in deficit. Di qui una certa comprensione (manifestata in altri interventi) per i limiti della legge di bilancio varata da Meloni, e il riconoscimento che – vigente il patto di stabilità europeo – ad analoghi vincoli si troverebbe soggetto un eventuale governo Schlein.

Rimedi?

Come sempre, una lieve oscurità avvolge i pensieri del filosofo veneziano, però leggendo tra le righe la risposta la si intuisce: quello su cui la sinistra dovrebbe puntare è una politica di sviluppo “radicalmente riformista”, basata su “una efficace politica ridistributiva”. In concreto: ripudio della stagione renziana, che abbassava le tasse e puntava sulla crescita, nella credenza che “quando la marea sale fa salire tutte le barche”; e ritorno a una stagione bertinottiana, in cui “anche i ricchi piangono”, perché è dalle loro tasche che vengono prelevate le risorse necessarie per rifinanziare lo stato sociale (sanità e scuola innanzitutto).

Abbiamo trovato la quadra, dunque?

In un certo senso sì. La linea Cacciari ha una sua logica. Prende atto che l’Europa non ci lascia finanziare il welfare facendo ulteriore debito, e dà per scontato il ripudio irreversibile della della “terza via”, a suo tempo entusiasticamente sottoscritta da
Renzi. Un ripudio che, a ben guardare, è un punto di forza del nuovo gruppo dirigente del Pd, che alle reiterate domande della destra “come mai, quel che proponete ora, non lo avete fatto quando eravate al governo?” può tranquillamente rispondere “noi al governo non c’eravamo, e il Pd di allora è il contrario del Pd che stiamo cercando di costruire adesso”.

Apparentemente tutto fila. C’è un punto, però, che non funziona. Finora Elly Schlein si è ben guardata dall’ammettere (come invece fa Cacciari) che, stanti i vincoli europei, non si poteva fare una legge di bilancio sostanzialmente diversa (e più pro
ceti bassi) di quella varata da Meloni. Ma soprattutto si è ben guardata dal dire la verità sulle tasse, e cioè che già solo per raddrizzare sanità e scuola occorre prevedere un prelievo fiscale aggiuntivo ingente, permanente, e inevitabilmente gravante anche sul ceto medio-alto, non certo sui soli ricchi. In breve: occorre che il Pd diventi come il Labour Party di Jeremy Corbyn, che però proprio con quel tipo di programma non era mai riuscito a battere i conservatori.

Se riflettiamo su questo nodo, forse capiamo meglio anche perché – negli ultimi anni – il Pd è diventato sempre più il partito dei diritti, attento alle rivendicazioni delle minoranze sessuali, ossessionato dalla cultura woke, irremovibile nella tutela dei migranti, paladino delle grandi battaglie di civiltà, ma dimentico dei diritti sociali, dei drammi del lavoro e dello sfruttamento: la ragione è che le battaglie sui diritti civili, a differenza di quelle sui diritti sociali, costano poco, e quindi non mettono a repentaglio i conti pubblici. Voglio dire che, paradossalmente, puntare tutte le carte sulla cultura dei diritti ha il notevole vantaggio di non esporre alla domanda delle domande: ma dove le prendete le risorse? Mentre, puntare sui diritti sociali, quella domanda non permette di eluderla facilmente (anche se, ovviamente, ogni politico fingerà di sapere dove trovarle, quelle benedette
risorse).

Conclusione: tornare a puntare sui diritti sociali, e mettere la sordina su quelli civili, può riavvicinare la sinistra alla sensibilità dei ceti popolari. Più difficile supporre che la stangata fiscale permanente che quel ritorno comporta non spaventi i ceti medi, come già è accaduto con il Labour di Corbyn nel Regno Unito e con il Fronte Popolare di Mélenchon in Francia.

Ecco perché non vorrei essere al posto di Elly Schlein.

[articolo uscito sulla Ragione il 12 novembre 2024]




Lezioni americane

Sul fatto che le follie del politicamente corretto abbiano aiutato Trump, in questa elezione come in quella del 2016, quasi tutti convengono. Meno chiaro, invece, è quali lezioni, dalla vittoria di Trump e dalla sconfitta di Harris, possano trarre la sinistra e la destra in Europa.

A prima vista, chi ha più da imparare è la sinistra. Per lei, la lezione principale è che l’adesione acritica alle istanze del politicamente corretto (cultura woke, ideologia gender, cancel culture) è una zavorra elettorale insostenibile, tanto più se – come
accade in Italia, Francia, Germania – il mondo progressista è lacerato da profonde divisioni. È vero che la cosiddetta cultura dei diritti è diventata, da almeno tre decenni, il principale cemento identitario della sinistra e del suo sentimento di superiorità morale, ma bisognerà prima o poi prendere atto che continuare su quella strada la allontana sempre più non solo dai ceti popolari (che hanno altre priorità, a partire dalla sicurezza) ma anche da una parte del mondo femminile, che non vede di buon occhio le istanze dell’attivismo trans, specie quando comportano invasione degli spazi delle donne (carceri, competizioni sportive, centri anti-violenza, eccetera), rischi di indottrinamento nel mondo della scuola, transizioni di genere precoci per i minorenni, promozione della GPA (utero in affitto). Se vuole tornare a vincere, la sinistra dovrebbe smettere di attribuire ogni sconfitta alla disinformazione e ai poteri forti, e semmai prendere atto che aveva ragione Norberto Bobbio quando, a metà degli anni ’90, la avvertiva che rinunciare alla stella polare dell’uguaglianza a favore di quella dell’inclusione, come le suggeriva il sociologo Alessandro Pizzorno, era un errore, foriero di arretramenti e sconfitte.

Ma forse anche la destra avrebbe qualcosa da imparare, specie in Italia. Visto da destra, il follemente corretto di cui la sinistra si è resa prigioniera può diventare una straordinaria opportunità di definizione di sé stessa per così dire “a contrario”.

Culturalmente, la destra è sempre di più, non solo in Italia, l’unico argine significativo alla deriva woke negli innumerevoli campi in cui si manifesta. Anziché puntare sul controllo dell’informazione, sull’occupazione di posizioni nel mondo della cultura, su improbabili incursioni nello star system – più in generale: sul velleitario progetto di ribaltare l’egemonia culturale della sinistra – alla destra converrebbe forse prendere atto che la sua forza non sta nell’occupazione più o meno maldestra delle istituzioni, ma nell’aderenza alle istanze e alle visioni del mondo di ampi settori delle società capitalistiche avanzate.

Se le forze di destra stanno avanzando in Europa, e alcune loro istanze (come il controllo dell’immigrazione) si stanno manifestando anche a sinistra (emblematico il successo del partito di Sahra Wagenknecht in Germania), è perché quello in atto è un profondo smottamento della sensibilità collettiva. Uno smottamento che, fondamentalmente, consiste in una presa di distanze dalla cultura dei diritti e dai suoi eccessi, e si traduce in una richiesta di porre limiti, argini, freni ad alcune tendenze del nostro tempo. È dentro questa cornice che prendono forma la richiesta di contenere l’immigrazione illegale, garantire la sicurezza, ma anche frenare l’espansione di diritti percepiti come arbitrari (la scelta soggettiva del genere), o pericolosi (cambi di sesso degli adolescenti), o contrari all’ordine naturale delle cose (utero in affitto), o semplicemente pericolosi per le donne (invasione degli spazi femminili).

Già, le donne. Pochi ne parlano, ma uno dei fenomeni sociali più significativi degli ultimi anni sono i cambiamenti che stanno avvenendo nel femminismo, e più in generale nel comportamento elettorale delle donne. Nella campagna per le presidenziali americane è successo, per la prima volta, che una parte delle femministe, negli Stati Uniti (Kara Dansky) ma anche nel Regno Unito (Julie Bindel), si siano poste la domanda fatidica, fino a ieri inconcepibile: dobbiamo prendere in considerazione l’ipotesi di votare conservatore?

E non è tutto. Anche sul piano delle leadership, il panorama si sta facendo interessante. Dopo la recentissima ascesa di Kemi Adegoke, donna nera di origini nigeriane, a leader del partito conservatore britannico, sono immancabilmente donne
a guidare la destra nei quattro più grandi paesi europei: Marine Le Pen in Francia, Alice Weidel in Germania, Giorgia Meloni in Italia, e appunto Kemi Adegoke nel Regno Unito.

Insomma, sia sinistra sia a destra, il materiale di riflessione non manca.

[articolo uscito sul Messaggero il 10 novembre 2024]




Elezioni Usa – I silenzi di Harris e Trump

Se i sondaggi sulle elezioni americane non mentono, il risultato finale sarà vicino a un pareggio. E immancabilmente ascolteremo innumerevoli spiegazioni dell’esito del voto, che sarà agevole attribuire a specifici fattori (l’immigrazione, l’economia, la
sanità…) o a specifici gruppi sociali (i maschi bianchi, gli afro-americani, le donne…). Quando la vittoria è risicata, quasi tutto e tutti possono – con il senno di poi – apparire come decisivi, perché basta ipotizzare un piccolo spostamento di voti di una categoria o di uno Stato per immaginare un esito opposto a quello effettivo.

C’è un gruppo sociale, tuttavia, che sembra – in questa elezione – poter svolgere un ruolo particolarmente rilevante, anche a livello simbolico: quello delle donne. Questo non tanto perché le donne hanno un tasso di partecipazione elettorale più elevato di
quello degli uomini, ma perché mai come in questa occasione sono stati così centrali alcuni temi cruciali per la condizione femminile.

Sotto la voce onnicomprensiva “diritti riproduttivi”, negli Stati Uniti da anni si discute di almeno due questioni, che da noi (e più in generale in Europa), vengono trattate sotto due etichette distinte: diritti LGBT e diritto all’aborto. La cosa interessante è che le due questioni tendono a giocare un ruolo opposto nella dinamica elettorale. Detto brutalmente: parlare di diritti LGBT, tendenzialmente, favorisce Trump; parlare di diritto all’aborto, tendenzialmente, favorisce Harris.

Fra i diritti LGBT, più o meno estensivamente interpretati, rientrano rivendicazioni come l’autodeterminazione di genere o self-id (poter cambiare genere senza ostacoli o restrizioni), le transizioni di sesso/genere dei minorenni, l’accesso a tecniche riproduttive controverse, come la Pma (procreazione medicalmente assistita) e soprattutto la Gpa (gestazione per altri, o utero in affitto). Su questo terreno, i conservatori sono nettamente avvantaggiati, perché sono numerose le donne che non vedono di buon occhio l’invasione degli spazi femminili da parte di maschi transitati a femmine in luoghi come le carceri, i centri anti-violenza, le competizioni sportive (ricordate il caso Khelif?), più in generale nelle situazioni in cui le donne godono di speciali tutele e privilegi rispetto ai maschi (quote rosa, età della pensione, servizio militare ecc.).

Che questo sia un vantaggio dei conservatori e un punto debole dei democratici è del resto testimoniato dalle numerose e sempre più frequenti prese di posizione anti diritti LGBT o anti self-id da parte di donne di fede progressista, da Hillary Clinton (già due
anni fa), alle femministe americane (Kara Dansky, dirigente di Women’s Declaration International), e ora pure britanniche (Joanne Rowling e Julie Bindel pochi giorni fa). Prese di posizione che, in alcuni casi, hanno portato le protagoniste a porre la domanda scandalosa, fino a ieri impronunciabile: dobbiamo, in quanto femministe radicali, prendere in considerazione la possibilità di votare conservatore

Le cose cambiano radicalmente se, dai diritti riproduttivi in chiave LGBT, passiamo ai diritti riproduttivi in termini di contraccezione e aborto. Qui è Trump ad avere tutto da perdere, perché il recente (giugno 2022) annullamento della sentenza Roe vs Wade ha permesso a molti Stati a guida repubblicana di limitare fortemente (quando non di vietare del tutto) il ricorso all’aborto, con grave restrizione della libertà delle donne di disporre del proprio corpo. È chiaro che, questa, è una carta preziosa in mano a Kamala Harris, che può presentarsi come colei che è in grado di ripristinare una fondamentale libertà perduta.

Si capisce meglio, alla luce di queste asimmetrie, perché – sui temi che più interessano le donne – entrambi i candidati siano stati reticenti. Kamala Harris non ha mai voluto prendere le distanze, come le chiedevano alcune femministe, dalle politiche del suo vice Tim Walz che, come governatore del Minnesota, ha convintamente favorito le transizioni di sesso/genere precoci, a dispetto delle emergenti evidenze scientifiche contrarie. Analogamente, Trump non ha mai preso una posizione netta e chiara sul diritto all’aborto, preferendo – pilatescamente – rimandare tutto alle scelte elettorali dei cittadini nei singoli Stati.

Di qui, un vero rebus per le donne. Una elettrice che, come diverse femministe, considerasse l’aborto un diritto inalienabile, ma al tempo stesso fosse risolutamente contraria al self-id e ai cambi di sesso degli adolescenti, non saprebbe per chi votare.

Ecco un altro motivo per cui quel che succederà domani è terribilmente difficile da indovinare.

[articolo uscito sul Messaggero il 3 novembre 2024]




Politiche aziendali e elezioni americane – La grande ritirata

Se siete italiani e sentite la parola ‘dei’ pensate agli dei dell’Olimpo: Zeus, Era, Afrodite, Ares, Poseidone… Ma se siete inglesi o americani, la prima cosa che vi viene in mente è la triade Diversity, Equity, Inclusion (DEI), che da anni impazza nelle aziende, nelle grandi burocrazie, nelle università.

Di che cosa si tratta?

Dipende. In alcuni casi è un generico impegno dell’organizzazione a tutelare le minoranze, promuovere l’inclusione dei gruppi sociali marginali, garantire un ambiente aperto e amichevole a omosessuali, transessuali e ogni altra comunità più o meno emarginata, svantaggiata, bisognosa di protezione. In altri casi significa anche l’assunzione di uno staff di specialisti per garantire il rispetto dei principi precedenti, anche con stage di sensibilizzazione-rieducazione dei dipendenti (in particolare maschi bianchi eterosessuali). In altri casi ancora significa qualcosa di ulteriormente costoso e impegnativo: una politica delle assunzioni basata sulle quote, ovvero su obiettivi di riequilibrio della composizione della forza lavoro: in genere, più donne, più neri, più ispanici, più immigrati, più omosessuali, più transgender, eccetera.

Le politiche DEI e le loro varianti esistono da parecchi anni, ma hanno avuto un boom dopo l’uccisione dell’afroamericano George Floyd (25 maggio 2020) e l’esplosione del movimento Black Lives Matter. Ultimamente, invece, sono in contrazione, e a giudicare dalle notizie più recenti la caduta si sta facendo sempre più rovinosa. Dalla cosiddetta “agenda DEI” si sono ritirate o hanno manifestato l’intenzione di fare un passo indietro aziende di ogni tipo, compresi marchi famosissimi come Jack Daniels, Harley-Davidson, Tesla, Microsoft, Google, Meta, Zoom, e molte altre.

La vicenda potrebbe sembrare poco più che una curiosità sui costumi della società americana se non fosse che ha uno stretto rapporto con le imminenti elezioni presidenziali (novembre prossimo): la precipitosa ritirata di tante organizzazioni dall’agenda DEI è anche dovuta alla mobilitazione ostile dei consumatori di orientamento conservatore o libertario, l’agenda DEI stessa sta diventando uno dei temi della campagna elettorale. Agenda DEI, infatti, significa in definitiva adesione alla visione del mondo woke, basata sulla colpevolizzazione dei bianchi, l’ossessione per il “razzismo sistemico”, i diritti LGBT+, la difesa a oltranza del politicamente corretto. Ritirarsi dall’agenda significa, di fatto, sconfessare anni di propaganda woke. Le organizzazioni sono state ben liete di promuovere obiettivi sociali finché questo migliorava la reputazione e attirava clienti, ma sono divenute repentinamente sospettose e prudenti quando si sono rese conto che frotte di clienti rischiavano di abbandonarle.

Si potrebbe pensare che, come già nel 2016, l’attacco alle follie del politicamente corretto possa essere un’arma in mano al candidato Trump. Un’arma che nelle ultime settimane è stata resa ancora più acuminata da una serie di eventi.

Le Olimpiadi di Parigi, ad esempio, hanno dato modo a Trump di posizionarsi contro la propaganda woke (cerimonia di apertura in salsa LGBT+) e soprattutto a difesa delle atlete (sul caso Khelif: “con me gli uomini non parteciperanno agli sport femminili”). Ed è dei giorni scorsi la presa di posizione di una parte delle femministe americane contro Tim Walz (il vice scelto da Kamala Harris), accusato di aver favorito – come governatore del Minnesota – le transizioni di sesso precoci, anche contro il parere dei genitori e a dispetto delle sempre più numerose evidenze scientifiche contrarie. La femminista Kara Dansky, dirigente del gruppo Women’s Declaration International, impegnato nella difesa dei diritti femminili basati sul sesso biologico, ha chiesto a Kamala Harris di dichiarare “che il sesso è immutabile e che nessun uomo sarà mai una donna”. Se non lo farà, e lascerà a Trump la difesa delle donne (e del buon senso), per molte elettrici progressiste sarà difficile votare per i Democratici.

E tuttavia non è detto che, alla fine, l’attacco all’agenda DEI e alla cultura woke basti a Trump per prevalere su Kamala Harris. La partita è più che mai aperta non solo perché – ovviamente – la campagna elettorale si giocherà anche su altri temi, ma perché in materia di diritti pure il fronte progressista ha le sue armi. Non ultima la campagna di denigrazione sistematica delle femministe ostili alle rivendicazioni trans, da anni bollate con l’acronimo dispregiativo TERF (Trans Exclusionary Radical Feminist), un epiteto toccato anche a Joanne Rowling, l’inventrice di Harry Potter.

Ma soprattutto non dobbiamo dimenticare che l’agenda DEI ora in crisi è stata in pieno vigore per almeno tre anni (dalla metà del 2020 alla metà del 2023) e le sue istanze sono profondamente penetrate nella società americana. Alcune rilevazioni del
Pew Research Center rivelano che ancora l’anno scorso il 52% dei dipendenti americani erano sottoposti all’agenda DEI sul posto di lavoro, e il 56% degli elettori ne approvava gli obiettivi progressisti.

Insomma, la partita è aperta.

[Articolo trasmesso al Messaggero il 24 agosto 2024]




Commento a Emanuele Felice. E dei rottamati sociali che ne facciamo?

Un osservatore acuto e attento delle cose italiane, Emanuele Felice, ha scritto un articolo, Serve un’idea di società (‘Repubblica’ 12 dicembre u.s.) che, come spesso accade, ha un incipit realistico e convincente che, però, quasi subito si perde nelle nebbie della retorica dei ‘buoni sentimenti’.

Scrive l’Autore, «I grandi partiti del Novecento hanno avuto un legame con il loro ‘popolo’ che andava ben al di là di singole proposte: era un’identificazione culturale, etica, filosofica, prima ancora che politica. Erano i grandi ideali. Era un sentimento di appartenenza che donava sicurezza e, per alcuni, addirittura senso alla vita». E’ difficile non essere d’accordo anche se si può rilevare che le ‘subculture’ ricordate erano vitali giacché si trovavano, per così dire, incastonate nell’anello dello Stato nazionale e sovrano, da cui traevano forza ed efficacia. In una comunità politica, incapace di assicurare la legge e l’ordine, i partiti finiscono per usurpare il potere che spetta all’autorità dello Stato, per definizione super partes, e il sentimento di appartenenza che essi ingenerano non è una risorsa per il sistema politico—v. i partiti storici in Inghilterra la cui dialettica veniva considerata così necessaria che l’opposizione al governo era detta l’opposizione di Sua Maestà—ma un fattore di instabilità e di anarchia che, alla lunga, vanifica  anche fedeltà che si ritenevano incrollabili (che fine hanno fatto i trinariciuti italici?).

Secondo Felice oggi solo i populisti hanno ereditato la capacità di aggregazione politica ed etica dei vecchi partiti, solo di essi si può dire che «appreser ben quell’arte». «Hanno un messaggio che fa leva sull’identità, non solo nazionale ma anche locale (anzi localistica) e attorno ad essa costruiscono un senso di appartenenza. I Cinquestelle vi aggiungono la pretesa dell’onestà e della retorica egualitaria. La Lega i valori della tradizione e, soprattutto, l’impegno a garantire la sicurezza e a preservare la ricchezza costi quel che costi, anche a scapito dei diritti umani». In realtà il rapporto tradizione/diritti non è così semplice da definire—in fondo, anche la tradizione è un diritto: quello a una scuola che insegni nella mia lingua la storia della mia gente, della sua letteratura, della sua arte etc. rinvia alla rivendicazione di un diritto o alla richiesta di un privilegio? Ma non è questo il problema. Il problema è un altro: siamo sicuri che Lega e Cinquestelle siano movimenti identitari che sanno di antico, fortemente radicati nella società italiana e preoccupati di conservare per le generazioni future i nostri ‘beni culturali’—paesaggi, monumenti, opere d’arte, valori letterari etc.—che giustificano il nostro essere e sentirci una ‘nazione’?

In realtà, non c’è nulla nella loro ideologia e nella loro prassi di governo che ci induca a pensarlo. Mazzini, Garibaldi, il Risorgimento erano evocati più dagli esponenti democristiani—la cui famille spirituelle, almeno nelle alte sfere vaticane, era rimasta a lungo nemica implacabile dello stato nazionale—di quanto non lo siano dalla classe politica gialloverde, che, in certe sue non trascurabili componenti, si mostra antirisorgimentista e pronta a credere a tutte le fandonie propalate dalla leggenda nera della conquista piemontese e della colonizzazione del (ricco e felicissimo) Sud. Ciò di cui si fanno carico gli odierni populisti—e non è certo una colpa—sono i vasti ceti sociali che si trovano in uno stato di crescente sofferenza in «un Paese in declino, economico, demografico e democratico» «davanti alle sfide della modernizzazione». Se venisse meno il pericolo della perdita di status sociale e di reddito, quei ceti tornerebbero a votare, sia pure senza troppa convinzione, per i partiti di una volta e continuerebbero a ignorare i simboli di Santa Croce e dell’Altare della patria, la cui venerazione non può essere imposta a colpi di decreti ministeriali, come negli stati totalitari.

Come molti (forse la stragrande maggioranza) degli intellettuali di sinistra, Felice è inorridito dall’ «idea di società chiusa e sulla difensiva» che hanno in mente i sovranisti ma non si pone la domanda cruciale: se la globalizzazione sconvolge i quadri sociali d’antan, se crea nuove fasce di povertà, cosa ne facciamo degli operai, artigiani, professionisti che a cinquant’anni escono dal mercato del lavoro e non sono in grado di riqualificarsi? C’è da scandalizzarsi se ad essi non rimane altra risorsa che quella del voto e se lo danno a quanti danno loro l’illusione di arrestare, sia pure per poco, il trend che è causa del loro disagio ‘esistenziale’ e della loro retrocessione sociale?

Ci troviamo di fronte a una politica (oggettivamente) ‘reazionaria’ e a un’economia (oggettivamente) progressista. Di qui la tentazione sansimoniana—che si avverte nelle critiche di politologi, di giuristi, di opinion makers dell’establishment, gelosi guardiani dell’etica pubblica e sacerdoti della dea della Modernità—di sottoporre a critica serrata la ‘democrazia dei contemporanei’; di qui la neppur velata nostalgia per le élite virtuose capaci di imbrigliare i moti disordinati delle ‘plebi’. In certi maitres-à-penser la diffidenza per il popolo sovrano cresce al punto da far pensare a nuove forme di ‘ordine civile’. Da liberale senza aggettivi, credo che la democrazia—che, nel nostro tempo, identifica la politica tout court—sia un valore ben più alto   dell’economia (lo ha fatto rilevare Ernesto Galli della Loggia in uno dei suoi penetranti editoriali di qualche settimana fa) e che solo essa sia in grado di garantirci dal dispotismo burocratico e dalla tirannia dei poteri forti. In fondo non di rado, nella storia, si è rivelata l’unica ramazza a disposizione del ‘popolo’ per disfarsi di oligarchie incancrenite e inefficienti. Se lo spazio della politica rimane ben delimitato e i diritti acquisiti (non i ‘diritti universali’ oggi inaspettato cavallo di battaglia dall’illuminismo liberista e individualista) e le tradizioni civili provvedono a impedirne l’invadenza, nulla è perduto e una politica economica sbagliata—tale mi sembra quella gialloverde ma decideranno in merito i prossimi anni—decisa da chi vorrebbe riportare indietro l’orologio della storia, può fare danni relativi.

 Quando lo stato nazionale era metaforicamente una ‘grande famiglia’ si avvertiva il dovere morale e collettivo di farsi carico di tutti i componenti ‘rimasti indietro’: il problema del Sud—checché ne dica la stanca retorica antipiemontese—assillò per un secolo tutti i governi italiani (compreso quello fascista, v. le grandi riforme progettate da Arrigo Serpieri). Oggi sembrano altri tempi: tutto è cambiato, ‘la patria è morta’ e, forse, tra le ragioni dell’insofferenza per il nostro Risorgimento nazionale—che accomuna tanti ‘spiriti forti’ di destra e di sinistra—potrebbe esserci anche questa arrière pensée: «stai a vedere che per il fatto di essere tutti italiani, dobbiamo dirottare verso politiche assistenziali—non solo l’assurdo reddito di cittadinanza ma altresì grandi opere pubbliche che danno lavoro—risorse finanziarie che, sui mercati mondiali, potrebbero assicurare guadagni tanto più elevati e sicuri?» Chi si sente ormai cittadino del mondo e si trova più a suo agio a Parigi, a Londra, a Berlino che nel suo quartiere romano pieno di problemi, tra buche e alberi che cadono, perché dovrebbe preoccuparsi più di tanto se la terza, la quarta rivoluzione industriale seminano povertà e disoccupazione? «Mica si vorrà tornare alle insurrezioni luddiste?». Si rottamano i partiti, si rottamano i mestieri e quanti li esercitano in pura perdita.

In un illuminante articolo pubblicato dalla ‘Rivista di analisi politica, economica, geopolitica’ Atlantico,Trump il presidente operaio e il “Republican Workers Party” (11 dicembre u.s.), lo storico e commentatore politico, Marco Gervasoni, ha scritto «Cosa vogliono i globalisti progressisti? La distruzione della società e la sua sostituzione con un ordine in cui solo gli individui desideranti dominino. Ma poiché gli individui desideranti finiscono, proprio perché tali, per collidere tra di loro, questo eden libertario si trasformerebbe in un quadro boschiano (da Bosch, ovviamente…), una società dominata dalla criminalità e dall’ordine tirannico imposto da eserciti privati preposti a proteggere coloro che ce l’hanno fatta, una ristretta e corrotta oligarchia liberale. Quella oligarchia che secondo F. H. Buckley, nel recente libro “The Republican Workers Party”, assomiglia a quella dell’ancien regime francese e che oggi è legata come una cozza allo scoglio ai partiti di sinistra e ai media, e non solo negli Stati Uniti». Il quadro è eccessivo e catastrofico ma i timori sono reali e le loro percezioni sono ‘fatti’, che non si possono ignorare.

Felice non è certo un ‘tagliatore di teste’ ed anzi affida al campo riformista (che non si sa bene cosa sia) il compito di «proporre un’idea alternativa a quella populista»: un’idea che, come quella populista sia in grado di «cementare un’appartenenza e un legame, ricostruire una comunità». Si tratta, a suo avviso, di orientare le loro politiche verso quattro punti cardinali: redistribuzione della ricchezza, innovazione, ambiente, diritti».

Vaste programme! avrebbe commentato il Generale, ma ormai le parole, sul mercato della politica, hanno lo stesso prezzo dei sacchetti di sabbia in vendita nel Sahara. «E’ peraltro evidente, rileva Felice, che questi grandi nodi si possono sciogliere solo in una prospettiva globale, creando un «legame di sentimenti niente affatto localista, ma proprio come per i grandi valori storici della sinistra, universale, in cui la prima appartenenza è quella, più alta, all’umanità in quanto tale». E siccome tutti i salmi finiscono in gloria, l’articolo non poteva concludersi che con un richiamo agli «ideali più belli cui l’umanità ha creduto in tutta la sua storia|…|Gli ideali della nostra Costituzione. E quelli inscritti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, approvata dalle Nazioni Unite proprio sessant’anni fa» Se si fosse trattato della trascrizione di un intervento in Parlamento o in un Convegno internazionale sui diritti umani, il dattilografo avrebbe riportato tra parentesi e in corsivo: vivissimi applausi, ovazioni prolungate. Ma la realtà effettuale in cui sta la politica è altra cosa e ben più seria e tragica.

Se la globalizzazione avanza inarrestabile tra lati buoni—in fondo realizza la ‘sovranità del consumatore’ che paga meno i soliti beni di consumo ma anche i manufatti più durevoli, dai vecchi elettrodomestici ai nuovi, sempre più irrinunciabili, strumenti elettronici della comunicazione audiovisiva—e ricadute preoccupanti— si pagano bene i generi alimentari ma non si riscuote più l’affitto dell’ inquilino il cui negozietto è stato rovinato dall’apertura del supermarket (anche la ‘sovranità del produttore’ è un valore da mettere nel conteggio)—stravolgendo “l’habitat” (relativamente) sicuro al quale ci eravamo abituati, un’altra minaccia incombe sulla ‘comunità’ collegata anch’essa all’essere diventato il mondo una unità indivisa di produzione e di scambio. Ed è il problema dei problemi del nostro tempo: i cambiamenti climatici che con la globalizzazione condividono la ‘portata universale’ ma non sono legati ad essa da un rapporto di solidarietà: se dovessero mettersi in regola con le norme anti-inquinamento, infatti, le società multinazionali sarebbero costrette a sopportare più elevati costi di fabbricazione, diminuendo i loro profitti. Non a caso, anche da noi, i giornali proglobal tendono a far passare come bufale gli allarmismi ambientali—ignorando che i cambiamenti ci sono, producono catastrofi naturali, e che indipendentemente dalle loro cause, umane o ‘astrali’, comportano enormi investimenti infrastrutturali.

Felice, che non ignora il problema e che esalta i Verdi tedeschi che «hanno saputo offrire un nuovo orizzonte ai cittadini: puntare sulla qualità della vita, tradurre la ricchezza in benessere in una visione cosmopolita ed europeista» commuove quasi per il candore con cui considera le cose buone tutte solidali e compatibili e non dubita affatto che la ragion europeista sia del tutto in armonia con la ragion cosmopolitica.

Il fatto è che, nel nostro paese sembra essersi estinta la progenie dei grandi realisti alla Vilfredo Pareto. O almeno si è estinta più tra gli accademici che tra i giornalisti che osservano ‘sul campo’ i processi politici e le dinamiche sociali e che, non di rado, hanno il coraggio di dire come stanno davvero le cose. In un lucidissimo articolo, Macron dimentica la lezione Usa, pubblicato su ‘Repubblica’ il 12 dicembre u.s., Federico Rampini–non un inviato del ‘Giornale’–ha sostenuto la tesi che «la dinamica del tumulto francese» anti-Macron «è la stessa che contribuì alla vittoria di Trump negli Stati Uniti. Sullo sfondo c’è la difficoltà a praticare un ambientalismo socialmente sostenibile». Rampini–genovese come Pareto–ha ironizzato su quanti parlano a Trump «di Green Economy in termini astratti, fingendo che l’Ohio sia la California, fingendo che un minatore 55enne si possa riconvertire con la bacchetta magica per farne un ingegnere di software, un inventore di app, un creatore di start up. «La sinistra salottiera» ha smesso di parlare ai ceti penalizzati dalla globalizzazione. Proprio «come Hillary». Rampini è uomo di sinistra ma non si nasconde i problemi: «Rinunciare alla lotta contro il cambiamento climatico sarebbe un suicidio. Però le sinistre devono trovare un’idea convincente, che parli a chi deve arrivare alla fine del mese». E’ un fatto che per i Salvini votino ormai i quartieri operai e che in quelli alti le ‘sinistre rispettabili’ (il molto saggio Sabino Cassese ne è l’indiscusso leader intellettuale) riscuotono ormai sicuri consensi. Dei bisogni di ordine e di sicurezza—per soddisfare i quali era nato lo stato moderno hobbesiano—le vecchie sinistre non sanno nulla e delle piccole rivendite di un tempo che chiudono l’una dopo l’altra, degli appartamenti comprati dai piccoli borghesi con i risparmi di una vita e che non valgono più niente con l’invasione dei poveri (più poveri di loro) che arrivano dal terzo mondo, mostrano che non gliene frega più di tanto (anzi spesso indulgono alla retorica dell’accoglienza, di un’accoglienza, ovviamente, come si diceva un tempo dei missili: ‘non nel proprio giardino’). «Il riformismo, sentenzia Felice, non deve inseguire i sovranisti sul loro terreno» Sono d’accordo ma temo che intendiamo cose diverse: per me quel consiglio significa che il riformismo deve sforzarsi di trovare il modo di risolvere i problemi sui quali i populisti si giocano le loro fortune elettorali. Quando Felice invita «a non inseguire i sovranisti sul loro terreno» sembra credere, invece, che essi agitino paure e fantasmi scaturiti dalla più spregevole demagogia ma ai quali non corrisponde nulla di reale.

Il dramma (o, forse, sarebbe meglio dire la tragedia) del nostro tempo sta nella difficoltà di tenere in equilibrio i vantaggi della globalizzazione e gli interessi delle comunità, ambientalismo (ormai da tempo questione planetaria) e occupazione individuando un difficilissimo e problematico «ambientalismo socialmente sostenibile». Chiudendo il suo articolo, Rampini non si risparmia una stoccatina a quel Macron che tanti entusiasmi aveva suscitato in Italia, da Carlo Calenda ai panglossiani del ‘Foglio’. «Propaganda a parte Macron non è mai stato europeista né di sinistra. A Ventimiglia, Bardonecchia e Clavière si è comportato come un sovranista qualsiasi». Non a caso proviene dal mondo della Banque Rotschild ovvero dal mondo che più criminalizza la politica quando non asseconda le strategie finanziarie globali e trascura i sacri testi dell’economia classica.