Istituzionalismo, contrattualismo, storia

Sommario: 1. L’antinomia. – 2. Il perimetro dell’antinomia. – 3. Il contrattualismo trionfante (1978-2007): fra shareholder value ed egemonia della finanza. – 4. Un passo indietro: contrattualismo e istituzionalismo nell’epoca del capitalismo industriale (1919-1978). – 5. Un passo avanti: istituzionalismo redux? (2008-oggi). – 6. Piattaforme digitali e responsabilità sociale: verso uno “statuto speciale”? – 7. Quasi una conclusione. –

  1. L’antinomia. – “La contrapposizione tra contrattualismo e istituzionalismo può dirsi oggi un’antinomia superata?”[1]. Su questo quesito, ricorrente nel diritto dell’impresa e delle società, non solo italiano ed europeo ma anche nordamericano, l’Onorato è ritornato con frequenza, in particolare in anni recenti[2]. In questo interrogarsi, si è trovato in ottima compagnia: infatti l’attenzione per il tema è ricorrente e non può dirsi sopita ma anzi risulta rinfocolata dall’evoluzione, normativa ma anche economico-sociale, degli ultimi quindici anni [3].

Nel dibattito l’Onorato assume, come è noto, una posizione “centrale”, che forse si può cogliere più accuratamente impiegando la nozione di “sintesi”, come del resto suggerisce il titolo stesso del suo scritto più impegnato sul tema[4], piuttosto che, come pure è stato detto, di neutralità o di relativismo[5]. Dove la centralità si definisce in rapporto alla difesa del contrattualismo come chiave di lettura del diritto societario, ancor oggi propugnata con veemenza da alcuni studiosi[6], da un lato, e dall’altro lato, all’opposto e simmetrico sforzo di adeguamento ai cambiamenti di scenario operato da altri studiosi [7]: posizione che si colloca in una linea di continuità ideale rispetto alle prese di posizione, anch’esse ‘centrali’ di un Maestro del diritto commerciale [8].

Vi sono infiniti modi per rivisitare quello che spesso è caratterizzato come “l’eterno dilemma” fra contrattualismo e istituzionalismo nel diritto dell’impresa e delle società. Ci si può domandare se, in un dibattito così articolato e ulteriormente arricchito anche dallo sfondo comparatistico in cui questo suole essere collocato, possa conseguirsi qualche guadagno conoscitivo privilegiando una prospettiva storica, la quale, si può supporre, può presentare il vantaggio di suggerire qualche riflessione particolarmente utile in tempi in cui la velocità del cambiamento si è rivelata esponenziale. Dove, conviene soggiungere, se per storia molto spesso si intende storia delle idee; qui invece, per comprendere quali idee abbiano forza di incidere sulla realtà, quando e con quali “gambe”, appare assai più utile esplorare i nessi fra le forze in campo e le idee che esse portano all’affermazione o espellono dal discorso, piuttosto che attardarsi a ricostruire la genealogia dei pensieri disincarnati nella loro concatenazione e consecuzione ideale. Per questa ragione qui si cercherà, nei limiti del possibile, di indagare sui rapporti concreti fra pensiero ed azione piuttosto che inseguire il filo labile del rapporto fra pensiero e pensiero.

Entro questa visuale, pare che si possano considerare tre ipotesi collegate fra di loro: a) che di una vera e propria antinomia o “dilemma” si sia potuto parlare solo in una prima fase, anzi, entro un limitato periodo di quella prima fase, del capitalismo “industriale”, che, secondo la periodizzazione consueta, volge alla fine al termine degli anni ’70 del secolo scorso; b) che il medesimo dilemma abbia perso molto del suo mordente nella fase successiva, di egemonia tutta dispiegata del capitale finanziario, nella quale si è assistito ad un vero e proprio trionfo di un termine della dicotomia, il contrattualismo, rispetto al suo opposto, l’istituzionalismo; ed infine, c) che nella fase presente, inaugurata, per così dire, nel 2007-2008 dalla più grande crisi economica vissuta dalle nostre società dopo la Grande Crisi del 1929, si stia assistendo ad un vero e proprio rovesciamento di fronte, che ripropone con forza istanze e priorità vicine alle impostazioni istituzionalistiche che nei decenni precedenti parevano dimenticate. Non ci si potrà infine sottrarre al compito di domandarsi se la prepotente affermazione dei giganti dell’informazione, le piattaforme digitali [9], non sia destinata ad incidere sulla rilevanza stessa del dilemma, relegandolo ad un’area molto più ristretta e circoscritta di quanto non siamo stati abituati ad assumere.

Prima di provarci a dar corpo e sostanza a questa – certamente molto discutibile – periodizzazione del dilemma, o, meglio, dei termini in cui esso si pone, occorre però spendere qualche parola per definire il perimetro delle questioni che, nel presente contesto, vengono, nel diritto commerciale, designate con i termini qui impiegati di contrattualismo e di istituzionalismo.

  1. Il perimetro dell’antinomia. – Solitamente (e con la dovuta approssimazione necessaria quando si affronta un tema multi-giurisdizionale) il discrimen fra istituzionalismo e contrattualismo nel diritto societario sta nella rilevanza degli “interessi altri” nelle decisioni sociali [10]. Nella visione dell’istituzionalismo, ai diversi livelli in cui si formano le decisioni dell’ente sociale, possono e talora debbono prendersi in considerazione interessi diversi da quelli dei soci e degli altri contraenti dell’ente; secondo questa impostazione si danno anche situazioni nelle quali gli “interessi altri” debbono addirittura prevalere su quelli dei soci. Secondo le impostazioni contrattualistiche, invece, nelle decisioni concernenti la vita della società, come anche nell’interpretazione ed applicazione delle norme di riferimento. avrebbe legittimazione solo la considerazione degli interessi dei soci e dei terzi contraenti con la società medesima; interessi questi, si sottolinea spesso, da intendersi con tutta la dovuta latitudine e quindi non solo di breve periodo, rivolti al conseguimento di utili ed alla loro divisione, ma anche di medio e lungo periodo, ad es. preordinati alla valorizzazione del patrimonio aziendale; non solo dei soci ma anche dei diversi tipi di terzi contraenti con la società, dai lavoratori al pubblico ai fornitori di risorse produttive e mezzi finanziari, in quanto, si precisa però giustamente[11], congruenti e complementari a quelli dei soci, senza trascurare, si aggiunge opportunamente, la dovuta considerazione degli interessi sottesi ai diversi interventi pubblici e statuali, ivi inclusi quelli risultanti dalle norme imperative cui la società soggiace [12]. Non avrebbe però ingresso l’interesse dell’istituzione medesima, la società, in quanto tale ed a prescindere dai suoi soci[13]; l’interesse di terzi che abbia titolo autonomo rispetto a vincoli obbligatori della società[14] e tantomeno interessi pubblici, collettivi o generali, che non abbiano trovato espressione in un vincolo contrattuale o in una norma imperativa di legge.

Se la divaricazione nei presupposti delle due concezioni è, come si è visto, assai netta, ancor più lo è la divergenza nelle loro conseguenze e nei rispettivi esiti applicativi. Come è stato costantemente osservato, la legittimazione di “interessi altri” nella sfera decisionale delle società non restringe affatto, ma piuttosto amplia i poteri discrezionali degli amministratori e degli organi decisionali, lasciandoli arbitri di ponderare fra i diversi – e normalmente divergenti – interessi che di volta in volta vengono in considerazione.

Meno ovvia, e tuttavia non meno interessante e degna di considerazione, è una prospettiva che è stata introdotta nel dibattito solo di recente [15]. Nella specifica prospettiva del nostro diritto, si è argomentato che, allontanandosi da un approccio rigidamente contrattualistico, diverrebbe possibile intendere i poteri degli organi sociali come poteri funzionali, rivolti anche al perseguimento di interessi diversi e sovraordinati rispetto agli interessi individuali dei soci e dei contraenti con la società[16]. Correlativamente si potrebbe immaginare di assoggettare l’esercizio di quei poteri ad un sindacato non solo basato sullo strumentario generalcivilistico ordinario, imperniato sugli obblighi di buona fede e sul divieto di abuso di potere, ma anche integrato analogicamente dal ricorso alle norme “più evolute, riguardanti il sindacato di legittimità degli atti del potere pubblico”[17]. In questa prospettiva, che il suo Autore ha efficacemente descritto come “neo-istituzionalismo debole”, l’avvicinamento ad un’impostazione istituzionalista comporterebbe non tanto (e comunque non solo) un ampliamento dei poteri discrezionali degli organi decisori delle società ma anche un allargamento ed un’espansione dei contrappesi a questi poteri decisionali, in modo da collocare nell’architettura societaria più efficaci strumenti di contestazione (voice) al fine di “contrastare le scelte gestionali dissipatorie o inefficienti”[18].

  1. Il contrattualismo trionfante (1978-2007): fra shareholder value ed egemonia della finanza. – Anche se questa scelta può suonare controintuitiva, vi sono buone ragioni di ordine concettuale, oltre che espositivo, che suggeriscono di prendere le mosse da quella che, nella periodizzazione proposta, risulta la seconda fase della vicenda in cui si è dipanato il tormentato rapporto fra i termini della dicotomia. Infatti, nel periodo preso in considerazione il contrattualismo si presenta in forma così pura, rispetto alle molteplici e cangianti declinazioni e combinazioni che caratterizzano le altre fasi, da consentire una messa a punto particolarmente univoca e nitida.

Dunque: per circa trent’anni, che vanno dall’ascesa al potere di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli Stati Uniti alla grande crisi economica di questo millennio, la stella polare del diritto societario è stata recisamente contrattualistica. L’interesse sociale viene risolutamente fatto coincidere con la massimizzazione dei profitti degli azionisti, obiettivo assolutizzato con riferimento all’imperativo dello shareholder value. In presenza di mercati capitali efficienti, il cui buon funzionamento sarebbe garantito dall’operare della efficient capital markets hypothesis (ECMH), la disciplina imposta dal mercato per il controllo delle società (il market for corporate control) sulle scelte gestionali garantirebbe contegni ottimali degli amministratori, impegnati nel perseguimento degli interessi dei loro mandanti, i soci, e, a seconda dei casi, destinati ad essere premiati in caso di successo e rimpiazzati a seguito di scalate ostili in caso di cattiva gestione. Questi comportamenti sarebbero d’altro canto anche conformi ai canoni dell’efficienza produttiva ed allocativa e quindi contribuirebbero in senso positivo non solo ai profitti sociali ma anche alla massimizzazione del benessere collettivo, rendendo così ridondante ed anzi controproducente la considerazione di “interessi altri” nella gestione delle società.

Contemplando in retrospettiva questi trent’anni, non necessariamente ‘gloriosi’, ci si avvede che essi, come anche il trionfo del contrattualismo che li accompagna, sono la risultanza di quattro vettori.

Il primo vettore è ideologico. Il lavoro di lunga lena iniziato dalla Mount Pèlerin Society nel primo dopoguerra (1947) prima e canonizzato dall’opera di Milton Friedman dopo[19], offre un contributo essenziale per argomentare a favore della primazia dell’iniziativa economica privata e al libero dispiegarsi dell’economica di mercato e contro qualsiasi forma di intervento dello Stato nell’economia. Alla fine degli anni Settanta i tempi sono maturi perché l’ideologia neoliberale divenga egemonica in tutto l’occidente [20].

Il secondo vettore rappresenta la prosecuzione del precedente sul piano della teoria economica. È infatti a partire dalla riconferma del paradigma economico neoclassico che prendono piede sia la Scuola di Chicago, sia il collegato movimento dell’analisi economica del diritto[21]. È qui che vengono forgiati gli argomenti per tornare a sostenere, in una versione riveduta e corretta del pensiero classico di Adam Smith (e, prima, della bella favola delle api del signor De Mandeville), che è l’egoismo dei protagonisti del mercato, protesi alla massimizzazione del profitto, ad assicurare l’ottimizzazione non solo dei valori reddituali e patrimoniali di azionisti (ed amministratori) ma anche del benessere sociale. Ciò, era sottinteso, in presenza di mercati dei capitali efficienti in conformità all’ECMH: basterebbe la struttura concorrenziale a rimediare all’eventualità di fallimenti di mercato in quanto l’asimmetria informativa di cui soffrono i singoli investitori sarebbe colmata dal meccanismo dei prezzi dei titoli, che in ogni momento incorpora in tempo reale in sé tutte le informazioni disponibili al mercato[22].

Anche nel caso, frequente, in cui il possesso dei titoli sia disperso fra una moltitudine di risparmiatori, passivi e poco informati, il rischio di comportamenti degli amministrator non in linea con gli interessi dei loro mandanti – il c.d. agent/principal problem – troverebbe agevole soluzione nei soprarichiamati meccanismi spontanei del mercato (il market for corporate control) e nell’operare dei doveri fiduciari che incombono sugli amministratori [23].

Quanto poi al mantenimento della struttura concorrenziale dei diversi mercati rilevanti (e quindi non solo di quello finanziario), secondo le impostazioni propugnate dalla Scuola di Chicago l’intervento dell’antitrust dovrebbe a sua volta restare confinato ad “un limitato intervento” dei pubblici poteri “in processi economici liberi e privati allo scopo di consentire a tali processi di rimanere liberi”[24]. Guai a calcare la mano con l’antitrust, secondo l’opinione di uno dei più influenti studiosi chicagoan, posto che “Antitrust, after all, is a massive introduction of public force into an area of private activity which is valuable both to the actors as an aspect of their freedom and to the society as a source of its wealth” [25].

È però il terzo vettore, quello politico, che è il più potente, tant’è che potrebbe essere appropriatamente descritto come il motore di tutto il processo. Stiamo parlando dei decenni inaugurati dalle nette vittorie di Thatcher e di Reagan, che danno slancio e forza ad una svolta duramente neoliberista, preparata dalle nette sconfitte sindacali degli anni immediatamente antecedenti [26]. Il libero dispiegarsi delle forze di mercato e la libertà di movimento dei capitali diventavano parte integrante del Washington consensus.

Infine, il vettore giuridico-regolatorio. Deregolamentazione, liberalizzazioni, in primis del mercato dei capitali e privatizzazioni (in particolare dove c’erano imprese pubbliche o a partecipazione pubblica): questi erano i corollari, logici ed inevitabili, una volta accettato l’assunto del primato delle libere forze di mercato e delle sue virtù autoregolatorie.

Tutti e quattro questi fattori si intrecciano strettamente con il contrattualismo e lo innervano. Il capitalismo finanziario, issato il vessillo dello shareholder value, trasforma la struttura portante dei mercati segnando la fine dei grandi conglomerati che caratterizzavano il periodo precedente attraverso ondate successive di fusioni ed acquisizioni, il più delle volte realizzate nella forma di offerte pubbliche di acquisto. Certo i protagonisti delle scalate non si preoccupano del loro impatto né sull’occupazione, vae victis!, esattamente come i regolatori si disinteressano delle implicazioni concorrenziali salvo nei casi più macroscopici, hands off!, a patto, si intende, che gli azionisti, i finanziatori e soprattutto gli amministratori possano dichiararsi soddisfatti. Certo, l’evoluzione incontra resistenze, soprattutto nei sistemi, come quello europeo-continentale e giapponese[27], nei quali il finanziamento dell’impresa avviene lungo il percorso lungo risparmio, intermediari, impresa, invece del percorso breve risparmio-impresa garantito dalla presenza di mercati borsistici ampi e liquidi.

Si è a questo proposito suggerito sovente che le due impostazioni, contrattualista ed istituzionalista, abbiano “convissuto”[28]. Affermazione questa che è forse condivisibile, a condizione che si abbia ben chiaro che nel periodo di riferimento il primo approccio ha tutte le caratteristiche di un tratto dominante, mentre il secondo sopravvive nei limiti di un tratto recessivo. Il che è perfettamente logico, se si pensi che il contrattualismo volava sulle ali del Zeitgeist e dei poteri che lo innervavano, come qui si è cercato di suggerire, mentre la residua adesione a visioni più comunitarie ed aperte ad interessi “terzi” si collocava in quell’area che gli studiosi delle grandi trasformazioni assegnano ai fenomeni di resistenza[29].

  1. Un passo indietro: contrattualismo e istituzionalismo nell’epoca del capitalismo industriale (1919-1978). – Facciamo un passo indietro. Un quadro assai diverso, assai più movimentato e contradditorio, ci si presenta se si fa un passo indietro e si mette a fuoco le modalità con le quali si presenta la medesima antinomia (o dilemma) nel periodo precedente.

Con riguardo a questo periodo, due sono le osservazioni che si impongono. In primo luogo, qui l’alternativa contrattualistica non è del tutto assente; e tuttavia inizia a profilarsi con una certa nettezza solo alla fine del periodo. In precedenza, a tenere il campo è stato soprattutto l’approccio istituzionalista. In secondo luogo, e conseguentemente, per un lungo tratto di questo periodo non si profila ancora appieno il dilemma fra istituzionalismo e contrattualismo, e neppure l’alternativa fra affermazione e negazione dell’istituzionalismo, ma la scelta fra varianti, declinazioni e versioni dell’istituzionalismo, peraltro assai divergenti fra di loro. A seconda dei contesti e delle costellazioni di potere di volta in volta date, l’istituzionalismo può presentarsi in veste autoritaria e gerarchica, o, in alcuni casi, francamente repressiva (si pensi, al Führerprinzip nazista, che trasla il verticismo dalla sfera politica a quella aziendale), oppure in veste comunitaria, conciliativa e soft.

In effetti, come è stato osservato da molti[30], non esiste affatto un rapporto biunivoco fra i regimi politici sperimentati in questo lungo lasso di tempo e il versante istituzionalistico del “dilemma costante” presentato dal diritto societario. In Germania, l’istituzionalismo è servito sia alla visione progressiva di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese di un grande imprenditore, studioso e politico socialdemocratico come Walter Rathenau sia alla minacciosa concezione nazista dell’Unternehmen an sich chiamato a concretizzare il Führerprinzip. D’altro canto, negli Stati Uniti studiosi di grande calibro e di sicura fede democratica come Berle e Means concludevano la loro innovativa visione della public corporation e della separazione fra proprietà e gestione con un’esaltazione dell’impresa come istituzione, guidata dalla mano salda della tecnostruttura al di sopra ed al di là degli interessi dispersi degli azionisti. A sua volta la vicenda italiana è troppo nota perché valga qui la pena di ripercorrerla, se non per ricordare come l’istituzionalismo, pur sempre – ed inevitabilmente – legato al corporativismo ed al fascismo, abbia sovente assunto tratti gentili e certo non illiberali non solo in studiosi giuscommercialisti come Asquini, Greco e Lorenzo Mossa ma anche nelle sistemazioni di più ampio respiro di filosofi notevoli, e generosi, come Ugo Spirito [31].

Insomma, le concezioni istituzionalistiche del diritto societario sono, in questi primi decenni, caratterizzate da un’accentuata anfibologicità. Quale sia la ragione di questa dualità di significati non è facile dire; e certo le spiegazioni al riguardo non sono mancate.

Qui si può aggiungere un’ipotesi. Si può intanto osservare che in questo periodo il capitalismo ha ancora veste prevalentemente industriale, anziché quella spintamente finanziaria che assumerà nella fase successiva (su cui già ci si è soffermati al precedente § 3). I profitti sono ancora generati prevalentemente dalla manifattura, e quindi dalla produzione e dallo scambio di beni e servizi; non dalle operazioni finanziarie. Ma la fabbrica nel frattempo sta divenendo, o è divenuta, fabbrica fordista e occupa masse crescenti di forza lavoro. Altre concentrazioni di manodopera si addensano in tutti i distretti minerari; e va ricordato che questi sono ancora un fenomeno fondante della struttura industriale: la progressiva chiusura delle miniere di carbone inizia solo molti decenni dopo, con le due crisi petrolifere degli anni ’70. A partire da queste premesse, la strutturale contrapposizione fra capitale e lavoro tende a porsi come la principale questione politico-sociale del tempo; e, come è noto, essa trova una sua composizione in soluzioni, a seconda dei casi, autoritarie o democratico-partecipative. Si potrebbe pensare, dunque, che sia questa la variabile macro che determina la configurazione, sul piano cruciale degli assetti dell’impresa, delle diverse varianti di istituzionalismo che tengono il campo in questo periodo.

Il quadro cambia nettamente dopo la Seconda guerra mondiale. Ritornando all’osservazione formulata all’inizio di questo paragrafo, va considerato che almeno fino agli anni del secondo dopoguerra è assai più difficile discorrere di chiari influssi contrattualistici nel diritto societario. Mancava ancora, soprattutto in Europa ed in Italia, un’adesione incondizionata ai valori dell’autonomia dei privati e della libertà di iniziativa economica. Questa sarebbe arrivata nel nostro diritto societario con le prese di posizione di Ascarelli, di Mengoni e di Mignoli, sullo slancio prima della Carta Costituzionale e poi dell’opzione filoconcorrenziale espressa dall’adesione al Trattato di Roma (1958). Ma anche negli Stati Uniti si sarebbe dovuto attendere fino agli anni ‘Cinquanta del secolo scorso perché la struttura della società venisse stabilmente concettualizzata con la potente formula del nexus of contracts.

Naturalmente le impostazioni contrattualistiche prendono più facilmente il sopravvento là dove il finanziamento dell’impresa è prevalentemente affidato al percorso breve che, attraverso i mercati borsistici, va dal risparmio alle imprese; mentre ha slancio e cogenza minore laddove continua ad essere dominante il percorso lungo dai risparmiatori agli intermediari e dagli intermediari alle imprese [32], anche se, alla fine del periodo, anche i sistemi europeo-continentali accorciano il distacco rispetto a quelli anglosassoni. E tuttavia, non essendo ancor stato portato a compimento questo processo, qui non di rado si assiste a ritorni di fiamma di impostazioni istituzionalistiche[33], che confermano come sia questo primo periodo l’unico in cui si è assistito con una certa frequenza alla effettiva compresenza dei due termini del dilemma nello stesso sistema e nello stesso periodo storico.

***

Il quadro fin qui trattato si presenta, dunque, con una certa nitidezza. Il capitalismo industriale (§ 4) in un primo tempo esibisce varianti assai diversificate fra di loro della concezione istituzionalistica del diritto societario; poi, nel periodo postbellico, si assiste all’emersione del paradigma alternativo del contrattualismo. È nella fase successiva, di consolidata egemonia del capitalismo finanziario, che il contrattualismo celebra i suoi trionfi come concezione del diritto societario dominante e perfettamente congruente a tutti i tratti caratteristici della Weltanschauung dominante nell’Occidente (o, meglio, nel Nord) del mondo. Questo fino a tempi recenti: poi la débâcle della crisi iniziata nel 2007-2008 incrina le certezze del periodo precedente e dà nuovo vigore alle impostazioni che, anche nella fase anteriore, ancor avevano insistito sulla necessità di includere nel calcolo economico gli interessi di stakeholder esterni al perimetro societario e di richiamare la grande impresa a principi di responsabilità sociale. Se oggi si assista ad una svolta in senso istituzionalista o, forse, come si è precisato [34], “neo-istituzionalista”, non è facile dire. Certo è che le coordinate del mutamento, ancor in atto, sono molto meno nitide e decifrabili di quelle rilevante con riguardo alle due fasi precedenti. Ad esse sono dedicate le notazioni che seguono.

  1. Un passo avanti: istituzionalismo redux? (2008-oggi). – Forse, in effetti, negli ultimi tre lustri, si è nuovamente prodotto un rovesciamento di fronte nelle coordinate che reggono l’alternativa fra contrattualismo ed istituzionalismo. I fattori che fanno pensare che si stia assistendo ad un ritorno di fiamma di concezioni istituzionalistiche del diritto societario sono molteplici. Intanto la crisi economica, iniziata nel 2007-2008 e continuata con modalità ed intensità diverse nel decennio successivo, sembra avere profondamente minato le basi ideologiche su cui si reggeva la fase precedente (1978-2007: v. § 3), mettendo in discussione la legittimazione dell’egemonia del capitale finanziario e le stesse ideologie neoliberali che avevano sorretto i decenni precedenti.

Ulteriori conferme, ed importanti, all’ipotesi che si stia assistendo ad un rovesciamento di fronte provengono altresì da due altri sviluppi altrettanto significativi, che paiono operare nella stessa direzione: l’accresciuta percezione dell’urgenza di misure di contrasto della crisi ambientale e, da ultimo, della pandemia [35].

L’operare congiunto di questi tre fattori ha avuto un impatto sicuro sul secondo e sul quarto fra i vettori che nel periodo precedente avevano sorretto la spinta verso il contrattualismo.

Sul versante economico la maggior parte degli studiosi sta ripensando profondamente le categorie concettuali impiegate in passato [36]. Si revoca in dubbio la validità del parametro della massimizzazione dell’efficienza delle scelte, rilevando che i modelli di equilibrio prevalenti nell’arco che va da David Ricardo a Paul Samuelson semplicemente ignorano la dimensione del tempo e quindi vanno integrati con nozioni, come quella di sostenibilità, idonee a prendere adeguatamente atto della circostanza, ovvia ma trascurata dagli economisti neoclassici, che il futuro non è esclusivamente funzione del passato. D’altro canto questa critica, o, in alcuni casi, autocritica, si incontra con ripensamenti già in atto da tempo, fra cui una sempre più frequente presa di distanza dall’analisi economica del diritto, la cui credibilità è in effetti stata messa in dubbio da tempo.

Sul versante giuridico-regolatorio si assiste ad una vera e propria inversione di rotta. Su uno sfondo nel quale tutte le politiche pubbliche nazionali ed internazionali rinnegano, in particolare per contrastare la pandemia, i rigori dell’austerità predicati e praticati nel ventennio precedente [37], ed assicurano un flusso costante di liquidità agli operatori attraverso il c.d. quantitative easing, l’immissione di risorse monetarie attraverso l’acquisto di titoli di Stato “tossici”, l’intervento di sostegno dello Stato e delle istituzioni pubbliche assume in tempi brevi dimensioni ingenti [38]. Anche a livello micro, alle politiche di privatizzazione del trentennio precedente si sostituiscono forme di intervento pubblico diretto nell’economia che ricordano da vicino le modalità e le dimensioni attestate dopo la Grande Crisi del ’29 del secolo scorso [39].

Se, almeno per chi scrive, è molto più difficile esprimere valutazioni sia sugli effetti della tripletta di fattori di crisi sul piano sia ideologico sia politico, è tuttavia già a questo punto facile comprendere come sviluppi come quelli ora inventariati paiono aprire molteplici punti di ingresso per argomentare la doverosità, ai vari livelli di decisioni nella vita delle società, della presa in considerazione di interessi “altri” rispetto a quelli tradizionali e riassunti dalla formula fortunata del “nexus of contracts”.

Gli stimoli in questa direzione sono molteplici.

Alcuni provengono dal diritto dell’Unione europea. Il riferimento è qui alla disciplina delle “dichiarazioni non finanziarie”, che, introdotta dalla direttiva 2014/95 e da noi attuata mediante il d.lgs. 30 dicembre 2016, n. 254[40], prevede per le società maggiori l’obbligo di fornire informazioni in materia di «temi ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani» e costituisce, come ha puntualmente osservato l’Onorato, “un tassello normativo rilevante per l’esplorazione del tema degli interessi degli stakeholder e dei fattori Environment, Social and Governance (ESG)”. Il passo successivo è rappresentato dalla direttiva (UE) 2017/828, c.d. Shareholders’ Rights II, da noi attuata con il d.lgs. 10 maggio n. 49, che prevede l’inserimento nella Relazione sulla politica di remunerazione e sui compensi corrisposti di indicazioni sugli «interessi a lungo termi­ne» e sulla «sostenibilità della società» [41].

Altri stimoli sono forniti dai diritti interni nazionali: tralasciando il nostro ordinamento, che comunque, come si è visto, ha dato attuazione a queste direttive, particolarmente notevole è la modifica all’art. 1883 del Code Civil apportata dalla c.d. “Loi Pacte”, la quale ha aggiunto un comma che sancisce che l’interesse sociale va perseguito tenendo “en consideration” le sfide sociali ed ambientali [42].

Conferme significative a queste impostazioni provengono anche dal mondo anglosassone: così la Sec. 172 del Companies Act, che impone agli amministratori di “have regard” degli interessi dei lavoratori, fornitori e clienti, della comunità di riferimento e dell’ambiente, il tutto in una prospettiva di lungo periodo[43].

Misure come queste, che tutte si collocano sul piano legislativo, si trovano a convergere con iniziative radicate nell’autonomia privata: dove assumono rilievo le innovazioni introdotte dal Codice di Corporate governance 2020 di Borsa Italiana, che a sua volta spezza una lancia perché l’organo di amministrazione persegua un “successo sostenibile” tenendo conto anche degli interessi altri, ed in particolare “degli altri stakeholder rilevanti per la società[44].

Sempre dalla sfera dei privati provengono altre spinte importanti, che sembrano trovare le proprie radici in trasformazioni strutturali dei mercati dei capitali. Così, è stato convincentemente mostrato come la concentrazione dei titoli nelle mani di un numero molto piccolo di index fund providers, fra i quali negli USA spiccano i Big Three, Vanguard, Black Rock e State Street, abbia portato a dare priorità al dibattito generale su issues e policies piuttosto che a specifiche questioni gestionali [45]. Una notevole risonanza anche mediatica hanno avuto le prese di posizione attente ai fattori ESG della Business Roundtable nordamericana del 2019 e la “lista nera” di Black Rock, che sancisce la proscrizione dei titoli contrari ai valori ESG [46].

Né potrà trascurarsi l’espansione, davvero ragguardevole, della presenza pubblica nell’economia; la quale, per quanto specificamente concerne il nostro ordinamento, si auspica sia informata ad obiettivi di sostenibilità ed a comportamenti coerenti con la prospettiva ESG [47].

Nella prospettiva qui prescelta, quel che più rileva è che il mutamento di accenti e di priorità, registrato da queste innovazioni normative ed operative, non manca di riflettersi sul nodo cruciale della definizione (e talora ri-definizione) del perimetro degli interessi che assumono rilievo nelle decisioni sociali. Talora questa ri-definizione è espressamente legittimata, ed in qualche misura imposta, dalla modifica del dato normativo, come indicano le recenti modifiche normative in Gran Bretagna e Francia sopra menzionate. Altre volte il dato normativo relativo al profilo causale del contratto di società e al perimetro degli interessi rilevanti ai fini delle diverse decisioni sociali non ha conosciuto variazioni in occasione dei round di innovazioni legislative che si sono menzionate: ed allora diviene compito dell’interprete ricostruire se si siano venuti aprendo spazi, e quali, per l’emersione di interessi “altri” ai diversi livelli dell’azione sociale. Compito che, come è facile comprendere, ripropone per l’appunto l’eterno dilemma fra istituzionalismo e contrattualismo, magari nei termini riveduti e corretti proposti da chi suggerisce attenzione verso forme di “neoistituzionalismo debole”[48].

Certo, in prima approssimazione, si dovrà assolvere il compito tenendo conto di segnali importanti. Dopo la crisi del 2007-2008 si sono moltiplicati i dati normativi che stanno ad indicare ad una crescente attenzione per finalità che trascendono la stretta osservanza del precetto dello shareholder value, come declinato nella precedente fase che va dal 1978 al 2007 (v. § 3) e che ora, come si è visto, assegnano un ruolo normativo significativo, e talora sovraordinato, a valori connessi ad interessi “terzi”, degli stakeholder che si collocano al di fuori del perimetro del nexus of contracts, alla responsabilità sociale della grande impresa e all’adesione alla prospettiva ESG.

Né si potrà trascurare, nell’esaminare la questione, che gli stessi fautori più convinti del contrattualismo si soffermano ora a segnalare quali e quanti nodi siano venuti al pettine che “minano la tenuta di questo modo di impostare i problemi” [49].

Non si può tuttavia tacere che possono permanere molti dubbi sull’idoneità dell’innovazione normativa societaria post-2007 di cui si è detto a riorientare complessivamente le coordinate di vertice del sistema fino a toccare, ancora una volta, i termini dell’“eterno dilemma”. Ci si può domandare intanto se ed in quale misura alcune fra le previsioni inventariate posseggano davvero la capacità di incidere sulla scala di valori di questo segmento del diritto oppure abbiano una valenza prevalentemente cosmetica; dubbio questo che è destinato a permanere fin quando la declamazione della ricerca della sostenibilità del sistema socioeconomico eluda nodi che intrinsecamente ne fanno parte come l’equità della tassazione e della distribuzione del reddito. In assenza di interventi coerenti in queste aree, una prospettiva come quella suggerita dall’ESG rischia di essere retrocessa al rango minore di una ricerca di ri-legittimazione di un sistema che quella legittimazione pare avere perduto.

Lo stesso vale per la ripulsa delle pregresse scelte di austerità fiscale e per il favor di interventi correttivi dell’economia pubblica. Si può pensare che questi dati normativi possano contribuire a far sistema solo quando ne venisse chiarito l’orizzonte temporale. Ed al momento essi sembrano potere essere revocati dall’oggi al domani, o viceversa resi permanenti; ma allora sulla base di fattori che, verosimilmente, più dipendono dall’evoluzione del confronto fra gli USA e la Cina[50] che dalla ricerca di modalità di gestione dell’impresa in linea con i valori fondamentali.

Vi è però una ragione ancor più radicale per dubitare che si stia davvero esistendo ad una riproposizione dell’“eterno dilemma” nei termini in cui lo conosciamo; ma, siccome quest’ultima ragione di dubbio dipende dal rapporto che si sta instaurando fra le piattaforme digitali ed il resto dell’economia, conviene fissare il tema con alcune notazioni provvisorie.

  1. Piattaforme digitali e responsabilità sociale: verso uno “statuto speciale”? – A ben vedere, il dubbio che i termini della dicotomia contrattualismo/istituzionalismo siano da ridefinire profondamente nell’epoca delle piattaforme digitali è suggerito dalla circostanza che il passaggio dall’analogico al digitale sta trasformando (o ha già trasformato) le categorie di base dell’economia capitalistica, dalla finanza alla proprietà intellettuale [51]; e sarebbe in qualche misura sorprendente se dovessimo registrare che invece il digitale non cambia i termini di una questione che è risultata così centrale per tanto tempo.

Ciò tanto più se si registri il consenso che si è formato sia sulle premesse sia sulle conseguenze del potere esorbitante delle piattaforme digitali. Così come, sul piano delle premesse, è troppo noto perché valga la pena soffermarvisi che la base della posizione di dominio dei giganti dell’informazione sta nell’assenza di costi di produzione e di distribuzione marginali e nell’esistenza di forti esternalità di rete [52], sul piano delle conseguenze si sta diffondendo sempre più la percezione dei molteplici livelli a cui si manifesta il dominio delle piattaforme. Il loro potere di mercato è meglio compreso se esaminato sul versante dell’acquisizione dei dati, tant’è che, non a torto si è proposto di considerarle “monopsonisti” dei dati [53]; ciò che spiega le consecutive “invasioni di campo” delle piattaforme in ambiti come la stampa e l’editoria, la musica, la pubblicità[54], destinate ad estendersi, progressivamente, a (quasi) tutti i settori dell’economia [55]. E soprattutto fa intuire, e talora rivela in piena luce, i rischi che le piattaforme digitali pongono in ambiti assolutamente cruciali per le nostre società: la riscossione delle tasse, la composizione della domanda aggregata, l’occupazione e la distribuzione del reddito ma anche le determinanti essenziali per la formazione non distorta della pubblica opinione e del dibattito pubblico e, in parallelo, il rispetto dei diritti fondamentali, dalla protezione dei dati alla libertà di espressione.

Si dice spesso che la velocità del cambiamento ha “spiazzato” le istituzioni di governo; ma ciò che interessa ai fini di queste note è che i decisori pubblici su entrambi i lati dell’Atlantico (come anche, per la verità, in Cina) sembrano ora intenzionati a correre ai ripari e ad apprestare forme di regolazione.

Alle spalle delle proposte oggi sul tappeto sta, per la verità, un lavoro di lunga lena degli studiosi, dei gruppi della società civile e delle istituzioni, nazionali ma ancor più internazionali [56]. Il dibattito si riallaccia per più profili ai termini delle discussioni oggetto di questo scritto, spesso concettualizzando gli obblighi delle piattaforme nei confronti dei singoli e delle comunità proprio nei termini della corporate social responsibility [57]. Uno fra i lavori più influenti in materia[58] raggruppa la responsabilità sociali delle piattaforme in tre segmenti, l’uno attinente all’organizzazione ed accesso ai contenuti caricati dagli utenti, l’altro alla libertà di espressione e l’ultimo alla privacy; e spezza una lancia per considerare le piattaforme come destinatari di obblighi sotto ciascuno di questi profili cruciali per la convivenza democratica, ad onta della circostanza che si tratti di entità private e quindi per altro verso sottratte ad obblighi “costituzionali” che sono prerogativa delle entità pubblicistiche [59]. Impostazioni come questa hanno trovato riscontri importanti non solo in ambienti accademici ma anche nei documenti di policy internazionali [60].

Dal dibattito si sta ora passando alle iniziative legislative. Lasciando da parte i termini della questione negli USA[61], val la pena volgere lo sguardo alle iniziative europee, che, in effetti si moltiplicano, anche se non sempre in un quadro armonico. Da un lato si segnalano le iniziative esplicitamente rivolte a contenere ed indirizzare il potere esorbitante delle piattaforme, come le due proposte di regolamento che compongono il “pacchetto digitale” propugnato dalla Commissione UE: il “Digital Services Act” (DSA) e il “Digital Markets Act[62], cui si accompagnano testi normativi talora più polivalenti [63], talaltra rivolti in direzione, parrebbe, opposta [64].

Per quanto qui interessa, sono fondamentali tre profili della disciplina dei servizi digitali contenuta nel DSA.

In primo luogo, si tratta di una regolazione “a piramide”, che, prendendo le mosse da una disciplina base (nel Capo II e nella Sez. 1 del Capo III) della responsabilità dei service providers per le loro attività di mere conduit, caching e hosting e dei loro obblighi di diligenza “per un ambiente online sicuro e trasparente”, si specifica (alle Sez. 2 e 3 del Capo III) in disposizioni particolari per le piattaforme online che disseminano tra il pubblico il contenuto caricato dagli utilizzatori per culminare (alla Sez. 4) nelle “ulteriori obbligazioni facenti capo alle “Piattaforme online molto grandi”, che raggiungano più di 45 milioni di utenti (par. 1 dell’art. 25). Dove, va notato, ai sensi dell’art. 40 gli Stati membri dell’UE hanno giurisdizione anche su piattaforme che non abbiano né uno “stabilimento principale” nell’Unione (par. 1) né ivi nominato un rappresentante legale (parr. 2 e 3).

In secondo luogo, fra gli obiettivi del regolamento proposto è indicato, al par. 2 dell’art. 1, oltre allo scontato fine di “a) contribuire al corretto funzionamento del mercato interno dei servizi intermediari”, quello assai più mirato ed impegnativo, di “b) stabilire norme uniformi per un ambiente online sicuro, prevedibile e affidabile, in cui i diritti fondamentali sanciti dalla Carta” dei Diritti Fondamentali[65] “siano tutelati in modo effettivo”. Questa finalità è illustrata in modo assai esplicito in alcuni Considerando, fra cui vanno menzionati il 56, il 58 e il 59. Secondo il Considerando 56 “Le piattaforme online di dimensioni molto grandi sono utilizzate in un modo che influenza fortemente la sicurezza online, la definizione del dibattito e dell’opinione pubblica nonché il commercio online. La modalità di progettazione dei loro servizi è generalmente ottimizzata a vantaggio dei loro modelli aziendali spesso basati sulla pubblicità e può destare preoccupazioni sociali. In assenza di regolamentazione ed esecuzione efficaci, esse possono stabilire le regole del gioco, senza di fatto individuare e attenuare i rischi e i danni sociali ed economici che possono causare. Ai sensi del presente regolamento le piattaforme online di dimensioni molto grandi dovrebbero pertanto valutare i rischi sistemici derivanti dal funzionamento e dall’uso dei loro servizi, nonché dai potenziali abusi da parte dei destinatari dei servizi, e adottare opportune misure di attenuazione.” A sua volta il Considerando 58 recita: “Le piattaforme online di dimensioni molto grandi dovrebbero porre in essere le misure necessarie per attenuare con diligenza i rischi sistemici individuati nella valutazione del rischio. Nell’ambito di tali misure di attenuazione le piattaforme online di dimensioni molto grandi dovrebbero prendere in considerazione, ad esempio, la possibilità di rafforzare o altrimenti adeguare la progettazione e il funzionamento delle loro attività di moderazione dei contenuti, dei loro sistemi algoritmici di raccomandazione e delle loro interfacce online, così da scoraggiare e limitare la diffusione di contenuti illegali, oppure l’adeguamento dei loro processi decisionali o delle loro condizioni generali. Esse possono inoltre includere misure correttive, quali la soppressione degli introiti pubblicitari per specifici contenuti, o altre azioni, quali il miglioramento della visibilità delle fonti di informazione autorevoli”. Ed infine il Considerando 59: “Ove opportuno, le piattaforme online di dimensioni molto grandi dovrebbero svolgere le proprie valutazioni dei rischi e mettere a punto le proprie misure di attenuazione dei rischi con il coinvolgimento di rappresentanti dei destinatari del servizio, rappresentanti dei gruppi potenzialmente interessati dai loro servizi, esperti indipendenti e organizzazioni della società civile”.

Ora, se si vogliono ancora una volta inforcare le lenti degli “interessi terzi”, ci troviamo qui al cospetto di una massiccia irruzione di interessi terzi: non si deve pensare solo alla violazione dei diritti di proprietà intellettuale o alla pedopornografia, ma a tutti quei processi dei social media che possono portare (o, forse sarebbe meglio dire, portano) alla perversione del dibattito democratico e alla coartazione della libertà di espressione. I quali “interessi terzi” non vengono, dalla proposta di regolamento, presi in considerazione come norme imperative la cui violazione è proibita, ma come valori che devono essere incorporati dall’interno nel processo decisionale delle piattaforme online di dimensioni molto grandi. Tant’è che le norme impongono una “mitigazione dei rischi” sopra delineati, art. 27 della proposta di DSA; una “valutazione del rischio”, art. 26; degli audit indipendenti, art. 28; degli obblighi di comunicazione trasparente, art. 33, nominando anche compliance officers indipendenti chiamati a monitorare l’osservanza delle prescrizioni del Regolamento, art. 32; i quali, si noti, devono riferire “direttamente al più alto livello dirigenziale della piattaforma”, par. 6 dell’art. 32. Ciò che è perfettamente logico se si consideri che quel più alto livello dirigenziale, normalmente il Board, è quello che è chiamato ad un vero e proprio bilanciamento fra l’interesse degli azionisti alla massimizzazione dei profitti e le obbligazioni di rispetto fattivo degli “interessi terzi” fatti propri dal DSA.

Non va trascurato che, almeno allo stato, i poteri sanzionatori, che sono saldamente in pugno non delle autorità nazionali ma, centralmente, della Commissione UE, possono arrivare al 6% del fatturato totale della piattaforma interessata.

Pare dunque che si stia delineando uno “statuto speciale” delle piattaforme digitali, in particolare di quelle molto grandi, che presenta tre caratteristiche. L’obbligo di contemperamento fra gli interessi sociali e gli “interessi terzi” deriva non da un’opzione ricostruttiva di vertice fra istituzionalismo e contrattualismo ma da norme di legge. Si tratta poi di legge euro-unitaria; la quale potrà avere riflessi sul piano dei diritti nazionali applicabili secondo la lex societatis (e, quindi, verosimilmente del diritto nordamericano, visto che stiamo parlando dei c.d. GAFAM ed in particolare di Google, nella sua declinazione You Tube, e Facebook, con le sue controllate Instagram e WhatsApp) che restano assai incerti e tutti da esplorare [66]. Cosicché si potrebbe, infine, immaginare che il diritto delle piattaforme digitali stia portando alla ribalta una nuova forma di istituzionalismo, per un verso “imposto”, che fa entrare gli “interessi terzi” per la porta maestra di norme che impongono il bilanciamento a tutti i livelli delle decisioni societarie, e per altro verso “separato”, in quanto toccherebbe solo le società che rientrano nei presupposti delineati dalla norma.

Se così fosse, l’“eterno dilemma” fra contrattualismo ed istituzionalismo potrebbe continuare a porsi; ma solo per quelle società, a tutti gli effetti ormai minori, che non sono protagoniste dell’era digitale.

  1. Quasi una conclusione. – Quindi, impiegando una prospettiva storica come quella qui adottata, risulta da accogliere la conclusione cui perviene l’Onorato, quando scrive che “La contrapposizione tra contrattualismo e istituzionalismo può dirsi oggi un’antinomia superata?” [67]. La risposta è affermativa; ma solo in parte e comunque richiede qualche qualificazione.

Secondo la ricostruzione qui proposta, solo nella fase finale del capitalismo industriale (§ 4) il dilemma si è posto davvero e in termini netti. In precedenza avevano dominato varietà anche molto diverse fra di loro di istituzionalismo, senza lasciare spazi al secondo termine dell’alternativa. Successivamente, nell’era del capitalismo finanziario (§ 3), la situazione si è capovolta: il contrattualismo ha trionfato fino al punto di oscurare l’alternativa istituzionalista (anche se, come è naturale, ogni epoca ammette in qualche misura voci dissenzienti).

È per il periodo post-crisi che nasce qualche dubbio sulla cogenza delle conclusioni dell’Onorato, in due direzioni. La prima, come si è visto, deriva da tutti i rovesciamenti di fronte che sono arrivati con la crisi del 2007-2008, il disastro ambientale e la pandemia. Qui mi pare scorgere i segni di una chiara débâcle del contrattualismo; ma non è immediato immaginare che questo comporti un univoco ritorno all’istituzionalismo, anche se, per quanto mi concerne, la proposta di prendere in considerazione una variante “debole” di neo-istituzionalismo mi pare molto azzeccata.

È la seconda direzione che però indica una deviazione più netta perché coinvolge i termini stessi di un dilemma che, forse, è stato eterno ma ora probabilmente sta perdendo molta della sua rilevanza. Infatti, con l’avvento delle piattaforme digitali, si sta delineando una forma inedita di istituzionalismo, per un verso imposto (dall’Unione europea) e per altro verso separato (perché vale solo per le piattaforme più grandi). Se le iniziative sul tappeto avranno un seguito, è probabile che esse inneschino una partita geopolitica assai più interessante dell’“eterno dilemma”.

Torino, 24-1-2022

[ Saggio destinato agli Studi in onore di Paolo Montalenti ]

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[1] P. Montalenti, L’interesse sociale: una sintesi, in Riv. soc., 2018, 303 ss., 305.

[2] Oltre all’appena citato scritto L’interesse sociale v. P. Montalenti, La nuova società quotata: quali prospettive? in La nuova società quotata. Tutela degli stakeholder, sostenibilità e nuova governance, Giuffrè, Milano, 2021, §§ 2 e 13; L’Università e il diritto commerciale, oggi. L’evoluzione della società per azioni: quali prospettive? in Orizzonti del diritto commerciale, 2021; La nuova società quotata: profili generali, in AA.VV., Disciplina delle società e legislazione bancaria. Studi in onore di Gustavo Visentini (a cura di A. Nuzzo e A. Palazzolo), Vol. I, Principi e metodo, società e organizzazione, Roma, 2020, 169 ss., §§ 5 e 12; ma v. già Conflitto di interesse nei gruppi di società e teoria dei vantaggi compensativi, in Giur. comm., 1995, I, 710 ss., 718 ss.

[3] Emblematici di orientamenti anche molto diversi fra di loro sono scritti come quelli di F. Denozza, Logica dello scambio e “contrattualità”: la società per azioni di fronte alla crisi, in Giur. comm., 2015, I, 5 ss.; di M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società. Un commento a Francesco Denozza, in difesa dello “istituzionalismo debole” in www.orizzontideldirittocommerciale.it e in Giur. comm., 2014, I, 669 ss. ed Economia sociale di mercato e responsabilità sociale di impresa, in V. Di Cataldo e P.M. Sanfilippo (a cura di), La responsabilità sociale dell’impresa. In ricordo di Giuseppe Auletta, Giappichelli, Torino, 2013, 9 ss., di R. Costi, Banca etica e responsabilità sociale delle banche, anch’esso in La responsabilità sociale dell’impresa, cit., 119 ss. e di G. Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo (variazioni sul tema da uno spunto di Giorgio Oppo), in Riv. soc., 2005, 693 ss. L’illustrazione della dicotomia fra contrattualismo ed istituzionalismo trova spazio anche nelle trattazioni manualistiche: v. da ultimo G. Presti-M. Rescigno, Corso di diritto commerciale, Vol. I, Impresa – Contratti – Titoli di credito – fallimento Vol. II, Società, Zanichelli, Bologna, 202110, 395-396.

            Sul ruolo dell’istituzionalismo nella teoria dell’ordinamento da Durkheim ad oggi è nel pregevole lavoro di F. Pallante, Il neoistituzionalismo nel pensiero giuridico contemporaneo, Jovene, Napoli, 2008.

[4] P. Montalenti, L’interesse sociale: una sintesi, cit.

[5] In questo senso F. Denozza, Logica dello scambio, cit., 11 (a nota 21).

[6] In particolare F. Denozza, Logica dello scambio, cit

[7] Fra cui, per l’appunto, M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società, cit.

[8] Il riferimento, come è ovvio, è a G. Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo, cit.

[9] Su cui v., di recente, D. Coyle, Cogs and Monsters: What Economics is, and What it should be, Princeton University Press, 2021 e, sul versante delle diverse ipotesi regolatorie, J. Balkin, How to Regulate (and Not Regulate) Social Media, in 1 Journal of Free Speech Law 2021, 71 ss. e M. Lemley, The Contradictions of Platform Regulation, ivi, 303 ss. entrambi disponibili a https://www.journaloffreespeechlaw.org/.

[10] G. Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo, cit., 709 e P. Montalenti, L’interesse sociale: una sintesi, cit., 314.

[11] R. Costi, Banca etica, cit., 130.

[12] Ivi incluse quelle a tutela di interessi extracontrattuali, ivi include le previsioni preordinate a promuovere il c.d. gender balance (così anche F. Denozza, Logica dello scambio, cit., 7 ss.).

[13] Così, con grande nettezza, F. Denozza, Logica dello scambio, cit., 13.

[14] Così, con molta chiarezza, R. Costi, Banca etica, cit., 131.

[15] Da M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società, cit.

[16] M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società, cit., 692 ss., 694.

[17] M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società, cit., 688 ss. ove il riferimento alla tutela di annullamento si estende all’eccesso di potere e alla considerazione degli oneri procedimentali e di motivazione (691) assistiti da facoltà di accesso agli atti (692).

[18] M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società, cit., 688.

[19] Capitalism and freedom, Chicago, University of Chicago Press, è del 1962.

[20] In argomento Q. Slobodian, Globalists: The End of Empire and the Birth of Neoliberalism
Harvard University Press, 2018.

[21] Le cui origini e sviluppi sono stati di recente rivisitati dall’importante scritto di R. Van Horn, Reinventing Monopoly and the Role of Corporations. The Root of Chicago Law and Economics, in Ph. Mirowski e D. Pleheve (a cura di), The Road from Mont Pèlerin. The Making of the Naoliberal Thought Collective, Harvard University Press, Cambridge, Mass., London, 2009, 204 ss.

[22] È questa, naturalmente, la tesi popolarizzata da F. Easterbrook-D.R. Fischel, The Economic Structure of Corporate Law, Harvard University Press, 1996. Ma la fragilità delle basi teoriche di queste impostazioni era già all’epoca piuttosto evidente (in argomento si consentito rinviare alla mia voce “SEC (Securities Exchange Commission)”, in Digesto, 1997, IV, vol. XIII, pp. 284 ss., a 289-291).

[23] Per un’esposizione recente di queste teorie nella prospettiva del diritto nordamericano v. J.C. Coates, The future of Corporate Governance Part I: The Problem of Twelve, (September 20, 2018). Harvard Public Law Working Paper No. 19-07, 4, disponibile a SSRN: https://ssrn.com/abstract=3247337 o http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3247337 o https://corpgov.law.harvard.edu/wp-content/uploads/2019/11/John-Coates.pdf

[24] R. Bork, The Antitrust Paradox. A Policy at War with Itself, Basic Books, New York, 1978, 418.

[25] R. Bork, The Antitrust Paradox, cit., 417.

[26] Sull’impatto delle durissime politiche antiinflazionistiche adottate, già sul finire della presidenza di Carter, dalla Federal Reserve capeggiata da Paul Volker, al fine di “stabilize prices, crush labour, discipline the South” (del mondo), è tornato di recente C. Durand, 1979 in Reverse, in New Left Review 1° giugno 2021, https://newleftreview.org/sidecar/posts/1979-in-reverse.

[27] Così, con grande chiarezza, R. Chernow, The Death of the Banker: the Decline and Fall of the Great Financial Dynasties and the Triumph of the Small Investor, Vintage Books, Random House, New York, 1997, 50 ss. e 59 ss. rispettivamente; per la Germania v., con particolare riferimento all’ostacolo all’allargamento dei mercati dei valori mobiliari costituito della normativa sulla cogestione, M.J. Roe, German Codetermination and German Securities Markets, in 5 Columbia J. Eur. Law, 1999, 199 ss. Va detto che non sono mancate resistenze a questo modo di pensare neppure negli Stati Uniti, ben rappresentate dalla posizione difesa a spada tratta da M. Lipton, Takeover Bids in the Target’s Boardroom, in 35 The Business Lawyer, 1979, 101 ss. e quindi da un giurista pratico cui viene ascritto il merito (o il demerito, a seconda dei punti di vista) di avere inventato le c.d. poison pills (e anche su questo tema si possono ancor oggi rileggere con profitto le pagine, preveggenti, scritte dall’Onorato: P. Montalenti, Il leveraged buy-out, Milano, 1991, specie 35 ss. e 38, ove alla nota 122 un richiamo allo studio di Lipton sopra citato).

[28] Così M. Libertini, Economia sociale di mercato, cit., che per la verità contrappone al contrattualismo la teoria della Corporate Social Responsibility (CSR).

[29] K. Polanyi, The Great Transformation. The Political and Economic Origins of our Time, 1944 (Beacon Press, 1957).

[30] E con particolare efficacia da G. Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo, cit., 698 ss.

[31] Sugli uni e sull’altro v. di nuovo le nitide pagine di G. Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo, cit., 699 ss. e, con riguardo a Lorenzo Mossa e Ugo Spirito, il ricordo simpatetico di P. Grossi, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Giuffrè, Milano, 2000, 197 ss.

[32] R. Chernow, The Death of the Banker, cit.

[33] Mi sia consentito rinviare a questo riguardo al mio L’impresa e il mercato, in L. Nivarra (a cura di), Gli anni settanta del diritto privato, Giuffrè, Milano, 2008, 199 ss.

[34] E v. M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società, cit.

[35] Sulle conseguenze della pandemia sui “competing regulatory systems” dei poteri pubblici v. U. Pagallo, Sovereigns, Viruses, and the Law. The Normative Challenges of Pandemic in Today’s Information Societies, in 37 Law in Context, 2020, disponibile a SSRN: https://ssrn.com/abstract=3600038 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3600038.

[36] V. in particolare le considerazioni di R. Skidelsky, The End of Efficiency, in Project Syndicate 17 dicembre 2020, in

https://www.project-syndicate.org/commentary/economic-thought-efficiency-versus-sustainability-by-robert-skidelsky-2020-12, qui di seguito riassunte. E v. altresì S. Keen, The New Economics: A Manifesto, Polity Press, Cambridge, 2021.

[37] Con specifico riferimento all’Unione Monetaria Europea v., tra i molti, J. Halevi, From the EMS to the EMU and … to China, in https://www.ineteconomics.org/uploads/papers/WP_102-Halevi.pdf.

[38] Questo rovesciamento di visuale è particolarmente appariscente nelle azioni pubbliche attuate dal nostro attuale Presidente del Consiglio Mario Draghi, il quale, dopo avere, in un discorso tenuto il 2 giugno 1992 agli investitori internazionali sul panfilo Britannia (ora rievocato dal Fatto quotidiano del 22 gennaio 2020, p. 15), come Direttore generale del Tesoro annunciato privatizzazioni, liberalizzazioni e deregolamentazione, vent’anni dopo, nel luglio del 2012, ha proclamato, questa volta come Direttore della Banca Centrale Europea (BCE), di essere pronto a interventi non convenzionali di sostegno dell’euro “whatever it takes” ed infine, il 25 marzo 2020, cessato il suo incarico alla BCE, ha caldeggiato una risposta ai guasti economici provocati dalla pandemia di amplissimo raggio ed estesa alla remissione (cancellation) dei debiti accesi per l’occasione.

[39] Uno spaccato estremamente significativo della massiccia ripresa dell’intervento pubblico è offerto da un intervento recente dell’Onorato: P. Montalenti, Intervento, in AA.VV., Le imprese pubbliche nel Rapporto Barca e il diritto azionario italiano, in Giur. comm., I, 2021, p. 538 ss.

[40] Che concerne le relazioni di carattere non finanziario e sulla diversità da parte delle imprese di maggiori dimensioni: v. P. Montalenti, L’Università e il diritto commerciale, oggi, cit., § 4.

[41] Sul tema v. in particolare P. Montalenti, L’Università e il diritto commerciale, oggi, cit., §§ 6-7 che sottolinea la rilevanza nella prospettiva di cui al testo, dell’“obbligo degli investitori istituzionali e dei gestori di attivi di comunicare al pubblico la «politica di impegno», in particolare sui «risultati non finanziari» e «sull’impatto sociale e ambientale» (art. 124-quinquies, comma 1, t.u.f.), assistiti da un apposito apparato sanzionatorio (cfr. d.lgs. n. 49/2019, art. 4).

[42] In argomento v. P. Montalenti, L’Università e il diritto commerciale, oggi, cit., § 8.

[43] In argomento v. nuovamente P. Montalenti, L’Università e il diritto commerciale, oggi, cit., § 8.

[44] P. Montalenti, L’Università e il diritto commerciale, oggi, cit., § 9.

[45] J.C. Coates, The future of Corporate Governance, 13 ss.

[46] Per in necessari riferimenti v. P. Montalenti, L’Università e il diritto commerciale, oggi, cit., § 8, ove, al § 10, notizie sulla nuova proposta di direttiva europea. Sulla presa di posizione della Business Roundtable si legge utilmente altresì G. Tett, Capitalism – a new dawn? in FT 7-8 settembre 2019, Life & Arts, 1-2.

[47] Sul punto v. di nuovo P. Montalenti, Intervento, in AA.VV., Le imprese pubbliche, cit., 541-543.

[48] Il riferimento è, evidentemente, a M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società, cit.

[49] F. Denozza, Logica dello scambio, cit., 39-41.

[50] E dalle scelte di politica industriale che questa comporta: v. E. Colby, The Strategy of Denial: American Defense in Age of Great Power Conflict, Yale University Press, 2021.

[51] A quest’ultimo riguardo sia consentito rinviare al mio Il futuro della proprietà intellettuale nella società algoritmica, in Giur. it., Supplemento 2019, 10-36 e, già molto prima, allo scritto Le nuove frontiere della proprietà intellettuale. Da Chicago al ciberspazio, in G. Clerico e S. Rizzello (a cura di), Diritto ed economia della proprietà intellettuale, Cedam, Padova, 1998, 83 ss., che aveva esplorato l’ampiezza dell’impatto dell’epoca digitale sulle categorie fondamentali di analisi dell’economia, a partire della ivi rilevata “fine della fabbrica”.

[52] V. già M.A. Lemley-D. McGowan, Legal Implications of Network Economic Effects, in 86 Cal. L. Rev., 1998, 479 ss.

[53] O, forse più correttamente, oligopsonisti: e v. M. Lemley, The Contradictions of Platform Regulation, cit., 313.

[54] Per qualche dato sia consentito rinviare al mio La tutela delle pubblicazioni giornalistiche in caso di uso online, in AIDA 2019, 33-67.

[55] Per un’efficace esposizione giornalistica v. S. Quintarelli, Capitalismo immateriale. Le tecnologie digitali e il nuovo conflitto sociale, Bollati Boringhieri, Torino, 2019.

[56] Per un’analisi accurata del dibattito v. G. Frosio, Why Keep a Dog and Bark Yourself? Intermediary Liability to Responsibility, in 25 Oxford Int’l J. of Law and Information Technology, 2017, 1 ss., a 7 ss.

[57] V. G. Frosio, Why Keep a Dog and Bark Yourself? cit., 8.

[58] M. Taddeo-L. Floridi (a cura di), The Responsibilities of Online Service Providers, Springer, 2017.

[59] Un’ampia ricognizione delle iniziative in materia dal 1999 al 2015 è in L. Gill-D. Redeker-U. Gasser, Towards Digital Constitutionalism? Mapping Attempts to Craft an Internet Bill of Rights, Berkman Center Research publication No 2015-15, 9 novembre 2015.

[60] Completi richiami in G. Frosio, Why Keep a Dog and Bark Yourself? cit., 7, n. 30 e 9.

[61] Per i quali v., su versanti opposti, riflessioni di grande livello come quelle rispettivamente proposte da J. Balkin, How to Regulate (and Not Regulate) Social Media, e M. Lemley, The Contradictions of Platform Regulation, citt.

[62] Rispettivamente Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo a un mercato unico dei servizi digitali (legge sui servizi digitali) e che modifica la direttiva 2000/31/CE, disponibile a https://eur-lex.europa.eu/legal-content/en/TXT/?uri=COM%3A2020%3A825%3AFIN e Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo a mercati equi e contendibili nel settore digitale (legge sui mercati digitali), disponibile a https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52020PC0842&from=en.

[63] V. il c.d. Data Governance Act (Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alla governance europea dei dati (Atto sulla governance dei dati) (Testo rilevante ai fini del SEE), Commissione europea, Bruxelles, 25.11.2020 COM (2020)767final, disponibile a https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52020PC0767&from=EN) e la c.d. AI Regulation (Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio che stabilisce regole armonizzate sull’intelligenza artificiale (Legge sull’intelligenza artificiale) e modifica alcuni atti legislativi dell’Unione{SEC(2021) 167 final} – {SWD(2021) 84 final} – {SWD(2021) 85 final).

[64] È il caso del Regolamento (UE) 2021/1232 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 luglio 2021 relativo a una deroga temporanea a talune disposizioni della direttiva 2002/58/CE per quanto riguarda l’uso di tecnologie da parte dei fornitori di servizi di comunicazione interpersonale indipendenti dal numero per il trattamento di dati personali e di altro tipo ai fini della lotta contro gli abusi sessuali online sui minori, disponibile a https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX%3A32021R1232 e del Regolamento (UE) 2021/784 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 29 aprile 2021 relativo al contrasto della diffusione di contenuti terroristici online, disponibile a https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32021R0784&from=EN, che incrementano, anziché ridurre, le facoltà di accesso dei prestatori alle comunicazioni online fra privati.

[65] La vincolatività della Carta dei diritti fondamentali è stata sancita dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1 dicembre 2009. Sulla Carta v. R. Mastroianni, O. Pollicino, S. Allegrezza e O. Razzolin (a cura di), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Giuffrè, Milano, 2017 e S. Peers, T. Hervey, J. Kenner e A. Ward (a cura di), The EU Charter of Fundamental Rights, Hart, Oxford and Portland (Oregon), 2014.

[66] M. Leistner, The Commission’s vision for Europe’s Digital Future: Proposals for the Data Governance Act, the Digital Markets Actand the Digital Services Act – A critical primer (February 23, 2021), a SSRN: https://ssrn.com/abstract=3789041 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3789041.

[67] P. Montalenti, L’interesse sociale: una sintesi, cit., 305.




Non giocate col passato

Abbiamo oggi, col passato, rapporti strani e contorti. Non sappiamo se amarlo e farlo rivivere in noi, o liquidarlo gettandolo in una specie di dimenticatoio collettivo. Non sappiamo se rievocarlo o affondarlo, se ritenerlo necessario e proficuo o fastidioso e nocivo.

Elenco qui di fila alcuni segnali:

  • in America stanno pensando di rimuovere la statua di Cristoforo Colombo, in quanto simbolo della colonizzazione americana, strage di indiani, eccetera;
  • una studiosa americana pensa di abbattere tutti gli edifici dell’epoca fascista;
  • la Boldrini propone di cancellare la scritta DUX dai monumenti di Roma.

Aggiungo un aneddoto personale. Tempo fa mi capitò di parlare con un giovane italiano di talento che studia in Inghilterra. Gli era stata proposta un’ottima borsa di studi, peccato che fosse intitolata a un noto schiavista (nonché sovvenzionata dai suoi fondi), quindi la rifiutò indignato dicendo anche che si sarebbe battuto insieme ad altri perché tali borse fossero cancellate.

Sullo stesso piano mi paiono i tentativi di revisionare i testi e le immagini del passato. Nelle favole vogliamo espungere il Principe Azzurro, simbolo di un retaggio antifemminista. Censuriamo i versi di Dante in cui trapelino espressioni offensivi verso il mondo arabo e la sua religione. Nei film degli anni 50 tagliamo le scene dove l’attore fuma. Nei libri di Cesare Pavese mal tolleriamo la parola “negro”, che all’epoca era normalmente usata.

Tutto ciò è davvero molto interessante, e sorprendente.

Sembra che tutti noi siamo affetti da una paura retrospettiva. È come se non ci sentissimo capaci di reggere: posti di fronte a Humphrey Bogart che fuma, non siamo più capaci di non fumare? È questo?

Ci sentiamo offesi e minacciati dal passato.  Ci ho pensato un po’ su. Come può essere che il passato ci offenda e ci minacci? Poi ho capito. È che noi compiamo il gesto davvero stravagante, e discutibile, di portare di peso il passato nel presente: a quel punto ci offende. Se lasciassimo il passato nel passato, non ci sarebbe nessun problema. Sentirci offesi, o minacciati o aggrediti o messi in discussione dal passato, infatti non vuol dire che questo, che stiamo prendendo qualcosa che appartiene a un’epoca precedente (e che in quell’epoca era neutra, direi innocua, non aveva alcun senso offensivo: vedi “negro” in Pavese o l’attore che fuma), e lo stiamo trasportando arbitrariamente nell’epoca in cui viviamo, nei nostri giorni, dove la sensibilità è cambiata, il mondo non è più quello; e poi, avendolo trasportato fino a noi, a quel qualcosa attribuiamo le regole, i principi, gli stili che caratterizzano oggi il nostro vivere. Ovvio, dunque, che determinate cose di allora possano infastidirci. Ma l’errore sta a monte, ed è nostro. Mi ricorda un po’ quando i cattolici mettevano le mutande ai nudi delle grandi opere pittoriche del passato…

È come se volessimo trasformare tutto quel che ci precede a immagine di quel che oggi ci piace e ci sembra equo, corretto, nobile, civile.

È strano, perché predichiamo a destra e a manca quanto sia bene contestualizzare sempre e comunque, collocare ogni cosa nel suo contesto, capire l’epoca, l’ambiente… E poi invece decontestualizziamo allegramente come niente fosse.

Per dire, non dovremmo più leggere Moby Dick e nemmeno citarlo o ricordarlo tra i capolavori della letteratura universale, visto che uccidere animali e andare a caccia ci pare oggi insopportabile e del tutto deprecabile. Pensate alla tragedia della balena bianca, sempre inseguita, braccata, arpionata… Magari ha dei bambini…

Bene. Se qualcosa non ci piace del passato, lo azzeriamo. Contemporaneamente mi par di scorgere un movimento esattamente eguale e contrario: se qualcosa del passato ci piace, non esitiamo a ripescarlo tal quale e riproporlo identico, del tutto decontestualizzato, come se fosse sempre attuale, o avesse una valenza atemporale e assoluta. Per esempio: continuiamo a chiamare “fascisti” gli esponenti della parte politica avversa, o persone che semplicemente non aderiscono al pensiero progressista dominante; invochiamo, per illustrare i principi che animano una riforma innovativa (v. scolastica), opere e autori di cinquant’anni fa (v. don Milani); celebriamo “giorni della memoria” perché non si dimentichino certi gravi avvenimenti della storia.

Mi sembra che ci giochiamo il passato un po’ come ci pare, a seconda delle nostre convinzioni del momento, spesso dettate da un sentire collettivo che ci fa da diktat. Se ci fa comodo lo ricordiamo ed esaltiamo; se non ci piace, lo cancelliamo.

Credo che dovremmo avere un atteggiamento più sereno e distaccato. Soprattutto, prendere il passato per quel che è: passato. Ricordarlo, studiarlo, ma non stravolgerlo a nostro uso, non attualizzarlo (nel bene e nel male), e meno che mai rimuoverlo.

Facciamo una prova. Prendiamo Mao. A me personalmente non piace Mao, non mi piace nulla di quel che ha fatto, 50 milioni di morti, la rivoluzione culturale e tutto il resto. Ero molto perplessa, per non dir altro, quando i miei compagni liceali, negli anni ’70, inneggiavano al suo libretto. Ora, mettiamo che la mia migliore amica si tenga appeso in camera un manifesto di Mao. Non me n’ero accorta, o non lo sapevo, entro in camera sua vedo Mao sul muro, e mi turba moltissimo. Magari gliene parlo indignata, ma non mi verrebbe mai in mente di ordinarle di togliere quel poster, meno che mai di vietarglielo con una legge. Semmai potrei dire che non la voglio più, un’amica così, che non posso avere niente in comune con lei. Sarebbe nei miei diritti. Sarebbero fatti miei, se decido di essere o non essere amica di qualcuno che si tiene Mao in camera. Potei preferire una che si appende al muro Garibaldi. Ma sono, lo ripeto, fatti miei. Pertengono alla mia coscienza, alla mia storia. Non intaccano il passato, dove, c’è stato tanto Garibaldi quanto Mao. (Stesso discorso, ovviamente, per la statuetta di Mussolini…).

Quel passato io non posso negarlo, o stravolgerlo. E nemmeno santificarlo e celebrarlo, secondo me. C’è stato, e ha una sua esistenza fissata per sempre, ma collocata in un preciso spazio temporale. È il passato. E il passato ha questo di buono, e di innegabile: è stato, non si può cancellare. Ma, anche, non c’è più: quindi nemmeno si può attualizzare. Essendo il passato, non è il presente.

***

Riflettevo in questi giorni anche su un altro fenomeno, solo apparentemente distante. Riguarda i libri di saggistica che oggi si pubblicano, spesso di autori giovani, scrittori o giornalisti che siano. In genere non contengono riferimenti bibliografici. Nessuna nota, nessuna citazione.

Tali nuovi autori affermano tesi, discutono concetti, propongono idee, come se fosse tutta roba loro, nuovissima, inedita, originale: pensata da loro per primi in assoluto nella storia dell’umanità. Sembrano non essere minimamente a conoscenza dei libri, spesso importanti, noti, autorevoli, che li hanno preceduti, scritti magari da mostri sacri della tradizione, o anche solo da autori più anziani di una ventina d’anni. Niente, tutto sparito. Vale anche per i nuovi lettori, anch’essi ignari che quel che leggono abbia radici in libri precedenti. Così, può capitare che esca un saggio che ripete le tesi di un saggio uscito anche solo cinque anni prima, e venga salutato come nuovo e completamente originale.

Non credo sia (solo) ignoranza. E nemmeno sciatteria intellettuale. Credo si tratti di un vero e proprio stile.

Sia chiaro, la saggistica colta è sparita da tempo dai nostri orizzonti, o si annida oggi in certe nicchie buie e introvabili, e non è certo mia intenzione sperare che resusciti. Dico solo che la consuetudine di citare quelli prima di noi è scomparsa. Oggi ci piace essere leggeri ed estemporanei, diretti, comunicativi. Ci piace una prosa quotidiana, un parlato-vissuto, una forma di dichiarata “ingenuità”. Complice lo stile “social”, il rap, il pop. Certo. Fa tutto parte di una evoluzione, o involuzione, dipende dai punti di vista: comunque, è il nuovo stile dei nostri tempi. Niente da dire. Io stessa dovrei fare un bell’esame di coscienza, essendo partita, nei miei anni giovanili, da una saggistica accademica, in cui non si potevano scrivere due pagine senza citare almeno dieci titoli: nessuna affermazione aveva valore se non era suffragata da testi precedenti che la confermassero o la contrastassero. Bisognava mostrare di essere a conoscenza dell’enorme passato che stava dietro di noi, non si poteva scrivere partendo da zero, nascendo in quel momento: nessuno era appena nato, ognuno di coloro che scrivevano avevano ben chiaro di essere solo l’ultimo anello di una catena sterminata. Anzi, scrivere (in ogni ambito, non solo saggistico) forse era proprio quello: inserirsi in una tradizione. Con tanto di inevitabile modestia e umiltà. Ricordo che mi pesava un po’, allora, non essere libera di dire direttamente quel che avevo pensato; mi pesava dover accompagnare ogni mia affermazione critica da citazioni e note a piè di pagina infinite, la trovavo un’inutile esibizione di cultura, un mostrare i muscoli per ottenere plauso presso i pochi eletti o gli addetti, soprattutto un laccio che imprigionava il fluido e naturale sgorgare di pensieri personali. Non escludo sia stata questa una delle ragioni del mio allontanarmi dalla scrittura saggistico-accademica.

Mi sembra però il caso almeno di notare ora questa nostra nuova tendenza, nonché i suoi eccessi. Forse fa parte di quella cancellazione del passato di cui dicevo sopra. Nulla prima di me. Noi unici sopravvissuti di un mondo saltato per aria. Ci dev’essere stata una deflagrazione da qualche parte, in un certo momento, che ci è sfuggita. Intorno a noi solo macerie. E noi siamo i nuovi, i primi. Tutto ricomincia. Tutto può essere di nuovo detto come se fosse la prima volta. Meraviglia del mito delle origini, il culto del primitivo, l’età dell’oro, le origini del mondo e l’umanità bambina che incomincia a camminare su due zampe. Sì, c’è qualcosa di molto affascinante e travolgente in tutto ciò.

Due rischi, però. Che nulla più esista del nostro passato, che nessuna tradizione sia riconosciuta, che neanche un briciolo di autorevolezza sia dovuta ai grandi prima di noi. La grandezza non esiste, non siamo debitori a nessuno. È possibile che ci prenda un’euforia da padreterni, ma anche un forte senso di smarrimento.

Il secondo rischio è che tutto ciò sia vero anche all’inverso, cioè se ci mettiamo noi dalla parte degli autori: nulla durerà di noi, nulla di quel che avremo detto, pensato, scritto sarà mai ricordato, per più di qualche mese, forse. Il problema non è che non saremo citati (riusciamo a superare qualche piccolo sgarbo alla nostra vanità), quel che disturba è la fastidiosa percezione di una forza che malgrado noi ci travolge. Tutti presi nella stessa corrente che porta via tutto in una sorta di oblio cosmico.

Oblio collettivo, molto democratico sì, ma oblio.

L’inutilità del singolo, di ogni suo operato. L’inutilità della storia stessa, dunque.

E siamo arrivati alla vanità del tutto.

Mi par di ricordare che qualcuno l’abbia detto prima di me…

pubblicato sul “Domenicale del Sole24ore” il 29 ottobre 2017