L’utopia limitata degli homeschooler in Italia

Per homeschooling o istruzione parentale si intende l’amministrazione di un programma di istruzione offerto in casa invece che in una scuola pubblica o privata; una situazione di insegnamento dove i bambini imparano in casa invece che nelle scuole convenzionali. In tale contesto i genitori o i parenti assumono la diretta responsabilità dell’educazione dei bambini (Murphy 2012).

Il fenomeno, assai minoritario nel nostro paese sta lentamente assumendo dimensioni più rilevanti per una serie di cause che andremo ad analizzare ma gli ultimi anni di pandemia ne hanno probabilmente accelerato la crescita.

Secondo i dati dell’Anagrafe Nazionale degli studenti nell’anno scolastico 2017-2018 gli alunni in istruzione parentale erano 4.169, divisi tra scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado. Nell’anno successivo, il 2018-2019 sono saliti a 5126 e secondo i dati pubblicati di recente dal MIUR e ripresi dall’agenzia Adnkronos sarebbero passati a 15.361 nell’ultimo anno (2020-2021).

La pandemia ha moltiplicato la tendenza dei genitori a istruire i figli in casa per ragioni che potremmo definire pragmatiche.

Tra gli homeschooler, anche in Italia, è possibile includere i genitori che seguono il programma ministeriale e quelli che praticano l’unschooling. Il termine venne coniato negli anni Ottanta da John Holt, insegnante statunitense, che lo usò nella sua rivista-newsletter Growing without schooling per indicare la possibilità di imparare senza andare a scuola. Le prime vittorie legali di famiglie che volevano praticare l’homeschooling fecero notizia negli Stati Uniti e il settimanale “Time” dedicò degli articoli al tema. Holt partecipò anche al “Phil Donahue Show” e pur dovendo fronteggiare un pubblico di persone ostili alla pratica ottenne un successo notevole, che moltiplicò la platea di padri e madri pronte a lanciarsi nella pratica della scuola. Presto i gruppi religiosi protestanti grazie alla maggiore organizzazione e forza economica soppiantarono numericamente i gruppi di genitori libertari e progressisti che sull’onda dei movimenti di contestazione degli anni Sessanta avevano iniziato a educare i figli fuori dai tradizionali circuiti scolastici.

Oggi il termine homeschooling (auto)definisce le famiglie che intendono lasciare i figli liberi di decidere cosa imparare, dove farlo e in che modo eludendo se possibile gli obblighi di esami di idoneità annuali resi obbligatori dalla cosiddetta legge 107 sulla Buona scuola del 2017.

Statofobia, puerocentrismo e neoliberalismo

L’indagine sulle motivazioni dei genitori che compiono questa scelta è un tema che ha prodotto una notevole quantità di studi nel mondo accademico (Van Galen 1991; Steven 2001; Morton 2010: Gaither 2017).

In un saggio dedicato alle ricerche quantitative sulle famiglie di homeschooler negli Stati Uniti, Eric Isenberg ha sottolineato la differenza tra gli approcci etnografici e quelli che si limitano a prendere in esame i dati raccolti da varie organizzazioni pubbliche e private. Secondo Isenberg, uno dei limiti degli approcci quantitativi è il fatto di non essere spesso in grado di cogliere le motivazioni profonde che spingono le famiglie verso questa pratica educativa, a differenza di quanto avviene nel caso dei lavori di taglio etnografico (Isenberg 2007). Un approccio qualitativo mira quindi ad approfondire il tema proprio sul piano delle motivazioni.

In una recente ricerca svolta sotto la supervisione del Dipartimento di Filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata dell’Università di Padova è emersa, almeno nel mondo dei genitori che compiono la scelta per ragioni “ideali” e non pragmatiche (che pure sono interessanti come la presenza di handicap, bullismo o più di recente il timore del contagio) la prevalenza di quella che il filosofo Michel Foucault chiamava “fobia di stato” affiancata a un atteggiamento da parte dei genitori che si è chiamato “puerocentrico” (Di Motoli 2020).

Fare scuola in casa sarebbe secondo alcuni di questi genitori l’espressione più coerente della libertà parentale di scelta. Questi rivendicano il diritto di decidere cosa è veramente meglio per i loro figli sostituendo al paternalismo “artificiale” dello Stato quello “naturale” della famiglia. Per molti genitori si tratta di costruire in casa una sorta di mondo perfetto più adatto per i propri figli, che non impone orari, non impone programmi scolastici e non reprime le istanze dei piccoli in una specie di utopia limitata alle mura domestiche che conserva echi dei testi di Herbert Marcuse.

I gruppi denominati “Stato fobici” hanno diffidenza verso le strutture istituzionali, tendono a definirsi libertari o anarchici e la spinta prevalente che li muove è un individualismo che li porta a non riconoscere o a criticare fortemente il ruolo dei mediatori pubblici e privati siano questi insegnanti, medici o amministratori. Non respingono forme di cooperazione ma rifiutano la sfera pubblica così come organizzata dallo Stato.

I “puerocentristi” sono coloro che pongono il bambino e i suoi interessi al centro del progetto educativo, sull’onda delle teorie pedagogiche attiviste à la John Dewey o à la Maria Montessori. È un tema che emerge spesso nei discorsi di questa categoria di homeschooler, a volte slegato da solidi riferimenti teorici.

Una nuova/vecchia ideologia

Quello che la pandemia ha per certi versi reso più evidente (pensiamo ai dibattiti sulle restrizioni e sul tema dei vaccini) è una sorta di nuova ideologia. Questa linea di pensiero mette insieme istanze tipicamente neoliberali di repulsione verso le istituzioni e il controllo dello stato su questioni educative, sanitarie ed economiche (di destra liberale? di liberalismo prevalentemente negativo?) con atteggiamenti di critica della società e dei dispositivi di legittimazione delle sue strutture tipiche di un pensiero (di sinistra? progressista?) che trova proprio in Michel Foucault il suo fondatore.

Va ricordato che nel caso dei bambini si sostituisce il paternalismo dello Stato a un paternalismo ancora più forte come quello della famiglia e dei genitori che inevitabilmente limitano la possibilità per i loro figli di venire in contatto con realtà, figure e idee differenti rispetto a quelle del gruppo di appartenenza. Qui ci pare che il cortocircuito sia evidente. Per sottrarre il bambino al paternalismo dello stato lo si sottopone ad un paternalismo ancora più forte e invasivo come quello della famiglia.

Fulcro dell’individualismo liberale è, come noto, il principio secondo cui i diritti e le libertà individuali devono essere protetti anzitutto dall’ingerenza dello Stato. Scrive Friedrich von Hayek nel suo testo sul liberalismo: “La concezione liberale della libertà è stata spesso, e con ragione, definita come una concezione puramente negativa” (Von Hayek 2012: 43).

Coloro che ricollegano la pratica dello homeschooling a tale tradizione, come fanno per esempio Romualdo Portela de Oliveira e Luciane Muniz Ribeiro Barbosa (Portela de Oliveira, Muniz Ribeiro Barbosa, 2017), sottolineano come essa rappresenti la declinazione, in ambito educativo, delle teorie dello “Stato minimo” o “ultraminimo” che, sorte già con il liberalismo ottocentesco, hanno influenzato soprattutto la tradizione liberale del secolo scorso.

Nel corso delle ricerche per individuare le ragioni dei genitori homeschooler sono emersi discorsi che denotano una serie di temi che appaiono oggi quelli di una possibile piattaforma politica:

1) resistenza alla cultura dominante

2) sospetto verso le istituzioni, la scuola e i mediatori

3) opposizione alle politiche sanitarie (obbligo vaccinale)

4) attenzione particolare alle istanze dei figli

5) esigenza di controllo dei figli

6) centralità dei valori familiari

7) centralità dei valori religiosi

8) sospetto verso tematiche legate al genere e al contrasto delle discriminazioni

9) riferimento a teorici o particolari educatori

10) definizione del rapporto con la libertà prevalentemente negativo (“libertà da” come la intendeva Isaiah Berlin).

Alla luce di tutto questo non è da escludere che anche nel nostro paese si presenti prima o poi la necessità di un dibattito più ampio sul tema che in Francia ha già prodotto nel luglio del 2021 una legge che ha drasticamente limitato per molte famiglie (erano circa 50mila nel 2020) di praticare l’istruzione parentale. Lo spirito che animava la legge era quello di ostacolare il settarismo che nell’esagono ha prodotto i terribili attentati islamisti degli ultimi anni.

Riferimenti bibliografici

  1. Berlin, Due concetti di libertà, Feltrinelli 2000.
  2. Damele, P. Di Motoli, Homeschooling. Appunti su una pratica educativa al confine tra comunitarismo e individualismo libertarian, in Meridiana n. 94, 2019, pp. 195-2014.
  3. Di Motoli, Fuori dalla scuola. L’homeschooling in Italia, Studium 2020.
  4. DeKoven, Utopia Limited: The Sixties and the Emergence of the Postmodern, Duke University Press, 2004.
  5. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli 2005.
  6. Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli 1997.
  7. Gaither, Homeschool an American History, Palgrave Mc Millan 2017.
  8. Holt, Come apprendono i bambini, Bompiani 2020.
  9. Isenberg, What Have We Learned About Homeschooling?, in Peabody Journal of Education, V. 82 n. 2-3, 2007, pp. 387-409.
  10. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi 1967.
  11. S. Merry, S. Karstein, Restricted Liberty, Parental Choice and Homeschooling, in Journal of Philosophy of Education, V. 44, n. 4, 2010.
  12. Morton, Home Education: Constructions of Choice in International Electronic Journal of Elementary Education 3, no. 1, October 2010.
  13. Murphy, Homeschooling in America: Capturing and Assessing the Movement, Corwin, SAGE 2012.
  14. Portela de Oliveira, L. Muniz Ribeiro Barbosa, Neoliberal as one of the Foundation of Homeschooling, in Pro-Posições, V. 28, n.2, 2017, pp.193-212.
  15. Stevens, Kingdom of Children. Culture and Contreversity in the Homeschooler Movement, Princeton University Press 2001.
  16. Von Hayek, Liberalismo, Rubbettino 2012.



Liberismo sanitario

Ero già stupito a fine ottobre, quando i primi chiari segnali di ripartenza dell’epidemia (incidenza e Rt) vennero ignorati dalle nostre autorità politiche e sanitarie. Da allora non ho fatto che ristupirmi, perché né la scoperta di omicron e della sua trasmissibilità, né i rischi connessi alle vacanze natalizie hanno condotto al varo di misure tempestive e incisive. Ma ieri il mio stupore si è trasformato in incredulità. Nel giorno in cui i contagi hanno superato la cifra record di 200 mila casi al giorno, il Consiglio dei ministri ha deciso che entro lunedì 10 gennaio tutti gli ordini di scuole riapriranno, e che solo nelle scuole materne lo faranno con la cautela minima necessaria, ossia con la regola: se c’è anche un solo positivo in classe la frequenza si interrompe per tutti. Non me lo aspettavo, non tanto perché lo giudico molto imprudente (a decisioni che considero incaute sono abituato da due anni, ma può essere che sia io a essere troppo cauto), ma perché sui rischi di apertura si erano espressi chiaramente molti presidenti di regione e molti dirigenti scolastici. I primi invocando il via libera preventivo del Comitato tecnico-scientifico, i secondi spiegando dettagliatamente perché le scuole e le Asl non erano in condizione di garantire un rientro “in sicurezza”.

Quando succede una cosa che non ti aspetti, la domanda da farsi non è “perché sbagliano?” ma “che cosa gli fa pensare di fare la cosa giusta?” Perché se l’esecutivo agisce come agisce, e il Comitato tecnico-scientifico avalla tacendo, una logica ci deve pur essere. Ma quale può essere questa logica?

A me pare che la logica che guida la filosofia di “apertura a oltranza” poggi su una scelta di fondo, maturata e ribadita innumerevoli volte in questi mesi: lasciamo pure correre i contagi, tanto – grazie ai vaccini – si muore poco e si va poco in ospedale. Questa scelta di “liberismo sanitario”, paradossalmente, è stata rafforzata e non indebolita dalla comparsa della variante omicron, di cui si è preferito sottolineare la mitezza condizionale (“poco più di un raffreddore, se si è vaccinati”) che l’estrema contagiosità. Di qui l’idea che il vero problema sia la resistenza del popolo novax, e che obbligando tutti a vaccinarsi usciremo dall’incubo.

Ma regge questo ragionamento?

Sfortunatamente no. La scommessa liberista è incompatibile con i dati su quattro punti fondamentali.

Primo, l’esperienza degli altri paesi mostra che la vaccinazione di massa è necessaria ma non sufficiente a fermare il contagio. Lo mostra senza ombra di dubbio il fatto che Rt è sopra la soglia critica di 1 in tutte le società avanzate, compresi i paesi che hanno vaccinato tutti i vaccinabili  (Portogallo) o sono molto avanti con le terze dosi (Israele, Regno Unito).

Secondo, noi discutiamo come se il nostro problema fossero i 5 milioni di maggiorenni non vaccinati, o i 2 milioni di ultra-cinquantenni non vaccinati (che sarebbero tenuti a vaccinarsi entro metà febbraio), ma i non vaccinati sono ben 11 milioni, di cui circa 3 non vaccinabili in assoluto (bambini fino a 4 anni), e altri 3 (bambini da 5 a 11 anni) vaccinabili solo nei casi in cui i genitori superassero i loro dubbi, peraltro condivisi da una parte della comunità scientifica e delle istituzioni sanitarie (nel Regno Unito la vaccinazione dei più piccoli non è ammessa). Tutto questo significa che l’obbligo per gli ultra 50-enni, ove venisse rispettato integralmente, coprirebbe circa il 20% della popolazione non vaccinata, mentre più del 50% del problema sta precisamente negli allievi delle scuole materne, elementari e medie, che ci apprestiamo a riaprire da lunedì.

Terzo, oggi il problema principale non è che 5 milioni di adulti non si vogliono vaccinare, ma che 15 milioni di adulti non riescono a farlo, perché gli hub vaccinali non sono in grado di coprire la richiesta di terze dosi per coloro che hanno perso la protezione.

Quarto, il calcolo secondo cui possiamo permetterci di lasciar correre il contagio perché la probabilità di ammalarsi gravemente è bassa, si scontra con l’aritmetica dell’epidemia: se la letalità si dimezza, ma i contagi quadruplicano (cosa per cui bastano 2 settimane), il numero di morti e di ospedalizzati raddoppia, rendendo catastrofica una situazione che negli ospedali di molte regioni è già oggi drammatica.

Ecco perché dicevo che la scommessa liberista di lasciar correre i contagi è incompatibile con i dati, ovvero con quel che si sa dei meccanismi che governano questa epidemia. Qualsiasi cosa si pensi del perché siamo arrivati fin qui, è difficile non prendere atto che lasciar (ancora) correre il virus è un azzardo che non ha alcun supporto nei dati.

Possiamo dolerci della chiusura delle scuole e del ritorno alla Dad, ma se siamo lucidi dovremmo riconoscere che è prima che avremmo dovuto tutelarle, le nostre amate scuole, con le tante cose che sono state invano proposte, dall’aumento delle aule alla ventilazione meccanica controllata. Ora ci resta solo da prendere atto che rimandarne l’apertura, come per primo ha proposto il governatore della Campania, non è certo la soluzione, ma è il minimo sindacale per provare a rallentare l’epidemia.




Lettera di una mamma

A proposto del “danno scolastico”

Professoressa Mastrocola, Professor Ricolfi, buongiorno.

Vi scrivo questa lettera che, temo, sarà piuttosto lunga per il desiderio di portarvi la mia esperienza, da mamma, riguardo al mondo della scuola e forse anche per la necessità tutta mia personale di dare sfogo ad un urlo di rabbia che fino ad ora ho soffocato.

Non so ancora bene cosa ne verrà fuori e se potrà essere di una qualche utilità. Si vedrà. Spero di non tediarvi eccessivamente.

Mi presento. Mi chiamo Sara, ho cinquant’ anni, sono psicologa, ho tre figli maschi, di 24, 22 e 11 anni, i due grandi studiano all’ università e il piccolo è in prima media. Per quanto riguarda la mia famiglia di origine, i laureati si perdono nelle generazioni degli avi. Nella mia famiglia si è sempre data moltissima importanza allo studio, alla conoscenza, alla riflessione, in generale alla cultura.

Ora dunque, i miei figli.

I due più grandi hanno frequentato sempre scuole pubbliche e non sono mai stati aiutati da me né seguiti privatamente. Hanno avuto degli insegnanti molto validi, alle elementari direi addirittura eccezionali e molto, molto esigenti. Usciti dalle scuole medie  sono andati al liceo scientifico, il maggiore a scienze applicate e l’ altro al tradizionale.

Durante i loro anni di liceo iniziarono i miei dubbi.

Il maggiore, che è sempre stato bravino e che, ritengo, abbia anche avuto dei bravi insegnanti, dedicava allo studio un tempo che poteva variare da una a due ore al giorno per non più di cinque mesi ad anno scolastico. Per i miei criteri poco, troppo poco. In diverse occasioni dissi ai suoi professori che dedicava poco tempo allo studio, anche se, confesso, non dissi mai loro di quanto poco si trattasse. Ora ha 24 anni e sta facendo la magistrale di ingegneria, è bravino, sicuramente possiede le “competenze di base”, ma non è riflessivo, non si pone domande, non è curioso, non ha interessi, non legge saggi. Ho provato a riflettere un po’ con lui dicendogli che sicuramente uscirà dall’università con una buona (aiuto, in realtà lo spero!) preparazione tecnica, ma ci sono altre competenze non tecniche da affinare. Di recente ho provato a proporgli un saggio ereditato da mio padre, “Il professionista riflessivo”(tanto per citarne uno). Ma no. Non gli interessa. Sembra che accendere la mente sia una cosa che non rientra nei suoi piani. E non era così. Io, che lo osservo da sempre, direi che si sia appiattito durante gli anni di liceo, che indubbiamente per lui sono stati molto poco stimolanti. Ricordo la sua fatica nell’ andare a scuola, cosa che all’ epoca mi stupiva molto e che non riuscivo a spiegarmi dal momento che non aveva alcun problema di rendimento. Nella vita se la caverà, ma rimane un dispiacere di fondo, un po’ di amarezza.

Quando arrivò al liceo l’altro figlio compresi la differenza fra studiare poco e studiare niente. (Permettetemi una precisazione: non abbiamo geni in famiglia, i miei figli hanno una intelligenza normalissima).

Il secondo dei miei ragazzi, mai stato bocciato, mai stato nemmeno rimandato, una unica insufficienza in pagella in una materia di un primo quadrimestre in 5 anni di liceo, studiava, forse, 15 minuti a giorni alterni (sono certa di quanto dico riguardo allo studio poichè di recente ne ho parlato con entrambi e me lo hanno confermato). Andava a scuola molto volentieri, si trattava di una specie di paese dei balocchi. Nei vari confronti/scontri avuti negli anni la sua risposta è sempre stata che se fosse stato difficile si sarebbe impegnato ma visto che era così facile non ne vedeva la necessità. Come dargli torto! E allora quando fu in quarta liceo, in marzo, mi presentai alla professoressa di matematica e fisica dicendole che mio figlio non aveva neppure i quaderni delle sue materie, che non svolgeva mai i compiti che venivano assegnati per casa e che non apriva un libro. La pregai che lo rimandasse, spiegandole che le facevo questa richiesta perché ero seriamente preoccupata che arrivasse impreparato all’università e rincarai la dose assicurandole che non la avrei denunciata se lo avesse rimandato a settembre (mia mamma ha insegnato italiano per quarant’ anni e sono ben consapevole delle paure degli insegnanti nei confronti dei genitori). Quando la professoressa si riebbe dallo shock, mi disse che non avrebbe saputo come fare, che se a giugno fosse arrivato ad avere la media matematica del 6 lei non lo avrebbe potuto rimandare. A quel punto lo shock fu mio. Pensavo che fossero i professori a decidere quali voti assegnare. Forse non era così. Forse il tutto veniva affidato ad un complicato algoritmo governato da chissà quali fattori! Chiedo scusa, nella foga del racconto mi sto un po’ facendo prendere la mano. E dunque, uscii da quel colloquio con un tale sconforto addosso e con la nettissima sensazione di dover combattere una battaglia presentandomi a lei sola e disarmata. A giugno venne promosso. Per inciso, a fine anno scolastico trovai diversi libri di testo ancora ricoperti con la pellicola di cellofan. L’ anno successivo, la sua quinta liceo, presi una leggera terapia antidepressiva per riuscire a sopportare meglio (infischiandomene un po’) questa situazione di totale, a parer mio, degrado culturale. Alla maturità, che era ancora una buona maturità con i tre scritti, la tesina e l’orale su tutte le materie, prese 80/100. Gli dissi che non lo aveva meritato. La sua risposta, la ricordo come fosse ieri, fu: “Mamma, ma tu non hai idea di come sono messi gli altri” (i suoi compagni di classe). Purtroppo penso avesse ragione; all’ epoca corressi ad una sua compagna di classe, ragazza diligente, bravina e studiosa, la tesina di maturità sull’ anoressia. Francamente era scritta maluccio (grammatica, lessico, sintassi, costruzione del periodo e struttura del testo; insomma, a parte l’ortografia, tutto). Rimasi molto stupita. Ora mio figlio sta faticosamente e con un po’ di ritardo finendo la triennale di matematica.

I miei ragazzi se la caveranno nonostante il liceo a mio parere troppo facile che hanno frequentato. Penso che nel loro caso siano state determinanti le ottime elementari fatte, il teatro per il maggiore e il pianoforte per il secondo oltre alla famiglia comprensiva di “mamma rompiscatole”, come dicono loro.

Ma che occasione mancata il liceo! Che peccato!

Ed ora il piccolo. E qua si passa probabilmente, come dite nel vostro libro, dalla tragedia alla catastrofe.

Il mio piccolo, nato nel 2010, andò alla scuola elementare che avevano frequentato i suoi fratelli. Io ebbi subito il sentore di qualcosa che non andasse, ma pensai che si dovesse semplicemente ambientare. A metà della seconda elementare era diventato estremamente oppositivo (a 7 anni!!) e sapeva a mala pena scrivere e leggere le parole. In classe c’ erano diversi bambini che disturbavano molto, alcuni anche certificati. Il risultato era una bolgia pazzesca e per tenerli buoni le insegnanti facevano fare ai bambini dei “progetti di cucina”, li facevano cucinare! Attività che erano in grado di svolgere tutti i bimbi. Il tutto ovviamente con il benestare di dirigente scolastico e genitori. Se non lo avessi vissuto non ci crederei (per inciso, io ho visto negli ultimi 10 anni un gran proliferare di certificazioni grazie alle quali spesso accade che i bambini possano tranquillamente evitare di impegnarsi per imparare e le maestre possano tranquillamente evitate di impegnarsi nell’insegnare). Ebbene, lo togliemmo dalla scuola pubblica e lo mandammo in terza elementare in una scuola privata religiosa, scuola nella quale ancora vige una certa idea di, passatemi il termine, “sacralità” dell’istituzione scolastica, dove ancora resiste l’idea che a scuola si faccia qualcosa di importante e nella quale gli insegnanti sono tuttora un po’ più esigenti che altrove (io purtroppo penso che gli insegnanti esigenti siano oramai una specie in via di estinzione, come pure i genitori severi). Perdonate il mio divagare. Riprendo. A metà della terza elementare il maestro mi chiese se volessimo far fare al bimbo le prove per la dislessia. Risposi che se anche fosse stato lievemente dislessico, cosa che peraltro non pensavo fosse, non avevo nessuna intenzione di fornirgli un alibi per non sforzarsi e per poter lavorare poco. Ora è in prima media ed ha ampiamente recuperato il distacco rispetto ai compagni, ma, mi verrebbe da dire, solo grazie alla famiglia in seno alla quale ha avuto la fortuna di nascere.

Concludo raccontando brevemente del colloquio che ho avuto con uno degli insegnanti di mio figlio. Qualche giorno fa sono andata a parlare col professore di italiano che è anche il coordinatore di classe. Dopo aver parlato delle solite cose (rendimento, comportamento, socializzazione), ho espresso il mio pensiero rispetto a cio’ che desidererei dalla scuola. Ho esordito così: “Professore, il mio obiettivo non è che mio figlio prenda dei voti altissimi e che venga a scuola sempre preparatissimo in tutto. Paradossalmente, e lo dico mordendomi la lingua, mio figlio potrebbe anche non studiare quasi per nulla una materia e studiarne benissimo un’altra; quello che mi interessa è che impari a studiare, è che colga la differenza di quando è preparato e sa le cose e di quando non lo è e non le sa. Io voglio pensare in grande e il mio obiettivo è che mio figlio diventi uomo e questo non avviene se a scuola gli spianate sempre la strada in tutto, se gli togliete ogni frustrazione, se eliminate ogni esperienza avversa. Mio figlio diventerà grande solamente se imparerà ad affrontare le difficoltà.”

Vi ringrazio moltissimo per la pazienza dimostrata e vi ringrazio per il libro che avete appena pubblicato. Spero che la vostra pubblicazione possa dar luogo ad una riflessione seria sul mondo della scuola, riflessione libera da contese e dispute in un’ottica costruttiva diversa da quella del “voler avere ragione”.

(lettera firmata)




Studenti allo sbaraglio

Oggi le scuole riaprono in dieci regioni, e 4 milioni di allievi tornano in classe. Nei prossimi giorni riapriranno anche le scuole delle altre regioni. Pure nell’Università i corsi stanno per ripartire. Insomma, la macchina dell’istruzione si sta rimettendo in moto.

Con quali regole?

A quel che si apprende dalle linee guida governative si tratta di regole molto deboli, tendenzialmente ancora più lasche di quelle del passato. Il distanziamento fra gli studenti è solo di 1 metro, e non è obbligatorio. Nell’università nessuna norma impedisce di tenere lezioni in aule occupate al 100%, il che mediamente significa distanziamento inferiore al metro. Gli studenti universitari devono prenotarsi ed essere vaccinati per accedere alle lezioni, ma non sono previsti controlli, se non a campione (il che fa presagire una replica dei controlli fantasma negli aeroporti). Le mascherine sono perlopiù obbligatorie, ma non necessariamente ffp2 (bastano le chirurgiche, che come si sa proteggono assai poco). Per il ricambio dell’aria ci si affida all’apertura di porte finestre, strada chiaramente poco percorribile nei mesi più pericolosi (da dicembre a febbraio). Quanto ai mezzi pubblici, dopo aver ipotizzato l’obbligatorietà del Green Pass e il ritorno in grande stile della figura del “controllore”, si è rapidamente fatto marcia indietro perché “è difficile fare i controlli” (esito ovvio e prevedibile, se ci si occupa del problema ad agosto per settembre, dopo un anno e mezzo dall’inizio dell’epidemia).

Come è possibile? Da almeno un anno sappiamo che il virus si trasmette con estrema facilità negli ambienti chiusi, che 1 metro di distanza non basta, e che il ricambio sistematico dell’aria è cruciale. Nonostante ciò, salvo alcune eccezioni (ad esempio quella della Regione Marche), quasi nulla è stato fatto sui due versanti fondamentali: diminuzione del numero di studenti per classe, attraverso l’aumento del numero di aule; aerazione dei locali, mediante filtri HEPA o impianti di VMC (ventilazione meccanica controllata). Eppure sono quasi due anni che è scoppiata l’epidemia, e di tempo ne abbiamo avuto tantissimo, anche grazie al fatto che per molti mesi le scuole e le università sono rimaste chiuse. Perché non è stato fatto niente?

Una risposta possibile è che i nostri politici semplicemente non ne siano capaci. Quando si tratta di varare misure complesse, anziché agire preferiscono tergiversare e, nel frattempo, scaricare gli oneri dell’aggiustamento sul settore privato (e sugli ospedali). E così si chiede alla gente di stare in casa, o agli operatori economici di controllare il rispetto delle regole, ma ci si guarda bene dall’intervenire nei contesti di diretta competenza della Pubblica Amministrazione: uffici pubblici, scuole, università, mezzi di trasporto. Nell’ambito della sfera pubblica, solo agli ospedali viene richiesto di contribuire direttamente alla lotta al Covid, spesso senza fornire loro tutti i mezzi necessari.

Ma c’è anche un’altra risposta possibile. Forse la ragione per cui scuole e università partono con misure di sicurezza davvero molto minimali è semplicemente che i nostri governanti, confortati dai pareri rassicuranti del Comitato tecnico-scientifico, pensano che tali misure siano sufficienti. Insomma, non è che non sono capaci di organizzare interventi complessi, è che sono convinti che tali interventi non siano necessari. Il grandioso obiettivo di non tornare alla DAD (didattica a distanza) sarebbe raggiungibile semplicemente spingendo l’acceleratore sulle vaccinazioni, e attenendosi alle blande misure previste per scuole e università. Secondo questo modo di ragionare, la situazione odierna sarebbe meno preoccupante di quella di un anno fa perché la maggior parte dei cittadini è vaccinata, gli ospedali non sono troppo sotto pressione, i rischi di ospedalizzazione e di morte si sono drasticamente ridotti.

Ma è ben riposta questa convinzione?

Spero vivamente di sbagliarmi, ma penso che non lo sia. E’ vero che, rispetto all’anno scorso, abbiamo l’arma in più del vaccino, ma è altrettanto vero che la variante delta, che ha ormai preso il sopravvento in Italia, controbilancia e verosimilmente supera l’impatto positivo del vaccino. A suggerire questa amara diagnosi sono i numeri di base dell’epidemia: a dispetto del vaccino e di una campagna di vaccinazione più che soddisfacente (giusto nei giorni scorsi abbiamo superato Israele), oggi gli ospedalizzati sono 3 volte quelli di 12 mesi fa, i contagiati giornalieri sono il quadruplo, i morti quotidiani e i ricoverati in terapia intensiva sono addirittura il quintuplo.

In concreto: il rientro dalle vacanze avviene con una circolazione del virus molto più intensa di quella di un anno fa. Né possiamo illuderci che a salvarci possa intervenire, nel giro di pochi mesi, la raggiunta immunità di gregge. Con vaccini come quelli attuali (che proteggono solo in parte dalla infezione), l’immunità di gregge è semplicemente impossibile, anche riuscissimo a vaccinare il 100% della popolazione. E’ abbastanza incredibile che, per riconoscere questa realtà, ben nota agli studiosi dai primi mesi dell’anno, si sia dovuto attendere fino a pochi giorni fa, quando Gianni Rezza (Direttore generale della Prevenzione al Ministero della Salute) ha finalmente ammesso che “l’immunità di gregge non è un obiettivo realistico”, in patente contrasto con centinaia di dichiarazioni e auspici delle autorità politiche e sanitarie nei mesi scorsi.

Ed eccoci al dubbio finale: come è possibile che, sapendo che il virus circola molto di più che un anno fa, e avendo finalmente preso atto che questi vaccini non potranno regalarci l’immunità di gregge, le misure adottate per riaprire scuole e università siano ancora più blande di quelle dell’anno scorso?

Pubblicato su Il Messaggero del 13 settembre 2021




Riaprire le scuole?

Da qualche tempo si riparla di aprire le scuole, o perlomeno le scuole materne ed elementari. Il tema della riapertura delle attività culturali sta particolarmente caro alla sinistra, come quello della riapertura delle attività commerciali alla destra. E’ dunque probabile che, nelle prossime settimane, assisteremo a esperimenti di riapertura su entrambi i fronti.

Ma che cosa ci dicono i dati dell’epidemia?

I dati dell’epidemia parlano purtroppo piuttosto chiaro. Fra le società avanzate, l’Italia continua a primeggiare sia in termini di nuovi casi sia in termini di decessi. Quel che è più grave, però, è il trend: in Italia, come in molti altri paesi avanzati, dopo un periodo di rallentamento dell’epidemia (gennaio-febbraio), è partita una nuova ondata: la terza, dopo quelle di marzo-aprile e ottobre-novembre dell’anno scorso.

Perché, ancora una volta, siamo stati colti di sorpresa? Perché non riusciamo a contenere la circolazione del virus? Perché gli ospedali e le terapie intensive sono di nuovo al collasso?

La spiegazione prevalente, su cui convergono mass media, autorità sanitarie e politici di ogni schieramento, punta il dito sui ritardi della campagna vaccinale. Questa spiegazione trova (apparente) sostegno nel fatto che nei tre paesi che sono più avanti nella campagna vaccinale, e cioè Israele, Regno Unito, Stati Uniti l’epidemia è in ritirata. Ma è una spiegazione fasulla, per almeno due motivi. Primo, perché la inversione delle loro curve epidemiche è avvenuta a gennaio, ben prima del decollo delle campagne vaccinali. Secondo, perché ci sono almeno quattro paesi importanti (Portogallo, Irlanda, Canada, Sud Africa) in cui la campagna vaccinale arranca almeno quanto in Italia ma l’epidemia è in ritirata spettacolare fin da gennaio. In tutti e sette i paesi che abbiamo ricordato l’epidemia è stata riportata sotto controllo nel giro di poche settimane.

C’è anche una spiegazione di riserva, però. Secondo molti la colpa delle difficoltà dell’Italia e di altri paesi starebbe nella diffusione delle varianti, e in particolare di quella cosiddetta inglese. La loro crescente trasmissibilità e letalità sarebbe all’origine della terza ondata, e spiegherebbe l’aumento dei casi e dei morti che stiamo osservando in Italia. Ma, di nuovo, è una spiegazione incompatibile con i dati. La variante inglese si è diffusa innanzitutto nel Regno Unito e in Irlanda, e ciò nonostante entrambi i paesi sono riusciti a far retrocedere rapidamente l’epidemia. Quanto alla variante sudafricana, non ha impedito al Sud Africa di invertire la curva fin dal 12 gennaio, senza alcun aiuto da parte delle vaccinazioni, che sono tuttora abbondantemente sotto l’1% (noi siamo vicini al 15%). Del resto un’analisi statistica più generale, che correla diffusione delle varianti e andamento dell’epidemia, rivela che le differenze nella capacità dei vari paesi di contrastare l’epidemia non dipendono in modo apprezzabile né dalla diffusione delle varianti, né dallo stato di avanzamento della campagna vaccinale.

Spiace doverlo ammettere, ma è inevitabile concludere che quel che ci differenza dai paesi che stanno efficacemente contrastando l’epidemia non è né il ritardo della campagna vaccinale né la diffusione delle varianti, ma sono le nostre politiche e i nostri comportamenti.

In che senso?

In due sensi. Primo, non abbiamo fatto e continuiamo a non fare le molte cose che potrebbero servire a contrastare il virus senza lockdown, dalla messa in sicurezza di scuole e traporti pubblici alle politiche di sorveglianza attiva. Secondo, il nostro lockdown – reso inevitabile dall’inerzia del governo Conte – non è un vero lockdown. Se, usando i dati di mobilità resi pubblici da Google, proviamo a misurare il grado di confinamento effettivamente messo in atto nei vari paesi, scopriamo che nei mesi critici di gennaio e febbraio siamo rimasti a casa circa la metà del tempo dell’Irlanda. Non solo, ma se facciamo una graduatoria dei paesi in base al grado di rispetto del lockdown troviamo ai primi posti precisamente i paesi che più hanno avuto successo nel contrastare l’epidemia: Irlanda, Portogallo, Regno Unito, Sudafrica, Canada, Israele. In questa graduatoria l’Italia è solo 21-esima (su 36 paesi). Detto altrimenti, l’andamento dell’epidemia nelle società avanzate è strettamente connesso al rispetto delle misure di confinamento, specie nei mesi critici di dicembre-gennaio-febbraio (figura 1).

Né le cose vanno in modo sostanzialmente diverso se, anziché guardare ai comportamenti della popolazione, ci rivolgiamo ai provvedimenti adottati dalle autorità politico-sanitarie. Una comparazione sistematica fra paesi mostra che la misura più efficace nel contenere l’epidemia è stata la chiusura più o meno totale delle scuole, seguita dalla limitazione degli spostamenti sui trasporti pubblici: la capacità di contenimento dell’epidemia migliora man mano che le chiusure delle scuole diventano più sistematiche e generalizzate (figura 2).

Questo, purtroppo, dicono i dati se li si analizza senza pregiudizi (cosa sempre più difficile, stante la spinta bipartisan alle riaperture). Dobbiamo concludere che il lockdown è l’unica strada?

No, il lockdown non solo non è l’unica strada, ma è la strada sbagliata. Il lockdown è semplicemente l’arma dei governi inerti, che a un certo punto se lo ritrovano come unica arma disponibile perché – prima – non hanno fatto nulla o quasi nulla di quel che avrebbero dovuto fare. E’ quel che è successo a noi in autunno (ai tempi della seconda ondata), ed è risuccesso quest’anno, quando – non avendo di nuovo fatto nulla – ci siamo esposti alla terza.

E ora?

Ora è tardi, perché nel governo la linea del lockdown breve ma durissimo, invano caldeggiata da Walter Ricciardi (consulente di Speranza) fin da ottobre scorso, è stata definitivamente sconfitta, a favore di una linea del tipo “apriamo appena possibile”, che tradotto in pratica significa: apriamo appena c’è abbastanza posto negli ospedali e nelle terapie intensive per accogliere i nuovi malati. E’ possibile che questa linea, che già ci è costata almeno 40 mila morti non necessari da dicembre a febbraio, ce ne costi ancora “solo” alcune migliaia in più nei prossimi mesi, perché un miracolo farà improvvisamente decollare la campagna vaccinale, abbassando drasticamente il numero di morti quotidiano, e perché nessuna nuova variante riuscirà ad eludere i vaccini.

Ma è anche possibile che le cose non vadano così, e che una campagna vaccinale zoppicante combinata con un’altra estate incauta ci espongano, a settembre-ottobre, all’arrivo di una quarta ondata, ancora una volta amplificata dal ritorno a scuola. Possiamo, almeno questa volta, sperare che si faccia finalmente qualcosa, e che lo si faccia in tempo?

Ad alcune misure si sta già per fortuna pensando, ad esempio a tamponi e test periodici a studenti e professori. Poco si sta facendo, invece, sulle due misure chiave: garantire il distanziamento sui mezzi pubblici e mettere in sicurezza le aule. Eppure, se si vuole davvero riaprire definitivamente le scuole, sarebbero due mosse cruciali. Perché le misure di sicurezza dentro le scuole non sono sufficienti se il contagio avviene fuori, nel tragitto casa-scuola e ritorno. E, quanto alle misure interne, quella cruciale è garantire la qualità dell’aria, o mediante filtri che la depurano, o mediante impianti di ricambio con l’esterno (il costo sarebbe inferiore a quello sostenuto per i banchi a rotelle).

Speriamo tutti che, quest’autunno, l’epidemia sia sostanzialmente sotto controllo. Ma sarebbe imperdonabile che la prossima stagione fredda, per sua natura favorevole al virus, dovesse trovarci ancora una volta spiazzati, traditi dalla nostra attitudine ad auto-illuderci.

Pubblicato su Il Messaggero del 27 marzo 2021