Le colpe del governo nella seconda ondata. Intervista a Luca Ricolfi

Perché ha deciso di fare un libro che è un atto d’accusa così forte contro il governo?
Perché, a metà novembre, mi sono accorto di un fatto per me stupefacente: la maggior parte dei miei amici e colleghi, e la maggioranza degli italiani, erano convinti che la seconda ondata fosse inevitabile.  Dato che questa credenza non solo è falsa, ma è una concausa della crisi, ho ritenuto fosse giusto smontarla prima che produca altri danni.

In che senso credere nell’inevitabilità della seconda ondata è una concausa della crisi?
E’ semplice: se credi questo, abbassi la guardia, perché contro il fato è inutile combattere. E in questi mesi quasi tutti, anche nel mondo dell’informazione, hanno abbassato il livello di vigilanza verso l’attività (anzi l’inattività) del governo. La seconda ondata è anche il risultato di questo abbaglio collettivo.

La giustificazione principale del governo è che tutti i Paesi Occidentali sono nella nostra situazione, se non addirittura peggio…
Niente di più falso. Le società avanzate, con istituzioni paragonabili alle nostre (dunque escludendo dittature, paesi poveri e paesi ed ex-comunisti), sono 29, di cui 20 in Europa. Su 29 ben 10 (di cui 4 in Europa: Irlanda, Norvegia, Finlandia, Danimarca) hanno evitato la seconda ondata, e almeno 9 stanno evitando la terza. Quanto al paragone con gli altri paesi, dall’inizio della pandemia siamo al secondo posto (dopo il Belgio) per numero di morti per abitante. Né le cose vanno molto meglio in questo inizio di 2021: se consideriamo solo i decessi di gennaio, sono ben 24 (su 29) i paesi che hanno meno morti di noi.
Anche se – questa è la novità – ora ci sono tre grandi paesi che, in questo momento (gennaio), riescono a fare peggio di noi, mentre prima ci riusciva solo il Belgio.

Quali sono?
Stati Uniti, Regno Unito, Germania.

Cosa avremmo potuto fare di diverso?
Una decina di cose, che gli studiosi indipendenti, ad esempio quelli di Lettera 150 e quelli della Fondazione Hume, hanno disperatamente e inutilmente chiesto fin dalla fine di marzo. Cito solo le più importanti: tamponi di massa, contact tracing efficiente, Covid hotel per le quarantene, controllo dei voli e delle frontiere, riorganizzazione della medicina territoriale, rafforzamento del trasporto pubblico, messa in sicurezza delle scuole (classi piccole e dispositivi di controllo dell’umidità).
E poi la regola fondamentale: se sei costretto a fare un lockdown (il che è sempre un certificato di fallimento dell’azione preventiva), devi farlo subito, duro e tempestivo, secondo la formula “hard and early”. Non intervenendo tardi e inasprendo le misure gradualmente, come abbiamo fatto noi (e non solo noi, in Europa). Se no le ninfee dello stagno si moltiplicano troppo, e soffocano la vita dello stagno.

Tra le cose da fare non cita l’aumento dei posti in terapia intensiva…
Non è una dimenticanza. Se si fosse fatto tutto il resto, non ci sarebbe stato bisogno di alcun aumento dei posti in terapia intensiva, perché i contagiati sarebbero stati molti di meno, e la maggior parte dei malati sarebbe stata curata con successo a casa, secondo i protocolli informali spontaneamente emersi fin dai primi mesi della pandemia, grazie ai (pochi) medici che, come il dott. Luigi Cavanna, hanno avuto il coraggio di curare i loro pazienti a casa.

Si ha la sensazione che la pandemia sia gestita alla giornata, sbaglio?
Ha ragione, se si riferisce ai marchingegni delle restrizioni, come i colori giallo-arancio-rosso. Ma non è solo questo: il problema è che i criteri di valutazione del rischio sono sballati.

In che senso?
In due sensi. Primo, le soglie di allarme sono troppo alte (come si fa classificare gialla una regione con un valore di Rt pari a 1.2 o 1.25?). Secondo, la stella polare delle autorità sanitarie è la preservazione del sistema sanitario nazionale, anziché la minimizzazione dei contagiati. Un errore clamoroso, che altri paesi non hanno commesso.

C’è qualcosa che avremmo potuto tenere aperto e abbiamo chiuso e qualcosa che avremmo dovuto chiudere e abbiamo tenuto aperto?
Una risposta categorica è impossibile, perché non esistono studi in grado di quantificare in modo rigoroso gli effetti delle varie misure. La mia impressione è che, avendo quasi sempre accettato un numero di contagiati troppo alto, quel che avremmo potuto tenere aperto (e invece abbiamo chiuso) è ben poco, e si riduce alle attività culturali, dove – se ci si organizza per bene e per tempo – è possibile tenere il distanziamento e controllare l’umidità (con qualche investimento in macchinari, ovviamente). Un punto su cui Vittorio Sgarbi ha sempre avuto perfettamente ragione.
Quanto al caso opposto (chiusure mancate), alcuni studi statistici suggeriscono che l’errore più grave sia stato il mancato o inadeguato controllo delle frontiere (di terra e di mare) e dei voli (specie quelli a fini di turismo).
E’, del resto, un principio di puro buon senso: la lotta alla pandemia è incompatibile con il turismo internazionale.

Siamo stati per tre volte con l’indice di contagio ampiamente sotto 1 (giugno-settembre-inizio novembre): perché abbiamo sbagliato tre calci di rigore e l’Rt è rischizzato su?
Perché non si è fatto nulla per evitare che il sistema di tracciamento andasse in tilt. Lei lo sa che fra maggio e metà agosto anziché aumentare i tamponi li abbiamo ridotti? E che oggi si fanno meno della metà dei tamponi che si facevano a metà novembre? E che il numero di addetti al contact tracing è un quinto del minimo necessario?

Secondo i suoi studi è possibile convivere con il virus?
Sì, è possibilissimo, tanto è vero che 1 paese su 3 ci convive senza drammi. Ma per farlo occorrono alcune condizioni di base: un numero di infetti molto contenuto (possibilmente inferiore all’1 per 1000), un sistema di test e di tracciamento funzionante, una popolazione che rispetta le regole, un governo-custode dello stagno, che interviene appena le ninfee cominciano ad essere troppe.

Lei è un professore: le giovani generazioni stanno subendo un danno irreparabile?
Sì, ma minore del danno cognitivo e culturale che – nell’indifferenza generale – hanno subito in cinquant’anni di distruzione della scuola e dell’università.

Lei è un sociologo: come ci ha cambiato l’epidemia e come ci cambierà ancora?
Dipende dai paesi. Nel caso dell’Italia mi aspetto un paese più povero, più vittimista (in quanto sempre più dipendente dall’assistenza pubblica e dalla carità privata), più rancoroso e incattivito, perché la “società signorile di massa” non tornerà più.
Ma ci sarà anche una minoranza (di ceto medio) che reagirà bene, ridimensionando le aspirazioni e cambiando gli stili di vita.

Intravede errori anche nella procedura di vaccinazione?
Un mucchio, a partire da quelli dell’Europa che ha puntato sui vaccini sbagliati (per favorire Francia e Germania) e ha stipulato contratti deboli, come si vede in questi giorni.

Il governo usa toni trionfalistici sulla profilassi: li condivide o sta andando tutto bene solo perché abbiamo poche dosi e vacciniamo per ora solo chi sta in ospedale o nelle rsa.
Il governo sta vaccinando fra un terzo e un quarto delle persone che dovrebbe vaccinare per raggiungere gli obiettivi dichiarati (immunità di gregge entro ottobre 2021). Ma ha ragione ad osservare che siamo agli inizi, e che per ora la maggior parte degli altri paesi europei va ancora più lentamente.

Gli italiani come si sono comportati, meglio o peggio del governo?
Peggio del governo è impossibile. Sintetizzando, darei un 2 al governo, e 5 agli italiani. Con una avvertenza: il 5 degli italiani è la media fra il 7 degli adulti e il 3 dei giovani.

C’è stato qualcosa di sbagliato, o di particolarmente azzeccato, nella strategia comunicativa?
A giudicare dagli orientamenti dell’opinione pubblica, direi che la strategia comunicativa del governo è stata perfetta: è riuscito a convincere gli italiani che il virus fosse inarrestabile e a occultare le responsabilità del governo e delle autorità sanitarie. Chapeau!

Uno degli aspetti più criticati nell’azione del governo è stato di aver prodotto un vulnus della democrazia: è vero? In che termini?
Stato di emergenza e dpcm sono misure eccessive, specie se adottate da un governo frutto di una manovra parlamentare.

I virologi come si sono comportati: hanno aiutato o fatto solo confusione tradendo anche una certa ansia di protagonismo?
Complessivamente, hanno fatto danni, per la cacofonia dei messaggi che hanno veicolato. Singolarmente bisogna distinguere: Galli e Crisanti hanno sempre tenuto la barra dritta, i vari Zangrillo minimizzanti hanno fatto un cattivo servizio alla verità.

Secondo lei la debolezza dell’esecutivo ha giocato un ruolo decisivo nella cattiva gestione della pandemia?
Senz’altro, anche se il ruolo principale l’hanno esercitato la superficialità e la mancanza di cultura scientifica dei suoi membri.

Pensa che il premier si sia fatto scudo della pandemia per nascondere le debolezze sue e del governo?
Sì, senza il terno al lotto del Covid Conte sarebbe scomparso nel nulla da cui era venuto.

Come mai gli italiani, malgrado le evidenti difficoltà, concedono a Conte un gradimento alto?
E’ una domanda cui, come sociologo, ho difficoltà a fornire una risposta persuasiva. Penso che due elementi importanti del cocktail che ha miracolato Conte siano l’indifferenza degli italiani per la politica e l’assenza, in Italia, di un’informazione indipendente. Se giornalisti e commentatori avessero fatto il loro mestiere, forse non saremmo a questo punto.

E perché le opposizioni invece ce l’hanno basso?
Perché la linea dell’opposizione non è mai stata realmente alternativa, anzi per certi aspetti l’opposizione – specie con Salvini – ha spinto per soluzioni ancora più incaute di quelle del governo.

Renzi dice cose giuste? Allora perché è impopolare: perché?
Renzi dice molte cose giuste, e ha ragioni da vendere nel suo attacco al governo. Il suo problema è che non è credibile, oltreché un po’ sbruffone. Promette di dimettersi se perde e poi non lo fa. Giura mai con i grillini e poi ci si allea solo per evitare le elezioni. Governa con Conte per quasi un anno e mezzo e poi gli dà il benservito. Insomma a me molte idee di Renzi convincono, il problema è lui, la sua incoerenza. Per un riformista radicale come me, Renzi è un Calenda mal riuscito.

Il Pd ha dato la sensazione di essere spettatore a tutto, dalla pandemia, alla crisi, al governo: come mai?
Perché, anche se se la contano con discorsi alati (gli interessi del paese, il bene comune, eccetera) la stella polare del Pd è solo il potere, come per il Pentapartito degli anni 80.

Prima della pandemia eravamo una società signorile di massa: ora cosa siamo e dopo cosa diventeremo?
Ora siamo una società signorile di massa che non ha ancora preso atto di non esserlo più, e di essere in rapida transizione verso una società parassita di massa, in cui pochissimi lavoreranno e la maggioranza vivrà di modesti sussidi.

Quanto è ferito il tessuto economico italiano e abbiamo possibilità di riprenderci? In quali tempi?
No, secondo me – a questo punto – non abbiamo alcuna possibilità di riprenderci, perché abbiamo dilapidato 150 miliardi (in deficit), pietrificato l’economia (con il blocco dei licenziamenti), e non abbiamo fatto nulla per rendere ancora possibile l’attività di impresa.

Si dice che questa pandemia cambierà tutto: concorda, e in che modo?
Se retrocedi di 30 anni nel reddito pro-capite, ma le istituzioni sono complicate e vessatorie come quelle di oggi, il cambiamento non può che essere regressivo: più povertà, più diseguaglianza, più frustrazione, più invidia sociale.

Siamo al declino definitivo dell’Occidente? I nostri valori non reggono più i tempi?
Non direi. E’ che i nostri valori li abbiamo ripudiati. I valori dell’occidente non ci sono più, prosciugati dalla cultura dei diritti e dal vittimismo del politicamente corretto. Se non avessimo preso congedo da tutto ciò che bilanciava l’individualismo – capacità di sacrificio, differimento della gratificazione, rispetto dell’autorità e della cultura, senso del dovere – l’Occidente sarebbe in perfetta salute.

Intervista di Pietro Senaldi a Luca Ricolfi, Libero, 18 gennaio 2021




Covid: solo il Belgio fa peggio dell’Italia

In più di un paese su 3 non c’è stata alcuna seconda ondata

Se in Italia la curva dei contagi (misurata come rapporto fra nuovi positivi e casi testati) ha finalmente iniziato una fase decrescente, i decessi non sembrano ancora aver invertito la rotta. Il trend di crescita sta rallentando, ma i numeri rimangono ancora alti.

Occorre però guardare a ciò che è successo in altri paesi per meglio valutare l’evoluzione dell’epidemia in Italia. Tutti i paesi sono stati investiti da una seconda ondata o vi è chi è riuscito a tenere sotto controllo l’epidemia?

L’unico indicatore affidabile che ci permette di fare comparazioni internazionali è il numero di decessi rapportato alla popolazione. L’individuazione di nuovi casi dipende pesantemente dalle diverse politiche adottate sui tamponi.

Un primo punto interessante da sottolineare è che l’epidemia non ha rialzato la testa ovunque. Su 25 paesi a noi più comparabili (società avanzate esclusi i paesi di piccole dimensioni) 10 non hanno affatto registrato una seconda ondata. Si tratta di Nuova Zelanda, Giappone, Australia, Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan e di quattro paesi europei (Irlanda, Danimarca, Finlandia e Norvegia).

Fra questi ve ne sono ben 6 in cui non si può neppure parlare di prima ondata (Nuova Zelanda, Giappone, Australia, Corea del Sud, Hong Kong e Taiwan).

Due (Israele e Grecia), invece, sono i paesi che hanno registrato numeri molto contenuti durante il primo periodo e solo ora sono entrati in una fase acuta dell’epidemia.

Nei restanti 13, l’epidemia ha accelerato sia nella prima che nella seconda fase.

Come si vede dai grafici seguenti, in Svizzera, Austria e Portogallo la seconda ondata è stata addirittura più grave della prima. Mentre però in Svizzera la curva è tornata a puntare verso il basso, Austria e Portogallo non hanno ancora invertito il trend.

I numeri sono in aumento anche per Regno Unito, Grecia, Germania, Svezia, Canada e Italia.

Se si considera però quel che è successo negli ultimi due mesi (ottobre e novembre), solo il Belgio registra numeri peggiori dell’Italia.

Nota tecnica

I dati utilizzati nell’analisi provengono dal database dalla Johns Hopkins University aggiornati al 29 novembre.

Quanto possibile, i dati sono stati corretti per tenere conto dei ricalcoli effettuati dalle autorità nazionali che hanno fornito il dato.

Per “ondata” intendiamo una situazione in cui i nuovi contagiati settimanali per 100 mila abitanti è superiore a 1.




Noi e gli altri. Seconda ondata?

Di “seconda ondata” ormai si parla da qualche mese. In Europa come in Italia. Ma non mi è ancora capitato di sentire una definizione precisa di che cosa si debba intendere per seconda ondata, e che cosa esattamente distingua un’ondata da una “ondina”, o da una serie di ondine.

In questo vuoto di definizioni statistiche, anche l’affermazione che ci sarà o non ci sarà una seconda ondata diventa vuota di significato. Proviamo allora ad abbozzare una definizione, per poi tornare alla domanda.

Per “seconda ondata” è ragionevole intendere una situazione nella quale sia il numero di contagiati per 100 mila abitanti, sia la sua velocità di crescita siano quantitativamente comparabili a quelli della prima ondata, che nella maggior parte dei paesi si è sviluppata tra marzo e maggio.

Dunque, in Italia sta arrivando una seconda ondata? E negli altri paesi?

Qui arriva il difficile. Per applicare la nostra definizione, bisognerebbe conoscere il numero dei contagiati e il suo andamento nel tempo, che sono grandezze incognite non solo in Italia ma ovunque nel mondo. Quel che conosciamo, paese per paese, è solo il numero di nuovi casi diagnosticati ogni giorno, che sono molti di meno dei casi effettivi. Per ricostruire la curva epidemica reale di ogni paese dovremmo conoscere il moltiplicatore che fa passare dai casi diagnosticati a quelli effettivi. Non solo, ma dovremmo sapere come il moltiplicatore varia nel tempo e nello spazio, fra paesi e all’interno di un paese. Senza queste informazioni sia i confronti nel tempo sia quelli nello spazio diventano problematici.

Fortunatamente, qualche frammento di informazione ce l’abbiamo. Sappiamo, ad esempio, che il moltiplicatore dell’Italia è almeno 6, dal momento che il numero di contagiati totale stimato dall’Istat con l’indagine di sieroprevalenza di giugno-luglio è dell’ordine di 1 milione e mezzo, ossia 6 volte il numero di casi diagnosticati, che è dell’ordine di 250 mila. Sappiamo anche, dai calcoli effettuati dalla Fondazione Hume comparando dati di mortalità e casi diagnosticati, che il moltiplicatore varia notevolmente nel tempo e nello spazio, perché la capacità diagnostica non è né costante né uniforme. La capacità diagnostica, ad esempio, differisce notevolmente da regione a regione (vedi grafico 1), e anche da paese a paese, generando marcate differenze fra i moltiplicatori che occorre applicare ai dati grezzi. Il moltiplicatore dell’Italia, ad esempio, è sensibilmente più alto di quello di Francia e Germania, perché la nostra capacità diagnostica è sensibilmente inferiore. Ecco perché i confronti internazionali, dai quali principalmente traiamo motivi di conforto, andrebbero presi con prudenza: per comparaci alla Germania, ad esempio, dovremmo quasi triplicare i nostri tassi di incidenza.

Detto tutto questo, e nonostante tutto questo, torniamo al punto: è in arrivo una seconda ondata in Italia? Che cosa si può dire in base ai dati disponibili?

La prima parte della risposta è confortante. Se parliamo dell’Italia nel suo insieme, e in mancanza del numero di contagiati “vero” ci basiamo sul numero di contagiati rilevato con i tamponi, possiamo dire che, al momento, siamo ancora molto lontani da una seconda ondata. E’ vero che la curva epidemica è tornata a salire, è vero che di questo dobbiamo ringraziare le imprudenze estive degli italiani e dei loro governanti (discoteche aperte, movida, ecc.), ma è anche vero che sia il numero di contagiati, sia la velocità a cui crescono attualmente non sono comparabili a quelli di marzo-aprile. E il risultato del confronto fra oggi e marzo-aprile risulterebbe ancora più rassicurante se, anziché disporre solo della serie storica dei casi diagnosticati, disponessimo di quella dei casi effettivi. Quel che è certo, infatti, è che il moltiplicatore di marzo-aprile era molto più alto di quello di oggi o, detto in altre parole, ieri la parte sommersa dell’iceberg del contagio era molto più grande.

Ma c’è anche una seconda parte della risposta, ed è meno rassicurante. In una fase come questa, quel che è importante non è che cosa succede in media, ma che cosa succede nei singoli territori. Certo, possiamo tranquillizzarci perché il mare è molto meno agitato di sei mesi fa, ma dobbiamo chiederci se lo è ovunque, o ci sono invece golfi, insenature e calette dove il mare sta salendo pericolosamente. Ebbene, qui la risposta è diversa da quella sull’Italia nel suo insieme. Perché c’è una provincia, La Spezia, in cui la situazione è molto preoccupante. L’incidenza bisettimanale (nuovi casi ogni 100 mila abitanti), corretta per la capacità diagnostica della Liguria, è quasi 20 volte quella media nazionale (vedi grafico 2). E se compariamo la situazione di oggi con quella di ieri è inevitabile concludere che sono piuttosto simili: la curva epidemica di La Spezia presenta due picchi, uno ad aprile (in pieno lockdown), l’altro questo mese di settembre; l’altezza dei due picchi è la stessa, e la velocità del contagio è comparabile.

Insomma, per la Spezia la domanda non è se, e quando, arriverà la seconda ondata: la seconda ondata è in corso. Semmai viene da chiedersi che cosa si aspetta a intervenire con la dovuta determinazione.

E’ l’unico caso, quello di La Spezia?

Se, in assenza di dati comunali, ragioniamo a livello provinciale, la risposta è che, per ora, non ci sono province con una situazione epidemica grave come quella di La Spezia. La peggiore provincia dopo la Spezia è Genova (ancora una provincia ligure), ma i casi di Genova sono meno di 1/6 di quelli di La Spezia, ancorché il triplo della media nazionale. Come Genova, ci sono una decina di altre province, metà al Nord e metà al Sud, in cui l’incidenza effettiva – senza raggiungere i livelli record di La Spezia – è molto superiore a quella nazionale (vedi grafico 3).

Converrà tenerle d’occhio, prima che il mare si alzi anche lì.

Pubblicato su Il Messaggero del 26 settembre 2020