Dimenticare Tienanmen!
L’anniversario della strage di Tienanmen non ha dato la stura ai fiumi di retorica che, soprattutto nel nostro paese, sono lo scotto da pagare in queste ricorrenze. Ci sono diverse buone ragioni che spiegano il ricordo sobrio e quasi in sordina della rivolta contro il Rosso Impero di Mao Tse Tung, il cui ritratto campeggia ancora nella piazza più importante di Pechino. Innanzitutto la Cina è una grande potenza industriale e finanziaria, che suscita ammirazione e che viene, per le sue imponenti realizzazioni, trattata con rispetto. Sta comprando mezza Africa e, in Europa, i suoi investimenti massicci, che rappresentano per alcuni il nuovo “pericolo giallo”, sono per altri una risorsa insperata per imprese (e persino per società sportive) decotte. L’Unione Sovietica pregorbaceviana, in quanto realtà economica lontana ed estranea all’Europa, suscitava uno sdegno e una indignazione per le sue politiche repressive incomparabilmente ben maggiori di quelli suscitati dai carri armati di Deng e dei suoi successori in doppio petto: il suo tasso di totalitarismo non era affatto superiore a quello cinese (chi parla mai delle stragi di Mao e delle violenze della rivoluzione culturale?) ma, ciononostante, tuttora in letteratura gli studiosi del totalitarismo continuano a citare, insieme a Hitler, Stalin ma raramente il “Grande Timoniere”. Diciamoci la verità, in una società come quella in cui viviamo, per la quale esistono ormai solo gli interessi economici, da un lato, e i diritti, dall’altro, e in cui l’universalismo individualista del mercato fa a gara con l’universalismo individualista dei diritti nell’eliminare come tertium incomodo la dimensione della politica, dello Stato, delle identità culturali, delle tradizioni etc., affidando beni e valori esistenziali nel primo caso, al Mercato Globale e, nel secondo a corti giudiziarie sovranazionali, la Cina non può in alcun modo rientrare nella categoria degli “stati canaglia”. A destra come a sinistra.
A destra (mi riferisco a una destra che non è poi tanto destra, quella iperliberista) perché è difficile, in realtà, avercela con un sistema politico che, grazie a dosi massicce di capitalismo, sta facendo registrare a un popolo asiatico, che, a differenza di quello giapponese, sembrava refrattario alle “benedizioni della modernità”, un progresso tecnologico gigantesco quale non si era mai visto nel corso della sua storia millenaria. A molti liberali questo basta—in fondo odiavano l’URSS più per il suo collettivismo che per la sua mancanza di libertà attribuita esclusivamente al controllo statale dell’economia—e se pure ammettono che, per Pechino, il cammino verso la “società aperta” è lontano (manca, ad es., la libertà sindacale ma i lettori di Ludwig von Mises sanno bene che per il loro Maestro non era poi così indispensabile ed anzi poteva essere nociva alla libertà imprenditoriale), vedono con soddisfazione nel modello cinese la riprova dei miracoli che può fare il mercato (sia pure con tutti i vincoli che ancora lo impacciano e che, secondo loro, verranno rimossi dalla logica delle cose). A loro modo, sono dei “materialisti storici”: è la “struttura”, sono i rapporti di produzione, che determina la “sovrastruttura”, lo Stato con i suoi apparati, i suoi simboli, il suo diritto etc.
A sinistra per motivi forse molto più complessi. Se si parla con qualche reduce del ’68, ci si sente dire della Cina di Xi Jinping: “ma che è socialismo questo?”. E tuttavia come i nostalgici del fascismo—non certo grati a Franco per non essersi associato alla guerra dell’Asse ma costretti a riconoscere che “elementi di fascismo” non potevano essere negati, se non al franchismo reale, ai crociati di “Arriba Epagna” —anche i delusi dal comunismo reale e dal tramonto delle idealità della “Lunga Marcia” non possono far finta che a Piazza Tienanmen non ci sia ancora il ritratto di Mao. I nuovi dirigenti della Repubblica Popolare saranno membri degeneri ma conservano un posto incontestabile nell’ “album di famiglia”.
Divenute pacifiste e non violente, le sinistre oggi riconoscono senza esitazione che la repressione degli studenti cinesi, che chiedevano libertà e democrazia, è ingiustificabile ma, ad attenuare l’indignazione, è il morbo totalitario di cui stentano a guarire. “Si, ammettono in molti, la restaurazione dell’ordine affidata ai carri armati fu crudele e disumana, ma gli stati capitalisti non hanno fatto di peggio? Condannare Pechino significa vedere l’albero (comunista) e non accorgersi della foresta (capitalista)”.
Ebbene la mens totalitaria consiste proprio in questo: nell’attaccare a un robusto chiodo piantato sul muro di una storia immaginata, tutta la rete dei rapporti sociali e degli eventi tragici che ne conseguono (il monocausalismo). E’ il trionfo della sineddoche: ciò che fa parte di un insieme (gli ebrei, i capitalisti, le etnie culturali, i retrogradi, i progressisti) viene reso responsabile del tutto ovvero di tutte le tempeste che su quell’insieme si sono abbattute e si abbattono. Le guerre? Le colonizzazioni? Le politiche di potenza? Per la sinistra, che ancora non si è liberata del tutto del virus totalitario, non sono fenomeni che dipendono da una serie sterminata e complessa di cause che avrebbero potuto anche combinarsi diversamente (ad es., l’industria metalmeccanica avrebbe potuto far valere il suo europeismo e il suo interesse all’apertura dei mercati contro l’industria metallurgica, legata a logiche protezionistiche e potenzialmente guerrafondaie) ma sono il prodotto di un “Capitalismo”—sempre identico pur nelle sue forme proteiche— abile nel rivestire ideologicamente i suoi biechi interessi con idealità superiori (la “guerra di civiltà”, la “missione dell’uomo bianco” etc.). Se, come ho rilevato altre volte, l’azzeramento della complessità è il segno equivocabile della sindrome totalitaria, tale azzeramento porta a porre sullo stesso piano, Portello della Ginestra e la rivolta di Budapest, Tienanmen e Piazza della Loggia: in ognuno di questi casi, il “sistema” semina morte.
Eh no, va ricordato ai protagonisti degli “anni ruggenti” di ieri, divenuti oggi scettici e antipolitici, le violenze comuniste (e fasciste) nascono da una volontà precisa, da un programma, da un potere politico ben determinato che controlla la società civile e la tiene prigioniera; le violenze che costellano la storia dei regimi liberali e democratici dove il governo è un attore tra gli altri sono il risultato (spiacevole quanto si vuole) di un interagire tra gruppi sociali, associazioni, località, chiese, istituzioni culturali, stampa, scuola, i cui interessi diversi e intrecciati determinano spesso “conseguenze inintenzionali”.
Dire pertanto: “neppure a me piace quanto è avvenuto a Tienanmen ma pensate al Vietnam e alle altre guerre “capitalistiche””, significa, ahimè, restare prigionieri di un’ideologia che continua a rendere difficili i nostri rapporti con la civiltà liberale.