Sul futuro di Medicina
È strano. Fiumi di inchiostro sono stati versati sul monologo di Scurati. Altri se ne sprecano quotidianamente per denunciare imminenti innumerevoli pericoli di ritorno del fascismo. Le frasi del generale Vannacci infiammano gli animi di tifosi e detrattori. Non passa giorno senza che si denuncino, non senza ragione, gli inaccettabili tempi di attesa del nostro sistema sanitario nazionale. Altre decine di temi, sempre quelli, occupano ripetutamente le pagine dei quotidiani.
Però c’è una questione di cui, stranamente, parliamo pochissimo, pur essendo cruciale per il futuro di tutti noi: la riforma dei criteri di ingresso a Medicina (e facoltà collegate). Se ne discute da tempo. In Commissione istruzione del Senato c’è un testo base, da cui presto dovrebbe scaturire un disegno di legge. I principali partiti hanno idee diverse. L’Associazione Nazionale Docenti Universitari (ANDU) non sposa nessuna delle proposte partitiche in campo, ed è estremamente critica con l’impostazione del testo base.
L’idea di fondo del testo base è di NON abolire il numero chiuso, che attualmente esclude circa il 70% degli aspiranti, e di sostituirlo con un sistema giudicato più equo (e da tempo usato in Francia con risultati assai controversi): tutti possono iscriversi al primo semestre del primo anno, ma proseguano solo quelli che – in quel primo semestre – hanno conseguito i risultati migliori.
Ma che significa risultati migliori?
Non è chiarissimo. Nel testo base si parla di raggiungere un determinato numero di CFU (crediti formativi universitari) nelle materie obbligatorie e caratterizzanti del primo semestre, cui però possono aggiungersi crediti acquisiti durante l’ultimo anno di scuola secondaria superiore. Se il numero di studenti a “pieni crediti” supera il numero di posti disponibili, la selezione dovrà avvenire in base a una “graduatoria di merito nazionale”, di cui tuttavia non si sa ancora come verrà costruita.
Le idee del testo base hanno sollevato diverse critiche e dubbi. C’è chi ritiene che il vero problema non sia l’accesso a medicina, ma l’accesso alle specialità post-laurea, e in particolare lo squilibrio fra struttura della domanda e dell’offerta di posti. C’è chi osserva che le università non hanno le strutture (aule e personale docente) per reggere l’urto di tutti gli aspiranti medico nel primo semestre. C’è chi ritiene che l’unico sistema di selezione equo sarebbe il sorteggio. E c’è chi, al contrario, vorrebbe eliminare il numero chiuso, come se il problema delle strutture insufficienti non esistesse. C’è chi si preoccupa del destino dei non ammessi al secondo semestre, e dell’impiego dei crediti comunque acquisti. C’è chi fa notare che, al momento, non sono previsti adeguati stanziamenti per sostenere la transizione dal vecchio al nuovo sistema. E l’elenco delle criticità potrebbe continuare a lungo.
Per quanto mi riguarda, ho letto i documenti principali prodotti dalla Commissione e dall’ANDU e l’impressione che ne ho ricavato è che l’iter della legge sarà lungo e accidentato, e difficilmente ne verrà fuori qualcosa di funzionante. A giudicare dal resoconto dei lavori, sembra che si vada avanti concedendo qualcosa a ogni forza politica coinvolta, rinunciando a un disegno organico e coerente, perché qualsiasi disegno di questo tipo scontenterebbe troppi soggetti coinvolti. Un po’ come accadde tanti anni fa (2009), quando la Lega rinunciò al suo progetto di federalismo fiscale (discutibile ma coerente) per incassare la benevolenza della sinistra, senza rendersi conto che la ricerca ossessiva del compromesso avrebbe spento ogni spinta riformatrice.
Non so come andrà a finire, ma penso che delegare completamente il tema della riforma di Medicina alle manovre dei partiti non favorirà la nascita di una legge funzionante. È vero che è un tema molto tecnico, che non consente di prendere posizione sull’asse fascismo-antifascismo che tanto appassiona gli intellettuali, ma resto dell’idea che, sulle cose che contano – ad esempio la soglia del numero chiuso e i criteri di accesso – sia meglio che anche l’opinione pubblica abbia modo di dire la sua. La libera stampa serve anche a questo.
[articolo uscito su La Ragione il 30 aprile 2024]