Chiediamo troppo ai ragazzi?

Stanno suscitando una certa inquietudine le notizie che, negli ultimi tempi, riferiscono di giovani in crisi, specie in ambito scolastico. Fra le fonti di disagio, spesso vengono menzionate le eccessive pretese di insegnanti e genitori, ma anche ansie e frustrazioni che possono nascere nel gruppo dei pari. La diagnosi prevalente sembra essere quella che sottolinea l’insostenibilità delle pressioni competitive che il mondo degli adulti eserciterebbe sui ragazzi, chiedendo loro più di quanto possano dare.

C’è ovviamente del vero in ciascuna di queste letture, ma credo sia bene distinguere. I problemi del liceo classico, di cui tanto si parla, riguardano meno del 6% dei ragazzi, e sono di natura molto diversa da quelli degli altri licei e degli istituti tecnici e professionali. Nella mia ormai lunga esperienza di genitore e docente, quel che più mi ha colpito, negli ultimi decenni, non è certo l’eccesso di competitività, che spesso si attribuisce al classico, ma un fenomeno del tutto diverso, per certi versi opposto, che si può osservare a occhio nudo un po’ in tutti gli ordini di scuola: par la maggior parte delle famiglie, da molti anni a questa parte, la stella polare è il binomio serenità + promozione. L’importante non è che la scuola sia eccellente, o che il figlio primeggi, ma solo che sia promosso e non subisca frustrazioni. Se non fosse così, anziché legioni di genitori che se la prendono con gli insegnanti per gli insuccessi dei figli, vedremmo un vasto movimento che chiede alla scuola come mai il livello sia sceso così tanto.

Ed è qui che interviene il problema dei licei classici, e più in generale delle scuole esigenti, che per fortuna esistono anche in altri indirizzi. La strage di ragazzi che abbandonano i licei per passare a scuole più facili si spiega con il fatto che il primo anno di scuola secondaria superiore è anche il primo momento in cui la scuola smette di scherzare, ossia non sottostà all’obbligo non scritto di intrattenere e promuovere (quasi) tutti. Negli anni ’60 questo passaggio alla “scuola vera” avveniva dopo la 5aelementare, e infatti la scuola media inferiore faceva ancora stragi. Mentre oggi il passaggio alla scuola vera avviene solo dopo la 3a media, e a fare stragi ci pensano i licei.

C’è un’importante differenza, però, fra ieri e oggi. Negli anni ’60, il tipico ragazzo che non ce la faceva proveniva da una famiglia povera, in un’Italia che non aveva ancora raggiunto l’unità linguistica (come Tullio De Mauro ci ha mille volte ricordato). Oggi, invece, se un ragazzo non ce la fa, spesso è semplicemente perché la scuola media non gli ha fornito le basi per frequentare un liceo, e meno che mai per frequentare un liceo classico, con il latino e il greco. È innanzitutto da questa rinuncia della scuola media a raggiungere standard minimi di competenza linguistica (una rinuncia aggravata da tre anni di pandemia) che derivano le enormi difficoltà di tanti nostri ragazzi non appena, con la scuola secondaria superiore, incontrano la scuola vera.

Non è tutto, però. Una vasta letteratura internazionale, soprattutto psicologica e sociologica, da almeno vent’anni ci avverte che i figli dei baby boomers, ovvero i genitori dei ragazzi di oggi, oltre ad accettare il declino della qualità dell’istruzione e a rompere la storica alleanza con gli insegnanti, si sono resi responsabili di un altro disastro: la formazione di una generazione fragile, ipersensibile, ultra-bisognosa di protezione, affamata di approvazione, incapace di tollerare gli insuccessi e di gestire le difficoltà. In una parola: una generazione non-resiliente, per usare una espressione che il Pnrr ha reso di moda.

Chiunque abbia frequentato le scuole negli anni ’60 può testimoniare che le pressioni che insegnanti e genitori, allora alleati, esercitavano sui ragazzi e le ragazze erano enormemente superiori a quelle di oggi. Personalmente, ricordo i miei anni di scuola media come anni di terrore, di ansia, di spasmodica attenzione a non sbagliare. Ma anche di grandi soddisfazioni, scolastiche ed extra-scolastiche.

Dunque il punto cruciale non può essere che si chiede troppo ai ragazzi. Il punto, semmai, è che nessuno, allora, pensava di avere “diritto al successo formativo”, alla serenità, a supporti psicologici, al riconoscimento di ogni esigenza o aspirazione. Non lo pensavamo noi ragazzi, non lo pensavano i nostri genitori, non lo pensavano i nostri insegnanti, perché quelle cose non le vedevamo come diritti esigibili, ma come possibili conquiste. Oggi ai ragazzi si chiede molto di meno, ma proprio questo chiedere di meno li rende fragili, perché li lascia disarmati verso gli ostacoli e le asperità della vita, scolastica e non. Siamo sicuri che sia la strada giusta?




Follemente corretto (8) – Presunto colpevole

Supponete che il Parlamento italiano approvasse una legge controversa, ad esempio una norma che regola le adozioni dei bambini da parte delle coppie di fatto (non importa qui che tipo di norma). Credo che nessuno si stupirebbe se varie associazioni di genitori, educatori o altre categorie scendessero in campo, a favore o contro la legge. Nemmeno ci stupiremmo troppo se scrittori, studiosi, docenti, giornalisti, artisti e celebrità varie dicessero la loro, sui quotidiani o in tv. Così come considereremmo normale, in un mondo infestato dai social, che migliaia di utenti di internet fornissero il loro parere non richiesto sulla nuova norma.

Quello che invece ci apparirebbe strano, per non dire assurdo, è che l’amministratore delegato di un’azienda che non ha nulla a che fare con le adozioni – per esempio la catena di supermercati Esselunga – si scusasse con le proprie commesse e i propri impiegati per non aver preso immediatamente posizione contro la legge. Se lo facesse, lo considereremmo fuori luogo. Che cosa c’entra la Esselunga con le adozioni?  E poi, visto che la questione è controversa, perché mai l’amministratore delegato di una catena di supermercati dovrebbe prendere posizione contro? Perché non a favore?

Adesso spostiamoci negli Stati Uniti: lì invece può succedere. Anzi, è già successo. La questione controversa è a che età si può cominciare, nella scuola, a parlare di scelta di genere e orientamento sessuale. Come noto, le associazioni LGBT+ premono perché la scuola ne parli il più presto possibile. Diverse associazioni di genitori, invece, chiedono che venga rispettato l’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani (1948), che al comma 3 recita: “I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli”.

Insomma, un caso perfetto di questione controversa. Su di essa, qualche mese fa, il Governatore (repubblicano) della Florida ha varato una legge che fissa il confine fra la 3° e la 4° elementare: nell’asilo e fino alla terza elementare non si può parlare di temi LGBT+, dopo invece sì può.

Risultato: Bob Chapek, amministratore delegato della Disney (un’azienda che ha una forte presenza in Florida), si è scusato con i propri dipendenti per non aver preso posizione tempestivamente contro la legge. E lo ha fatto con parole patetiche, per non dire piagnucolose: “Avevate bisogno di me come alleato più forte nella lotta per la parità di diritti e io vi ho deluso. Mi dispiace”.

Perché è intervenuto, lui che fa film e cartoni animati? Perché si è sentito in dovere, su una questione altamente controversa, di prendere posizione contro, anziché a favore?

La risposta non è semplice, perché è fatta di due tasselli logici distinti. Il primo è che l’establishment americano (di cui Chapek è parte) è progressista, e per i progressisti americani quella questione non è politica ma etica. Dunque ammette un’unica soluzione, esattamente come – per i fanatici religiosi – la sacralità della vita del feto chiude ogni possibilità di discussione sull’aborto.

Fin qui siamo di fronte a un problema di intolleranza laica, variante illuminista dell’intolleranza clericale. Ma questo spiega solo perché il Ceo di Disney abbia preso posizione contro la legge, anziché a favore. Non spiega come mai si sia sentito in dovere di assumere pubblicamente una posizione, anziché occuparsi del prossimo cartone animato.

Già, come mai?

E qui veniamo al secondo tassello. La ragione per cui, a differenza di quel che accadrebbe in Italia, in America un amministratore delegato si sente tenuto a prendere posizione, è che lì il politicamente corretto è riuscito a imporre una sorta di (folle) presunzione di colpevolezza: dato che discriminazione e razzismo sono ubiqui e “sistemici”, siamo tutti colpevoli fino a prova contraria. E prendere posizione nel modo giusto è l’unica chance che abbiamo per provare la nostra innocenza.




Ma il merito è un ascensore sociale

Poiché l’egemonia incomincia con nuove parole e le parole sono pietre, è con queste che il nuovo governo di Destra/Centro – ma il Centro vi è ormai appeso come una lampadina sull’albero di Natale – sta cercando di lastricare il proprio faticoso cammino. Ecco dunque comparire il MIM, Ministero dell’Istruzione e del Merito, ultima tappa della lunga marcia delle sigle: dal MIP del Regno d’Italia al MEN del Fascismo, al MIP, al MIUR, al MI, al MIM…

E’ bastato dichiarare l’intenzione di appiccicare quella M sul frontone del palazzone di Viale Trastevere 76/A, perché, per riflesso pavloviano, insegnanti, pedagogisti, opinionisti ponessero mano alla pistola ideologica, dalla quale sono usciti proiettili quali “esclusione”, “selezione di classe”, “iniquità”, “diseguaglianza”, “macelleria sociale”, “Don Milani”… “Merito” è risuonata come una bestemmia nel silenzio della chiesa della sinistra.  Si tratta di proiettili a salve, che offrono solo un fuoco fatuo di copertura alla scuola italiana di oggi, che è realmente una “scuola di classe”, una scuola iniqua.

Ci sono due tipi di merito: “il merito del talento” e “il merito della prestazione”.

Quanto al primo: è lo sforzo di investire i talenti che gli individui si trovano nello zaino. Tutti hanno dei talenti, fosse pure solo la capacità di fischiare, come prese atto una volta Don Bosco, parlando con un ragazzo della Torino povera. Vi sono poi quelli che, nel lessico dell’OCSE-Education, sono i “gifted”, cioè  i “plus-dotati” o “iperdotati” o “ad APC” – ad  Alto Potenziale Cognitivo. Costoro hanno dei talenti superiori alla media. In ogni caso, non c’è propriamente merito nell’avere talenti. Esso scatta solo quando compare lo sforzo di farli fruttare, non importa a quale livello sociale la lotteria della vita collochi i talentuosi.

E’ a questo tipo di “merito” che si riferisce l’art. 34, ai commi 3 e 4: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”; “La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.

Appare, dunque, ben strano che oggi alla sinistra, sempre pronta a gridare al tradimento della Costituzione, il lemma “merito” appaia così politically incorrect.

“Il merito” è una conquista delle lotte storiche dei Movimenti operai, fin dalla seconda metà dell’800, così come lo era stata a suo tempo della Borghesia rispetto al sistema feudale dei Ceti. Una volta al potere, la Borghesia aveva tenuto il merito solo per sé. I Movimenti operai socialisti, comunisti, cattolici lo rivendicarono per tutti. Muovendo i primi passi con le Mutue, con le Leghe, con i Fasci, con le Cooperative, con i Sindacati riuscirono a strappare allo Stato liberale i primi provvedimenti relativi all’Istruzione, alla Sanità, all’Assistenza. Diventati partiti politici, rappresentati in Parlamento e entrati nei governi, riuscirono a costruire un sistema di Welfare, che, nel settore dell’Istruzione, dava a tutti, almeno nella proclamazione di diritto, la possibilità di farsi strada fino ai livelli più alti. L’art. 34 ne costituisce, appunto, la piattaforma di diritto più nota e più definitiva.

Facile a scriversi in Costituzione, molto più difficile a realizzarsi nella società. Perché iI sistema scolastico italiano continua a mal/funzionare in modo pre-costituzionale. Non riconosce il merito, lo umilia e lo scoraggia. Non riconosce i livelli diversi, ignora che ciascuno è diverso. Come spiegava don Milani, ipercitato a seconda dei propri comodi, la scuola è di tutti, se è scuola per ciascuno, perché “nulla è più ingiusto che far parti uguali tra disuguali”.

E’ cresciuto il tasso di scolarizzazione, ma sempre troppo basso rispetto al resto d’Europa. La percentuale dei NEET (Not in Education, Employment or Training) è arrivata negli anni al 25,1%, raggiungendo quota 3.047.000. Abbiamo più NEET rispetto a tutti gli altri Stati dell’Unione europea. Il tasso di analfabetismo funzionale sta crescendo, non solo quello di ritorno, ma anche quello in uscita dalla scuola dei quindicenni.

Quanto al “merito della prestazione”. Che succede in Italia? Se sei una donna, piena di talenti e impegnata ad investirli, almeno quanto un maschio talentuoso, non avrai affatto le stesse possibilità né di stipendio né di carriera del suddetto. A scuola no, la donna ha la stessa possibilità di un maschio: cioè zero per tutti! Qui, in effetti, funziona un’altra legge, che parifica maschi e femmine: se sei un insegnante capace e meritevole, non perciò avrai uno stipendio più alto di un insegnante incapace o lavativo. Nell’universo scolastico, dove regna la diseguaglianza reale dei meriti e delle prestazioni, questa viene nascosta sotto il tappeto ipocrita dell’uniformità giuridico-sindacale. Nella vulgata ministeriale-sindacale, tutti gli insegnanti sono bravi allo stesso modo e tutti fanno il mestiere allo stesso modo. Quando Luigi Berlinguer avanzò nel 1999 l’idea di fare uno screening valutativo degli insegnanti, ne fu travolto e licenziato.

Così, in nome della retorica dell’inclusione e dell’eguaglianza, il sistema di istruzione genera dall’interno e sottoproduce esclusione reale, cioè impreparazione, analfabetismo e frustrazione professionale. Ciò accade in misura particolare e massiccia nella scuola meridionale. Nel caso dei ragazzi, tale esclusione rimbalza sulle famiglie. Così quelle abbienti mandano i figli nelle Università del Nord, più hanno soldi e più a Nord li mandano. I ragazzi di quelle povere gironzolano nella piazza del paese con la pensione dei nonni e con il reddito di cittadinanza.

Come si può rimediare alla scuola della diseguaglianza, quella che Luigi Berlinguer ha ancora recentemente denunciato come “scuola di classe”? In due modi.

Il primo richiede riforme istituzionali profonde del quadrilatero del sistema scolastico: Curriculum, Ordinamenti, Politiche del personale (differenziazione di carriere e stipendi, reclutamento diretto da parte delle scuole), Autonomie. Non le ripropongo qui, per l’ennesima volta. Mi limito realisticamente a rilevare che né la destra sociale né quella sovranista, oggi al governo, né la sinistra politica e sindacale né quella populista, oggi all’opposizione, dispongono delle risorse culturali e intellettuali e della volontà politica sufficienti a rovesciare il modello di organizzazione statal-centralistica dell’istruzione, adottato nel 1859. L’assetto centralistico del sistema di istruzione e quello dello Stato amministrativo sono organicamente legati. Non si può voler cambiare l’uno senza voler cambiare l’altro. Finora si intravedono solo delle velleità.

Il secondo modo di contrasto si può praticare qui e ora in ogni istituto scolastico. Ed è decisivo. Gli insegnanti devono valutare e certificare senza indulgenze e senza sconti il livello reale di acquisizione del sapere e della costruzione del carattere dei loro ragazzi. Devono dire la verità ai ragazzi e alle loro onniprotettive e invasive famiglie. Solo la verità meritocratica è inclusiva, perché essa serve a stimolare soprattutto i più poveri socialmente e culturalmente. Sapere e carattere sono i tiranti dell’ascensore sociale. Se gli insegnanti non sono esigenti e rigorosi, quando interrogano o quando sono riuniti in scrutini ed esami, se non applicano severamente il principio meritocratico, finiscono per danneggiare i meritevoli, ma privi di mezzi. Quanto agli immeritevoli, ma ricchi di famiglia, trovano sempre una strada grazie al capitale economico o relazionale di papà. Il lassismo e il facilismo, praticati al fine dichiarato dell’inclusione, si rovesciano in esclusione. Certo, la severità è faticosa e impopolare, gli avvocati di famiglie – abbienti! – sono in agguato, i Presidi sono ormai tutti costretti a dotarsi di avvocati, gli insegnanti sono più tranquilli con il laisser faire, laisser passer.

Perciò, se resta dubbio che il maquillage della M fosse necessario, di certo non è sufficiente. Il Ministro Valditara lo sa.




Aiuta il progetto ARTICOLO 34 – MERITO E PARI OPPORTUNITA’

L’articolo 34 della Costituzione recita:

La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.

Purtroppo, il sistema di sussidi che enti pubblici e privati erogano agli studenti è ancora ben lungi dal garantire il rispetto dell’articolo 34.

Le borse destinate ai “capaci e meritevoli” ma “privi di mezzi” sono ancora troppo poche (specie nella scuola secondaria superiore), di importo insufficiente, e non sempre in grado di individuare i più capaci e meritevoli.

La Fondazione David Hume sta elaborando un progetto per far sì che, nel giro di alcuni anni, il dettato costituzionale venga pienamente rispettato attraverso un sistema di borse di studio ampio, generoso, e in grado di assicurare anche ai meno abbienti il proseguimento degli studi fino ai gradi più alti.

La promozione del merito, a partire dalla scuola, è uno degli strumenti fondamentali per contrastare le diseguaglianze e favorire le pari opportunità. Ma è anche una via per alzare il livello medio di preparazione degli studenti, con benefici in tutti i campi, dalla cultura alla sanità, dall’economia alla qualità della vita democratica.

Il nostro progetto prevede innanzitutto l’istituzione di un FONDO NAZIONALE DEL MERITO, che permetta ad ogni singola scuola di:

  • Premiare, con un riconoscimento simbolico e una piccola somma in denaro (per esempio 100 euro), le allieve e gli allievi che hanno ottenuto i risultati migliori, indipendentemente dalla condizione economico-sociale della famiglia: le ragazze e i ragazzi che ottengono buoni risultati vanno tutti riconosciuti e valorizzati, perché – con il loro impegno e il loro talento – contribuiscono al benessere e al buon funzionamento dell’intera comunità;
  • Dotare di una significativa borsa di studio (per esempio 12 mila euro l’anno) le premiate e i premiati che provengono da famiglie svantaggiate, e rischiano quindi di interrompere prematuramente gli studi, o intraprendere percorsi inferiori alle loro possibilità, dover lavorare per mantenersi agli studi, con grave perdita per loro stessi e per la collettività.

Il FONDO NAZIONALE DEL MERITO, provvisto di una dotazione iniziale dello Stato centrale, dovrebbe essere aperto ai contributi degli altri enti pubblici e dei privati, in particolare famiglie, imprese, fondazioni bancarie, istituzioni e organizzazioni del terzo settore.

L’ipotesi da cui muoviamo è di iniziare dai ragazzi di 3a media e, ogni anno, estendere il sistema ad una o più leve successive, anche in funzione dell’apporto dei soggetti che vorranno contribuire al “Fondo nazionale del merito”. Più generosi saranno i contributi al Fondo, più rapidamente sarà raggiunto l’obiettivo di assicurare un adeguato sostegno a tutti i “capaci e meritevoli”, come avevano previsto i Padri Costituenti.




La vecchia scuola e il disastro attuale. Una riflessione trasversale tra ideologismi, responsabilità pedagogiche, evidenze e buon senso

Questo documento non vuole essere una trattazione sistematica; è una riflessione che prende lo spunto da una recensione al libro di Mastrocola e Ricolfi (Il danno scolastico), abbandonata per cercare relazioni con altri apporti significativi sulla crisi attuale della scuola italiana, alcuni di taglio simile, basati sul richiamo alla scuola di una volta (Galli Della Loggia, Israel), altri di diversa impostazione (Fondazione Agnelli e ricerca evidence-based).

Su quest’ultimo aspetto, di cui si occupa l’Associazione SApIE, dovrò rimandare al documento sulla scuola curato dal sottoscritto e da Roberto Trinchero (SApIE, 2021), oltre a lavori precedenti raccolti nella sezione bibliografica del sito dell’Associazione.
Lo scopo è di mostrare che sono possibili punti di incontro tra posizioni diverse giungendo a proposte concrete, ragionevoli e sostenibili, sulle quali anche la ricerca scientifica più aggiornata ha diversi suggerimenti da offrire, il tutto a patto che si mettano da parte rigide ideologizzazioni e i cliché ricorrenti.

Mi devo scusare con gli autori dei testi citati per aver estratto, arbitrariamente, alcuni passaggi, quelli che più mi sembravano più utili nel ricercare questo possibile tessuto trasversale. Chiedo anche venia al lettore se, data la natura informale di questo documento, ed anche indotto dai frequenti richiami autobiografici presenti nei libri considerati, mi sono consentito qualche divagazione personale inserita nelle note, che, per questo motivo risultano, in qualche caso, debordanti. Spero che ciò possa servire almeno per far comprendere meglio a quei lettori che avranno la pazienza di leggerle, la cornice ideologica -una qualche ideologia di fondo non è mai eliminabile- nella quale mi colloco.

Premessa

Devo ringraziare Marco Gui per avermi indicato una recente recensione al libro di Mastrocola e Ricolfi (Il danno scolastico, la scuola progressista come macchina della disuguaglianza, 2021). Devo conseguentemente allargare il mio ringraziamento ai due recensori, Argentin e Giancola, il cui contributo (Perché un brutto libro fa parlare di sé (e fa danni) ha costituito indirettamente il fattore che mi ha spinto a scrivere queste riflessioni.

Argentin e Giancola esprimono critiche dure verso il libro di Mastrocola e Ricolfi con un tono che appare eccedere quello consueto di una valutazione critica che può anche essere severa quando necessario. Sostengono che il libro non dovrebbe essere letto e si dichiarano quasi costretti a fare la recensione dal fatto “le tesi storte del libretto in questione hanno impoverito e stanno impoverendo il discorso collettivo sulla scuola”. Segue poi una lunga serie di capi di accusa, tra cui la confusione definitoria sulla scuola (democratica/progressista/facilitata/ecc.), la mancanza di contestualizzazione, di cautela necessaria data la autocentratura esperienziale del lavoro, l’ignoranza della vasta letteratura empirica sul tema, l’impiego di modelli ipersemplificati, laddove altri modelli con un numero più ampio di variabili andrebbero a mitigare, se non smontare i nessi causali presentati. Essi spiegano infine il successo commerciale del libro per la sua stessa vaghezza, per il fatto di giocare sulle emozioni e basarsi su considerazioni come quelle secondo cui le conoscenze disciplinari sarebbero più basse, a parità di titolo, di quelle di una volta. Conosco dai lavori uno dei due autori, Argentin, come un bravo ricercatore, per un suo importante contributo sugli insegnanti e l’impegno a dimostrare l’esistenza di una sociologia applicativa di taglio sperimentale sui problemi educativi nel contesto italiano. Critiche così intransigenti da parte di autori qualificati mi hanno sorpreso. Contravvenendo al loro suggerimento mi sono allora affrettato a leggere il libro di Mastrocola e Ricolfi.

Il libro di Mastrocola e Ricolfi

Devo dichiarare che personalmente trovo il libro di gradevole lettura, anche appassionato e avvincente in qualche tratto. Va da sé, ma su questo concorderanno facilmente anche i due recensori, che la modalità della testimonianza o degli sguardi personali (“coi miei occhi”), quando l’oggetto sia significativo, è del tutto legittima a fini di arricchimento conoscitivo, se pur da triangolare con altri dati, e che avanzamenti della ricerca non possano essere certo solo delegati ad indagini empiriche o sperimentali2. Per quanto riguarda il contenuto, le testimonianze di insegnante nella scuola superiore di Mastrocola e quelle universitarie di Ricolfi descrivono nella sostanza percorsi in cui penso si possa ritrovare la maggior parte degli insegnanti della mia generazione, quanto meno ci si ritrova il sottoscritto che, con qualche anno in più di Ricolfi, ha partecipato al movimento studentesco del ‘68, ha vissuto l’una e l’altra esperienza, quella dell’insegnamento nella scuola secondaria prima e nella università poi occupandosi di metodologie e tecnologie didattiche, ma ci si possono ritrovare, credo, tutte le persone che abbiano avuto modo di seguire, anche più indirettamente, cosa è successo nella scuola attraverso figli e nipoti, il confronto di libri adottati e quaderni scolastici nei vari decenni; la conclusione sarà sempre la stessa, in linea con la cornice generale dei due autori: gli apprendimenti hanno subito un costante declino in relazione ad un alleggerimento degli impegni scolastici e degli esami e ad una progressiva deresponsabilizzazione degli alunni.

Non interessa qui andare oltre, mi limito a sottolineare l’attenzione di Mastrocola sulle pratiche di lettura e scrittura come attività fondamentali e sulla natura dello studio come collegamento stretto tra entrambe3, e su operazioni cognitivamente rilevanti come la parafrasi e il distanziamento che la comprensione di un testo, in particolare se antico, richiede. Sono riferimenti banali e scontati? Non credo, in una scuola oggi sovraccarica di stimoli dispersivi e che da qualche decennio ha sostituito gran parte di queste attività con esercizi e quesiti a scelta multipla, mentre oggi anche rilevanti apporti dalle neuroscienze ricordano il valore basilare di queste pratiche fondamentali per la costruzione dalla personalità, con implicazioni non solo cognitive, ma anche emozionali, identitarie e interpersonali, distinguendone inoltre il valore rispetto ad analoghe attività condotte in contesti digitali (Wolf, 2012, 2018). Sono aspetti che non possono essere ignorati in una qualunque seria riflessione che voglia ridare un senso profondo alla scuola.

Non è qui il caso, né sarebbe nelle competenze dello scrivente, di entrare invece nel merito della affidabilità della dimostrazione quantitativa di Ricolfi sull’ipotesi specifica del libro, relativa al danno maggiore che ne ricaverebbero le classi povere, e dunque del fatto che, per la classica eterogenesi dei fini, la scuola che voleva essere più democratica è diventata proprio l’opposto4. Devo dire invece che non sono d’accordo con le critiche alle valutazioni standardizzate (Invalsi), su cui tornerò, e che le tesi del libro francamente non mi appaiono molto originali.

Ma a questo punto, prima di procedere, sarebbe utile che i due pungenti recensori mostrassero più esplicitamente le loro carte, facessero conoscere se, con gli strumenti dell’analisi empirica di cui dispongono, possono negare la sussistenza di questo declino, se possono portare eventuali prove sull’esistenza di competenze nuove e positive che la scuola italiana avrebbe consentito di acquisire nel frattempo, al di là della genericità e retorica con cui solitamente sono presentate le “innovazioni”5 e a cosa si riferiscono parlando di un “discorso collettivo” che verrebbe danneggiato6.

Il declino della scuola: altri lavori

Sul declino della scuola, più o meno corredato da veementi grida di indignazione, esiste ormai una letteratura ampia, che riemerge saltuariamente con documenti o manifesti che occupano per qualche giorno lo spazio dei giornali7. Mi soffermo rapidamente su due testi, a mio avviso i più significativi di questa categoria, che condividono nella sostanza l’impianto principale di Mastrocola e Ricolfi: abbassamento progressivo degli apprendimenti, deresponsabilizzazione degli alunni, scuola ridotta ad un servizio per consumatori, smantellamento progressivo ad opera di una sequenza di “picconate” subentrate soprattutto dopo il ’68, con attribuzione delle responsabilità che, come vedremo, toccano in primo piano la pedagogia.

Un lavoro di rilievo in questa letteratura è quello di Galli della Loggia L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, (2019), a cui il tema è caro e sul quale è intervenuto anche in altre occasioni. L’autore riconosce un grande merito alla scuola che nel passato, soprattutto grazie ad un esercito di diligenti maestre, ha consentito all’Italia di diventare una delle principali economie del mondo; dal ‘68 subentra però il declino progressivo della scuola e del Paese con evidenti correlazioni e connessioni causali tra i due aspetti.

Anche in questo caso trovo assai stimolante l’impianto complessivo ed in particolare la ricchezza di rilievi ed osservazioni che in generale muovono da un comune buon senso da cui, nel parlare di scuola, non si dovrebbe mai prescindere, e sul fatto che la scuola si sia troppo occupata a cambiare piuttosto che a conservare ciò che era già buono, oltre al fatto che si sia prodotta una deriva buro- didattica con un insensato crescente carico per gli insegnanti ed un linguaggio incomprensibile quale quello usato nella folta selva delle indicazioni e circolari ministeriali.

L’autore individua le cause principali del tracollo in un blocco costituitosi tra l’ideologismo progressista di sinistra e un pensiero pedagogico diventato “egemonico”. Oltre ad alcune critiche, come quelle segnalate dall’ottima recensione di Russo (2019)8, credo che la rappresentazione del blocco progressista-pedagogico e l’idea della egemonia che avrebbe esercitato la pedagogia, richiedano almeno qualche osservazione in più (vedi in nota e dopo)9.

Tesi molto simili a quelle di Galli della Loggia e di Mastrocola e Ricolfi erano del resto già presenti in Israel Chi sono i nemici della scienza Riflessioni su un disastro educativo e culturale e documenti di malascienza (2008), un lavoro che include anche un’articolata analisi storica dell’educazione scientifica nel nostro Paese10.

Israel attacca in modo più frontale la pedagogia e dà un volto più concreto alle sue responsabilità. La pedagogia è una “scienza del nulla” che ha favorito il disprezzo dei contenuti disciplinari e delle discipline stesse che dovrebbero lasciare il posto ad attività interdisciplinari, rivolte non all’acquisizione di conoscenze, ma di generiche attitudini ad apprendere qualsiasi cosa (l’imparare ad imparare).

Essa porta a snaturare la funzione dell’insegnante abbandonando quelli che sono i compiti di una adeguata istruzione: “Il docente non è più un insegnante e un educatore ma un animatore culturale, una figura del tutto analoga a quegli animatori delle feste di compleanno dei bambini che facilitano la socializzazione e il divertimento proponendo giochi e guidando la festa nel modo più gradevole possibile” (pag. 62).

[…] Devastante è l’idea che lo studente non vada mai corretto; basta guardare a come scrivono i nostri preadolescenti, lasciati allo spontaneo passaggio dallo scarabocchio alla scrittura senza alcun intervento correttivo: la maggior parte dei maestri non circola tra i banchi controllando come scrivono i bambini, correggendoli attivamente, magari guidando loro la mano. Già perché si tratterebbe di un atteggiamento impositivo e repressivo della spontaneità” (pag. 20). La sua ricostruzione storica della disgregazione della scuola differisce solo per qualche tratto da quelle già considerate: “Il tutto è avvenuto all’insegna di una sorta di americanismo pedagogico in cui hanno trovato sede diverse componenti; un ingenuo puerocentrismo, una falsa mitologia dell’autoapprendimento e della libertà dello studente, una visione aziendalistica e quindi opportunistico consumistica del sistema scuola, crediti e debiti inducono pratiche di basso opportunismo; un voto insufficiente in una materia è come una scatola di pomodori avariata; l’utente protesta con il consumatore” (pag. 68)11.

Le responsabilità della pedagogia

Credo a questo punto necessario introdurre due elementi che vogliono rappresentare un invito ad una revisione critica all’interno dei tre lavori citati. Il primo riguarda le responsabilità della pedagogia, bersaglio comune, il secondo le prove standardizzate. Per il primo devo queste considerazioni se non altro al fatto che nella pedagogia sono cresciuto accademicamente e che reputo che riallacciare un rapporto costruttivo con questo mondo sia importante. Cerchiamo di capire cosa si intende per pedagogia. Incomincio con il dire che parlare di una “egemonia” della pedagogia (Galli Della Loggia), anche se in un senso più modesto di quello gramsciano che l’espressione sembra richiamare, se riferita al peso culturale che la categoria accademica riesce ad esercitare, significa francamente sovrastimarla: è facilmente dimostrabile che nelle decisioni degli ultimi anni i pedagogisti accademici hanno messo poco piede, a fronte di un gioco convulso di altri interessi e urgenze da cui le decisioni sono state travolte, e come del resto le posizioni della pedagogia non siano mai state al centro dell’opinione pubblica. Anche esaminando le riforme politiche, diciamo, pedagogicamente orientate, e i loro esiti, quasi sempre in dissonanza con le intenzioni iniziali, in cui hanno avuto un ruolo centrale autorevoli esponenti della sinistra italiana (Berlinguer, De Mauro, Renzi), di pedagogia non se ne trova molta. A questo livello mi sembra abbiano influito soprattutto altre cornici ideologiche, legate alla visione del rapporto tra scuola e società, scuola e mercato del lavoro, ed altre istanze presenti nella cultura liberale occidentale12.

Un secondo aspetto riguarda le dimensioni pedagogiche e culturali più profonde interne alla nostra personalità. Ci riferiamo all’idea internalizzata dell’autorità e del rispetto delle regole che acquisiamo dalla cultura in cui si vive. Il permissivismo maggiore nel rapporto genitori/figli o educatori/alunni di oggi deriva da qui, è un aspetto connesso ai cambiamenti subentrati nelle condizioni familiari, culturali e sociali degli ultimi decenni (una società sempre più “senza padre”). Ogni insegnante della primaria di una certa età potrà testimoniare come la maggior parte degli alunni arrivi a scuola con minore autocontrollo, più distratta e intollerante ai divieti e alle regole, dati che trovano verifiche empiriche nelle ricerche diacroniche sullo span dell’attenzione (Microsoft, 2015).

Cosa ancora diversa è il riferirsi al mondo vasto e insidioso rappresentato da una sottocultura didattica che attraversa da anni la scuola, in cui confluiscono credenze infondate, estremizzazioni e banalizzazioni di concetti, alcuni dei quali possono avere anche una parte di verità, cliché di moda o formule importate dall’estero quasi mai ben comprese, una vera fiumana di sciocchezze riverberate e conservate nel tempo attraverso la grancassa di una divulgazione didattica di bassa lega13. Tutto quanto abbiamo trovato di “pedagogico” in Israel ed anche, pur parzialmente, in alcuni riferimenti di Galli della Loggia, appartiene a questo livello.

La pedagogia ha le sue colpe. La principale è quella di non aver tagliato chiaramente i ponti con questo magma travolgente di formulette e false credenze, di non aver esercitato sufficiente vigilanza critica su di esso, e di non essersi allo stesso tempo sintonizzata sui problemi centrali della scuola organizzando razionalmente le sue risorse e avanzando proposte significative chiaramente formulate, affidabili e sostenibili.

La dimensione quantitativa e comparativa

Se si vogliono trovare punti ragionevoli di condivisione, su cui basare poi interventi di miglioramento incisivi, occorrono altri elementi di riflessione, partendo innanzitutto dalla necessità di una migliore messa a punto conoscitiva sulle criticità della scuola, sulla loro evoluzione, sulle priorità in cui si presentano. Il secondo aspetto sul quale mi sembra importante richiamare l’attenzione degli autori sinora citati riguarda le prove standardizzate ed in particolare le prove Invalsi, verso le quali converge un proluvio di critiche, sulla scia anche dell’insofferenza presente nella scuola che le vive in gran parte come un obbligo arbitrario e estraneo imposto. Qui occorre un ripensamento critico. E’pienamente giustificata l’ostilità verso un uso indiscriminato del testing didattico14 e del tutto condivisibile che i test implicano limitazioni arbitrarie e che non sono mai “oggettivi”, ma bisognerebbe anche riconoscere che, in particolare quelli internazionali, Ocse-Pisa, Timms, Pirls, si rivolgono a valutare processi cognitivi di alto livello (ragionamento, inferenza, deduzione, interpretazione ecc.), la cui rilevanza è difficilmente disconoscibile, qualunque sia il modello di scuola che si assume, e che sono per questo, a livello internazionale, sempre più considerati buoni predittori dello sviluppo potenziale di un Paese.

Anche i test Invalsi permettono una visione imparziale della nostra scuola strappando il velo di autoreferenzialità che ancora continua ad avvolgere la sua immagine. Essi confermano ormai una situazione disastrosa, mostrando come ad un alto tasso di dispersione esterna, si aggiunga una alta dispersione interna, in matematica e lettura15.

A questi dati, che circolano ormai nelle testate nazionali più importanti, mi permetto di aggiungerne un altro. Si osservi il grafico tratto dalle prove PISA (Fonte OECD 2019) che illustra il trend delle prestazioni nelle scienze che, sempre al di sotto della media europea, vede un tracollo radicale tra il 2012 e il 2018.

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Sono elementi che lasciano intravedere un ben triste avvenire per la ricerca scientifica italiana, una volta fiore all’occhiello del Paese. Gli umanisti quanto meno insorgono, cercano di farsi sentire, ma delle scienze nessuno sembra più occuparsene. In altri Paesi europei un fatto del genere avrebbe visto ministri dell’istruzione sobbalzare sulla sedia e chiamare gli addetti ai lavori per cercare rimedi. Chi attualmente sta sollevando questo problema e quali concrete azioni per invertire la tendenza sono sul tavolo? E le associazioni scientifico didattiche -in Italia pur ce ne sono diverse- si attivano e riescono a far sentire la loro voce?16.

È dunque in primo luogo importante che si favorisca un clima culturale a favore delle prove standardizzate rimuovendo la percezione negativa diffusa tra gli insegnanti e favorendo una diversa cultura della valutazione17. Allo stesso tempo vanno favorite iniziative che aiutino il sistema nazionale di valutazione a migliorarsi valorizzando l’aspetto formativo, dinamico e sfidante della valutazione stessa e non quello puramente certificativo, in linea anche con una docimologia che in Italia beneficia di una tradizione avveduta (Visalberghi, Vertecchi, Domenici) che trova oggi conferma nei lavoro di Hattie, che vede nella qualità del feed-back il fattore più importante per il miglioramento e secondo modelli che già esistono nel contesto internazionale18.

Analisi quantitative sono utili, ancor più se integrate con altre, come fa Gavosto in La scuola bloccata (2022), dove l’autore mira a comprendere i meccanismi del sistema scuola per rimuovere gli inceppi e rimetterlo in moto con iniziative non velleitarie19.
Interessante per il nostro discorso è la riflessione conclusiva, la necessità di fare dell’attenzione sugli apprendimenti la leva per un nuovo più ampio spazio di consenso: “Quello che è finora mancato nelle riforme italiane è un tessuto connettivo che rendesse coerente agli occhi dell’opinione pubblica l’insieme delle misure adottate: questo tessuto connettivo non può che essere il livello degli apprendimenti (idem, pag. 122).

Qui in effetti si può trovare il tema unificante su cui far convergere sinergie provenienti dai mondi della ricerca e dell’opinione pubblica orientando l’attenzione sul Iivello e sulla qualità degli apprendimenti a cominciare da quelli fondamentali, includendo, anche se non in modo esclusivo e unidimensionale, quelli richiesti dalle prove standardizzate internazionali20. Chi ha idee le esprima ma abbandonando del tutto retorica e astrattezza, spiegando perché e come le ipotesi attuative dovrebbero funzionare e in che modo i possibili auspicati miglioramenti possano essere resi visibili, verificabili e sostenibili: non si sfugge a questa logica.

Gli apporti della ricerca educativa che i decisori dovrebbero conoscere

A questo punto si rende necessario inserire un ulteriore elemento, più di pertinenza del sottoscritto e dell’Associazione che ospita questo contributo.
Riuscire ad avere strumenti qualitativi o quantitativi che consentano di fare il punto della situazione ed intendersi sulla natura e priorità delle sue criticità è importante ma poi bisogna passare alla decisione sugli interventi che è ragionevole pensare essere più efficaci nell’invertire la tendenza negativa. Qui si entra nel punto più delicato, anche perché l’esperienza ha ben mostrato ormai che tante “buone intenzioni” naufragano all’atto della pratica, o perché erano sostanzialmente ingenue o intrinsecamente insostenibili, o perché non erano state adeguatamente valutate le condizioni al contorno e le trasformazioni, a volte anche poco prevedibili, che si mettono in atto nella loro implementazione.

Un contributo significativo, inimmaginabile fino ad una quindicina di anni fa, viene oggi dalla ricerca educativa (istruzione e apprendimento come ambiti congiunti) che ha fatto passi considerevoli assumendo connotati scientifici decisamente più solidi21 sulla efficacia degli interventi didattici, su cosa funziona e non funziona a vari livelli (classe, scuola, contesto nazionale), valutata attraverso comparazioni su larga scala (meta-analisi, Systematic Review, Best Evidence Synthesis). Molte delle questioni dell’istruzioni si possono affrontare spostando così il dibattito da un livello opinion-based ad uno evidence-based (EBE, Evidence-based education22). Sempre più in un crescente numero di Paesi ci si interroga su come queste nuove conoscenze possano aiutare i decisori rendendoli “informati da evidenza”.

Non bisogna certo banalizzare il problema pensando che da questi avanzamenti si possa e debba ricavare una lista di istruzioni pronte all’uso. E’ un dato di fatto tuttavia che su molti problemi, in particolare a livello della didattica in classe e dell’expertise dell’insegnante23, si sono raggiunte conoscenze condivise, altamente affidabili, anche come convergenza tra più settori (Instructional Design, studi empirici sugli insegnanti esperti, scienze cognitive, neuroscienze24); alcuni concetti in particolare portano a rivedere quadri concettuali apparentemente dati per scontati e che vanno invece revisionati o trattati con maggiore consapevolezza25 ed è ragionevolmente possibile individuare i programmi specifici e le tipologie didattiche che li caratterizzano che, applicati nelle diverse discipline nelle varie parti del mondo, sono risultati i migliori.

Trovo qui utile soffermarmi sul fatto che la ricerca educativa evidence-based trova sempre più un punto di accordo nella identificazione dei principi comuni e delle conseguenti raccomandazioni fondamentali per garantire la migliore qualità all’interazione didattica, quale si può riscontrare nel formato della “lezione” che qualunque insegnante deve tenere in una classe in ogni parte del mondo26. Alla base si può individuare una rosa di suggerimenti trasversali alle specifiche didattiche disciplinati e anche alle distinzioni tra didattica generale e didattiche speciali27. In Italia un rilevante lavoro di analisi empirica sulla qualità della lezione in classe è stato compiuto dalla Fondazione Agnelli (Esteban, 2021) che ha messo in risalto evidenti limiti nel modo di condurre questo momento fondamentale della attività didattica in modo adeguatamente strutturato e interattivo da parte di grosse frange di insegnanti28, lavoro a cui dovrebbero seguire ulteriori interventi sperimentali sulla formazione volti a dimostrare come si possa, con modelli e pratica guidata, migliorare la qualità delle lezione, in un’ottica di visibilità e rendicontabilità dei risultati. È stato mostrato come un insegnante possegga una propria rappresentazione interna di lezione in cui possono sussistere misconcezioni, quali l’idea che la cosa più importante sia fornire quante più informazioni possibili, la non comprensione del ruolo del feed-back formativo, la stessa difficoltà a distinguere processi cognitivi di livello diverso o la sottovalutazione di momenti ricapitolativi e metacognitivi (Calvani, Marzano, Morganti, 2022; Miranda, 2022).

Il tragitto che parte da una analisi delle cornici mentali presenti nell’insegnante, alla conoscenza di esempi di didattica esperta e alla pratica guidata, fino al riscontro sugli apprendimenti degli stessi alunni, dovrebbe dunque essere il fulcro centrale su cui far convergere ricerca educativa e formazione.

Mettere al centro dell’attenzione i principi basilari su cui si fonda una didattica efficace, esemplificata nella lezione, sposta gli assetti complessivi della formazione, con una serie di ricadute su diversi piani:

  • rimette la formazione in linea con le necessità primarie concrete dell’insegnante interrompendo una storia che l’ha vista negli anni diventare astratta e dispersiva29;
  • stabilisce un più stretto rapporto teoria-pratica e attribuisce un ruolo dinamico al tirocinio valorizzandone la sua capacità propositiva, in quanto ispirata a modelli di qualità più alta della pratica comune30;
  • fornisce un punto di raccordo per le ataviche controversie tra didattica generale e didattiche disciplinari, che hanno visto anche derive disciplinariste con punte sconcertanti31, tra la stessa didattica generale e la didattica speciale32;
  • offre infine una base importante per una risposta seria e praticabile alla questione degli avanzamenti di carriera oggi tanto discussa e irrisolta33.

Una grande assente: l’inclusione

Un accenno finale ad un’altra grande questione trascurata nel dibattito attuale sulla scuola: l’inclusione.
Ritengo che quando Galli Della Loggia inserisce questa voce nella lista degli orpelli della pedagogia si riferisca alle escrescenze burodidattiche che essa ha generato (Pei, Nuovo Pei) di cui personalmente condivido l’astrattezza, e non alla sostanza in sé del concetto. Purtroppo a distanza di cinquant’anni dalle leggi di chiusura delle scuole speciali, nonostante che sul problema dell’inclusione lavori oggi un considerevole numero di ricercatori e che sul piano della conoscenza delle disabilità specifiche si siano fatti passi avanti considerevoli -si pensi a quanto sappiamo su autismo e dislessia- dobbiamo francamente riconoscere che la scuola inclusiva italiana non si è rivelata capace di fornire evidenze sulla sua efficacia34, nonostante una rappresentazione dominante ovattata e infranta solo da qualche voce autorevole e criticamente avveduta (Cottini, Morganti, 2015; Ianes, Augello, 2019).

Non si registra del resto su questo tema né da parte della stampa, né a livello istituzionale e politico una adeguata attenzione. Sembra che la scuola dovrà continuare ancora per anni a gestire soluzioni che possiamo chiamare “a bassa intensità inclusiva”, con una realtà che vede insegnanti di serie B (“di sostegno”), impegnati a cavarsela con espedienti giornalieri in una sorta di badantato, pur sotto il manto formalmente nobilitante delle indicazioni ministeriali (il PEI).

Il problema dell’inclusione si affronta con una visione più flessibile, unita alla capacità di intervenire su diversi piani, logistico, organizzativo, normativo, formativo, che vanno raccordati.
A livello delle concezioni rimane ancor oggi prevalente un’idea banalizzata di inclusione come semplice coesistenza prossimale di tutti i soggetti nella stessa classe indipendentemente dal fatto che alcuni non abbiano le capacità di partecipare alle attività comuni35. Questa idea, mai esplicitata e discussa criticamente, assunta tacitamente, agisce come fattore frenante e paralizza immediatamente anche ciò che il buon senso e le stesse evidenze mostrano (Neitzel et al., 2021), cioè il fatto che in certe situazioni siano utili gruppi e classi di livello; si pensi ai numerosi minori non italofoni che giungono in Italia senza conoscere una parola di italiano e che vengono immediatamente immessi nelle classi in base all’età.

A livello politico è rimasto irrisolto il problema, pur avanzato da tempo, di equiparare la figura dell’insegnante di sostegno all’insegnante ordinario, con due percorsi formativi in parte distinti, in parte integrati36.
Uno degli impegni importanti del Pnrr sta nella edilizia scolastica. Avere aule e spazi è importante ma dovremmo chiederci: per che cosa? La strada non è quella di utilizzarli per una riduzione del numero degli alunni per classe per contrastare le cosiddette “classi pollaio”, un’altra delle etichette di moda tanto pervasive quanto fuorvianti, pensando che questa operazione condotta con taglio omogeneo possa migliorare i livelli degli apprendimenti ed il benessere delle classi37; si tratta invece, mantenendo costante il principio della massima equi-eterogeneità nella formazione delle classi per evitare il formarsi di situazioni ingestibili, di disporre, oltre alle aule per le attività comuni, nella scuola stessa o in ambiti limitrofi, di altri spazi adeguatamente attrezzati dove possano svolgersi attività periodiche in gruppi più ridotti di alunni eterogenei ma anche omogenei, o in rapporto individuale, valorizzando anche rapporti con agenzie e specialisti esterni e considerando non solo i bisogni dei soggetti con disabilità ma anche quelli dei più dotati.

Conclusione

Il declino progressivo della scuola italiana è ormai un dato difficilmente negabile, documentato, oltre che da resoconti personali, da valutazioni internazionali e nazionali, i cui risultati, assai poco confortanti, tendono tuttavia ancora ad essere disconosciuti, da scarso interesse o da processi di occultamento indotti dal presupposto che quanto è stato fatto negli ultimi decenni, all’insegna dell’innovazione e di tanti buoni propositi, non possa che essere stato migliorativo. Autori come Mastrocola e Ricolfi, ma anche prima di loro Galli Della Loggia e Israel, in linea anche con movimenti di opinione più diffusi, hanno più volte espresso critiche e denunce della scuola attuale sottolineando come questa, dal ’68 in poi, abbia inseguito idee astratte di riforma o di innovazione, anziché cercare di conservare il buono che la scuola già aveva, producendo sovraccarico di iniziative dispersive, abbassamento degli apprendimenti fondamentali, smantellamento degli esami e deresponsabilizzazione degli alunni. La scuola che avrebbe dovuto diventare più democratica portando tutti ad alti livelli di istruzione, porta tutti a livelli molto più bassi senza neanche essere più democratica. Bersagli costanti in questi orientamenti sono la pedagogizzazione della scuola, la burocratizzazione didattica, la subordinazione della scuola al mercato, l’autonomia, il sistema Invalsi, in qualche caso anche l’inclusione.

Queste voci, ricche di testimonianze concrete sugli aspetti positivi disconosciuti che la scuola di una volta possedeva, di forte buon senso, attente ad una visione d’insieme del sistema d’istruzione e seriamente preoccupate sul suo futuro, dovrebbero essere ascoltate, analizzate all’interno anche di una riflessione meno ideologizzata, in cui si dovrebbe anche valutare, almeno su un piano storico e critico, se la scelta dell’autonomia per un Paese come l’Italia sia stata effettivamente una buona scelta, fermo restando che su questo quadro di fondo non è possibile tornare indietro e si tratta semmai di controllarne le possibili distorsioni.

Queste posizioni si infrangono invece dinanzi ad un muro di fuoco fatto di formule retoriche ed epiteti che le tacciano di tradizionalismo, autoritarismo, atteggiamento antidemocratico ed altro, messo in campo dai sostenitori dell’assioma innovazione=miglioramento, i quali tuttavia, pur a fronte di una lista innumerevole di esempi, faticano a produrre le evidenze sui miglioramenti che le azioni innovative avrebbero prodotto, superando la retorica di cui si avvolgono e in cui le carte vengono confuse.

Il dibattito si paralizza così su asserzioni contrapposte, anche perché gli spazi che la stampa dedica alla scuola sono ridotti, limitati a quando questa “fa notizia” e purtroppo, in un contesto di sostanziale indifferenza da parte del livello istituzionale e politico.
Occorre in primo luogo ricomporre un tessuto di base per un dialogo critico e costruttivo, trovare convergenze in primo luogo in quegli ambiti in cui la scuola è oggetto di interesse di studio da parte di ricercatori, di intellettuali e di associazioni informate, al di fuori della ridda convulsa del “ciascuno dica la sua” e delle banali amplificazioni che l’opinionismo riceve nel blogging.

Vanno promosse alcune azioni prioritarie comuni verso l’opinione pubblica, come quelle volte a ricostruire una solidarietà scuola-famiglia, in un contesto nel quale i rapporti tendono troppo spesso ad assumere i tratti di un conflitto sindacale38, quelle che mettono al centro l’urgenza di migliorare i livelli degli apprendimenti, quelle che dovranno sostenere decisioni, sicuramente impopolari, ma che qualche ministro prima o poi dovrà prendere con coraggio per ristabilire prove di uscita (scuola media e diploma di scuola superiore) con richieste di livello più alto e comunque non inferiore a quelle di altri Paesi con cui è lecito l’Italia si confronti.

Gli autori che mettono al centro il richiamo alla scuola di una volta, dal canto loro, dovrebbero rivedere alcuni giudizi troppo sbrigativi sull’autonomia, sulle prove standardizzate e l’Invalsi. Sull’autonomia la scelta di fondo è stata compiuta ed è improponibile rimetterla in discussione; però si può e deve intervenire sui dispositivi che ne possono mitigare gli effetti centrifughi, tra questi sono appunto le prove Invalsi, di cui occorre migliorare il ruolo formativo e le Indicazioni nazionali, decisamente condizionate da un eccessivo metodologismo, da scarsa attenzione e oggi carenti in alcune cognizioni fondamentali che ha ricerca ha acquisito.

In generale, anche tenuto conto delle difficoltà a mettere mano agli aspetti di sistema, conviene spostare l’attenzione dall’“involucro esterno” del sistema (apparato giuridico, normativo, cicli, materie insegnate) alla qualità del contenuto dell’insegnamento disciplinare.

Un punto fondamentale di convergenza tra ricerca e opinione pubblica si può trovare nella qualità degli apprendimenti e nella loro valutazione: cosa fare concretamente per migliorarli. In questo quadro si tratta di ricollocare al centro delle indicazioni operative rivolte agli insegnanti attività fondamentali quali la scrittura, la lettura lo studio e della loro formazione, la lezione in aula, considerata e valorizzata nelle sue dinamiche interne e nella sua migliorabilità.

E’ importante sapere che su questi aspetti la ricerca evidence-based può fornire modelli sperimentati, indicazioni della psicologia cognitiva e delle neuroscienze che si sono rivelati affidabili un po’ dovunque nel mondo, capaci di migliorare gli apprendimenti, non solo intesi nella loro versione banalmente nozionale, ma in senso più ampiamente formativo (alti processi cognitivi con implicazioni emozionali e motivazionali) rendendone visibili i risultati.

Buone basi per convergenze ragionevoli e costruttive dunque esistono ma occorre ampliare i punti di vista personali oltre gli steccati ideologici e di appartenenza (istituzionale, accademica), distaccarsi dai luoghi comuni e da una rappresentazione di cosa sia una buona didattica e un bravo insegnante, vincolata all’essere favorevoli ad “innovare” o ad assecondare l’ultimo slogan didattico che appare sulla scena.

Aggiungiamo in allegato alcuni suggerimenti che dovrebbero contribuire ad orientare verso atteggiamenti e scelte operative scientificamente fondate e ragionevolmente condivisibili.