Scuola, ripartenza rischiosa

“La scuola riapre regolarmente il 14 settembre”, ha affermato il premier Giuseppe Conte in conferenza stampa a Palazzo Chigi. Ma avrebbe fatto meglio a dire la verità, tutta la verità: le scuole cercano di ripartire il 14, ma non riusciranno a farlo in tutta Italia.

Infatti la situazione reale è questa. Il Friuli Venezia Giulia e quasi tutte le regioni del Sud (6 su 8) hanno già deciso di rimandare la riapertura, per lo più a dopo le elezioni del 21 settembre. Quanto alle altre regioni, alcune scuole partiranno, altre no: regioni e comuni possono autorizzare le singole scuole a rinviare la partenza, e già lo stanno facendo dove i dirigenti scolastici ritengono che non ci siano le condizioni per riaprire subito.

Le ragioni del ritardo sono fondamentalmente tre: cattedre scoperte (come tutti gli anni), lavori edilizi non completati o ancora privi delle necessarie certificazioni, mancata consegna dei banchi, originariamente prevista entro l’8 settembre, ed ora slittata alla fine di ottobre.

Si poteva fare diversamente?

Se teniamo conto del fatto che le scuole sono state chiuse da marzo, e che a metà maggio già si sapeva che non avrebbero riaperto prima di settembre, la risposta è: sì, almeno per quanto riguarda la consegna dei banchi. Bastava fare il bando a maggio, come fin dalla fine di aprile suggerivano alcuni produttori, anziché aspettare il 20 luglio (più di 4 mesi dopo la chiusura delle scuole!). Quanto alle nomine degli insegnanti, non riesco a credere che – con i pieni poteri che questo governo si è auto-attribuito – non vi fosse alcun modo di coprire la maggior parte delle cattedre, se non altro in considerazione del fatto che la carenza di insegnanti, nella misura in cui genera caos amministrativo e organizzativo, è anch’essa un potenziale fattore di rischio.

Possiamo almeno dire che la riapertura, dove avverrà, sarà “in sicurezza”?

Questo è difficile stabilirlo in anticipo, anche se il fatto che il premier abbia già messo le mani avanti, dicendo che eventuali focolai non sono imputabili a carenze dell’azione di governo, non è particolarmente incoraggiante. E’ ovvio che, come ha detto al figlio Niccolò, “se succede qualcosa a scuola non è perché papà ha lavorato male”. Ma il punto non è se ci saranno casi di Covid a scuola (questo è certo, ed è perfettamente normale, ahimè), ma se ve ne saranno pochi o parecchi, se sarebbero potuti essere molti di meno con scelte politiche diverse, e se ci siano le condizioni per gestire efficacemente i casi che certamente ci saranno, tanti o pochi che siano. Il caso di Israele, che giusto in questi giorni – primo paese al mondo – ha annunciato il ritorno al lockdown, dovrebbe insegnare qualcosa: se Israele deve di nuovo chiudere, è essenzialmente perché ha sbagliato tutto sulla scuola, dai tempi di riapertura, alla dimensione delle classi, agli errori nella aerazione dei locali (basata sui condizionatori).

Ebbene, sul versante della sicurezza il quadro è tutt’altro che rassicurante, per due ordini di ragioni. Il primo è che le misure adottate sono alquanto deboli, specie se confrontate con quelle di diversi paesi europei, che prevedono regole precise sulla frequenza di aerazione dei locali, un distanziamento maggiore (1.5 metri o 2), vincoli stringenti alla dimensione delle classi (da 10 a 20 bambini, a seconda dei paesi). Per non parlare della incapacità di assicurare un adeguato distanziamento nei trasporti: quella di considerare “congiunti” i bambini che vanno nella medesima scuola è una trovata degna di un Azzeccagarbugli; una acrobazia linguistica cui il governo è dovuto ricorrere perché per mesi e mesi si era occupato d’altro e, arrivati al 27 agosto, non c’era più tempo di provvedere diversamente, innanzitutto rafforzando il trasporto pubblico locale. Viene da chiedersi: a che serve tentare maldestramente di assicurare il distanziamento a scuola, con la ridicola regola del metro fra le “rime buccali”, se prima e dopo l’ingresso a scuola – per mancanza di bus – si costringono i ragazzi ad assembrarsi sui mezzi pubblici?

Ma c’è anche un altro ordine di ragioni, strettamente sanitarie, che non ci può lasciare tranquilli. Dalla metà di giugno, quando l’epidemia ha dato chiari segni di rialzare la testa (un fatto inizialmente segnalato da pochi, ma progressivamente riconosciuto da tutti), nulla è stato fatto per invertire la tendenza, e molto è stato invece fatto per prolungare il più a lungo possibile il periodo in cui la gente poteva divertirsi, il turismo riprendere fiato, e il virus accomodarsi fra noi; fino alla decisione finale di tenere le discoteche aperte anche a Ferragosto, nonostante i disastri provocati dalla folle estate fossero divenuti evidenti a tutti. Ebbene tutte queste scelte e omissioni (specie quella di chiudere un occhio su discoteche e movida) un risultato, prevedibile e previsto, l’hanno prodotto: aumentare il numero di contagiati e, con esso, il rischio che chiunque, ragazzo, insegnante, o familiare, contragga il virus.

Mentre ipocritamente si proclamava che la scuola era una “priorità assoluta”, e che “nemmeno una ora di lezione” doveva andare perduta, si permetteva che il rischio di contagiarsi, sceso ai minimi all’inizio dell’estate, tornasse inesorabilmente a salire.

Ma di quanto? A che punto siamo oggi?

Difficile fornire una stima precisa, ma l’ordine di grandezza è chiaro. Rispetto ai minimi toccati all’inizio dell’estate il numero di morti è quasi triplicato, e il numero di ricoverati in terapia intensiva è circa quadruplicato. Quanto al numero dei contagiati, è verosimile che sia aumentato ancora di più, perché l’età mediana si è drasticamente abbassata, e più la popolazione di contagiati è giovane, minore è la probabilità di un ricovero in terapia intensiva o di un decesso. Morti e ricoverati in terapia intensiva tornano, anche se per ragioni diverse rispetto a marzo e aprile, ad essere solo la punta dell’iceberg del contagio.

Tirando le somme, credo che il numero di contagiati sia almeno quintuplicato, ma non sarei stupito che qualche collega epidemiologo meno prudente di me ipotizzasse che sono decuplicati.

Ecco perché affermare che la scuola riapre “in condizioni di sicurezza” è semplicemente una bugia. No, tra luglio e agosto la scelta di chi ci governa non è stata di approfittare dell’estate per ridurre ulteriormente la circolazione del virus e arrivare alla riapertura delle scuole in condizioni di massima sicurezza (linea di condotta più volte invocata dal prof. Crisanti, e non solo da lui). La scelta è stata di risarcire gli italiani per il lockdown regalando loro un’estate senza regole, anche se si sapeva benissimo che questo avrebbe reso meno sicuro il ritorno a scuola.

Ora che la frittata è fatta, ora che è chiaro che molte scuole non potranno garantire una ripartenza in sicurezza, ora che lo spettro di un ritorno alla didattica a distanza si fa più minaccioso, vorrei almeno, a nome di tanti genitori, chiedere una cosa, minimale ma dovuta: se uno studente viene confinato nella stanza del Covid, e mandato a casa perché sospetto, potete almeno garantirgli il tampone (e la comunicazione dell’esito) entro 48 ore?

Già, perché non tutti i genitori se ne sono ancora accorti, ma non c’è nulla, ma proprio nulla, nei protocolli e nelle procedure, che dia alle famiglie questa garanzia. Non paghi di scaricare sulle famiglie un’operazione (la misurazione della temperatura) che la scuola non è in grado di assicurare, i nostri politici ed esperti hanno previsto che, in caso di sospetto Covid, i genitori debbano riprendersi il pargolo e provvedere loro stessi a contattare un medico, che a sua volta deciderà. Come se non si sapesse che proprio questo è il problema, in tante realtà: non c’è garanzia che il medico venga a casa per una visita, non c’è garanzia che qualcuno effettui subito il tampone, non c’è garanzia che l’esito venga tempestivamente comunicato, e non si perda invece nei meandri della burocrazia delle mail, della “sanità digitalizzata” e senza volto.

Questo è, purtroppo, quello che è successo nei terribili mesi della prima ondata. Possiamo chiedervi che non succeda più?

Pubblicato su Il Messaggero del 12 settembre 2020




Altro che modello italiano sulla pandemia. Intervista a Luca Ricolfi

Un anno particolare, segnato dalla pandemia e da una crisi economica senza precedenti. Dove si torna a discutere del ruolo dello stato sociale e soprattutto della scuola e della sanità pubblica in una società, quella italiana, per la quale Luca Ricolfi, politologo e sociologo, ha coniato l’espressione “società signorile di massa” (una società dove molti consumano ma pochi producono perché si fonda sulla ricchezza accumulata dai padri).

Professor Ricolfi, mancano meno di due settimane all’inizio dell’anno scolastico. Lo considera l’ultimo banco di prova della tenuta dello stato di emergenza? Si sente ottimista?
Né ottimista né pessimista, perché purtroppo mancano (o meglio sono secretati) i dati che permetterebbero di formulare previsioni solide. Quello che posso dire, con i pochi dati che la Protezione Civile e l’Istituto Superiore di Sanità rilasciano, sono essenzialmente due cose.
La prima è che fra i paesi avanzati, che sono una trentina, solo tre – Belgio, Spagna e Regno Unito – hanno un bilancio complessivo di morti (per abitante) peggiore di quello dell’Italia.
La seconda è che, se guardiamo al solo mese di agosto, le cose vanno un po’ meglio per noi: l’Italia è intorno alla metà della classifica fra i paesi avanzati, e fra i grandi paesi solo Germania, Giappone, Corea del Sud, presentano tassi di mortalità più bassi dei nostri.

Didattica a distanza, cattedre vuote, edilizia scolastica in condizioni critiche, è il momento di ripensare tutto il modello della nostra istruzione pubblica oppure non c’è spazio che per la gestione dell’emergenza?
Veramente è da mezzo secolo che sarebbe il momento di ripensare il sistema dell’istruzione. Magari non pensando solo all’edilizia e alle graduatorie dei precari ma anche al fatto che la qualità dell’istruzione (e dei docenti) si è abbassata drammaticamente, e ora con la didattica a distanza si appresta a ricevere il colpo di grazia. Travolte dalle pressioni a promuovere, per dare all’Europa i numeri che pretende, scuola e università sono diventate macchine per produrre false certificazioni, o meglio certificati veri indistinguibili da quelli falsi.

Altri Paesi adesso guardano con interesse al modello Italia, almeno per la gestione sanitaria del Covid-19.  Crede che la nostra consapevolezza e la profilassi ormai entrata nelle abitudini quotidiane ci eviteranno un ritorno al lockdown?
A giudicare dai risultati, sconsiglierei qualsiasi paese di seguire il modello italiano, fatto di ritardi, disorganizzazione, leggerezza nel far rispettare le regole, incapacità di far ripartire l’economia. Siamo al 4° posto in Europa come numero di morti per abitante, e all’ultimo come andamento del Pil 2020. Come si fa a parlare di modello italiano?
Se dovessi additare dei modelli, citerei piuttosto quello della Germania e quello della Corea del Sud, due paesi che molti media stanno descrivendo come attualmente più inguaiati di noi, ma che in realtà si stanno comportando meglio: anche considerando il solo mese di agosto, il numero di morti per abitante della Germania è poco più della metà di quello dell’Italia, e quello della Corea del Sud è circa un sesto.

Emergenza sanitaria ed economia non sono mai stati così correlati. Quando saremo fuori dal pericolo del contagio tornerà il modello economico che è entrato ora in crisi o cambierà qualcosa?
Una cosa nuova ci sarà di sicuro, anche se la pandemia dovesse miracolosamente sparire nel 2021: il mondo occidentale si troverà ad avere perso ulteriori posizioni nella competizione con la Cina.
Sul fatto che possa tornare il modello economico precedente, ho i miei dubbi, almeno per l’Italia. Noi eravamo già una “società signorile di massa” in declino. Questi mesi li abbiamo usati per tappare le falle e congelare tutto, senza la minima attenzione a creare le condizioni di una ripartenza. Quel che mi aspetto, quindi, è un brusco risveglio nel primo semestre 2021, quando ci si accorgerà che non si può andare avanti in eterno con i sussidi e il blocco dei licenziamenti.

Lo smart working secondo lei cambierà il volto delle nostre città e il settore dei servizi?
Sì, lo cambierà, con un abbattimento parallelo dei costi e della qualità.

Più volte lei ha lamentato in passato il rischio di finanziamenti a pioggia per riparare i danni economici di questa crisi. Ma è davvero possibile in un momento simile pianificare interventi a lungo termine?
Certo che è possibile, basta togliere la parola “pianificare”. Non si tratta di pianificare, ma di creare un ambiente – meno tasse e meno burocrazia – che consenta ai produttori di restare sul mercato o di entrarvi. L’alternativa è di diventare una “società parassita di massa”, in cui una piccola minoranza lavora e la maggioranza vive di trasferimenti.

Dalle prime misure di marzo a oggi il governo ha dovuto prendere decisioni poco popolari. Ora che siamo tornati in campagna elettorale crede sia difficile conquistare il consenso degli elettori senza perdere di vista il bene comune?
Era già impossibile prima, figuriamoci oggi. Il governo Conte è un mirabile esempio di esecutivo basato esclusivamente sulla massimizzazione del consenso, anzi del consenso di breve periodo.

A proposito di elezioni, cosa pensa del referendum confermativo sul taglio dei parlamentari?
Penso che qualsiasi cosa si voti si sbaglia. Votando sì, si legittima il qualunquismo grillino, e si rafforza un governo che ha già notevolmente compromesso il nostro futuro. Votando no ci si accoda a un penoso tentativo di vestire di nobili intenzioni (la Costituzione, la Democrazia, ecc.) la fame di posti del ceto politico.

Le Regionali in piena pandemia e durante una conclamata crisi economica che banco di prova rappresentano per il governo?
Nessuno può saperlo. Se hanno avuto il fegato di fare un governo che se ne infischia di un voto politico (quello del 2018), non mi stupirei restassero abbarbicati al potere di fronte a un voto amministrativo, anche dovessero perdere in 6 Regioni su 6. Se proprio devo immaginare degli scenari capaci di mettere in crisi l’attuale governo, le eventualità che mi vengono in mente sono altre, nessuna auspicabile: 1 milione di posti di lavoro distrutti, una tempesta finanziaria, una nuova chiusura di scuole e università, una proliferazione dei focolai e dei connessi lockdown.

Intervista di Pierfrancesco Borgia  a Luca Ricolfi, Il Giornale, 2 settembre 2020




Il partito della prudenza

Alla fine Walter Ricciardi, consulente del ministro Speranza (e rappresentante dell’Italia nell’OMS), si è lasciato scappare la verità: la riapertura delle scuole è a rischio, e le elezioni pure. Era un’ovvietà, lo sa chiunque segua i dati dell’epidemia. Ma lo hanno costretto a rimangiarsela: non si stava riferendo all’Italia, avevamo capito male. Il totem della riapertura non si può toccare.

In questi mesi il governo ha finto di puntare tutto sulla riapertura delle scuole. Ma la verità è che la priorità del governo non è mai stata la riapertura delle scuole. Se lo fosse stata avrebbe agito diversamente.

Ricapitoliamo. E’ da due mesi, non da pochi giorni, che i segnali di una ripresa dell’epidemia si moltiplicano. Per tutta risposta, il governo ha accuratamente evitato di imporre la chiusura delle discoteche, lasciando pilatescamente la patata bollente alle Regioni. E su tutti gli altri fronti si è mosso nella medesima direzione: chiudere un occhio su ogni infrazione delle regole, prima fra tutte il distanziamento, per non danneggiare il turismo; permettere che la gente (aiutata da esperti negazionisti o minimizzanti) si autoconvincesse che il peggio era passato, che il virus era in ritirata, e che le regole potevano essere violate impunemente.

Eppure l’evidenza scientifica (e sociologica) diceva tutt’altro. I più giovani si ammalano raramente e poco gravemente, ma sono un vettore formidabile del virus. Il contagio fra coetanei è inevitabile in qualsiasi situazione diversa dal lockdown. Se si vuole impedire che il contagio deflagri nelle scuole, mettendo a rischio innanzitutto la salute di insegnanti e familiari, la via maestra non sono i banchi a rotelle ma è portare il più possibile vicino a zero il numero di contagiati; approfittare dell’estate (alte temperature, poco smog, vita all’aperto) per appiattire ancora la curva epidemica, in modo che il primo giorno di scuola i ragazzi contagiosi siano il meno numerosi possibile.

Perché è vero che dobbiamo imparare a convivere con il virus, è vero che non siamo ancora nelle condizioni di azzerare i contagi, ma è completamente diverso combattere il virus quando i contagiati sono uno ogni 10 mila, uno ogni mille, o uno ogni cento. Fino a un paio di mesi fa eravamo vicini alla prima soglia (1 su 10 mila), ora abbiamo superato la seconda (1 su 1000), e stiamo puntando a vele spiegate verso la terza (1 su 100). E’ una situazione pericolosissima, che molto somiglia a quella di febbraio. Come ha recentemente osservato l’epidemiologo Pier Luigi Lopalco, il problema è che – lasciando correre il virus come finora si è fatto – si stanno creando le condizioni per “l’innesco di una seconda ondata. Lo stesso innesco che a febbraio, semplicemente, non abbiamo rilevato e che poi ha provocato la grande ondata”.

Non sono considerazioni nuove. Sono il nucleo della “dottrina Crisanti”, più volte enunciata pubblicamente da lui stesso, e sottoscritta da una piccola minoranza di istituzioni, studiosi, operatori dell’informazione, preoccupati dell’imprudenza del governo centrale e di non pochi governatori delle Regioni.

Ora, però, siamo a 6 mesi esatti dallo scoppio dell’epidemia (Codogno, era il 21 febbraio), e il “partito della prudenza” è chiaramente e inequivocabilmente sconfitto. Inutile nasconderlo, inutile insistere con i numeri e con le analisi. Persa la battaglia in favore di un vero contrasto dell’epidemia, è forse giunto il momento di capire perché abbiamo perso. O meglio: perché abbiamo perso in modo così rovinoso e totale, perché mai non siamo riusciti a vincere nemmeno una delle nostre battaglie.

Sconfitta (a febbraio) la linea della prudenza verso i cinesi e i voli (diretti e indiretti) dalla Cina. Persa la battaglia contro la campagna “Milano non si ferma”. Sconfitta l’idea di fermarsi subito, ai tempi delle mancate chiusure di Nembro e Alzano. Ignorati (una prima volta a marzo e una seconda a maggio) gli appelli per i tamponi di massa. Snobbate, ai primi di giugno, le analisi che indicavano che alcune regioni del Nord non erano pronte per la riapertura. Recepita con mesi di ritardo la proposta di un’indagine sierologica nazionale. Completamente disattesa la richiesta, non solo nostra ma di tutta l’opinione pubblica, di indicazioni chiare e ragionevolmente stabili su mascherine, distanziamento, assembramenti. Indifferenza alle proteste per le incredibili incongruenze delle norme sul distanziamento (rigorosamente distanziati a teatro, nei musei, sui Freccia Rossa; appiccicati come sardine sui bus, sui treni ordinari, sui vaporetti, sugli aerei). Incomprensibile sordità agli inviti a tenere chiuse le discoteche, nonché alle denunce sulla violazione delle regole nei luoghi della movida e del divertimento. Snobbata ogni critica sulla disastrosa gestione degli sbarchi. Demonizzata ogni idea di limitazione e regolazione dei flussi turistici (un errore che la Sardegna sta pagando a caro prezzo proprio in questi giorni). Del tutto ignorate le richieste degli studiosi di accedere ai dati analitici dell’epidemia.

E’ solo un piccolo campionario della guerra che abbiamo rovinosamente perso. Dunque, veniamo al punto: perché il “partito della prudenza” ha perso tutte le sue battaglie?

Io credo che la risposta, se vogliamo andare subito al succo, sia essenzialmente una: la stella polare della politica, di tutta la politica (non solo del governo), è solo il consenso di breve, brevissimo periodo. Non c’è altro, nelle scelte che fanno i nostri politici, anche se c’è molto altro nelle chiacchiere con cui le accompagnano. Se governo e Regioni avessero agito con maggiore prudenza avrebbero avuto contro almeno tre poteri fondamentali: il mondo dell’economia, interessato alla riapertura persino quando (fine febbraio) era palesemente una follia; l’opinione pubblica, assetata di risarcimenti economici (sussidi) ed esistenziali (vacanze senza restrizioni) dopo il lockdown; l’opposizione politica, schierata dal lato della ripartenza ancora più accanitamente del governo.

Certo, è stato il governo a non avere il coraggio di tenere chiuse le discoteche, e a perseverare in quell’errore nei giorni (Ferragosto) in cui tutti avevano capito che era un errore fatale. Ma non si può dimenticare che, di fronte a una scelta così irresponsabile, Salvini non trovava di meglio che dichiarare: “L’unico problema legato al virus non sono i ragazzi che ballano ma quelli che sbarcano”. Difficile pensare che un governo imprudente possa cambiare rotta se il maggiore partito di opposizione è su una linea ancora meno prudente.

Lo stesso discorso vale per gli altri attori in campo. Se la gente non ha capito quanto erano pericolosi i comportamenti di cui ora constatiamo le conseguenze, è perché il governo, dopo il lockdown (e in particolare dopo la chiusura delle scuole e l’inizio delle vacanze), non ha mai veramente provato a far rispettare le regole. Ma è altrettanto vero che se ci avesse provato, come era suo preciso dovere, avrebbe perso molto del consenso accumulato nei mesi precedenti. Gli attori economici si sarebbero ribellati, le famiglie e i giovani si sarebbero sentiti ingiustamente deprivati dei loro sacrosanti, inalienabili, diritti a vacanze, spiagge, divertimento, movida ecc. (resta naturalmente da vedere se il calcolo del governo non sia stato miope: se le scuole riaprissero a singhiozzo, se dovessimo essere costretti a un nuovo lockdown, se i nuovi danni all’economia risultassero superiori ai vecchi benefici dell’apertura precoce, la gente si arrabbierebbe molto).

E’ questa la logica di quel che è successo. E’ per questo che noi “prudenti” abbiamo perso tutte le nostre battaglie. Siamo stati ingenui, ora non ci resta che sperare di aver avuto torto, e che a settembre si verifichi il miracolo: le scuole riaprono, le elezioni hanno luogo in sicurezza, gli oltre 1000 focolai attuali diminuiscono drasticamente di numero, ci sono abbastanza tamponi per tutti i bambini e i ragazzi messi in isolamento, pochi insegnanti si ammalano, nessuno di loro muore, la stagione fredda e lo smog della pianura padana non alimentano una seconda ondata, l’economia riprende vigore, gli ospedali si svuotano, non ci sono nuovi lockdown.

E’ un atto di fede, ma è tutto quel che ci resta.

Pubblicato su Il Messaggero del 22 agosto 2020




Scuola e COVID, il problema sono gli insegnati

Capisco che, con l’avvio delle vacanze, la mente vaghi lontano dalla politica, e dopo mesi di sofferenza quasi tutti si cerchi soltanto un po’ di relax. Capisco anche che, con montagne di soldi in arrivo dall’Europa, sia in atto la corsa a spenderne il più possibile, anche prima di averli. Capisco, infine, la disattenzione generale sui problemi della scuola e dell’Università, lasciati all’improvvisazione di ministri e rettori.

Quel che non capisco, invece, è il tipo di decisioni (o non decisioni) che – quatti quatti – i nostri politici stanno prendendo in vista della ripresa di settembre, in particolare in materia di scuola. Leggo che la ministra Azzolina è sicura che la scuola riaprirà, e che il commissario Arcuri ha promesso che entro il 7 settembre arriveranno fino a 3 milioni di banchi monoposto, una parte dei quali con rotelle (traduzione di “sedute scolastiche attrezzate di tipo innovativo, ad elevata flessibilità di impiego”), quasi gli studenti non fossero in grado, ammesso che serva, di spostare un banco monoposto. I banchi, il cui costo totale si potrebbe aggirare sui 500 milioni di euro, dovrebbero servire a garantire il distanziamento, cervelloticamente previsto in almeno un metro fra le “rime buccali” (sì avete letto bene, non è un errore tipografico, è il Comitato Tecnico-Scientifico che parla così: in sostanza vuol dire che gli studenti potranno stare a circa 60 centimetri l’uno dall’altro).

Come primo modo di spendere i soldi dell’Europa non c’è male. Non tanto perché, in realtà, li abbiamo già spesi (i finanziamenti a fondo perduto, 81 miliardi, non bastano nemmeno a ripianare l’extra-deficit che abbiamo fatto in soli 4 mesi di “scostamenti di bilancio”), ma perché sono soldi letteralmente gettati dalla finestra. Per capire perché, basta il buon senso, ma visto che il buon senso è divenuto una risorsa scarsa (specie fra i politici) lasciamo parlare il prof. Andrea Crisanti, quello che ha salvato il Veneto e realizzato l’indagine su Vo’ Euganeo: “dai 6 ai 13 anni il distanziamento è inutile, usciti dalla classe fanno quello che vogliono”. In realtà, a fare tutto quello che vogliono non sono solo gli studenti della scuola dell’obbligo (dai 6 a i 13 anni) ma sono gli studenti in generale, anzi i giovani in generale. Basta un minimo di esperienza della realtà, scolastica e non, per rendersi conto che, anche se gli insegnanti fossero in grado di far rispettare un vero distanziamento in classe (che non può essere di soli 60 cm, specie al chiuso, e specie nella stagione fredda), nessuno potrebbe impedire la violazione delle regole durante l’ingresso, l’uscita, e gli intervalli fra una lezione e l’altra, per non parlare di quel che succede prima e dopo la scuola: assembramenti sui mezzi pubblici, movida, ecc.

Ma la cosa più strana è che, mentre ci si accinge a sprecare mezzo miliardo di euro per una misura che avrà effetti nulli o trascurabili sul contagio fra studenti, nulla si prevede per limitare il rischio principale: e cioè che ad essere contagiati siano gli insegnanti, che – a causa della loro età e della esposizione alla massa studentesca – sono una categoria ad altissimo rischio (come lo sono, peraltro, i docenti universitari e i nonni con nipoti).

Si potrebbe pensare che tutto ciò sia solo frutto della leggerezza (o stoltezza?) di un manipolo di politici inesperti. Purtroppo non è così. Se osserviamo con attenzione quel che succede nel settore pubblico nel suo insieme, e lo confrontiamo con quel che succede nel settore privato, non si può che uscirne sconcertati. Mentre nel settore privato assistiamo a una ammirevole, talora eroica, assunzione di responsabilità, con riorganizzazioni meticolose delle fabbriche, degli uffici, delle regole di ingaggio dei lavoratori (e pesanti conseguenze sulla struttura dei costi), nel settore pubblico lo smart working troppo sovente si è risolto o in una pura e semplice soppressione di servizi (per non chiamarla una “vacanza”, come coraggiosamente ebbe a definirla Sabino Cassese), o in un drammatico abbassamento di efficienza e di qualità. Il tutto senza la minima assunzione di responsabilità da parte dei vertici della Pubblica amministrazione.

Su questo, ancora una volta, quel che sta succedendo nella scuola e nell’università è esemplare. Con la scusa della “autonomia” di scuole e atenei, il Governo centrale lascia le istituzioni periferiche con il cerino in mano, a formulare piani di riorganizzazione per cui non hanno né le risorse né i poteri necessari. E queste ultime, come è successo e sta risuccedendo, non avendo né le capacità necessarie per una vera riorganizzazione, né il coraggio di assumere decisioni vincolanti per tutti, si rifugiano nella comoda soluzione di lasciar liberi i docenti di fare ciascuno quello che si sente (lezioni ed esami a distanza o in presenza), in base alla propria sensibilità e propensione al rischio. Il che garantisce alle autorità di ogni livello della piramide burocratica di non essere imputabili di nulla quando l’epidemia dovesse riprendere il suo corso, e le decisioni (o meglio le non-decisioni) adottate dovessero presentare il conto, in termini di nuovi contagi, nuovi malati, nuovo morti.

Quando arriverà settembre, e continueranno ad esserci regole finte, che vengono ripetute per salvarsi la coscienza ma che nessuno ha la minima intenzione di far rispettare, ci ritroveremo – nelle scuole e nelle università – tristemente e inesorabilmente divisi in due gruppi: i coraggiosi (o incoscienti?), che fanno come se il virus non ci fosse, e i paurosi (o prudenti?) che si defilano il più possibile per limitare i rischi. E’ la conseguenza inevitabile di una classe dirigente che non perde occasione per invocare responsabilità da parte dei cittadini, ma le proprie responsabilità non ha la minima intenzione di prendersele.

Pubblicato su Il Messaggero del 25 luglio 2020




Maturità, sarà un esame farsa. Intervista a Paola Mastrocola

Un esame farsa, «saranno tutti promossi. Questa maturità diciamo che è un modo per rivedersi e salutarsi tra insegnanti e allievi. Una pacchia per chi ha studiato poco in tutto il triennio, una sciagura per chi si è impegnato seriamente». Così Paola Mastrocola, editorialista e scrittrice, in merito agli esami di maturità che iniziano oggi per quasi mezzo milione di ragazzi. Nel 2004, con «La scuola spiegata al mio cane» (divenuto poi un classico), accese il dibattito sullo stato della scuola italiana, le sue riforme e un declino che pareva inarrestabile. Per la scuola che servirebbe nel dopo coronavirus dice: «Dovremmo buttare tutto all’aria e ricominciare da zero. Il Covid ci ha fatto capire definitivamente che cosa le famiglie chiedono alla scuola: essenzialmente un luogo dove lasciare i figli mentre si lavora, dove possano «socializzare», e dove qualcuno si prenda in carico la loro educazione in senso lato. Ebbene, prendiamone atto e facciamola». Il governo ha eliminato i voti alle elementari? «Andrebbero subito ripristinati, senza si fa un danno ai bambini».

Sono iniziati gli esami di stato: una sola prova orale, ha deciso il governo per evitare rischi di contagio. Basta a valutare la maturità di un ragazzo?
L’esame di quest’anno ovviamente non verificherà nulla: l’allievo esporrà oralmente un «elaborato» che ha scritto (da solo?) su temi concordati un mese prima. Diciamo che è un modo di rivedersi e salutarsi, tra insegnanti e allievi; un modo di chiudere comunque il corso di studi e segnare una fine. Meglio che niente, meglio che sparire tutti nel nulla.

Non ci sarà nessuna prova scritta.
Mi dispiace per gli scritti, la sfida del foglio bianco è tutto. Ad esempio il tema è l’unica prova che misura la maturità espressiva (quella sì!) di una persona, la capacità di mettere in parole la complessità di un ragionamento. Sarà per il mestiere che faccio, ma nulla mi sembra meglio che scrivere, per dimostrare chi siamo.

Quest’anno, causa emergenza Covid, tutti sono stati ammessi agli esami. Saranno anche tutti promossi?
Certo! Una pacchia per chi ha studiato poco in tutto il triennio, e una sciagura per chi si è impegnato seriamente e, mi dispiace, rimarrà deluso e avvilito da un esame farsa.

Che anno scolastico è stato questo contrassegnato dalla didattica a distanza per chi è riuscito a farla?
Credo siano stati mesi molto faticosi per tutti. La scuola non si poteva fermare, e non si è fermata. È stata scuola? Direi di no. La scuola è soprattutto relazione, all’interno di quel meraviglioso microcosmo che si chiama classe. L’alternativa era fermarsi, prendere atto del cataclisma che si è abbattuto e accettare la sospensione.

Potevamo permettercelo?
Una nave, di fronte a una tempesta, resta in porto, non s’incaponisce a salpare ugualmente, sfidando le onde. E nemmeno gira in tondo all’interno delle calme acque del porto fingendo una crociera, né simula online la navigazione! Sta buona e ancorata, e aspetta che passi. Lei mi chiede se potevamo permetterci di stare fermi. A quanto pare no. Siamo un mondo in cui chi si ferma è perduto. Dunque abbiamo accettato un surrogato di scuola.

Alla ex insegnante chiedo: la didattica a distanza quanto spazio e senso può avere nel rapporto educativo tra docente e alunno?
Spero che non avrà nessuno spazio, se non per tragiche necessità, dovute al virus. La lezione a distanza può essere utile solo a trasmettere nozioni, mandare avanti il programma e assicurare comunque un barlume di valutazione. La lezione vera non può che essere dal vivo. È avvenimento, e avventura. È una creazione continua, che dipende dagli umori, dai sentimenti, dalle interruzioni, dalle domande, dalla noia e dall’entusiasmo, da tutto ciò che in un’ora avviene tra insegnante e allievi. Imprevedibile. Irrinunciabile.

Tornando all’esame di maturità, è ormai un rito stanco, da abolire, o pensa invece che sia ancora importante nella crescita di un giovane? E se sì, come andrebbe strutturato?
Non abolirei gli esami. È bene che, almeno una volta ogni tanto, il giovane sia messo davanti a qualcuno a cui rispondere di sé. Li farei solo un po’ più veri, questi esami di maturità, cioè più difficili: una vera montagna da scalare, non pareti fittizie e addomesticate. Solo se la prova è reale si può provare soddisfazione e felicità nel superarla. Per esempio la smetterei con i quiz, i test, gli schemini da riempire. Prendiamoli sul serio, i nostri ragazzi!

I docenti che affrontano la nuova scuola, sarà diversa anche da settembre, sono pronti?
Come possono, i docenti, essere pronti per una scuola che non si sa come sarà? Immagino che saranno pronti a fare quel che diranno loro di fare. E temo che diranno loro di continuare a barcamenarsi. Cosa che, peraltro, gli insegnanti hanno continuato a fare, negli ultimi vent’anni di riforme ridicole: se la scuola italiana tutto sommato ha tenuto, è proprio perché la barca, senza capitano, motore né timone, è stata portata a remi da ogni singolo insegnante, che ha fatto quel che poteva, nei modi che ha ritenuto meglio. Certo, causando anche notevoli disparità e una discreta confusione… Meglio sarebbe avere, un giorno o l’altro, qualche dritta sulla rotta!

In piena emergenza il governo ha deciso di potenziare gli organici con 30mila nuovi insegnanti ex precari che saranno assunti il prossimo anno.
Se abbiamo bisogno di nuovi insegnanti dobbiamo rivoluzionare la scuola, pensare a un tempo pieno. Se invece si assume senza avere una logica di quale mondo stiamo progettando, di quali sono le esigenze delle famiglie e dei ragazzi, riduciamo l’istruzione a un pretesto per fare occupazione. Continuiamo a mantenere in piedi un modello di una scuola fatta per gli insegnanti, come purtroppo succede da decenni, piuttosto che per i ragazzi.

Il governo, su pressione della sinistra, ha abolito i voti per le elementari. Hanno ancora senso?
I voti hanno un senso enorme! E andrebbero subito ripristinati. Cos’è questa paura del voto? Che un voto possa offendere, scalfire la serenità dei bambini? È vero il contrario, è proprio dicendo che va bene tutto quel che fanno, che produciamo danni. Un bambino ha bisogno di sapere se fa una cosa bene o male, e un voto è un sistema chiaro e veloce: se fai benissimo ti do 10, se fai male ti do 5, ma quando farai meglio ti darò 7, 8, 10. Vuol dire stimolare a progredire, insegnare ad autovalutarsi e accettare il giudizio esterno. Nella vita non abbiamo problemi a «dare voti»: chi corre più veloce arriva primo e sale sul podio, chi fa un bel film vince l’Oscar. Giudichiamo e valutiamo continuamente, nello sport, nell’arte, ovunque. Perché proprio a scuola non dovremmo farlo?

Cosa sarà la scuola passata l’emergenza? Tornerà quella di prima o invece siamo davanti a un cambiamento radicale?
Dovremmo buttare tutto all’aria e ricominciare da zero. Il Covid ci ha fatto capire definitivamente che cosa le famiglie chiedono alla scuola: essenzialmente un luogo dove lasciare i figli mentre si lavora, dove possano «socializzare», e dove qualcuno si prenda in carico la loro educazione in senso lato, direi totale (educazione civica, alimentare, ambientale, stradale, sentimentale…). Ebbene, prendiamone atto. E facciamola, una scuola così! E spostiamola anche il più possibile all’aperto, per difenderci da altre eventuali epidemie (non sul web, tutti chiusi in casa davanti a un video!). Pensiamo a un «tempo pieno educativo», una scuola «disseminata» e on demand, spaziosa in tutti i sensi, dove l’allievo abbia davvero «spazio» e, a seconda dell’attività che sceglie, vada nel luogo più idoneo: ancora la classe con tanto di banchi e lavagna, se vuol fare studi astratti (filosofia, algebra, letteratura…), e luoghi meno canonici se sceglie corsi di musica, giardinaggio, cucina, falegnameria: prati, giardini, parchi, cortili, piazze, ristoranti, cinema, teatri.
Bisogna diventare visionari. Osare cambiamenti drastici, anche edilizi… Ma temo che ci limiteremo a fare i turni: un po’ a casa a far lezione online, e un po’ a scuola come prima. Abituandoci a poco a poco a una vita sempre più virtuale.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su ItaliaOggi il 17 giugno 2020