Odio o senso di ingiustizia?

Riassumiamo i fatti. L’altro ieri i residenti di Torre Maura (quartiere di Roma) hanno dato vita a una rivolta, con vari episodi di violenza e di intimidazione, quando si sono accorti che il Comune stava trasferendo 77 rom in un centro che, fino a poco prima, aveva ospitato alcune decine di migranti. Gli abitanti di Torre Maura, recentemente “liberati” della presenza dei migranti, non ci hanno visto più quando se li sono visti sostituire con i rom.
L’operazione rientra nella cosiddetta “terza via” di Virginia Raggi: trovare un compromesso fra il buonismo “senza sé e senza ma” della sinistra e il cattivismo, anch’esso senza se e senza ma, della Lega e del suo leader Salvini.
L’idea è (o meglio era) di sgomberare i campi rom, assicurando percorsi di reinserimento individuale (formazione, lavoro, alloggio, ritorno in Romania), ampiamente finanziati dalla mano pubblica. Una strategia già tentata senza grande successo l’estate scorsa con il campo rom di Prima Porta (Campo River). Oggi, forse scottata da quell’esperienza, la sindaca la riformula in modo un po’ più filosofeggiante: “Su migranti e campi rom sto portando avanti la ‘terza via’: inflessibili con i delinquenti, accoglienti con le persone fragili. Semplificare i temi complessi è sbagliato”.
Giustissimo, ma più facile a dirsi che a farsi. Perché portare in blocco 77 rom in un quartiere degradato, che ha già enormi problemi, dallo stato penoso degli alloggi comunali ai roghi dei cassonetti, che cos’è se non un modo semplicistico di affrontare il problema? (e infatti l’Amministrazione comunale ha già fatto macchina indietro: i 77 rom, in massima parte donne e bambini, saranno portati tutti via entro una settimana).
Semplicistico, soprattutto, è prendersela con l’ira popolare senza comprenderne le ragioni. Ragioni che non giustificano in alcun modo gli atti violenti e le manifestazioni di odio (su cui già indaga la Procura) ma che hanno una loro macroscopica consistenza. Proviamo a riassumerle, una ad una.
Prima ragione. La gente non capisce perché si continui a parlare di periferie degradate, della necessità di riqualificarle, dell’urgenza di un ritorno della politica nei quartieri, e poi non riesce né a tener pulite le strade (che è il minimo sindacale per un’amministrazione), né a garantire la sicurezza (che è il minimo sindacale per uno Stato), e come se questa assenza non fosse già abbastanza colpevole scarica su un territorio già stremato i problemi di specifici gruppi sociali (migranti e rom), peraltro noti per un tasso di criminalità superiore alla media.
Seconda ragione. La gente non capisce perché un cittadino italiano ordinario, per vivere, debba sbattersi in cerca di un lavoro e di una casa, mentre alcuni gruppi sociali “speciali” paiono godere di una sorta di diritto a reddito e alloggio. E ancor meno capiscono che altre minoranze sventurate, questa volta costituite da cittadini italiani, non godano di altrettanti diritti e attenzioni (“andate via, fate venire i terremotati che stanno sotto la neve!” è una delle frasi che si sono ascoltate durante le proteste a Torre Maura).
Terza ragione. La gente non capisce la “terza via” perché sa perfettamente come andrà a finire: il lato buonista premierà le persone fragili (o presunte tali), il lato cattivista resterà lettera morta. Perché è facilissimo spendere soldi dei contribuenti o dell’Europa per gestire l’accoglienza, è praticamente impossibile arginare i comportamenti illegali (le periferie non sono presidiate dalle forze dell’ordine, intere porzioni del territorio sono in mano alla criminalità, chi infrange le leggi può tranquillamente essere arrestato e liberato decine di volte).
La realtà, temo, è che la Terza via, attuata con tanta improvvisazione (pare che dell’operazione di trasferimento a Torre Maura non fosse stato informato neppure il presidente grillino del VI Municipio, di cui Torre Maura fa parte), non possa che rafforzare il cattivismo cui pretende di porre un freno. Certo, se si pensa che le reazioni rabbiose al trasferimento dei rom siano dovute alla rozzezza del volgo romano, o all’estrema destra che soffia sul fuoco, aizzando i peggiori istinti popolari, allora non c’è niente da fare: fascismo e razzismo avanzano tenendosi per mano, e tocca ai sinceri democratici resuscitare antifascismo e antirazzismo, i due grandi anticorpi alla disumanizzazione trionfante.
C’è però anche un altro modo di mettere le cose. A giudicare dai resoconti della protesta, dalle frasi e dagli slogan che si sono sentiti, il sentimento centrale che pare animare la protesta non è l’odio ma, forse più semplicemente e umanamente, un forte, fortissimo, disperato senso di ingiustizia. Chi fatica a sbarcare il lunario in un quartiere degradato, non riesce a capire perché i migranti non siano inviati in altri quartieri delle città (già: perché?), soprattutto in quelli del politicamente corretto i cui abitanti manifestano orgogliosamente in favore dell’accoglienza. Ma soprattutto non capisce un’altra cosa: perché, nella distribuzione delle risorse pubbliche, la maggior parte dei cittadini siano lasciati soli, a giocare la loro difficilissima battaglia individuale per la sopravvivenza, mentre ad alcuni gruppi e minoranze (rom e migranti innanzitutto) è accordata una speciale precedenza e attenzione, il tutto senza che alcun merito, o fragilità estrema, giustifichi una tale differenza di trattamento.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del  4 aprile 2019




Sinistra, il DNA è cambiato

La sinistra è in crisi. Il suo partito di riferimento, il Pd, lotta per sopravvivere. Eppure, ancora 5 anni fa, alle elezioni europee del 2014, aveva toccato il 40.8% per cento, per poi precipitare al 18.8% nel giro di soli 4 anni, alle ultime elezioni politiche (4 marzo 2018).

Che cosa è successo?

Per capirlo dobbiamo cominciare a smontare un mito, ovvero che la sinistra sia in crisi un po’ dappertutto. Non è così, per lo meno dal punto di vista elettorale. Alle elezioni americane Hillary Clinton ha preso più voti di Donald Trump, e solo il sistema elettorale, basato sui “grandi elettori”, ha sottratto la vittoria alla candidata democratica. Nel Regno Unito la sinistra-sinistra di Jeremy Corbin gode di ottima salute. In Portogallo, in Grecia e in Spagna la sinistra è al potere, ora con formazioni tradizionali (Portogallo), ora con formazioni di neo-sinistra radicale (Tsipras in Grecia), ora con un compromesso fra sinistra tradizionale e neo-sinistra radicale (Sánchez in Spagna). In Germania i socialdemocratici sono in forte calo, ma il loro declino è compensato dall’ascesa dei Verdi.

Se guardiamo ai grandi paesi di cultura occidentale, una vera crisi di consenso della sinistra si osserva solo in Francia e in Italia, dove la sinistra tradizionale è stata travolta dall’affermazione dei partiti populisti di destra (il Front National di Marine Le Pen, la Lega di Salvini), di sinistra (la France Insoumise di Mélenchon), e né di destra né di sinistra (il Movimento Cinque Stelle di Grillo).

Ma torniamo all’Italia e alla crisi del Pd. In nessuna elezione politica del dopoguerra, dal 1948 al 2013, il maggiore partito della sinistra, che si chiamasse Partito comunista, Pds, Ds o Pd era mai sceso sotto il 20% (unica eccezione apparente, il 2001, in cui c’erano 2 partiti alla pari: Ds e Margherita, complessivamente oltre il 31%). Che cosa è successo, dunque?

Questa è la domanda che molti si fanno, da qualche mese a questa parte. Io però me ne sono sempre fatta un’altra, negli ultimi 20 anni, e cioè: perché non è ancora successo? Come ha potuto il maggior partito della sinistra evitare così a lungo il tracollo?

Questa domanda mi ha sempre fatto compagnia dalla fine degli anni ’90, perché fin da allora mi erano evidenti tre limiti della sinistra riformista, che mi è anche capitato di descrivere e analizzare in qualche libro (La frattura etica, 2002; Perché siamo antipatici?, 2005).

Il primo limite era l’antipatia della sua classe dirigente, ovvero quel mix di supponenza, oscurità di linguaggio, ipocrisia che si potrebbe sinteticamente descrivere come il “complesso dei migliori”. Il secondo limite era l’atteggiamento completamente acritico verso l’Europa e verso il carattere asfissiante di tante sue regole: non tanto il 3% di deficit, quanto la ipertrofia delle leggi, delle direttive e dei regolamenti, un male che negli stessi anni Giulio Tremonti denunciava lucidamente in un suo libro (Rischi fatali, 2005). Il terzo limite, forse il più grave, era la radicale trasformazione della propria base sociale, e la conseguente mutazione del partito della classe operaia in “partito radicale di massa”, secondo la definizione (e la profezia) di Augusto del Noce. Un partito attento alle esigenze dei ceti medi, per i quali l’immigrazione è innanzitutto una risorsa, e sempre più insensibile a quelle dei ceti popolari, per i quali l’immigrazione è un problema, quando non una minaccia.

Poiché questi limiti erano evidenti già vent’anni fa, la domanda vera diventa: perché solo ora?

La risposta, forse, è semplicemente che, fino al deflagrare della crisi (2008-2009), non è stato difficile fingere. O, se preferite, alla sinistra è stato facile far passare il proprio racconto, la propria narrazione della realtà: noi difendiamo i deboli, noi difendiamo le minoranze, noi stiamo con gli immigrati, noi siamo i difensori dei diritti, noi siamo le forze dell’apertura (dei commerci e delle frontiere). Quel racconto poteva reggere perché l’economia, sia pur a un ritmo modesto, cresceva ancora, la povertà era ai minimi, l’immigrazione non era fuori controllo e, last but not least, l’offerta politica era stagnante: il movimento di Grillo era appena agli albori (il “vaffa day” è del 2007), la Lega non aveva ancora compiuto la “svolta nazionale” che nel 2018 la porterà al potere.

Poi è arrivato il 2011, che ha aperto il vaso di Pandora dei mali del nostro mondo. La crisi finanziaria ha fermato l’economia, il numero dei poveri è raddoppiato, la caduta di Gheddafi ha moltiplicato le partenze dalle coste libiche. Ma, soprattutto, i governi di sinistra, tutti a guida Pd (Letta, Renzi, Gentiloni), hanno fatto – di fronte a questi cataclismi – due mosse cruciali, che hanno definitivamente cambiato il DNA della sinistra.

La prima è stata di fare dell’accoglienza una questione morale (“noi siamo umani, i nostri avversari sono disumani”) anziché un problema politico. La seconda è stata di destinare le poche risorse disponibili (in particolare i 10 miliardi degli 80 euro) sulla propria base sociale tradizionale, fatta di lavoratori dipendenti e garantiti, anziché sui veri deboli: che non sono solo gli immigrati, ma i precari, i disoccupati, i lavoratori in nero, più in generale l’esercito dei poveri cresciuto a dismisura negli anni della crisi.

Di questi due errori una parte della classe dirigente del Pd a un certo punto si è accorta, e infatti, a fine legislatura, è arrivata la stretta sull’immigrazione del ministro Minniti, e un primo timido avvio del Rei (reddito di inclusione), una misura diversa dal reddito di cittadinanza dei Cinque Stelle solo nel nome, e per la scarsità di risorse messe in campo. Ma ormai era tardi, l’elettorato aveva perso la pazienza, e del Pd non si fidava più. Per affrontare il problema degli immigrati, a molti è sembrato più credibile Salvini, per affrontare quello della povertà a molti è sembrato più affidabile Di Maio.

Non pare che, in vista delle Europee, qualcosa di sostanziale stia cambiando. La rinuncia di Minniti alla corsa per la segreteria del Pd ha tolto al maggiore partito della sinistra ogni residua possibilità di recuperare fiducia sul versante della sicurezza e del controllo dell’immigrazione. Quanto alla lotta alla povertà, è curioso che il Pd non si renda conto che la filosofia del reddito di cittadinanza, così aspramente criticata, è assai simile a quella del Rei e delle politiche attive del lavoro, propugnate per tanti anni dalla sinistra riformista ma mai messe veramente in atto, come testimonia lo stato penoso dei Centri per l’impiego.

Ma non dobbiamo stupirci troppo. Il DNA del Pd è cambiato, e non da ieri. E dalle mutazioni non si torna indietro facilmente, in biologia come in politica.




Commento a Emanuele Felice. E dei rottamati sociali che ne facciamo?

Un osservatore acuto e attento delle cose italiane, Emanuele Felice, ha scritto un articolo, Serve un’idea di società (‘Repubblica’ 12 dicembre u.s.) che, come spesso accade, ha un incipit realistico e convincente che, però, quasi subito si perde nelle nebbie della retorica dei ‘buoni sentimenti’.

Scrive l’Autore, «I grandi partiti del Novecento hanno avuto un legame con il loro ‘popolo’ che andava ben al di là di singole proposte: era un’identificazione culturale, etica, filosofica, prima ancora che politica. Erano i grandi ideali. Era un sentimento di appartenenza che donava sicurezza e, per alcuni, addirittura senso alla vita». E’ difficile non essere d’accordo anche se si può rilevare che le ‘subculture’ ricordate erano vitali giacché si trovavano, per così dire, incastonate nell’anello dello Stato nazionale e sovrano, da cui traevano forza ed efficacia. In una comunità politica, incapace di assicurare la legge e l’ordine, i partiti finiscono per usurpare il potere che spetta all’autorità dello Stato, per definizione super partes, e il sentimento di appartenenza che essi ingenerano non è una risorsa per il sistema politico—v. i partiti storici in Inghilterra la cui dialettica veniva considerata così necessaria che l’opposizione al governo era detta l’opposizione di Sua Maestà—ma un fattore di instabilità e di anarchia che, alla lunga, vanifica  anche fedeltà che si ritenevano incrollabili (che fine hanno fatto i trinariciuti italici?).

Secondo Felice oggi solo i populisti hanno ereditato la capacità di aggregazione politica ed etica dei vecchi partiti, solo di essi si può dire che «appreser ben quell’arte». «Hanno un messaggio che fa leva sull’identità, non solo nazionale ma anche locale (anzi localistica) e attorno ad essa costruiscono un senso di appartenenza. I Cinquestelle vi aggiungono la pretesa dell’onestà e della retorica egualitaria. La Lega i valori della tradizione e, soprattutto, l’impegno a garantire la sicurezza e a preservare la ricchezza costi quel che costi, anche a scapito dei diritti umani». In realtà il rapporto tradizione/diritti non è così semplice da definire—in fondo, anche la tradizione è un diritto: quello a una scuola che insegni nella mia lingua la storia della mia gente, della sua letteratura, della sua arte etc. rinvia alla rivendicazione di un diritto o alla richiesta di un privilegio? Ma non è questo il problema. Il problema è un altro: siamo sicuri che Lega e Cinquestelle siano movimenti identitari che sanno di antico, fortemente radicati nella società italiana e preoccupati di conservare per le generazioni future i nostri ‘beni culturali’—paesaggi, monumenti, opere d’arte, valori letterari etc.—che giustificano il nostro essere e sentirci una ‘nazione’?

In realtà, non c’è nulla nella loro ideologia e nella loro prassi di governo che ci induca a pensarlo. Mazzini, Garibaldi, il Risorgimento erano evocati più dagli esponenti democristiani—la cui famille spirituelle, almeno nelle alte sfere vaticane, era rimasta a lungo nemica implacabile dello stato nazionale—di quanto non lo siano dalla classe politica gialloverde, che, in certe sue non trascurabili componenti, si mostra antirisorgimentista e pronta a credere a tutte le fandonie propalate dalla leggenda nera della conquista piemontese e della colonizzazione del (ricco e felicissimo) Sud. Ciò di cui si fanno carico gli odierni populisti—e non è certo una colpa—sono i vasti ceti sociali che si trovano in uno stato di crescente sofferenza in «un Paese in declino, economico, demografico e democratico» «davanti alle sfide della modernizzazione». Se venisse meno il pericolo della perdita di status sociale e di reddito, quei ceti tornerebbero a votare, sia pure senza troppa convinzione, per i partiti di una volta e continuerebbero a ignorare i simboli di Santa Croce e dell’Altare della patria, la cui venerazione non può essere imposta a colpi di decreti ministeriali, come negli stati totalitari.

Come molti (forse la stragrande maggioranza) degli intellettuali di sinistra, Felice è inorridito dall’ «idea di società chiusa e sulla difensiva» che hanno in mente i sovranisti ma non si pone la domanda cruciale: se la globalizzazione sconvolge i quadri sociali d’antan, se crea nuove fasce di povertà, cosa ne facciamo degli operai, artigiani, professionisti che a cinquant’anni escono dal mercato del lavoro e non sono in grado di riqualificarsi? C’è da scandalizzarsi se ad essi non rimane altra risorsa che quella del voto e se lo danno a quanti danno loro l’illusione di arrestare, sia pure per poco, il trend che è causa del loro disagio ‘esistenziale’ e della loro retrocessione sociale?

Ci troviamo di fronte a una politica (oggettivamente) ‘reazionaria’ e a un’economia (oggettivamente) progressista. Di qui la tentazione sansimoniana—che si avverte nelle critiche di politologi, di giuristi, di opinion makers dell’establishment, gelosi guardiani dell’etica pubblica e sacerdoti della dea della Modernità—di sottoporre a critica serrata la ‘democrazia dei contemporanei’; di qui la neppur velata nostalgia per le élite virtuose capaci di imbrigliare i moti disordinati delle ‘plebi’. In certi maitres-à-penser la diffidenza per il popolo sovrano cresce al punto da far pensare a nuove forme di ‘ordine civile’. Da liberale senza aggettivi, credo che la democrazia—che, nel nostro tempo, identifica la politica tout court—sia un valore ben più alto   dell’economia (lo ha fatto rilevare Ernesto Galli della Loggia in uno dei suoi penetranti editoriali di qualche settimana fa) e che solo essa sia in grado di garantirci dal dispotismo burocratico e dalla tirannia dei poteri forti. In fondo non di rado, nella storia, si è rivelata l’unica ramazza a disposizione del ‘popolo’ per disfarsi di oligarchie incancrenite e inefficienti. Se lo spazio della politica rimane ben delimitato e i diritti acquisiti (non i ‘diritti universali’ oggi inaspettato cavallo di battaglia dall’illuminismo liberista e individualista) e le tradizioni civili provvedono a impedirne l’invadenza, nulla è perduto e una politica economica sbagliata—tale mi sembra quella gialloverde ma decideranno in merito i prossimi anni—decisa da chi vorrebbe riportare indietro l’orologio della storia, può fare danni relativi.

 Quando lo stato nazionale era metaforicamente una ‘grande famiglia’ si avvertiva il dovere morale e collettivo di farsi carico di tutti i componenti ‘rimasti indietro’: il problema del Sud—checché ne dica la stanca retorica antipiemontese—assillò per un secolo tutti i governi italiani (compreso quello fascista, v. le grandi riforme progettate da Arrigo Serpieri). Oggi sembrano altri tempi: tutto è cambiato, ‘la patria è morta’ e, forse, tra le ragioni dell’insofferenza per il nostro Risorgimento nazionale—che accomuna tanti ‘spiriti forti’ di destra e di sinistra—potrebbe esserci anche questa arrière pensée: «stai a vedere che per il fatto di essere tutti italiani, dobbiamo dirottare verso politiche assistenziali—non solo l’assurdo reddito di cittadinanza ma altresì grandi opere pubbliche che danno lavoro—risorse finanziarie che, sui mercati mondiali, potrebbero assicurare guadagni tanto più elevati e sicuri?» Chi si sente ormai cittadino del mondo e si trova più a suo agio a Parigi, a Londra, a Berlino che nel suo quartiere romano pieno di problemi, tra buche e alberi che cadono, perché dovrebbe preoccuparsi più di tanto se la terza, la quarta rivoluzione industriale seminano povertà e disoccupazione? «Mica si vorrà tornare alle insurrezioni luddiste?». Si rottamano i partiti, si rottamano i mestieri e quanti li esercitano in pura perdita.

In un illuminante articolo pubblicato dalla ‘Rivista di analisi politica, economica, geopolitica’ Atlantico,Trump il presidente operaio e il “Republican Workers Party” (11 dicembre u.s.), lo storico e commentatore politico, Marco Gervasoni, ha scritto «Cosa vogliono i globalisti progressisti? La distruzione della società e la sua sostituzione con un ordine in cui solo gli individui desideranti dominino. Ma poiché gli individui desideranti finiscono, proprio perché tali, per collidere tra di loro, questo eden libertario si trasformerebbe in un quadro boschiano (da Bosch, ovviamente…), una società dominata dalla criminalità e dall’ordine tirannico imposto da eserciti privati preposti a proteggere coloro che ce l’hanno fatta, una ristretta e corrotta oligarchia liberale. Quella oligarchia che secondo F. H. Buckley, nel recente libro “The Republican Workers Party”, assomiglia a quella dell’ancien regime francese e che oggi è legata come una cozza allo scoglio ai partiti di sinistra e ai media, e non solo negli Stati Uniti». Il quadro è eccessivo e catastrofico ma i timori sono reali e le loro percezioni sono ‘fatti’, che non si possono ignorare.

Felice non è certo un ‘tagliatore di teste’ ed anzi affida al campo riformista (che non si sa bene cosa sia) il compito di «proporre un’idea alternativa a quella populista»: un’idea che, come quella populista sia in grado di «cementare un’appartenenza e un legame, ricostruire una comunità». Si tratta, a suo avviso, di orientare le loro politiche verso quattro punti cardinali: redistribuzione della ricchezza, innovazione, ambiente, diritti».

Vaste programme! avrebbe commentato il Generale, ma ormai le parole, sul mercato della politica, hanno lo stesso prezzo dei sacchetti di sabbia in vendita nel Sahara. «E’ peraltro evidente, rileva Felice, che questi grandi nodi si possono sciogliere solo in una prospettiva globale, creando un «legame di sentimenti niente affatto localista, ma proprio come per i grandi valori storici della sinistra, universale, in cui la prima appartenenza è quella, più alta, all’umanità in quanto tale». E siccome tutti i salmi finiscono in gloria, l’articolo non poteva concludersi che con un richiamo agli «ideali più belli cui l’umanità ha creduto in tutta la sua storia|…|Gli ideali della nostra Costituzione. E quelli inscritti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, approvata dalle Nazioni Unite proprio sessant’anni fa» Se si fosse trattato della trascrizione di un intervento in Parlamento o in un Convegno internazionale sui diritti umani, il dattilografo avrebbe riportato tra parentesi e in corsivo: vivissimi applausi, ovazioni prolungate. Ma la realtà effettuale in cui sta la politica è altra cosa e ben più seria e tragica.

Se la globalizzazione avanza inarrestabile tra lati buoni—in fondo realizza la ‘sovranità del consumatore’ che paga meno i soliti beni di consumo ma anche i manufatti più durevoli, dai vecchi elettrodomestici ai nuovi, sempre più irrinunciabili, strumenti elettronici della comunicazione audiovisiva—e ricadute preoccupanti— si pagano bene i generi alimentari ma non si riscuote più l’affitto dell’ inquilino il cui negozietto è stato rovinato dall’apertura del supermarket (anche la ‘sovranità del produttore’ è un valore da mettere nel conteggio)—stravolgendo “l’habitat” (relativamente) sicuro al quale ci eravamo abituati, un’altra minaccia incombe sulla ‘comunità’ collegata anch’essa all’essere diventato il mondo una unità indivisa di produzione e di scambio. Ed è il problema dei problemi del nostro tempo: i cambiamenti climatici che con la globalizzazione condividono la ‘portata universale’ ma non sono legati ad essa da un rapporto di solidarietà: se dovessero mettersi in regola con le norme anti-inquinamento, infatti, le società multinazionali sarebbero costrette a sopportare più elevati costi di fabbricazione, diminuendo i loro profitti. Non a caso, anche da noi, i giornali proglobal tendono a far passare come bufale gli allarmismi ambientali—ignorando che i cambiamenti ci sono, producono catastrofi naturali, e che indipendentemente dalle loro cause, umane o ‘astrali’, comportano enormi investimenti infrastrutturali.

Felice, che non ignora il problema e che esalta i Verdi tedeschi che «hanno saputo offrire un nuovo orizzonte ai cittadini: puntare sulla qualità della vita, tradurre la ricchezza in benessere in una visione cosmopolita ed europeista» commuove quasi per il candore con cui considera le cose buone tutte solidali e compatibili e non dubita affatto che la ragion europeista sia del tutto in armonia con la ragion cosmopolitica.

Il fatto è che, nel nostro paese sembra essersi estinta la progenie dei grandi realisti alla Vilfredo Pareto. O almeno si è estinta più tra gli accademici che tra i giornalisti che osservano ‘sul campo’ i processi politici e le dinamiche sociali e che, non di rado, hanno il coraggio di dire come stanno davvero le cose. In un lucidissimo articolo, Macron dimentica la lezione Usa, pubblicato su ‘Repubblica’ il 12 dicembre u.s., Federico Rampini–non un inviato del ‘Giornale’–ha sostenuto la tesi che «la dinamica del tumulto francese» anti-Macron «è la stessa che contribuì alla vittoria di Trump negli Stati Uniti. Sullo sfondo c’è la difficoltà a praticare un ambientalismo socialmente sostenibile». Rampini–genovese come Pareto–ha ironizzato su quanti parlano a Trump «di Green Economy in termini astratti, fingendo che l’Ohio sia la California, fingendo che un minatore 55enne si possa riconvertire con la bacchetta magica per farne un ingegnere di software, un inventore di app, un creatore di start up. «La sinistra salottiera» ha smesso di parlare ai ceti penalizzati dalla globalizzazione. Proprio «come Hillary». Rampini è uomo di sinistra ma non si nasconde i problemi: «Rinunciare alla lotta contro il cambiamento climatico sarebbe un suicidio. Però le sinistre devono trovare un’idea convincente, che parli a chi deve arrivare alla fine del mese». E’ un fatto che per i Salvini votino ormai i quartieri operai e che in quelli alti le ‘sinistre rispettabili’ (il molto saggio Sabino Cassese ne è l’indiscusso leader intellettuale) riscuotono ormai sicuri consensi. Dei bisogni di ordine e di sicurezza—per soddisfare i quali era nato lo stato moderno hobbesiano—le vecchie sinistre non sanno nulla e delle piccole rivendite di un tempo che chiudono l’una dopo l’altra, degli appartamenti comprati dai piccoli borghesi con i risparmi di una vita e che non valgono più niente con l’invasione dei poveri (più poveri di loro) che arrivano dal terzo mondo, mostrano che non gliene frega più di tanto (anzi spesso indulgono alla retorica dell’accoglienza, di un’accoglienza, ovviamente, come si diceva un tempo dei missili: ‘non nel proprio giardino’). «Il riformismo, sentenzia Felice, non deve inseguire i sovranisti sul loro terreno» Sono d’accordo ma temo che intendiamo cose diverse: per me quel consiglio significa che il riformismo deve sforzarsi di trovare il modo di risolvere i problemi sui quali i populisti si giocano le loro fortune elettorali. Quando Felice invita «a non inseguire i sovranisti sul loro terreno» sembra credere, invece, che essi agitino paure e fantasmi scaturiti dalla più spregevole demagogia ma ai quali non corrisponde nulla di reale.

Il dramma (o, forse, sarebbe meglio dire la tragedia) del nostro tempo sta nella difficoltà di tenere in equilibrio i vantaggi della globalizzazione e gli interessi delle comunità, ambientalismo (ormai da tempo questione planetaria) e occupazione individuando un difficilissimo e problematico «ambientalismo socialmente sostenibile». Chiudendo il suo articolo, Rampini non si risparmia una stoccatina a quel Macron che tanti entusiasmi aveva suscitato in Italia, da Carlo Calenda ai panglossiani del ‘Foglio’. «Propaganda a parte Macron non è mai stato europeista né di sinistra. A Ventimiglia, Bardonecchia e Clavière si è comportato come un sovranista qualsiasi». Non a caso proviene dal mondo della Banque Rotschild ovvero dal mondo che più criminalizza la politica quando non asseconda le strategie finanziarie globali e trascura i sacri testi dell’economia classica.




Cultura e politica

Una delle cose che più mi stupiscono, quando si approssima una scadenza elettorale (e noi ne abbiamo giusto una in arrivo: le Europee di maggio 2019), è come le solenni promesse dei partiti si concentrino su pochissimi argomenti-chiave, lasciando in ombra tutto il resto. Nelle elezioni del 4 marzo, ad esempio, il 90% del dibattitto politico ha ruotato intorno a quattro soli temi: immigrazione, flat tax, riforma Fornero, sussidi ai poveri variamente denominati (reddito di cittadinanza, di inserimento, di dignità ecc.).

Ma ancor più che la concentrazione su pochi temi, quel che mi stupisce è la completa espulsione dal dibattito politico di determinati temi, che pure in teoria o in altri contesti tutti riconoscono come importantissimi. Uno di questi è l’ambiente, ma meglio sarebbe dire il futuro del pianeta, messo a rischio dai nostri comportamenti quotidiani ma soprattutto dalla latitanza delle istituzioni, ben poco attente a problemi come il riscaldamento globale, i rifiuti, l’inquinamento delle falde acquifere. Un altro è il futuro dei giovani, compromesso dall’aumento del debito pubblico e dalla controriforma delle pensioni. Un altro ancora è la cultura, ovvero il funzionamento di istituzioni e organizzazioni fondamentali come la scuola, l’università, le case editrici, i giornali, la radio, la televisione, i teatri, i musei.

Su questo genere di argomenti il silenzio dei partiti e degli uomini politici è assordante, come se ritenessero che ai cittadini queste cose non importino, e dunque possano essere espulse dal dibattito politico. C’è una differenza, però, fra i primi due temi che ho citato (ambiente e giovani) e il terzo (la cultura). Ed è che, pur stupendomi del disinteresse del mondo politico per questo genere di temi, per i primi due riesco a darmi una spiegazione, per il terzo no. La spiegazione è molto semplice: ambiente e giovani sono problemi del futuro, non dell’oggi, e quindi è normale che la politica, divenuta miope e irresponsabile, non li affronti, o lo faccia in modo puramente ideologico, senza prendere il toro per le corna. Per il terzo tema, l’istruzione e la cultura, la spiegazione invece non c’è. Quel che si fa o non si fa in questo ambito ha conseguenze molto importanti fin da subito, ed è dunque strano che ai politici interessi così poco.

A quali conseguenze mi riferisco?

Se ne potrebbero citare molte, ad esempio si potrebbe ricordare che, secondo diversi studi di tipo empirico, il più importante fattore di crescita del benessere, in occidente, è il capitale culturale, ossia il livello di competenza della forza lavoro. Insieme alle tasse troppo alte e alle pastoie burocratico-giudiziarie, è proprio il basso livello di istruzione il freno fondamentale alla crescita del Pil.

Ma la ragione più importante per cui la politica fa male a non occuparsi della cultura è che la rinuncia a elevare il livello culturale effettivo della popolazione, a partire dalla scuola e dall’università, è un formidabile fattore di diseguaglianza. Si può capire che il tema non appassioni la destra, per cui la diseguaglianza non è il problema fondamentale della nostra società, ma la sinistra? Che cosa fa la sinistra per elevare il livello culturale della popolazione?

Se guardiamo agli ultimi 50 anni di storia, quel che dobbiamo registrare è, purtroppo, che la politica del mondo progressista nei confronti della cultura ha quasi sempre e quasi ovunque avuto due pilastri. Uno è lo sforzo, benemerito, di allargare la platea degli utenti di ogni forma di consumo culturale, dalla lettura dei quotidiani a quella dei libri, dalle notti bianche ai festival. L’altro è l’accettazione, e in alcuni casi la promozione intenzionale e consapevole, di un generale abbassamento degli standard, visto come precondizione per un allargamento della platea degli studenti, nella scuola come nell’Università. E questo abbassamento, se da un lato ha allargato l’utenza (termine orribile, ma che rende bene l’idea di che cosa siano diventate oggi la scuola e l’università), dall’altro ha disarmato completamente i ceti popolari, che avevano nella conquista di una cultura elevata l’unica strada, e l’unica arma, per bilanciare i privilegi dei figli di papà.

Questo fino a ieri. Oggi non c’è neppure questo, perché l’istruzione è uscita dal radar della sinistra, divenuta completamente indifferente ai contenuti culturali, e tutt’al più sensibile ai problemi occupazionali del ceto insegnante (vedi le assunzioni della “buona scuola”, che nulla ha fatto per alzare gli standard).

Da sempre poco interessante per la destra, trattata nel modo sbagliato (perché anti-egualitario) dalla sinistra, la cultura non sembra avviata a un destino glorioso neppure nell’emergente mondo populista. Né potrebbe essere diversamente. Dacché si è teorizzato che “uno vale uno”, dacché esperti e competenti sono stati additati al pubblico disprezzo, dacché chiunque – in televisione o su internet – si sente autorizzato a dire la sua su argomenti su cui non ha la minima cognizione di causa o esperienza, è inevitabile che il mondo della cultura, il suo rafforzamento, la sua difesa dalle contraffazioni, non interessino più la politica.

Ma forse mi sto sbagliando. Forse è vero il contrario. A ben vedere, la cultura alla politica di oggi interessa moltissimo. Anzi la politica non fa altro, 24 ore su 24, che occuparsi di cultura. Solo che il suo scopo, forse consapevole forse no, è semplicemente di rimuovere la cultura dall’orizzonte del discorso pubblico. Perché la cultura è un ostacolo, forse l’unico vero ostacolo rimasto, al dilagare senza freni e senza inibizioni dello spettacolo della politica. Uno spettacolo che i protagonisti preferiscono mettere in scena da soli, e cui il mondo dei media, social e no, fornisce un insperato e durevole palcoscenico. H24.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 09 dicembre 2018



Pd, difendere l’Europa non basta

Questa volta, per la prima volta da 40 anni, ossia da quando esiste il Parlamento europeo (1979), le elezioni europee saranno quel che sempre avrebbero dovuto essere e mai sono state: un confronto sull’Europa, le sue politiche, il suo futuro. Quanto all’Italia, il 26 maggio prossimo sarà un banco di prova decisivo per almeno due soggetti politici: il governo giallo-verde (ammesso che sia ancora in sella) e il Partito Democratico, l’unica forza di opposizione che riscuote ancora un consenso a due cifre (16%, secondo gli ultimi sondaggi).

Ma come si presenterà il Pd al cruciale appuntamento di maggio? Chi lo guiderà?

Qui la nebbia è totale. Per alcuni il Pd dovrebbe addirittura essere sciolto, per far spazio a una formazione politica nuova di zecca. Per altri il Pd dovrebbe aprirsi alla società civile e diventare il perno di una larga alleanza. Per altri ancora l’unico modo per scongiurare la dissoluzione dell’Europa è la nascita di un “fronte repubblicano”, da Tsipras a Macron. Riguardo alla leadership, tramontata a quanto pare l’ipotesi di una candidata donna, le possibilità vere al momento paiono solo tre: Nicola Zingaretti, Matteo Richetti, Marco Minniti (se scioglierà la riserva); sempre che Carlo Calenda non ci ripensi, e scenda in campo pure lui.

Personalmente sono molto scettico sull’idea di un fronte europeista e anti-sovranista. L’ultima volta che la sinistra ha provato a coalizzarsi in un fronte è stato nel 1948, e sappiamo come è andata: trionfo della Dc (48%) e débâcle del fronte popolare, fermo al 31%. Per non parlare del paradosso che si produrrebbe oggi: visto che il popolo sta con Salvini e Di Maio, quello che vedremmo nascere sarebbe una sorta di “fronte anti-popolare”, concetto curioso e difficile da digerire.

In realtà, più che di formule vincenti, o capaci di limitare il disastro, quello di cui si sente la mancanza sono le idee. Dicendo “idee” non mi riferisco a minuziosi programmi di riforma, o ai soliti proclami di politica economica. No, quello che mi pare manchi completamente sono un bilancio onesto sugli errori commessi dalla sinistra (non solo Pd), e risposte chiare alle due domande su cui Lega e Cinque Stelle hanno sfondato: la richiesta di protezione da criminalità e immigrazione, e la richiesta di protezione economica.

Su questo l’attuale campo progressista mi pare balbetti, o si mostri già ampiamente diviso. Penso al caso delle occupazioni di case, o quello del sindaco di Riace. Una parte della sinistra (maggioritaria, suppongo) ritiene che, anche ove emergessero irregolarità e violazioni di legge, la buona causa in nome della quale sono state commesse assolva i loro autori. Quando una legge è sbagliata, e viola principi che la nostra coscienza (o la nostra interpretazione della Costituzione) ritiene fondamentali, è giusto ribellarsi, come sotto i regimi autoritari; una posizione, peraltro, abbastanza simile a quella della destra, quando per difendere gli evasori parla di “evasione di necessità”, giustificata da tasse troppo alte. Un’altra parte della sinistra pensa invece che, in un regime democratico, le leggi si rispettano, e se non funzionano si cerca di cambiarle. Analogo discorso si potrebbe fare sugli sbarchi: una parte del popolo di sinistra è per l’accoglienza senza se e senza ma, un’altra parte condivide la linea dura di Minniti, che Salvini ha un po’ spettacolarizzato ma che resta sempre la stessa: gli ingressi irregolari in Europa (e in Italia) debbono essere combattuti con determinazione.

Ma penso anche a un altro tema, quello della lotta alla povertà e alla disoccupazione. Una parte del popolo di sinistra trova meravigliosa l’idea del reddito di cittadinanza, e si duole soltanto che a pensarci siano stati i Cinque Stelle anziché il Pd. Un’altra parte non ritiene ancora persa la battaglia per creare nuova occupazione, e considera il reddito di cittadinanza come una misura assistenziale, da usare con cautela perché mina dalle fondamenta la civiltà del lavoro.

E ancora. Una parte del popolo di sinistra ritiene che la riduzione della pressione fiscale e contributiva sia un obiettivo sacrosanto, per stimolare la crescita, un’altra parte pensa che i nostri problemi li risolveremo solo con maggiori imposte sul reddito e sul patrimonio (secondo il celebre slogan del 2006: “far piangere i ricchi”). Una parte dell’elettorato progressista crede che il debito non sia un problema, e anzi sia necessario per far ripartire l’economia, un’altra parte pensa che sia un ingiusto fardello sulle future generazioni.

Si potrebbe continuare con gli esempi. Ma quello che voglio dire è solo questo: su queste divisioni i candidati alla guida del campo progressista tendono a non prendere posizioni nette, perché sanno che scontenterebbero una parte, una parte troppo grande, dei loro potenziali sostenitori. Il rischio è che, non essendo nella condizione di spiegare in modo chiaro se e come intendano dare risposte nuove alla domanda di protezione che ha portato al successo dei movimenti populisti, non trovino di meglio che unirsi in una santa alleanza a difesa dell’Europa e della moneta unica.

Sarebbe un disastro. Non perché Europa ed euro non siano risorse cruciali per il nostro futuro, ma perché quella è solo la cornice. E la cornice non basta, ci vuole un pittore che trovi il coraggio di riempire la tela.

Pubblicato su Il Messaggero del 20 ottobre 2018