Malati di scrittura internettiana

Chi sono gli haters? Chi sono coloro che insultano, minacciano, sputano veleno, irridono, calpestano, umiliano, lanciano volgarità e violenza sprizzando odio via web? Schermati da un video, lontani dai loro interlocutori, assenti ma comunicanti, esistono veramente? Ne conosciamo qualcuno? Sono persone, robot, marziani? Siamo noi?

Ma soprattutto, perché diamo loro tanta importanza? Perché ne parliamo, perché li ri-postiamo e li inoltriamo, moltiplicando all’infinito il loro effetto devastante? Perché non li ignoriamo?

Credo che la risposta sia in un’altra domanda: perché a nostra volta usiamo il web quando vogliamo esprimere il nostro pacato e nobile pensiero, cioè ci consegniamo a un luogo dove necessariamente quel nostro pensiero incontrerà non pacati e non nobili non-pensieri?  Perché affidiamo le nostre riflessioni (che avrebbero tutta l’ambizione di essere profonde) allo spazio di poche righe, dove dovranno necessariamente adeguarsi a essere non-profonde e fluttuare in una banalità sconfortante? Perché, insomma, amiamo la scrittura internettiana, contratta e nervosa, schematica e superficiale, per forza di cose fatta di formule? Perché abbiamo scelto di parlare per formule, o per video, invece che con la parola e la sua meravigliosa complessità?

Ovvio che, se esprimiamo via web (quindi attraverso formule) le nostre convinzioni, riceveremo via web i commenti, che non potranno che essere altrettante formule, frasette ridotte all’osso, direi al nulla. E che cosa mai oggi, più che un insulto, risponde ai valori che implicitamente affermiamo di apprezzare? Brevità, velocità, concisione. Abbiamo volutamente espulso dalla nostra vita tutto ciò che è lungo e implica ragionamenti complessi. Dunque, se in una riga ci mandano a quel paese, mi vien da dire che riceviamo pan per focaccia.

Il fatto è che il web è, per la maggioranza di noi, irresistibile. Temo che la verità (poco dicibile) sia questa. Parlare via web vuol dire raggiungere tutti in un attimo. Quindi avere il mondo in pugno. E a chi non fa gola? Diventare noti, forse anche famosi. La fama corre sul web. Invisibile, imprendibile; irresponsabile, amorale, ignobile e catastrofica. Com’era la divinità alata che l’ha preceduta nei secoli. Fama, la dea Fama. La “voce pubblica”. Un gigantesco mostro capace di spostarsi a velocità siderali, una specie di uccellaccio coperto di piume, che sotto ogni piuma celava un occhio. Infiniti occhi per vedere, infinite orecchie per ascoltare, infinite bocche per parlare e diffondere ciò che aveva visto e sentito: perfetta antesignana del web.

Ovidio è il primo che ci dice dove abita: al centro del mondo, in un edificio tutto buchi, infiniti ingressi senza porte, sempre aperti, notte e giorno, perché entrino le voci di tutti, indistintamente. Espressione massima di democrazia, già allora. Ma Ovidio è un poeta, Ovidio distingue. Non è vero che ogni parola si equivale e ha pari diritto, la parola saggia e la parola stupida, la parola frutto di studi e la parola estemporanea che ti esce dalle viscere, la diceria, la calunnia e la verità. Non è vero che non importa cosa è vero e cosa è falso. Certo, tutti devono avere la possibilità di parlare, nella casa della Fama tutte le parole sono accolte, ma ognuna avrà il termine preciso che la definisce, la fissa per quel che è, e la giudica. Il giudizio è imprescindibile, è il filtro. Non è detto che democrazia voglia dire rinunciare ai filtri. Distinguere, filtrare. Controllare il lessico, innanzi tutto. Aprire alle sfumature di senso, alle varianti. Contro la piattezza linguistica, l’ignoranza. (Ma Ovidio viveva in un tempo strano, in cui la poesia aveva voce).

Ciò che è irresistibile per tutti noi, credo, è poter raggiungere il maggior numero di nostri simili con fatica zero, con tempo zero. L’attimo di digitare quattro parole e siamo nell’aere. (Digitare, non direi mai scrivere! Noi oggi digitiamo, non scriviamo. Siamo digitanti. Usiamo le dita, non il cervello). Ma anche poter ricevere subito un feed back. Ci rispondono immediatamente, dall’aere: ci sono migliaia di “altri”, come noi viaggianti per l’aria, pronti a captare gli altrui segnali. Non fanno altro. Non facciamo altro…

Piccola parentesi, con qualche dato. Pare che il tempo medio che un adulto (dai 16 anni ai 64) passa su internet (tra social, video e musica) sia di sei ore al giorno. Gli italiani connessi sono quasi 55 milioni (cioè 9 su 10). Il 70% di noi appena si sveglia, come prima cosa, guarda il telefonino, il 63% lo controlla ogni sera prima di addormentarsi. Sul lavoro veniamo interrotti ogni 180 secondi (tra notifiche, gruppi WhatsApp, mail, conference call) e impieghiamo ogni volta 24 minuti per tornare proficuamente al compito che abbiamo sospeso. Così racconta Digital Detox, di Alessio Carciofi (Hoepli, 2017). Che siamo dipendenti da smartphone è chiaro a tutti, ma questi dati aggiungono una notizia importante: l’ampiezza delle proporzioni.

Dicevo, siamo antenne in perenne attesa di captare qualcosa. Se il segnale per un po’ non arriva, ci chiediamo cosa non va, siamo inquieti, tesi, tristi. Abbiamo anche la “sindrome della vibrazione fantasma”: crediamo di sentir vibrare il cellulare anche quando non vibra. Ansia da squillo. Vibranxiety.

Siamo astronauti dispersi, che hanno perduto l’astronave e vagolano nel nero spazio con la loro tuta grassa e bianca che li rende impacciati e chiusi, e con il tubo, quel tubo bianco che li collegava a qualcosa, a un motore, a un’intelligenza, a una boa, e che ora invece spencola nel vuoto e cerca di collegarsi a destra e a manca con il nulla. Major Tom! Siamo tutti molto simili a major Tom, in quella meravigliosa canzone che è Space Oddity. “Can you hear me, major Tom?” Ma non siamo lui, che era veramente solo nello spazio. Noi riusciamo a essere sperduti, e affollati. Soli, e dialoganti. Ci rimbalziamo a vicenda le nostre solitudini, e le chiamiamo condivisione. Viviamo in un rumore costante, e ci portiamo dentro il nostro silenzio, ognuno il suo. Usiamo la parola, ma parlare per formule non è parlare. Non sappiamo più condurlo, un ragionamento, portarlo a maturazione lenta, fase per fase. Ci abbiamo rinunciato, a ragionare. E a aspettare. Troppo lungo, troppo inutile.

Torniamo alla domanda: perché abbiamo scelto così in massa di affidare a facebook, o consimili, il nostro pensiero? Perché ci facciamo una pagina, un sito, un blog, esponendoci così alla triturazione altrui? Perché affidiamo le nostre idee a un video di un minuto e mezzo? Perché ci siamo arresi a tanta pochezza, ristrettezza, di tempi, di spazi?

Credo che sia perché ci conviene. Moltiplica la visibilità. Quindi aiuta il nostro lavoro, aumenta l’audience, le vendite dei nostri prodotti, siano essi libri, film, o borsette o piatti prelibati. Dunque, è autopromozione. Parliamo sul web perché lì possiamo far “crescere la nostra pagina”. Far conoscere sempre di più la nostra opera, il nostro nome. Aumentare la fama. Gli haters, alla fine, non sono che un inevitabile inconveniente, sgradevole, ma necessario: anch’essi amplificano la fama, forse sono addirittura il segno del successo. Famosi e diffamati, pazienza. Anche se si tratta di un successo immediato e labile, nemmeno un riflettore temporaneamente puntato su di noi, bensì la luce di un fiammifero. E siccome il fiammifero dura pochi secondi, la soluzione è aumentare il numero dei fiammiferi.

È questo bisogno di luce perenne intorno che m’incuriosisce, il bisogno di essere “seguiti”. Non riusciamo più a dire niente senza voltarci a vedere chi c’è dietro. Camminiamo con la testa perennemente voltata. Parliamo per vedere quanti ci ascoltano. Forse non ci importa nemmeno più quel che diciamo, ma solo la fila dietro, il fiammifero in più. La conseguenza è che finiamo per adeguare quel che diciamo al consenso altrui: diciamo quel che la gente vuole sentire, scriviamo i libri che la gente vuole leggere, votiamo il partito che la gente (o meglio, la “nostra” gente) vota. Seguiamo l’onda, il main stream. Il pensiero libero, originale, indipendente, per sua stessa natura, non ha seguaci. Dunque, non esiste.

Sia chiaro, a tutti fa piacere suscitare apprezzamento, ammirazione. Registrare una reazione positiva a quel che stiamo facendo, sul lavoro, per esempio. Lavoriamo meglio, se qualcuno ci dice bravo.

Ma anche lavorare e basta, senza chiedersi a chi “piace”, avrebbe un suo fascino. Anche essere non visti, non cliccati, non postati, non inoltrati. Anche l’invisibilità è un valore. Inestimabile. Andare per la propria strada, per la strada che riteniamo giusta in base ai nostri ideali, alle convinzioni che abbiamo maturato nel tempo, ai principi morali a cui abbiamo deciso di attenerci e, anche, alle nostre passioni. Così il maestro diceva a Dante: “Perché l’animo tuo tanto s’impiglia che l’andare allenti? Che ti fa ciò che quivi si pispiglia? Vien dietro a me, e lascia dir le genti; sta come torre ferma, che non crolla già mai la cima per soffiar di venti”.

Anche tacere, volendo, ogni tanto, sarebbe un valore. “La più vera ragione è di chi tace”.

Ma siamo sempre nell’ambito della poesia, caro major Tom. Soli nel tuo spazio infinito.

Articolo pubblicato sul Il Sole 24 del 26 agosto 2016



L’anno che cambiò la politica

E’ passato esattamente un anno dalle ultime elezioni politiche. Anche se, sull’esito, ognuno la pensa a modo suo, credo che almeno su una cosa la pensiamo tutti allo stesso modo: nessuno, prima del voto di marzo, avrebbe immaginato un tale sconquasso nelle modalità della lotta politica.
Certo, si può obiettare che anche la realtà economico-sociale, in pochissimi mesi, è profondamente cambiata. Mai era successo, ad esempio, che il contrasto all’immigrazione irregolare fosse così rude. Mai era successo che la polemica con le autorità europee fosse così aspra. Mai era successo che politica economica fosse tanto assistenziale. E mai (tranne forse nel momento più acuto della crisi 2011-2012), era successo che le perdite patrimoniali, sia pure di tipo virtuale, del sistema-Italia fossero così ingenti e concentrate nel tempo (200 miliardi di euro fra marzo e ottobre).
E tuttavia, nonostante tutto questo, a me pare che il cambiamento fondamentale, forse irreversibile, sia avvenuto nel modo di fare politica e di comunicare con gli elettori. Lo spettacolo che la politica ha offerto dopo il 4 marzo 2018 è una prima assoluta, anche se innumerevoli assaggi forse avrebbero potuto farne presagire i contorni.
In questo spettacolo vi sono vari pilastri. Il primo è la credenza che si possa governare senza immergersi negli innumerevoli dossier che qualsiasi premier, vice-premier o ministro si trova a dover gestire. E che, tutto al contrario, sia normale allocare la stragrande parte del proprio tempo a coltivare il proprio elettorato e accrescere il consenso. Minniti una volta ebbe a dire che, anche avesse voluto, non avrebbe potuto lasciare il suo ufficio al Ministero dell’Interno tale era la mole di cose da fare. Salvini gli ha dimostrato che invece è possibilissimo, con quali conseguenze lo vedremo nel tempo.
Il secondo pilastro della nuova politica è la credenza che, per dirigere un ministero, né la competenza specifica né una robusta esperienza politica siano doti imprescindibili. E’ vero che di ministri incompetenti ve ne sono sempre stati, ma non era mai successo che fossero così numerosi, e non provassero la minima vergogna.
Il terzo pilastro è la credenza che il rapporto del politico con il proprio elettorato debba essere quotidiano, e persino più che quotidiano. E’ da qui che deriva l’assoluta centralità di internet: non potendo accedere tutti quanti per due-tre volte al giorno alla televisione e alla radio, i politici ricorrono a internet per “esserci” sempre, da mane a sera (e talora anche di notte). E lo fanno nei modi divenuti tipici della rete, con dosi crescenti di volgarità, cattivo gusto, disprezzo per chi la pensa diversamente.
Il quarto pilastro è la credenza che nessun rispetto sia dovuto alle altre istituzioni, autorità, corpi intermedi, né tantomeno ai legittimi rappresentanti di altri Stati o di organismi sovranazionali. Il governante di oggi pensa di potersi rivolgere alla Banca d’Italia o al Presidente di uno Stato estero come ci si può rivolgere alla suocera, al vicino di casa o al tifoso di un’altra squadra.
Ma il pilastro più importante, probabilmente, è ancora un altro, e sta nel concetto di “contratto” di governo. Qui l’innovazione è davvero radicale, perché capovolge quello che è stato il cardine della seconda Repubblica, ovvero il principio per cui è un diritto fondamentale dei cittadini conoscere prima del voto non solo i programmi dei partiti ma anche le loro alleanze. Questa, per venticinque anni, è stata l’ideologia centrale della seconda Repubblica, nonché la base delle sue pretese di superiorità rispetto alla prima. Contro le perpetue manovre parlamentari della prima Repubblica, la seconda ha sempre proclamato che le carte vanno scoperte prima, e che è immorale chiedere il voto agli elettori in nome di uno schieramento, per poi cambiare le carte in tavola una volta entrati in Parlamento.
Ora, con il contratto di governo, non solo si abbandona il principio che le alleanze si fanno prima del voto, ma si osa quel che nemmeno nella prima Repubblica si era mai osato: fare un governo con l’avversario politico, in nome di un “contratto” che non impegna i contraenti in un’alleanza politica, ma si limita a regolane gli scambi reciproci di favori nell’orizzonte di una singola legislatura. Nella prima Repubblica potevi non sapere se la Dc si sarebbe alleata con i socialisti o con i liberali, ma potevi star certo che non avresti visto un governo nazionale dei comunisti con i fascisti (quello che i politologi chiamano “milazzismo”, perché un simile esperimento fu attuato da Silvio Milazzo, nella sola Sicilia, alla fine degli anni ’50). Oggi no, la terza Repubblica va più indietro non solo della seconda, ma anche della prima, perché consente il tradimento completo delle identità e dei programmi elettorali delle forze politiche che firmano il “contratto”.
Si potrebbe supporre che queste mutazioni riguardino solo o principalmente la Lega e i Cinque Stelle. Ma a ben guardare le cose non stanno così. I nuovi modi della politica, il suo stile aggressivo e talora un po’ trash, contagia e travolge un po’ tutti. Per un Salvini che si fa fotografare sopra una ruspa o con un panino alla Nutella, non ci vien fatto mancare un Calenda in costume da bagno che affronta il gelo di un laghetto alpino, e ha persino il fegato di corredare la foto con l’hashtag: #orgoglio progressista. L’ossessione di presidiare internet contagia un po’ tutti i politici, sottraendo tempo ed energie ad attività ben più proficue. Persino lo scontro magistratura-politica, endemico da almeno tre decenni, fa un salto di qualità: oggi al ministro dell’Interno vengono contestati comportamenti che a nessun ministro del passato sarebbero stati contestati; oggi ai Cinque Stelle sembra normale che siano i propri iscritti a decidere se la magistratura ha o non ha il diritto di procedere nei confronti di un politico.

Articolo pubblicato il  2 marzo su Il Messaggero