L’etica e le due sinistre

Uno dei fenomeni più interessanti che negli ultimi decenni mi è capitato di studiare è la nascita, nella sinistra italiana, del “complesso dei migliori”, ossia dell’attitudine a pensare sé stessa come la rappresentante della parte migliore del Paese. La data di nascita è abbastanza precisa: 1993-1994, sdoganamento del “fascista” Fini da parte di Berlusconi, vittoria del Cavaliere alle elezioni politiche, nascita della seconda Repubblica. Da allora l’autopercezione della sinistra come eticamente superiore alla destra non è mai venuta meno, ed anzi è dilagata, in Italia e non solo (Hillary Clinton contro Trump). A soffiare sul fuoco dell’autostima dei progressisti hanno contribuito non poco lo stile sgangherato e spesso volgare di Salvini, l’antieuropeismo di parte della destra, nonché, al di fuori dell’Italia, l’emergere di leader politici conservatori non proprio rassicuranti: Orbán, Trump, Marine Le Pen.

Ebbene, la guerra in Ucraina sta, secondo me, sgretolando le basi del complesso dei migliori. La credenza che la sinistra riformista, erede del Partito comunista, rappresenti il Bene, e la destra, berlusconiana o sovranista che sia, rappresenti il Male, sopravvive ancora, ma il problema è che non è più difendibile, nemmeno agli occhi dell’opinione pubblica progressista.

Per capire perché dobbiamo partire da una domanda: perché il Pd di Letta è diventato il partito più atlantista e militarista, pronto non solo a mandare armi all’Ucraina ma a partecipare al riarmo dell’Europa?

La risposta è semplice: se in gioco vi sono la libertà e la democrazia, può il partito che si sente custode del Bene non essere alla testa della difesa delle due supreme conquiste dell’Occidente?

Ovviamente la tentazione è forte, e il Pd è caduto in tentazione. L’ha fatto. Si è messo alla testa del partito del Bene contro il Male assoluto russo. Ci sono due piccoli guai, però, che minano alla radice il progetto della sinistra riformista.

Il primo guaio è lei, Giorgia Meloni. La posizione di Fratelli d’Italia, di appoggio alle scelte del Governo in nome dell’interesse nazionale, complica dannatamente le cose: d’ora in poi sarà più difficile accusare la destra di sovranismo, preso atto che il sovranismo di Fratelli d’Italia può plausibilmente essere letto in chiave patriottica, ma soprattutto sarà impossibile rivendicare il monopolio del Bene. Se libertà e democrazia sono il Bene, e se il sostegno all’Ucraina è la cartina di tornasole del proprio impegno, il Pd dovrà prendere atto, d’ora in poi, di essere in buona compagnia. E magari rassegnarsi a registrare che la scelta patriottica di stare risolutamente a fianco dell’Ucraina non è prerogativa di uno schieramento politico ma, semmai, è ciò che accomuna i due maggiori partiti italiani.

C’è un secondo guaio, però, forse ancora più grande, per la retorica della sinistra che si sente eticamente superiore. Ed è che, ahimè, il Bene ha molte facce. Specialmente in una guerra come quella che stiamo attraversando, il Bene si presenta anche nelle vesti multiformi del pacifismo: dal risoluto e sconcertante invito ad arrendersi rivolto da Piero Sansonetti alla resistenza ucraina, alla “vergogna” del Papa per i propositi di riarmo dell’Occidente, fino alle mille varianti dell’etica del dialogo, del negoziato e della prudenza. Eh già, perché accanto ai grandi valori universali dell’uguaglianza, della libertà e della democrazia, con grande lungimiranza Norberto Bobbio poneva anche il valore della pace, a dispetto di un’epoca che la dava per scontata (un po’ come i giovani danno per scontata la salute).

Ed ecco il problema: fiutando odore di identità (un bene di cui il partito di Grillo ha disperatamente bisogno), il leader dei Cinque Stelle Giuseppe Conte si è avventato, con un video scomposto che ricordava l’ultima infelice esternazione di Beppe Grillo, contro l’impegno dell’Italia ad aumentare il budget per la difesa. Enrico Letta ha reagito minimizzando, e assicurando che anche in questo caso – come in passato – si sarebbe trovata una quadra.

Ma riarmo e pacifismo non sono voci del bilancio pubblico, su cui si può agevolmente trovare un punto di equilibrio, presentandolo agli elettori come ragionevole compromesso. La scelta di sostenere militarmente la resistenza ucraina in nome di valori come libertà, democrazia, autodeterminazione dei popoli, è incompatibile con la scelta di non farlo per favorire il dialogo e la pace. Ragionevoli o irragionevoli che siano, prudenti o imprudenti che appaiano, agli occhi degli elettori queste due posizioni sono non solo incompatibili, ma anche entrambe eticamente fondate. Il militante di sinistra può ancora sentirsi dalla parte del Bene, ma oggi si trova a dover scegliere tra due posizioni ciascuna delle quali si presenta con una postura etica.

Di qui una conseguenza per la sinistra riformista, di cui il Pd è la maggiore espressione: d’ora in poi gli sarà impossibile rivendicare una superiorità etica rispetto ai propri avversari. Non solo perché i valori che il Pd proclama di difendere sono condivisi da una parte della destra, finora trattata con sufficienza, quando non con disprezzo. Ma perché la mossa di Conte crea le basi per la nascita di due sinistre, fieramente avvinghiate ai rispettivi valori, come tali non negoziabili. Che cosa sia il Bene in politica non lo sappiamo, e non lo sapremo mai, ma almeno abbiamo la certezza che – d’ora in poi – sarà difficile per chiunque proclamarsene il rappresentante esclusivo.




La sinistra che non segue Letta

Non ho idea di che cosa abbia spinto Enrico Letta e il suo partito a rifiutare, fin da prima dell’estate, ogni compromesso sul Ddl Zan. Errore di calcolo? Voglia di inasprire lo scontro con il centro-destra? Manovre sull’elezione del presidente della Repubblica?

Chissà.

Ora che la frittata è fatta, e che l’approvazione di una legge conto l’omotransfobia è rimandata alle calende greche, forse varrebbe la pena che il Pd – esaurita la raffica di contumelie contro la destra retrograda, razzista e omofobica – si fermasse un attimo a riflettere. Tema della riflessione: come mai i dubbi sul Ddl Zan, anziché essere esclusivi della destra, sono così diffusi anche dentro il campo progressista?

Già, perché al segretario del Pd forse è sfuggito, ma la realtà è che le perplessità sul Ddl Zan sono piuttosto diffuse in diversi settori della sinistra. E in molti casi non sono di tipo tattico, come quelle espresse da Renzi e dai suoi, per cui sarebbe meglio una legge imperfetta che nessuna legge.

No, ci sono movimenti, associazioni, politici, studiosi di area progressista che sono convinti che si possa fare una legge a tutela delle minoranze migliore e non peggiore del Ddl Zan. Chi sono?

Diverse associazioni femministe, tanto per cominciare. Non solo italiane (Udi, Se non ora quando, Radfem, Arcilesbica) ma oltre 300 gruppi in più di 100 paesi, riuniti sotto la sigla Whrc (Women’s Human Rights Campaign). La rappresentante italiana nella Whrc è Marina Terragni, da decenni impegnata nelle battaglie per i diritti delle donne, degli omosessuali e dei transessuali. A queste associazioni non piace che le donne, che sono la metà dell’umanità, siano trattate come una minoranza; ma soprattutto non piace che il mondo femminile, con i suoi spazi e i suoi diritti, sia arbitrariamente colonizzato da maschi che si autodefiniscono donne, come è già capitato – ad esempio – in ambiti come le carceri e le competizioni sportive; per non parlare dei dubbi sui rischi di indottrinamento (e di cambiamenti di sesso precoci) dei minori.

Poi ci sono gli studiosi, e specialmente i giuristi, che hanno analizzato l’impianto della legge, e ne hanno individuato almeno tre criticità: rischi per la libertà di espressione, difetto di specificità e tassatività dei reati perseguiti con il carcere, conflitto con l’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 (“i genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere d’istruzione da impartire ai loro figli”). Fra i giuristi che hanno sollevato obiezioni, oltre a diversi costituzionalisti, c’è anche Giovanni Maria Flick, ex ministro della giustizia del primo Governo Prodi.

Ma forse il caso più interessante, e clamoroso, di disallineamento con l’integralismo LGBT di Letta e del Pd è quello dell’estrema sinistra, in Europa ma anche in Italia. Forse non tutti sanno che, non da ieri, in una parte della sinistra radicale le battaglie LGBT, e più in generale le battaglie per i diritti civili, sono guardate con ostilità come “campagne di distrazione di massa”, che la sinistra riformista – irrimediabilmente compromessa con il capitalismo e con le logiche del mercato – utilizzerebbe per spostare l’attenzione dal vero problema, ossia l’arretramento dei diritti sociali. Su questa linea, ad esempio, troviamo filosofi come Jean Claude Michéa e, in Italia, Diego Fusaro. Ma anche uomini politici di sicura fede progressista, come Mario Capanna (assolutamente contrario, perché “la legge aggiunge reati, non diritti”) o il sempre comunista Marco Rizzo, forse la voce più severa sui diritti LGBT e sulle celebrities che di quei diritti si servono per autopromuovere sé stesse (ma, è il caso di notare, osservazioni del medesimo tenore senso sono talora venute anche da un riformista doc come Federico Rampini).

E poi ci sono i (pochi) politici progressisti fuori dal coro, che hanno il coraggio di dire la loro anche se il partito non è d’accordo. Penso ad esempio a Paola Concia (Pd, sposata con una donna), che nello scorso aprile sollevò varie e argomentate obiezioni, chiedendo di modificare il testo della legge. O Valeria Fedeli (Pd), che nello scorso maggio sollevò perplessità analoghe, pure lei convinta che le modifiche avrebbero potuto migliorare la legge.

Ma forse il caso più interessante di posizionamento politico è quello di Stefano Fassina, ex parlamentare Pd, poi transitato in Sinistra italiana e approdato a LEU. In una conversazione con Il Foglio, giusto il giorno prima dell’affossamento del Ddl Zan, Fassina non solo osserva che l’articolo 4 (sui limiti alla libertà di espressione) andrebbe eliminato per “il suo portato di arbitrio giurisdizionale”, ma afferma che “sarebbe gravissimo per il nostro stato di diritto non intervenire sull’articolo 1” (quello che definisce l’identità di genere come scelta soggettiva). Quell’articolo, infatti, introduce “norme che si configurano come visione antropologica – legittima ma di parte”. Una visione che “non è stata esplicitata, condivisa e discussa, e quindi non può stare nel disegno di legge e diventare progetto educativo universale”.

Che dire?

Forse una cosa soltanto: una parte del mondo progressista, Letta o non Letta, continua a ragionare con la propria testa. Ed è un bene, perché certe battaglie, come quelle sul pluralismo e sulla libertà di espressione e di educazione, hanno più probabilità di essere vinte se non diventano proprietà esclusiva di una sola parte politica.

 Pubblicato su Il Messaggero del 29 ottobre 2021




Bullismo etico

Quando, nel 1957, il grande politologo americano Anthony Downs pubblica La teoria economica della democrazia, il gioco della competizione politica è ancora pulito. Per lui la differenza chiave fra destra e sinistra, o fra conservatori e progressisti, è che gli uni vogliono meno intervento pubblico nell’economia, gli altri ne vogliono di più. La destra vede l’espansione dello Stato (e delle tasse) come un’ingerenza, che limita la libertà economica, la sinistra vede l’espansione dello Stato (e della spesa pubblica) come uno strumento di redistribuzione della ricchezza, che promuove l’eguaglianza.

Il gioco è pulito perché le due parti competono alla pari. Libertà ed eguaglianza, infatti, non sono l’una un valore e l’altra un disvalore, ma sono semplicemente due ideali distinti in competizione fra loro. Ciò produce una conseguenza logica fondamentale: il rispetto dell’avversario politico. Questo tipo di situazione è interessante perché in essa coesistono due elementi apparentemente inconciliabili: la credenza nei propri valori, e il riconoscimento della legittimità dei valori altrui.

Non è questo il luogo per stabilire quale sia il momento storico in cui il gioco si è rotto, ma credo non possano esservi dubbi sul fatto che oggi, nella maggior parte delle società occidentali, la competizione politica non funziona più secondo lo schema di Downs. Oggi la sinistra non si sente come la rappresentante di determinati ideali, contrapposti a ideali diversi dai propri, ma come la depositaria esclusiva del bene. Di qui il suo peculiare rapporto con l’avversario, che non viene più percepito come il difensore di ideali distinti da quelli progressisti, ma come il difensore di disvalori, o ideali negativi. Dunque, come l’incarnazione del male. Detto ancora più crudamente, e con specifico riferimento alla società italiana: la sinistra pensa di rappresentare “la parte migliore del paese”, contrapposta alla “parte peggiore del paese”, rappresentata dalla destra.

Come è stato possibile?

E’ abbastanza semplice. La mossa chiave che ha permesso di cambiare radicalmente il gioco della politica è stata quella di autodefinirsi come anti-qualcosa. Da un certo punto, che collocherei negli anni ’80, nel mondo progressista al posto degli antichi valori e simboli – l’uguaglianza, la classe operaia, i deboli – hanno progressivamente preso piede due totem definiti negativamente: l’anti-razzismo e l’anti-discriminazione. Essere di sinistra ha significato sempre di meno occuparsi delle difficoltà degli strati bassi, e sempre di più percepirsi come nemici irriducibili dei due (presunti) vizi capitali del nostro tempo: il razzismo e la discriminazione. Il primo, esercitato contro gli immigrati, il secondo contro le cosiddette minoranze LGBT+ (per chi non fosse familiare con l’acronimo: Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali, eccetera).

Ed ecco fatto: il gioco, che almeno fino agli anni ’70 era rimasto pulito, ora è sporco. Perché se io mi autodefinisco come anti-qualcosa di negativo, allora è automatico che il mio avversario politico sia a favore di quel negativo contro cui io mi batto. E’ un problema logico, più volte messo in luce dal grande filosofo Alain Finkielkraut: l’ideologia anti-razzista crea un’anomalia nella competizione politica, perché se il mio avversario si autodefinisce anti-razzista, io che la penso diversamente da lui divento anti-antirazzista, dunque razzista. E come tale impresentabile, oggetto di riprovazione e disprezzo. Lo stesso, identico, cortocircuito logico si presenta con il problema delle minoranze LGBT+: se i progressisti ne difendono le battaglie, chi quelle battaglie non condivide, o contrasta, passa automaticamente nella schiera degli omofobi, accusato di odio verso le minoranze sessuali e di genere (con curioso slittamento della lingua, visto che “fobia” in greco significa paura, non certo odio). Di qui, infine, il disprezzo dell’avversario politico, che diventa il nemico, che attenta alla causa del bene.

Ecco perché il gioco, oggi, è truccato, non solo in Italia. Chiunque si intesti una causa ovvia, sia essa la lotta contro la mafia, il salvataggio del pianeta, il contrasto del razzismo, e la trasformi in un appello, una petizione, un simbolo, un meme, un messaggio pubblico, si sente autorizzato a pretendere che anche gli altri aderiscano alla sua causa, la sostengano, prendano posizione pubblicamente a suo favore. Chi non lo fa, sia esso un personaggio famoso che non firma, un calciatore che non si inginocchia, un disegnatore che si permette una vignetta irriverente, passa ipso facto nel novero degli incivili, su cui l’establishment degli illuminati si sente in diritto di riversare quotidianamente il proprio disprezzo.

Può accadere così che chi ha delle critiche verso il disegno di legge Zan sia bollato come omofobo e odiatore delle minoranze. Che chi dissente sulle politiche di accoglienza sia tacciato di razzismo e disumanità. E può accadere persino che il segretario di un partito che si crede progressista si permetta di redarguire in tv sei calciatori che hanno osato non inginocchiarsi a comando, facendo mancare il proprio sostegno ad una delle tante sigle che si contendono le decine di cause giuste che competono fra loro per l’attenzione dei media e degli elettori.

Eppure dovrebbe essere chiaro. L’ostentazione della propria adesione a una causa ovvia, accompagnata dalla lapidazione morale di chi sceglie di non aderirvi, non è un modo sano di condurre la lotta politica. Perché la politica – quella vera, non quella degenerata dei nostri giorni – è innanzitutto libertà di espressione, e rispetto della diversità di opinioni, sentimenti, modi di vita. Il resto è bullismo. Bullismo etico, se volete. Ma sempre bullismo, ossia sopraffazione da parte di chi si sente il più forte.

Pubblicato su Il Messaggero del 26 giugno 2021




L’Europa è una discriminante?

Non è da oggi che, nel dibattito politico, l’europeismo viene agitato come una discriminante fondamentale. Da una parte le forze che credono nel progetto europeo, dall’altro i nemici dell’Europa, di volta in volta qualificati come sovranisti, anti-europei, euroscettici.

Ma negli ultimi giorni la tendenza a trattare l’europeismo come una categoria politica si è accentuata, con la ripetuta evocazione di una fantomatica “maggioranza Ursula”, in cui dovrebbero riconoscersi le forze che – nel Parlamento di Strasburgo – hanno reso possibile l’elezione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea. Il tutto con la folkloristica, per non dire grottesca, appendice del drappello di “responsabili” che, in Senato, si auto-ridenominano “europeisti”, suscitando lo sconcerto di Emma Bonino e del suo partito (+Europa), sicuramente il più coerente alfiere del sogno europeo.

Ma ha ancora senso distinguere fra europeisti e anti-europeisti?

Su un piano descrittivo forse sì. In effetti il grado di severità delle critiche all’Europa è molto variabile. Il Pd +Europa sono molto indulgenti, Lega e Fratelli d’Italia molto severi. Quanto alle altre forze politiche quel che le distingue è soprattutto il tipo di critiche che rivolgono all’Europa: Forza Italia e i Cinque Stelle non apprezzano (o non apprezzavano) la politica migratoria, l’estrema sinistra è iper-critica sul patto di stabilità e sul Mes.

Già questo schizzo dovrebbe suscitare qualche dubbio sulla utilità e sensatezza della contrapposizione fra europeisti e anti-europeisti. Ma l’aspetto che più mi lascia perplesso è l’uso etico-normativo del concetto di europeismo, per cui i critici dell’Europa sarebbero i cattivi, e i difensori sarebbero i buoni. A mio parere sarebbe più aderente alla realtà dire che la costruzione europea ha un bel po’ di difetti (una cosa che ben pochi negano), e che le forze politiche si distinguono per i difetti che tendono a evidenziare o a occultare.

La destra, ad esempio, ha spesso messo in luce difetti come: eccesso di regolazione del mercato interno; insufficiente protezione contro la concorrenza sleale, specie cinese; precocità dell’allargamento a Est; trattato di Dublino sui migranti; incapacità di far rispettare ai paesi membri gli impegni di redistribuzione dei richiedenti asilo; uso politico e discrezionale della regola del 3% di deficit pubblico; svantaggi dell’ingresso nell’euro.

La sinistra ha spesso attirato l’attenzione sui ritardi del progetto di unificazione politica, militare, economica: incapacità di parlare con un’unica voce in politica estera; mancanza di un esercito europeo; rigidità del patto di stabilità e crescita; modestia del bilancio europeo; ostilità agli eurobond; tolleranza verso i regimi illiberali di alcuni paesi dell’Unione (Ungheria e Polonia).

Basterebbero questi due stringati elenchi di difetti della costruzione europea per far sorgere il dubbio che l’europeismo possa sensatamente essere usato come una discriminante politica, e tantomeno come una medaglia al merito. Ma in realtà quei due elenchi sono fortemente incompleti. Mancano infatti i limiti dell’Europa su un altro terreno fondamentale, quello della gestione della pandemia.

Qui non mi riferisco tanto ai limiti sul versante dell’economia, e in particolare all’incredibile ritardo con cui diventerà effettivo il Recovery Plan (circa 1 anno e mezzo dallo scoppio dell’epidemia). Quello che ho in mente è il governo complessivo della pandemia sul piano sanitario, dove l’Europa ha brillato molto più per i suoi errori che per i propri meriti.

L’errore più grande è stato, a mio parere, quello di non prendere nemmeno in considerazione il protocollo di gestione dell’epidemia adottato dai paesi che sono riusciti a contenerla (dal Giappone alla Corea del Sud, dall’Australia alla Nuova Zelanda): chiusura delle frontiere, tracciamento elettronico, quarantene controllate, lockdown precoci e circoscritti. E tutto questo non casualmente, ma in omaggio ai totem di quella che mi sento di chiamare l’ideologia europea: libera circolazione delle persone, tutela della privacy, primato dell’economia, subalternità all’Oms (un’istituzione i cui gravissimi errori di valutazione sono costati migliaia di vite umane).

Ma gli errori che ho elencato sono solo i primi in ordine di tempo. Perché se veniamo agli ultimi mesi c’è un ulteriore terreno su cui l’Europa si è mossa in modo discutibile (per usare un eufemismo): quello dei vaccini.

Lascio perdere i dubbi sul ruolo degli interessi nazionali (di Germania e Francia in particolare) nella selezione delle aziende farmaceutiche da finanziare, ma mi limito a un’osservazione: se la campagna vaccinale di tanti paesi europei è in difficoltà è anche perché la Commissione europea, guidata dalla stella (Ursula von der Leyen) che dovrebbe illuminare il cammino delle forze “europeiste”, ha commesso due errori cruciali: firmare contratti senza garanzie sufficienti sulle consegne, e farlo troppo tardi rispetto a paesi concorrenti (ad esempio il Regno Unito, fresco di Brexit). Se ora altri paesi hanno la precedenza su quelli europei nella fornitura delle dosi non è tanto per la cattiveria delle aziende farmaceutiche, quanto perché, pure su questo terreno, la classe dirigente europea non è stata all’altezza.

Ecco perché mi permetto di dare un consiglio non richiesto alle forze politiche: lasciate perdere l’europeismo. L’Europa è un edificio fragile e imperfetto, e se ha senso dividerci può essere solo su come intendiamo provare a ripararne i non pochi difetti.

Pubblicato su Il Messaggero del 31 gennaio 2021




Contro la sagra dell’ovvio

Degli Stati generali dell’economia si è detto di tutto. Che sono solo una passerella, che sono un omaggio alla Troika, che rischiano di essere “generici” più che generali, che parole d’ordine come “modernizzazione, transizione ecologica, inclusione” sono di una banalità disarmante (e forse anche un po’ irritante). Beppe Severgnini si è giustamente chiesto quale capo di governo potrebbe mai puntare, invece, su “invecchiamento, inquinamento, esclusione”. Quanto agli inviti alla “concretezza”, che sono piovuti da tutte le parti in questi giorni, non si può non osservare che, finché non si indicano dettagliatamente le cose da fare e soprattutto quelle da non fare, o che sarà impossibile fare subito, non c’è nulla di più astratto dell’invito a essere concreti.
Per parte mia, sono stato colpito soprattutto da due circostanze. La prima è la scelta di tenere gli Stati generali a porte chiuse, senza ammettere ai lavori né i giornalisti né altri osservatori indipendenti. Una scelta aggravata dal fatto che non è la prima volta che il governo percorre la via della non trasparenza. Invano i giornalisti hanno richiesto, nei mesi scorsi, i verbali delle riunioni del Comitato tecnico-scientifico. Invano gli studiosi hanno atteso che l’Istituto Superiore di Sanità mettesse a disposizione i propri dati (o almeno parte di essi), un’esigenza resa sempre più impellente dalla pessima qualità dei dati diffusi dalla Protezione Civile.
Ma la circostanza che più mi ha colpito è un’altra, che peraltro non dipende solo dal governo ma anche dall’opposizione, e in definitiva da tutti noi: la mancanza di un dibattito di politica economica all’altezza della gravità della situazione dell’Italia. Tutta la discussione sul futuro economico-sociale del Paese si svolge sulle note dell’ovvio più ovvio e più trito. Gli esponenti dell’esecutivo sciorinano la mesta giaculatoria dei due-trecento problemi irrisolti del paese, come se – dopo almeno tre decenni di atti mancati – improvvisamente ci fossero le condizioni politiche per porvi mano. Di qui la solita invocazione sulla necessità di “fare le riforme” (quali, con quali priorità e quali tempi?), la immancabile proclamazione della necessità di attuare interventi espansivi per “stimolare la domanda interna”, l’attesa messianica delle ingenti risorse promesse dall’Europa, il tutto condito dalla commedia dell’accesso ai fondi del Mes, con il Pd nella veste di poliziotto buono e i Cinque Stelle in quello di poliziotto cattivo.
Per chi è vissuto in epoche nelle quali la politica economica era oggetto di un serrato dibattito pubblico, nonché di contrapposizioni appassionate, lo spettacolo di questi giorni è più stupefacente che deprimente.
Eppure le scelte che abbiamo davanti non sono né ovvie né facili. Finora la politica economica, con i suoi ritardi e la sua impostazione assistenziale (a oggi sono circa 40 i “bonus” vigenti), ha gettato le basi per trasformare l’Italia in una “società parassita di massa”, in cui il numero dei produttori (già esiguo prima della crisi) si restringe ulteriormente, e una frazione sempre più grande della popolazione è ridotta a dipendere dalla benevolenza della mano pubblica. Siamo sicuri di volere questo? O preferiamo illuderci che non andrà così? E se pensiamo che non andrà così, su quali basi siamo in condizione di ipotizzare un percorso diverso? Come pensiamo di gestire i conti pubblici quando il rapporto debito/Pil sarà a livelli greci e i mercati finanziari rialzeranno la testa?
Si potrebbe pensare che a queste domande, cui la sinistra al governo non sa rispondere perché manco se le fa, sia in grado di rispondere l’opposizione di destra. Ma basta scorrere i programmi economico-sociali della destra, e segnatamente della Lega che ne è il partito più forte, per rendersi conto che anche la destra non ha un’idea convincente del futuro dell’Italia. Per certi versi, anzi, la politica economica della sinistra e quella della destra appaiono varianti del medesimo schema. La tentazione assistenziale, come dimostra la battaglia di tutto il centro-destra per quota 100, non è monopolio della sinistra. E la propensione a risolvere i problemi allargando la voragine del debito pubblico è quanto di più bipartisan sia dato osservare nella politica italiana. Come bipartisan è il mantra degli investimenti pubblici, immancabilmente da “rilanciare” e da “sbloccare”, ma inspiegabilmente sempre al palo.
Certo, si potrebbe pensare che, se non vogliamo affogare nell’assistenzialismo, se vogliamo che l’iniziativa privata non sia definitivamente soffocata e sepolta dall’invadenza degli apparati pubblici, faremmo meglio a cambiare esecutivo e affidarci alla destra. Dopotutto “meno tasse” è l’imperativo fondamentale dell’opposizione di destra, mentre dalla sinistra il meno peggio che possiamo aspettarci in materia fiscale sono ulteriori dosi di sacrosanta “lotta all’evasione fiscale” (il peggio è una patrimoniale e un aumento delle aliquote). Ma attenzione, il diavolo si annida nei dettagli. Meno tasse non vuol dire nulla se non si specifica quante meno tasse, e per chi. E l’esperienza degli anni passati, e dei programmi elettorali, suggerisce che il “meno tasse” della destra sia più al servizio della ricerca del consenso che a quello della crescita. Era così fin dai tempi del “contratto con gli italiani”, che prometteva l’abbattimento delle imposte sulle famiglie ma era silente sull’imposta societaria (Ires) e sull’Irap. Ed è così oggi, in piena crisi Covid, quando riemergono i fantasmi dei condoni fiscali, comunque li si voglia denominare: rottamazione delle cartelle, saldo e stralcio, pace fiscale. Come se, per evitare la chiusura di centinaia di migliaia di attività, fosse più importante un condono una-tantum che assicurare un lungo periodo di basse aliquote.
Il fatto è che destra e sinistra, fondamentalmente, non differiscono negli scopi, ma nel modo di perseguire il proprio scopo dominante, ovvero l’acquisizione del consenso: la sinistra predilige incrementare il debito pubblico per distribuire bonus e mance, la destra incrementare il debito pubblico per distribuire esenzioni e sgravi fiscali.
Ad entrambe, mi pare, manchi la consapevolezza che di debito ulteriore, passata la crisi, non ne potremo fare molto, e quindi è essenziale non riproporre per l’ennesima volta – come è di moda in questi giorni – l’elenco dei 2-300 “ritardi” dell’Italia, ma dire chiaramente quali siano le 2-3 cose di cui ci si occuperà effettivamente nei prossimi mesi, e come lo si intenda fare. Possibilmente nei dettagli.

Pubblicato su Il Messaggero del 15 giugno 2020