Elezioni europee: dai socialisti ai sovranisti?

Le recenti analisi sul rapporto tra italiani ed Europa, pubblicate nelle ultime settimane a partire da varie indagini demoscopiche (Censis, Eurobarometro e diversi Istituti di ricerca), ci proiettano automaticamente verso il prossimo futuro, verso l’importante (forse decisiva) scadenza delle elezioni europee del maggio del prossimo anno. Quando i destini della UE saranno messi in discussione dall’ondata “sovranista” che ribolle in maniera ormai evidente in tutti i territori dell’Unione.

Secondo l’ultimo Eurobarometro, tra i sostenitori del “remain” gli italiani (con circa il 66%) sono quasi in ultima posizione tra i cittadini europei, battuti solamente dai britannici (attestati oggi al 60%, una decina di punti in più rispetto al passato referendum). L’opinione dei nostri connazionali non fa certo scalpore, nonostante tanti commentatori abbiano espresso preoccupazione per questo risultato. Che inaspettato certo non è, in primo luogo per il noto trend decrescente dell’ultimo decennio nella fiducia nella UE, in secondo luogo a causa dei costanti richiami negativi dei nostri attuali governanti che, rispetto al passato, non fanno che enfatizzare ancora più la natura quasi perversa della conduzione dei vertici europei, così poco attenti ai popoli – a loro dire – per privilegiare unicamente gli aspetti economico-finanziari. Ma su questo tema così controverso e con risultati spesso ambivalenti, cercherò di fare il punto in maniera un po’ più approfondita, al di là degli “strilli” giornalistici, nei prossimi giorni.

Nonostante dunque il generale plebiscito a favore della permanenza nella UE, da parte di tutti gli elettori dei paesi membri, sappiamo molto bene come stia crescendo in molti di quegli stessi paesi un ampio fronte di partiti e movimenti dichiaratamente a favore della riduzione dell’influenza europea sulle singole Nazioni. Si vuole dunque restare in Europa, certo, ma nel contempo si vogliono mutare sensibilmente i confini di questa permanenza, ridando forza agli impianti legati alla sovranità nazionale.

Il rischio, di qui a qualche mese, è che il ruolo di questa UE possa cambiare in maniera drastica, che il cammino di progressiva indifferenziazione dei diversi Stati, in nome di un bene comune sovra-nazionale, faccia importanti passi indietro. Se non nella moneta unica, che rimane solidamente ancorata nella testa dei cittadini, quanto meno in numerosi degli altri aspetti che ci vedono oggi “schiavi” delle direttive europee, in materia non solo economica, ma anche ambientale, nella vita civile, nella gestione delle risorse, eccetera.

Che una maggioranza “sovranista” possa prendere piede a livello politico nel parlamento europeo non è ovviamente una certezza, ma è comunque uno dei possibili risultati delle prossime consultazioni europee. Il parlamento attuale, definito dal voto del 2014, vede i gruppi tradizionalmente riconducibili alla sinistra (verdi, socialdemocratici e sinistra radicale) attestati poco sotto il 40% dei deputati complessivi, una quota molto simile a quelli facenti capo al centro-destra (popolari+conservatori), con i liberal-democratici vicini al 9%. Gli euro-scettici hanno invece una rappresentanza parlamentare piuttosto insignificante, al di sotto del 7%.

Una situazione che verrà sicuramente rivoluzionata dalle prossime elezioni del 2019. Oggi i rappresentanti dei partiti che fanno parte dell’alleanza socialista-democratica nel parlamento sono in disarmo pressoché ovunque: nei paesi più popolosi e dunque con il maggior numero di parlamentari (Italia, Germania, Francia e Spagna) socialisti e social-democratici sono ridotti ad una quota di elettori compresa tra il 10% e il 20%, considerando oltretutto che non sarà presente l’UK, il solo luogo dove l’area socialista, con il Labour, è ancora altamente competitiva. Per tacere del cosiddetto “gruppo di Visegràd”, dove sono praticamente scomparsi, rimangono ancora competitivi nei paesi scandinavi, ma il loro buon risultato non sarà certo sufficiente per ambire ad un tasso di rappresentanza europea superiore al 15% complessivo, circa 10 punti in meno di quelli attuali. La sinistra dovrebbe viceversa confermare il risultato del 2014 (intorno al 6-7%).

Nell’area di centro-destra, gli stessi popolari non godono di buona salute, e sarà per loro molto dura riuscire a ribadire il risultato vicino al 30% di quattro anni fa, considerando l’assenza dei conservatori inglesi ed il fatto che alcune delle forze politiche di centro-destra (come già fece la Lega) potrebbero alle prossime elezioni uscire dal gruppo dei Popolari europei, polacchi ed ungheresi in particolare. Arrivare al 25% sarebbe per loro un successo, se l’appeal della Merkel reggerà, in attesa di comprendere a quale gruppo farà invece riferimento En Marche.

E’ probabile che Macron, peraltro anche lui in deciso regresso di consensi, vada ad alimentare le fila dei Liberal-Democratici, che arriverebbero così più o meno al 10% dei suffragi. Calcolando che le altre forze (conservatori e Verdi) prenderanno poco meno del 15% dei voti, la parte rimanente, un ulteriore 30% dei suffragi, se non di più, andrà molto probabilmente appannaggio dei partiti o dei movimenti o apertamente anti-europeisti o quanto meno euro-scettici, come il nostrano Movimento 5 stelle e la stessa Lega di Salvini, il Front National francese o Ciudadanos in Spagna.

L’attuale governo europeo, come è noto, è composto da una sorta di Grande Coalizione, tra socialisti, popolari e liberal-democratici, che detengono una forte maggioranza vicina ai due terzi dell’assemblea. Se i risultati saranno quelli qui ipotizzati, un po’ meno ottimistici per il governo in carica di quelli citati sul Sole 24 ore di domenica scorsa da Roberto D’Alimonte, quella maggioranza potrebbe ridursi al 50% dell’assemblea, o magari non raggiungerla affatto. Sarebbe certo possibile riproporla, ma con molte difficoltà di tenuta, soprattutto se, come si è detto, alcune delle forze politiche dei paesi dell’est abbandonassero l’area dei popolari per aderire a quella degli euro-scettici.

Sarebbe forse più semplice la formazione di un governo più compatto composto dal centro-destra più classico, con i conservatori, i popolari e i liberali, magari con l’appoggio dei verdi. Assisteremmo dunque in questo caso ad una competizione serrata tra il centro-destra, da una parte, e l’area euro-scettica (i “sovranisti”) dall’altra. E se questi ultimi uscissero vincitori della contesa, difficile ma non impossibile, molto arduo sarà immaginare quale Europa avremo di fronte di qui ad un anno.

*Una precedente versione ridotta di questo scritto è uscita sul sito “Gli Stati Generali”



Fallita la Terza via/Dopo 10 anni al Pd serve una nuova identità

Oggi è il 14 ottobre 2017. Esattamente dieci anni fa, il 14 ottobre 2007, veniva fondato il Partito democratico, che sceglieva come suo primo segretario Walter Veltroni (76% dei consensi, 3 milioni e mezzo di voti).

Il partito nasceva, essenzialmente, dal matrimonio tardivo di Ds e Margherita, due formazioni politiche a loro volta in ritardo sulla storia: i Ds sono stati l’ultima mutazione della tradizione comunista, travolta dalla caduta del muro di Berlino (1989); la Margherita è stata l’ultima mutazione della tradizione e democristiana, travolta dalle inchieste di Mani pulite (1992). Da allora si sono succeduti in tutto 5 segretari, due di matrice comunista (Veltroni e Bersani), due di matrice democristiana (Franceschini e Renzi), uno di matrice socialista (Epifani).

E’ un matrimonio riuscito quello che ha generato il Pd? O invece il progetto di un partito liberal-socialista, lucidamente delineato da Michele Salvati nei primi anni 2000, deve essere considerato fallito? E qual è stato il ruolo di Renzi in questa storia durata dieci anni?

Sappiamo che le risposte a queste domande costituiscono uno dei principali elementi di divisione a sinistra. C’è chi, come Piero Fassino (fresco autore di Pd davvero, La Nave di Teseo 2017), pensa che il progetto non sia affatto fallito, ma sia largamente incompiuto. E c’è chi, come i nemici di Renzi e del renzismo, da Bersani a Pisapia, da Fratoianni a D’Alema, pensano che Renzi sia la sciagura che ha distrutto il giocattolo.

Se vogliamo valutare quel che è successo in questi 10 anni, tuttavia, forse è meglio distogliere per un attimo lo sguardo dal piccolo recinto della politica italiana, e provare a collocare la storia del Pd nel più ampio teatro europeo. Ebbene, se facciamo questa operazione di spostamento, è difficile non accorgersi di alcune circostanze.

Primo. La sinistra tradizionale, ovvero i partiti socialisti, socialdemocratici, laburisti, sono in crisi in quasi tutte le democrazie occidentali (eccetto nel Regno Unito), e spesso sono ampiamente superati da forze di sinistra alternative ad essi. In Spagna i socialisti sono al 23%, in Germania i socialdemocratici sono al 20%, in Francia i socialisti sono al 7%: anche trascurando il successo alle Europee del 2014 (40.8%), il consenso al Partito democratico (intorno al 27%) si situa nettamente al di sopra dei valori dei partiti cugini in Europa.

Secondo. Fatto 100 il consenso a tutte le forze di sinistra, il Pd ne cattura tra l’80 e il 90%, una quota che, nel continente europeo, non viene neppure lontanamente avvicinata da alcun partito socialista o socialdemocratico. In Germania i socialdemocratici pesano per il 53%, in Spagna per il 49%, in Francia per il 26% (per non parlare della Grecia, dove sono ridotti al 13% dello schieramento di sinistra). Insomma: noi ci lasciamo impressionare dalle tempeste in un bicchier d’acqua di casa nostra, ma la realtà è che negli altri paesi la sinistra è molto più divisa, e il partito che tradizionalmente l’ha rappresentata è molto più in difficoltà di quanto lo sia il Pd in Italia. A quanto pare la “fusione fredda” fra comunisti e democristiani ha avuto l’effetto di sopprimere ogni reale concorrenza a sinistra.

Terzo. La sinistra tradizionale è in crisi quasi ovunque, in Europa. Su questo gli scissionisti di casa nostra hanno ragione. Ma la domanda cruciale è: perché la sinistra è in crisi? E che cosa può fare per uscire dalla sua crisi?

A me sembra che la risposta alla prima domanda sia abbastanza semplice: la sinistra è in crisi perché il modello della Terza via non ha funzionato, come del resto ha da tempo riconosciuto il suo maggiore teorico, il sociologo britannico Anthony Giddens. La sfortuna del Partito democratico è stata di nascere nel 2007, ossia l’esatto istante in cui la crisi (appena scoppiata negli USA, con la bolla dei mutui subprime) stava per mandare in frantumi i sogni riformisti degli anni ’90, quando i vari Clinton, Blair, Schröder, Prodi, D’Alema, Veltroni scommisero sul cocktail mercato-riforme-meritocrazia.  E’ allora che, sulla scena del mondo, la competizione fra destra e sinistra divenne una competizione fra due modi solo marginalmente diversi di gestire il mercato. Un cambiamento che, già in un libro del 1996, il politologo Marco Revelli aveva bollato polemicamente con la formula delle “due destre”, entrambe persuase delle virtù del mercato (Le due destre, Boringhieri 1996).

Ora, con milioni di disoccupati, e una crescita che è ripartita in alcuni paesi ma non in altri, la storia presenta il conto innanzitutto ai partiti che la globalizzazione avevano pensato di poterla governare, indirizzandola verso esisti egualitari. L’elettorato non perdona ai partiti socialisti e socialdemocratici di aver tradito le loro promesse: più occupazione, più stato sociale, più diritti. Anche per questo si rivolge ai partiti populisti, di destra, di sinistra e di centro, che quelle domande di protezione hanno mostrato di saperle prendere estremamente sul serio.

In questo quadro, l’anomalia dell’Italia è la seguente. Nel Pd ha prevalso l’anima modernizzatrice e mercatista della Margherita, di cui Renzi è stato un efficace interprete. Nonostante innumerevoli errori, di contenuto e di atteggiamento, non si può negare a Renzi il merito di aver perfezionato la modernizzazione del Pd, che ha deposto o attenuato alcuni dei tratti più discutibili della cultura di sinistra: immobilismo, consociativismo, complesso dei migliori, subalternità ai sindacati e alla magistratura. Il punto, però, è che quella modernizzazione non è stata un’improvvisa trovata del “ragazzo di Rignano”, ma era stata avviata, fin dagli anni ’90, dalle correnti riformiste dei post-comunisti, a partire da D’Alema e Bersani. Se il Pd è diventato quel che oggi è, non è certo perché Renzi lo ha snaturato, ma perché Renzi ha impresso un po’ più di velocità a un processo che altri, a sinistra, avevano avviato ben prima di lui, e ben prima della nascita del Pd.

Ecco perché le critiche degli scissionisti suonano oggi leggermente surreali. Il mondo che si muove alla sinistra del Pd ha perfettamente ragione a far notare che certi conti non tornano (a partire da quelli della disoccupazione e della povertà), ma è poco credibile quando sembra suggerire che, quei problemi, potrebbe risolverli un ritorno alle politiche del passato, ai bei vecchi cari tempi in cui l’economia mondiale tirava, e quella italiana cresceva trainata dal debito.

Se una critica si può ragionevolmente fare al Pd non è certo di non saper tornare risolutamente al passato, come vorrebbero i suoi critici nostalgici, ma di non saper guardare al futuro. Dove “guardare al futuro” significa prendere atto senza troppi giri di parole che la Terza via, quella su cui avevano puntato tutte le loro carte i fondatori del Pd, è sostanzialmente fallita, e che si tratta di inventarne un’altra (una Quarta via?), che sappia fare i conti con le sfide della globalizzazione, dell’automazione, delle migrazioni di massa.

Pubblicato su Il Messaggero  il 14 Ottobre 2017