Hume PageHume Page

La frattura tra ragione e realtà 7 / Il fallimento degli esperti di guerra – Parte prima: Ucraina

3 Giugno 2024 - di Paolo Musso

In primo pianoPoliticaSocietà

Dalla pessima gestione del Covid i governanti occidentali e gli esperti che dovrebbero consigliarli sembrano non avere imparato nulla, tant’è vero che stanno ripetendo gli stessi errori anche nella gestione di altre emergenze cruciali, come le guerre in Ucraina e Palestina, dove, continuando così, rischiamo di far vincere i nostri nemici, con conseguenze disastrose. Alla base di tutto c’è sempre la drammatica frattura tra ragione e realtà che caratterizza il nostro strano tempo e da cui non sembrano essere immuni nemmeno gli esperti di geopolitica e gli stessi vertici militari. Qui parlerò dell’Ucraina, mentre in un prossimo articolo mi occuperò della Palestina.

Covid, una lezione non appresa

La quarta di copertina di Covid, la lezione del Pacifico, libro che ho scritto insieme a Silvia Milone e Loredana Parolisi raccogliendo gli articoli più significativi da noi pubblicati su questo tema nel sito della Fondazione Hume, si chiudeva spiegando che riflettere su quanto era accaduto era importante «non solo per capire gli errori commessi, ma soprattutto per non ripeterli quando dovremo affrontare problemi ben più gravi come quelli ecologici, che potrebbero portare alla fine della nostra civiltà».

Ciò continua ad essere vero e negli ultimi articoli ho iniziato a documentarlo, ma nel frattempo si è aggiunto un altro fattore di rischio allora difficilmente prevedibile: la guerra in Ucraina, a cui negli ultimi mesi si è aggiunta quella in Palestina.

Era invece (purtroppo) prevedibile che anche in questo caso gli esperti o presunti tali non ci avrebbero aiutato, come è puntualmente accaduto, se possibile in misura ancor più ampia che col Covid (con poche lodevoli ma isolate eccezioni, come per esempio Vittorio Emanuele Parsi). Ma che fosse prevedibile non lo rende meno grave, né, soprattutto, meno preoccupante, in particolare per quanto riguarda l’Ucraina: perché in Ucraina (e non in Palestina) ci stiamo giocando la pelle e per quel che si vede sembra che nemmeno ce ne rendiamo conto. È quindi fondamentale cercare di capire cosa sta succedendo nella testa di quelli che dovrebbero aiutarci a fare le scelte giuste e invece continuano a portarci sistematicamente fuori strada.

Premesso che alla base di tutto c’è sempre la frattura tra ragione e realtà a cui è dedicata questa serie di articoli, essa però a seconda delle situazioni si manifesta in modi diversi, che andremo ora a discutere. Tuttavia, per molti aspetti anche nelle due guerre in corso si stanno ripresentando dinamiche già viste con il Covid, la cui lezione evidentemente non è stata affatto appresa.

Gli errori sul Covid sono stati causati essenzialmente da cinque fattori:

1) anzitutto le regole perverse del sistema mediatico, che sceglie i suoi ospiti fissi principalmente in base alla loro disponibilità a spararle grosse e ad alimentare la rissa anziché il dialogo;

2) quindi il desiderio di visibilità, che ha spinto molti pseudo-esperti ad accettare di occuparsi di cose che non conoscevano bene e molti veri esperti a piegarsi alle regole del sistema suddetto;

3) la pessima lettura, quando non addirittura la completa non considerazione, dei dati statistici;

4) la conseguente tendenza a trattare come eventi naturali ineluttabili fenomeni che erano in realtà mere conseguenze delle nostre scelte;

5) infine, la non comprensione del fondamentale principio enunciato da Ricolfi per cui «se vuoi fare qualcosa, più tardi lo fai, più costerà caro a tutti» (La notte delle ninfee, p. 21), che ci ha portato a rincorrere gli eventi anziché anticiparli.

Oggi le stesse perverse dinamiche si stanno ripetendo anche nelle altre crisi che ci troviamo ad affrontare, a cominciare dalla guerra in Ucraina, ma in forme, se possibile, ancor più sconcertanti.

Le assurdità sulla guerra in Ucraina

Per esempio, così come era successo col Covid, anche sull’Ucraina ci sono stati diversi casi di presunti “esperti” che in realtà non erano affatto tali, ma come tali sono stati presentati e hanno detto cose che non stavano né in cielo né in terra. Neanche col Covid, però, ricordo di avere mai assistito a uno spettacolo così assurdo come quello andato in scena il 30 ottobre 2022 a Mezz’ora in più, quando Paolo Garimberti e Duilio Giammaria, presentati da Lucia Annunziata come grandi esperti del tema, hanno candidamente ammesso di non avere la minima idea di quale sia il raggio dell’esplosione di un’atomica tattica (cioè di potenza limitata, anche se la sua esatta definizione è in realtà più complicata: vedi Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta-4-il-grande-spauracchio-parte-prima-il-nucleare-bellico/).

Ora, di questo nessuno avrebbe potuto far loro una colpa, giacché, pur avendo entrambi una grande esperienza come cronisti di politica estera (e Gianmaria anche di guerra), non hanno nessuna preparazione scientifica. È invece una colpa (molto grave) che abbiano accettato di parlare di qualcosa che non conoscevano, senza nemmeno fare lo sforzo di dare un’occhiata a Wikipedia, che almeno un’idea di massima su questo punto te la dà. I due, invece, hanno buttato lì un’ipotesi inventata sul momento, ovviamente del tutto sballata (10 km di raggio, mentre non si arriva neanche a 2: vedi l’articolo appena citato), dopodiché si sono messi a discutere su di essa (cioè sul nulla) per almeno dieci minuti, senza il minimo imbarazzo e senza che la Annunziata avesse nulla da ridire, dichiarandosi anzi grata ed entusiasta della grande competenza (!) da loro dimostrata.

Un caso analogo è quello del recentemente defunto Andrea Purgatori, il quale, durante una puntata del suo programma Atlantide su LA7 (credo quella del 29 marzo 2022, ma non sono sicuro), per illustrare le conseguenze di un possibile incidente nella centrale nucleare di Zaporizhzhya ha trasmesso un documentario in cui si ripeteva per ben due volte che a Chernobyl si era verificata un’esplosione atomica, il che non solo è falso, ma è fisicamente impossibile, perché le centrali nucleari usano un tipo di uranio diverso da quello delle bombe (su ciò si veda Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta-5-il-grande-spauracchio-parte-seconda-il-nucleare-civile/).

Un’altra cosa veramente incredibile – e che la dice lunga su come (non) funziona l’informazione dell’era digitale – l’ho scoperta cercando su Wikipedia notizie sui carri armati. Come d’uso ormai da un po’ di tempo, all’inizio della pagina dei risultati appare automaticamente una “tendina” intitolata Le persone hanno chiesto anche, che si aggiorna, sempre automaticamente, in base a quello che uno sta cercando. In essa al quinto posto compare la domanda: «Chi ha i carri armati più potenti al mondo?», a cui viene data la seguente risposta: «Graduatoria nella quale la Russia guarda tutti dall’alto, Stati Uniti compresi. Non soltanto perché l’esercito del Cremlino è l’unico a disporre di due dei migliori dieci tank al mondo, ma anche perché può contare sul migliore, il mezzo che rappresenta l’eccellenza del settore: il T90-MS».

Sono andato a cercare la fonte e ho scoperto che è un articolo del Messaggero del 22 aprile scorso (https://www.ilmessaggero.it/mondo/carri_armati_russia_classifica_mezzi_piu_potenti_t_14-6651976.html#:~:text=Graduatoria%20nella%20quale%20la%20Russia%20guarda%20tutti%20dall’alto%2C%20Stati,settore%3A%20il%20T90%2DMS.), scritto dal giornalista sportivo (!) Gianluca Cordella, il quale a sua volta afferma di basarsi su «una classifica dei carri armati più potenti al mondo pubblicata da Hot Cars», di cui non conoscevo neanche l’esistenza. Sono andato a cercarla e ho scoperto che si tratta di una rivista online sulle automobili (https://www.hotcars.com/) con tendenza al sensazionalismo, visto che la maggior parte dei suoi articoli sono dedicati a “qual è il più … (qualsiasi cosa) … del mondo”. Insomma, una fonte del tutto inattendibile.

In effetti, pure il giornalista qualche dubbio lo avanza, notando che in Ucraina stanno combattendo principalmente vecchi T-72 di fabbricazione sovietica, mentre questi fantomatici super carri armati russi (dopo due anni) non si sono mai visti. Ma poi si adegua a ciò che afferma la classifica suddetta (fatta non si sa da chi né con quali criteri) secondo la quale gli Abrams americani, cioè il modello di punta prodotto dalla prima superpotenza del pianeta, sono appena al nono posto.

Ora, che un singolo giornalista scriva una stupidaggine è un problema suo, ma che Google la faccia propria e la proponga in evidenza come la risposta migliore trovata dai suoi algoritmi è un problema di tutti. Che diventa ancor più grave se si considera che i suddetti algoritmi sono più o meno gli stessi che stanno alla base dei tanto strombazzati programmi di Intelligenza Artificiale e che, funzionando esclusivamente su base statistica, non ci propongono affatto la risposta migliore, bensì la più frequente tra quelle che si trovano su Internet (giacché per la IA ciò che non è su Internet semplicemente non esiste) o, come in questo caso, quella che usa le parole più simili a quelle della loro ricerca, anche se la risposta in questione è stupida.

Ma ancor più preoccupante è che assurdità colossali sono state dette con allarmante frequenza anche da veri esperti di cose militari.

Ho già citato l’incredibile “show” di Andrea Margelletti a Porta a porta, in cui pretendeva che bastasse una sola atomica tattica per spazzare via l’intero esercito ucraino, dispiegato in una zona grande quanto l’intera pianura padana, quando invece ci vorrebbe almeno un quindicesimo dell’intero arsenale atomico russo (vedi ancora https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta-4-il-grande-spauracchio-parte-prima-il-nucleare-bellico/). Ma non si è certo trattato di un caso isolato. Sul rischio atomico, sia come conseguenza di un possibile uso di armi nucleari che di possibili danni alle centrali nucleari ucraine, è stata detta una quantità di sciocchezze da parte un po’ di tutti (su tutto ciò si veda ancora l’articolo appena citato).

Anche su altre questioni tecniche sono state prese cantonate notevoli. Solo per fare un esempio, per parecchio tempo si è continuato a ripetere che i missili ipersonici Iskander, che all’inizio della guerra hanno effettivamente causato danni gravissimi alle città ucraine, erano praticamente impossibili da abbattere. Invece, è bastato fornire agli ucraini dei sistemi antimissile efficaci e degli Iskander non si è più sentito parlare.

Tutto ciò però non è nulla di fronte ai due clamorosi errori di fondo che abbiamo commesso: la sopravvalutazione della reale forza della Russia e la sottovalutazione della reale entità dell’aiuto da dare all’Ucraina.

La sopravvalutazione del nemico

Fin dall’inizio della guerra c’è stata da parte di tutti, militari compresi, una clamorosa quanto irragionevole sopravvalutazione della reale forza dell’esercito russo, che, inspiegabilmente, dura tuttora, a dispetto di tutte le evidenze contrarie.

Per esempio, il generale Claudio Graziano, già capo di Stato Maggiore dell’esercito italiano nonché presidente del Comitato Militare della UE, intervistato da Lucia Annunziata, ha affermato: «Oggi non abbiamo più paura delle forze convenzionali russe. Se ne avessimo parlato a novembre [del 2021] ne avremmo avuto paura. […] Nessuno si aspettava la resistenza che hanno messo in campo gli ucraini» (Mezz’ora in più, 20/11/2022). E addirittura il generale Ben Hodges, ex comandante delle forze USA in Europa, ha confessato stupito: «Non credevo che la Russia avrebbe fatto così male»(Mezz’ora in più del 06/11/2022).

Ora, come è possibile che perfino quelli che avevano la responsabilità diretta della difesa militare dell’Europa (e che quindi avevano anche accesso alle migliori informazioni disponibili, comprese quelle supersegrete) si siano sbagliati così clamorosamente nel valutare la forza di quello che, nonostante le relazioni relativamente pacifiche che si erano stabilite negli ultimi anni, restava pur sempre, almeno potenzialmente, il nostro più pericoloso nemico?

Oltretutto, non era difficile capire che l’esercito russo era in realtà una tigre di carta e che con solo un po’ di aiuto da parte nostra gli ucraini avrebbero potuto fermarlo. Io, per esempio, senza avere accesso a nessuna informazione riservata, ma con una semplice analisi di pochi dati basilari facilmente reperibili su Internet, lo avevo detto già dopo un paio di settimane (si veda il mio articolo https://www.fondazionehume.it/reality-check/e-se-sulla-no-fly-zone-avesse-ragione-zelensky/). Era infatti evidente che, se l’esercito russo era dieci volte più grande di quello italiano, ma spendeva per il suo mantenimento appena il 50% in più, doveva necessariamente essere obsoleto, dato che la tecnologia avanzata costa.

E non era solo la tecnologia ad essere obsoleta, ma anche la strategia, che era ancora basata su quella messa a punto nell’URSS degli anni Settanta, guarda caso proprio quando Putin serviva come ufficiale del KGB. Quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina ho avuto un fortissimo senso di “dejà vu”, ma non riuscivo a ricordare dove l’avessi visto. E poi ho capito: non era qualcosa che avevo visto, ma qualcosa che avevo letto.

Infatti, il modo in cui l’esercito russo si muoveva sembrava tratto di peso dal libro La terza guerra mondiale, scritto nel 1978 dal generale inglese John Hackett, ex comandante delle Armate del Nord della NATO, insieme ad altri ufficiali e analisti americani ed europei. Benché scritto in forma di romanzo, è in realtà un saggio poderoso (435 pagine), basato su documenti segreti sovietici trafugati dal nostro controspionaggio e pensato per convincere i paesi europei a ridurre il preoccupante gap rispetto all’URSS nelle armi convenzionali (l’obiettivo venne almeno in parte raggiunto e, anche se non lo sapremo mai con certezza, ciò potrebbe essere stato decisivo per dissuadere i sovietici dall’attaccarci).

Nel libro Hackett spiegava come nel 1975 la dottrina militare russa, da sempre incentrata su attacchi in massa di carri armati, a seguito della comparsa di efficaci armi anticarro era stata integrata con «una combinazione di tiro di distruzione di artiglieria e di attacchi aerei al suolo […] e […] azioni ad alta velocità, […] in grado di eliminare, con un attacco preventivo, la minaccia dei missili guidati e dei pezzi controcarro per i carri dell’ondata successiva». Per questo si prevedeva di usare delle colonne miste, composte da carri armati, pezzi di artiglieria leggera e mezzi blindati per il trasporto di unità di fanteria, con un limitato supporto aereo.

Ebbene, l’invasione dell’Ucraina si è svolta esattamente così. Ma questa nuova dottrina non era mai stata testata sul campo e (per fortuna) alla prova dei fatti si è dimostrata inefficace: i russi non sono riusciti a distruggere i missili anticarro nemici in misura significativa e così gli ucraini hanno fatto il tiro al bersaglio sulle lente e pesanti colonne russe, facendole letteralmente a pezzi (non dimentichiamo che il territorio a nord di Kiev è stato interamente liberato dagli ucraini usando solo le armi che già avevano prima dell’inizio della guerra, moderne, certo, ma non modernissime: quelle più avanzate sono arrivate solo alcuni mesi dopo).

Di fronte a questa disfatta, ancor più grave in quanto totalmente inattesa, i russi hanno reagito nel solo modo che conoscono, secondo una tradizione ancestrale che risale addirittura al tempo dei primi Zar: con la forza bruta, triplicando la massa di truppe sul terreno. Per un po’ questo ha funzionato, ma, siccome seguivano sempre la stessa strategia antiquata, non appena abbiamo fornito agli ucraini un po’ di tecnologia davvero avanzata i russi hanno subito un’altra disfatta, ancor più grave, perdendo in pochi giorni, nell’estate del 2022, gran parte dei territori che avevano conquistato in mesi di sanguinosi combattimenti e a prezzo di perdite terribili.

Eppure, incredibilmente, questa irragionevole sopravvalutazione della forza militare della Russia è continuata, così come è continuata questa sorprendente cecità mentale, per cui molti sembrano incapaci di riconoscere per quello che è ciò che sta accadendo proprio sotto il loro naso.

Così, per oltre due mesi, quasi tutti gli esperti di geopolitica e di strategia militare avevano ironizzato sulla controffensiva ucraina “che non partiva mai”, senza rendersi conto che quello a cui stavano assistendo era esattamente lo stesso che avevano fatto gli americani all’esercito di Saddam Hussein durante la prima Guerra del Golfo: prima una lunga opera di distruzione delle infrastrutture logistiche e poi una rapidissima avanzata contro un esercito ormai non più in grado di combattere (anche i tempi, tra l’altro, sono stati abbastanza simili: 5 settimane di bombardamenti e 4 giorni di offensiva terrestre). Ma neanche questo è bastato a smuoverli dalle loro posizioni preconcette.

Per fare solo un esempio particolarmente clamoroso, a un Porta a porta del giugno 2023 (non ricordo esattamente quale) ancora Margelletti, Lucio Caracciolo e Dario Fabbri hanno reiteratamente sostenuto che il prolungamento della guerra favorisce la Russia perché avendo una popolazione più numerosa poteva mettere in campo più soldati e più mezzi di quanti noi possiamo fornire all’Ucraina. E a nulla valeva che un sempre più stranito Bruno Vespa cercasse vanamente di far loro notare come fino ad allora la realtà aveva mostrato esattamente il contrario.

Un altro esempio, molto più recente, è quello di Avvenire online del 22 febbraio scorso. In un articolo introdotto in sommario dalla roboante affermazione che «tra gli analisti c’è una certezza: nessuno potrà mai vincere la guerra in Ucraina», Giorgio Ferrari, che pure ha una lunghissima esperienza come cronista di guerra, sosteneva che «non è solo questione di munizioni, di armamenti, ma di un elementare calcolo che ogni professionista con le stellette sa fare: per ogni colpo sparato dai cannoni ucraini, la Russia ne spara dieci».

Ora, di queste due affermazioni la seconda è vera ma fuorviante, mentre la prima è semplicemente priva di senso. Cosa vuol dire, infatti, quel “mai”? C’è forse qualche legge di natura che lo impedisce? Non c’è nulla di ineluttabile in ciò che sta accadendo in Ucraina. La situazione attuale è stata determinata dalle nostre scelte: cambiandole, cambierà anche la situazione. Il problema è se si vuole cambiarle.

Quanto alla seconda affermazione, per fare il calcolo in realtà basta un bambino delle elementari. Il “professionista con le stellette” servirebbe invece per spiegare che, contrariamente a ciò che pensa Ferrari, il calcolo in questione è irrilevante, perché sparare dieci o anche cento colpi contro uno non serve a niente se il nemico ha cannoni con una gittata di molto superiore ai tuoi e quindi può distruggerti prima ancora che tu possa inquadrarlo nel mirino. Questo è appunto il caso degli Abrams rispetto ai carri armati russi, checché ne pensi Hot Cars. Il problema è che finora di Abrams (e, più in generale, di carri armati moderni) agli ucraini ne abbiamo fornito solo una manciata: se gliene avessimo dati qualche centinaio, la guerra starebbe andando ben diversamente.

Su questa base di pessima comprensione si innesta poi l’articolo di Giuseppe Notarstefano, presidente nazionale della Azione Cattolica, e Sandro Calvani, presidente dell’Istituto Toniolo, due pezzi da novanta del laicato cattolico italiano (https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/dopo-due-anni-di-guerra-in-europa-venuta-lora-di-negoziati-di-pace). Dopo avere anch’essi diligentemente ripetuto il mantra circa il presunto «flusso senza precedenti di aiuti militari occidentali» e avere ribadito che «allo stato attuale delle cose, risulta estremamente improbabile un’affermazione militare di uno dei due contendenti», i due si chiedono che fare (dando per scontato che provare a cambiare “lo stato attuale delle cose” non rientri fra le opzioni). E quale geniale soluzione tirano fuori dal cappello? Ma è ovvio: «L’apertura di negoziati ufficiali presso la sede ONU di Ginevra»! Eh, già, chissà come abbiamo fatto a non pensarci prima…

Dopodiché i due si dilungano a illustrare tutte le meravigliose opportunità che questa «buona pratica» offrirebbe (si noti la terminologia presa di peso dall’insopportabile burocratese politically correct, una “cattiva pratica” che il Covid ha contribuito moltissimo a diffondere). Purtroppo, però, non dicono una sola parola sui mezzi che andrebbero usati a tale scopo, senza la definizione dei quali i fini proposti restano parole vuote (dire che si «potrebbero offrire forti incentivi economici e politici per convincere Russia e Ucraina» non chiarisce nulla, perché sono parole così generiche da risultare anch’esse vuote).

Infine, dopo aver riconosciuto che «forse tali negoziati potrebbero durare anni», concludono che «ciononostante sono sempre preferibili allo status quo, in cui parlano solo le armi», senza però spiegare (anzi, senza neanche chiedersi) che cosa si dovrebbe fare nel frattempo, dato che, quand’anche per miracolo i negoziati iniziassero davvero, fino a quando non si giunga a un accordo continuerebbero comunque a parlare le armi. Se questo è il meglio che sa esprimere il mondo cattolico italiano (e, temo, non solo italiano), siamo davvero messi male…

Ora, anche da questa breve ma abbastanza rappresentativa rassegna mi pare evidente che quello che si continua a non capire (o a far finta di non capire) è che nella guerra moderna la superiorità numerica non conta nulla: quella che conta è la superiorità tecnologica, che per fortuna è ancora a nostro favore. Per capire fino a che punto, possiamo guardare alle ultime guerre “tradizionali” (cioè contro un esercito e non contro la guerriglia) combattute dalla NATO, in particolare la Guerra del Golfo, perché l’esercito iracheno era più o meno delle stesse dimensioni e usava più o meno gli stessi armamenti, in gran parte ancora di fabbricazione sovietica, del contingente russo in Ucraina.

La coalizione guidata dagli americani aveva un numero di soldati (640.000) di poco superiore al mezzo milione schierato da Saddam Hussein e solo 250.000 vennero effettivamente impiegati nella campagna di terra. Ciononostante, l’esercito iracheno venne completamente distrutto nel giro di appena cento ore. La coalizione perse in combattimento meno di 200 uomini, mentre le perdite irachene sono tutt’oggi molto controverse, ma anche secondo le stime più prudenti furono almeno 20.000 e secondo altre arrivarono addirittura a 200.000, con un rapporto che anche nel caso più favorevole è di oltre cento contro uno e in quello più sfavorevole addirittura di mille a uno.

Quanto ai carri armati, in quella che fu la più grande battaglia di mezzi corazzati della storia, nota come 73Easting, gli USA persero appena 36 veicoli, di cui solo 4 Abrams, distruggendo 1350 carri armati iracheni dei circa 2000 mandati da Saddam a combattere nel deserto (perlopiù vecchi T-72 di fabbricazione sovietica, proprio come quelli che agiscono in Ucraina), più migliaia di altri mezzi militari di vario tipo, per un totale di 4193: di nuovo, cento a uno (cfr. Stephen Biddle, Victory misunderstood, https://doi.org/10.2307/2539073).

Comunque la si voglia mettere, è chiaro che non fu una guerra, ma una rapida ed efficiente campagna di annientamento di un nemico del tutto impotente. E più o meno lo stesso rapporto di (almeno) cento a uno lo troviamo anche nel 1999 nella guerra contro la Serbia (1031 morti contro 2) e nel 2003 nell’invasione dell’Iraq (da 30 a 45 mila morti contro 238).

Si obietterà che da allora gli altri paesi hanno fatto dei progressi. Ed è vero. Ma questo non vuol dire che abbiano ridotto le distanze in maniera significativa, perché noi ne abbiamo fatti altrettanti, se non di più. Solo la Cina è riuscita ad avvicinarsi, anche se resta ancora lontana (per fortuna, data la natura criminale del suo regime, che troppo spesso dimentichiamo). Ma non certo la Russia, che è sostanzialmente un paese sottosviluppato: basti dire che il bilancio della NATO del 2023 è stato di 1100 miliardi di dollari (www.nato.int/nato_static_fl2014/assets/pdf/2024/3/pdf/sgar23-en.pdf), che equivale a circa la metà dell’intero PIL russo dello stesso anno.

Di conseguenza, se la guerra fosse davvero troppo costosa per noi, come sostengono i suddetti esperti o presunti tali, lo sarebbe a maggior ragione per la Russia. È vero che, essendo un dittatore, Putin, a differenza di noi, può permettersi di finanziarla anche a costo di affamare il suo popolo, ma le sue risorse sono incomparabilmente minori: neanche usando tutto il denaro dello Stato per la guerra (cosa che, per ovvie ragioni, neppure lui può fare) sarebbe in grado di tenere il nostro passo. Inoltre, non è solo questione di soldi: serve anche tempo. Per ricuperare un ritardo tecnologico come quello accumulato dalla Russia ci vogliono decenni, anche investendo una fortuna.

A questo punto mi immagino che molti si staranno chiedendo come è possibile, se quello che sto dicendo è vero, che la guerra non sia ancora finita.

È una domanda giusta, perché in effetti è esattamente così: la guerra poteva – e quindi doveva – finire già un anno fa, con la totale distruzione dell’esercito russo, la liberazione di tutta l’Ucraina e la caduta (e conseguente morte) di Putin. E allora perché non è successo?

Qui viene in ballo il secondo, gravissimo errore che abbiamo commesso e che, purtroppo, continuiamo a commettere: la sottovalutazione dell’aiuto da dare all’Ucraina.

La sottovalutazione dell’aiuto

La risposta alla domanda di cui sopra è infatti tanto semplice quanto sconcertante: la guerra non è ancora finita perché quella che abbiamo speso finora per l’Ucraina non solo non è affatto una cifra enorme, ma è una cifra semplicemente ridicola.

In genere si ritiene che nei primi due anni di guerra abbiamo fornito aiuti militari per circa 70 miliardi di dollari. Può sembrare tanto, ma si tratta di appena la metà di quanto è costata la Guerra del Golfo (61 miliardi di dollari di allora, equivalenti a 137 miliardi di oggi), che durò solo sei settimane (dal 17 gennaio al 28 febbraio 1991), mentre due anni equivalgono a centoquattro settimane.

Ciò significa che in proporzione abbiamo fornito agli ucraini un aiuto 35 volte inferiore, anche se in realtà sarebbe bastato molto meno, purché dato subito, perché in tal caso la guerra sarebbe stata vinta rapidamente e sarebbe quindi durata molto meno. Pur con questa precisazione, tuttavia, è evidente che gli aiuti che abbiamo fin qui dato all’Ucraina sono di gran lunga insufficienti e a volte addirittura surreali: per esempio, è di questi giorni la notizia che il Belgio si è impegnato a fornirle 30 cacciabombardieri F-16 per… il 2028!

Inoltre, la gran parte di questi soldi (intorno ai 50 miliardi) sono stati messi dagli USA. Considerando che gli altri paesi membri sono 28 (escludendo i neoarrivati Svezia e Finlandia e la Turchia, che nella NATO ormai ci sta solo nominalmente), ciò significa che in due anni ciascun paese membro ha speso in media poco più di 700 milioni, ovvero circa 360 milioni all’anno. E infatti il 28 marzo scorso, durante il question time alla Camera, il Ministro della Difesa Guido Crosetto ha dichiarato che nel 2023 l’Italia ha dato all’Ucraina 417 milioni di euro di aiuti militari (non sono riuscito a trovare il dato del 2022, ma è ragionevole pensare che sia simile). In altre parole, finora per fermare Putin abbiamo speso appena un decimo di quello che ci è costato il reddito di cittadinanza. E gli altri paesi europei hanno fatto più  o meno lo stesso.

Confesso che quando mi sono finalmente deciso, dopo mesi di crescente disagio, ad andare a vedere le cifre ho sperimentato di nuovo lo stesso senso di rabbiosa incredulità che avevo provato quando ero andato a vedere per la prima volta i dati della OMS sul Covid, rendendomi conto che raccontavano una storia diametralmente opposta a quella che ci andava propinando la stessa OMS insieme a (quasi) tutti i governi del pianeta, senza che nessuno sentisse il bisogno di andare a controllare. Ma stavolta è stato anche peggio, perché allora almeno i dati erano molti e qualche calcolo, sia pur elementare, bisognava farlo, mentre in questo caso basta cercare pochi numeri (che si trovano in cinque minuti) e metterli a confronto così come sono, senza nessuna elaborazione, per capire come stanno le cose. Eppure, una volta di più, sembra che nessuno l’abbia fatto né abbia intenzione di farlo.

E così, proprio come col Covid, non guardare i numeri impedisce di capire la reale dimensione delle cose di cui si parla. È chiaro infatti che con cifre del genere i rifornimenti di armi davvero ad alta tecnologia (contro cui i russi sono impotenti, quale che sia la loro superiorità numerica) non possono essere stati molti. Ed è proprio così. Oltre ai sistemi antimissile, gli unici che gli abbiamo finora fornito sono stati i micidiali Himars, missili teleguidati a lungo raggio che hanno permesso agli ucraini di colpire i depositi di armi e munizioni e le linee di rifornimento nelle retrovie russe, consentendo loro di lanciare la spettacolare controffensiva dell’estate 2022, che ha liberato gran parte dei territori conquistati a partire dal 24 febbraio.

Da allora, i russi sono stati costantemente costretti a difendersi e hanno continuato a perdere terreno, anche se molto più lentamente. Come è logico, dato che nel frattempo gli ucraini non hanno più ricevuto nessuna fornitura militare in grado di produrre un nuovo salto di qualità e a causa di ciò i russi hanno avuto il tempo di fortificare a dovere le zone ancora sotto il loro controllo. Solo nelle ultime settimane hanno ricominciato ad avanzare, benché di poco, guarda caso proprio in coincidenza con il blocco degli aiuti USA da parte dei repubblicani.

Ma anche questo dato, come tutto il resto, viene sempre presentato in modo gravemente distorto, perché si parla sempre della percentuale di territorio ucraino oggi controllato dai russi, ma non si spiega mai che gran parte di esso (tutta la Crimea e la maggior parte del Donbass) era già in mano loro prima dell’inizio della guerra, essendo stato annesso nel 2014. Al contrario, di quello che avevano conquistato nella fase iniziale dell’invasione del 2022 gli è rimasto ben poco. Alimentare la confusione su questo punto fa apparire l’azione degli ucraini molto meno efficace di quanto sia, il che induce nella nostra opinione pubblica dubbi ingiustificati sull’utilità degli aiuti militari.

Tutto ciò è stato spiegato molto chiaramente da Garri Kasparov, l’ex campione mondiale di scacchi che dal 2005 è diventato uno dei pochi oppositori democratici di Putin, contro il quale si candidò alle presidenziali del 2008, vedendosi però costretto a rinunciare per le intimidazioni del regime. Recentemente Putin lo ha addirittura inserito nell’elenco dei terroristi (!) ricercati dalla Russia per le sue dichiarazioni che lo incolpavano per la morte di Navalny. In un articolo del 6 novembre  2023 (https://www.lastampa.it/esteri/2023/11/06/news/dallucraina_al_medio_oriente_i_passi_falsi_di_biden_in_politica_estera-13838505/) Kasparov scriveva: «Il temporeggiare dell’Amministrazione Biden ha avuto pesanti conseguenze. Se gli Stati Uniti avessero procurato all’Ucraina il sistema missilistico Atacms, gli F-16 e i carri armati fin dal primo giorno, avrebbero sconfitto l’esercito russo sul campo e vinto la guerra prima che i soldati russi si barricassero. Adesso, dopo due anni di combattimenti e dopo mezzo milione di morti, la Russia si è arroccata in profondità e ogni avanzata ucraina avverrà a carissimo prezzo».

Cionondimeno, è vero, purtroppo, che il prolungarsi della guerra rischia di favorire la Russia, ma per un motivo molto diverso da quello addotto dai presunti (e presuntuosi) “esperti”. Il vero problema è che col passare del tempo il nostro già timido appoggio all’Ucraina sta diventando sempre più timido.

Ora, questo si deve anzitutto a un’opinione pubblica composta in gran parte da persone viziate e immature (la “società signorile di massa” di Ricolfi), abituate ad avere tutto e subito, senza dover mai fare nessun vero sacrificio e ideologicamente avverse all’idea stessa che possa esistere una guerra giusta. Ma ancor di più si deve a discorsi irresponsabili di questo tipo, che inculcano negli ascoltatori l’idea che abbiamo già fatto uno sforzo economico gigantesco che non possiamo più reggere a lungo, onde per cui, se neppure questo è bastato a vincere la guerra, allora vuol dire che ciò non è possibile e che bisogna rassegnarsi a trattare con Putin (benché – piccolo ma non trascurabile dettaglio – lui non abbia nessuna intenzione di trattare con noi).

Parafrasando Agatha Christie, potremmo dire che una previsione sbagliata è solo una previsione sbagliata, due previsioni sbagliate sono solo due previsioni sbagliate, ma tre o più, soprattutto se vengono da fonti ritenute autorevoli, fanno una tendenza. In altre parole, abbiamo qui a che fare con la classica profezia che si autoavvera – o quantomeno rischia di farlo, se andiamo avanti così: l’opinione pubblica diventa sempre più scettica, i governi riducono il loro impegno, le cose sul campo peggiorano, ciò viene addotto come prova che la guerra non si può vincere, e così via, in un cortocircuito logico micidiale che stravolge il corretto rapporto tra teoria e realtà.

E qui c’è un punto su cui dissento in parte da Ricolfi. Condivido pienamente la sua preoccupazione per l’intolleranza che sta crescendo un po’ da tutte le parti, così come sono d’accordo con lui che se si invita qualcuno a parlare in televisione poi non ha senso pretendere che non dica ciò che pensa. Ma il problema è appunto questo: è accettabile che si inviti a parlare in televisione anche chi sostiene idee che se fossimo formalmente in guerra con la Russia verrebbero considerate disfattismo e comporterebbero conseguenze molto pesanti (una volta c’era addirittura la fucilazione)?

È vero che formalmente non siamo in guerra con la Russia e che quindi formalmente ognuno ha il diritto di dire ciò che vuole al riguardo. Però la libertà di pensiero non include il diritto di manifestarlo in televisione, che è invece un privilegio, riservato a pochissime persone e spesso neanche meritatamente. Pertanto, a mio giudizio, diversamente dal Covid, che era un problema scientifico e che perciò richiedeva la discussione critica più ampia possibile, non sarebbe così scandalosa un po’ di censura preventiva nei confronti di chi rischia oggettivamente di favorire un nostro mortale nemico, tanto più, poi, se dice cose manifestamente false. Il problema, semmai, è che, se facessimo davvero così, in televisione rischierebbe di non andarci più nessuno, a cominciare dai conduttori…

Comunque, qualsiasi cosa si pensi di ciò, il punto centrale della questione è che, se perfino aiuti così inadeguati come quelli fin qui forniti agli ucraini sono stati sufficienti a ribaltare completamente il corso della guerra, sarebbe bastato (e basterebbe tuttora) un altro sforzo, relativamente piccolo, per chiuderla del tutto.

Ma allora perché non lo si è ancora fatto?

Perché tutto questo: la politica

Per quanto riguarda i politici, purtroppo, non c’è da stupirsi. Da tempo, infatti, in Occidente c’è un drammatico vuoto: di idee, di leadership, di autorevolezza, di tutto. Per capire quanto siamo messi male basta guardare i due candidati alle prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti: un ultraottantenne mezzo rincoglionito e un quasi ottantenne mezzo matto. È già sorprendente che il suddetto ultraottantenne e gli imbelli leader della (dis)Unione Europea abbiano deciso di aiutare l’Ucraina, sarebbe stato stupefacente se l’avessero fatto anche in modo intelligente.

Non dimentichiamo che quando ci fu l’invasione (a cui fino al giorno prima nessuno credeva – o meglio, nessuno volevacredere, nonostante i continui e dettagliatissimi avvertimenti della intelligence americana), al di là delle solite parole di condanna e della rituale minaccia di sanzioni economiche, che non hanno mai fermato nessun dittatore, non sembrava affatto esserci una reale volontà di sostenere l’Ucraina, anche perché tutti credevano che non ci sarebbe neanche stato il tempo, essendo convinti che la Russia avrebbe vinto nel giro di un paio di settimane.

Biden, in particolare, dopo aver già regalato l’Afghanistan ai Talebani, con le catastrofiche conseguenze che abbiamo sotto gli occhi, era pronto a fare lo stesso con l’Ucraina, offrendo al Presidente Zelensky e al suo governo un esilio dorato negli USA, senza rendersi conto che questo sarebbe stato interpretato da tutti i nostri nemici come un ulteriore invito ad attaccarci, visto che ormai basta fare la faccia cattiva per farci battere in ritirata (non è certo un caso che tutti – ma proprio tutti – i regimi anti-occidentali siano diventati molto più aggressivi dopo la nostra vergognosa fuga dall’Afghanistan).

Le cose cambiarono solo quando Zelensky rifiutò l’offerta con le celebri parole (spero destinate a passare alla storia come l’inizio della fine della minaccia russa in Europa): «Non mi serve un taxi, mi servono armi».

Oltre ad ottenere il sostegno (quasi) convinto degli USA e della UE, per qualche tempo il Presidente ucraino, con il suo mix di coraggio, fermezza ed equilibrio (davvero notevole per uno che rischia la pelle tutti i giorni), riuscì perfino nel miracolo di far sì che quest’ultima si ricompattasse intorno ai suoi valori fondativi, anziché pensare solo ai soldi e accapigliarsi su ridicole questioni ideologiche, tipo l’auto elettrica (ne parleremo presto) o la teoria di gender. Di fatto, oggi Zelensky è l’unico vero leader che abbia l’Occidente e, soprattutto, l’unico che creda ancora «nell’Europa dei popoli e delle culture, dall’Atlantico agli Urali» (per usare due celebri espressioni di Giovanni Paolo II) e non solo nell’Europa dell’euro e della BCE, oltretutto gestita in modo orribile da quando al posto di Draghi è arrivata quella inetta di Christine Lagarde (anche di questo parleremo a breve).

Ma la luna di miele è durata troppo poco. Di fatto, dopo il clamoroso successo della controffensiva del 2022 è diventato presto evidente che i nostri leader credevano (o volevano credere) che ormai gli ucraini potessero farcela da soli. Certo, continuando a rifornirli delle munizioni per le armi che già avevano (impegno, peraltro, anch’esso clamorosamente disatteso, visto che gli abbiamo dato appena il 30% di quanto promesso), senza però bisogno di ulteriori salti di qualità, come la fornitura di carri armati Abrams e cacciabombardieri F-16, più volte richiesti da Zelensky ai suoi riottosi alleati, che non si sono mai mostrati troppo entusiasti dell’idea.

L’Oscar della discussione più delirante sul tema spetta senz’altro alla distinzione tra armi offensive e armi difensive, che semplicemente non esistono. Ciò che rende una guerra difensiva è il fine a cui tende (la liberazione del proprio paese e non la conquista di quello nemico), non i mezzi con cui la si combatte, che sono sempre gli stessi e hanno sempre lo stesso obiettivo: l’uccisione dei nemici e la distruzione dei loro armamenti. Ma provate a dirlo in pubblico e si scatenerà il finimondo (in effetti, molti europei non ritengono nemmeno che abbiamo dei nemici). Che non si riesca neanche più a riconoscere l’elementare verità che le armi servono a uccidere e che a volte ciò è purtroppo necessario la dice lunga sul livello di alienazione dalla realtà a cui siamo arrivati.

Tuttavia, va anche detto che questa in gran parte è una scusa, con cui i nostri governi cercano di nascondere i veri motivi di tale resistenza a fornire armamenti avanzati in grandi quantità, che sembrano essere essenzialmente due.

Anzitutto, lo si giudica un costo eccessivo, senza rendersi conto di quanto maggiormente ci costerebbe, non solo in termini di soldi, ma anche di devastazioni e di vite umane, una vittoria russa in Ucraina. In secondo luogo, molti temono che una vittoria troppo netta degli ucraini possa indurre Putin a usare le armi nucleari, senza rendersi conto di quanto improbabile sia in realtà questo rischio (vedi ancora il mio già citato https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta-4-il-grande-spauracchio-parte-prima-il-nucleare-bellico/) e di quanto più plausibile e più grave sia invece il rischio che la vittoria ucraina non sia abbastanza netta da provocare la caduta di Putin. O, peggio ancora, che non ci sia una vittoria ucraina.

Tuttavia, queste motivazioni sono forse più comprensibili di quella ufficiale, ma non meno preoccupanti, perché questo errore rischiamo di pagarlo carissimo. E benché stavolta la colpa sia innanzitutto dei politici, non per questo gli esperti ne escono innocenti: quasi tutti, infatti, hanno giustificato questa scellerata decisione ricordandoci che in ogni caso per addestrare adeguatamente i piloti di questi mezzi ci vorrebbe un anno. Peccato solo che la guerra stia andando avanti ormai da due anni, per cui se glieli avessimo forniti subito sarebbero entrati in azione già un anno fa.

Ma la cosa più assurda è che aver commesso questo errore fatale all’inizio del conflitto viene spesso usato come giustificazione per continuare a ripeterlo. Se, per esempio, questi armamenti glieli avessimo forniti l’anno scorso, al posto delle poche decine di vecchi carri armati che gli abbiamo elemosinato di malavoglia, certo si sarebbe dovuta rimandare la controffensiva di primavera (che peraltro non ha dato risultati troppo brillanti, proprio per la carenza di mezzi adeguati), ma almeno adesso gli ucraini sarebbero adeguatamente equipaggiati e non dovremmo temere che i russi possano tornare a prendere il sopravvento. Ora, come si possa pensare che l’Ucraina (o qualunque altro paese) possa vincere una guerra senza aerei e senza carri armati, è un mistero.

O forse no. Perché in effetti molto spesso si è avuta l’impressione che anche queste siano scuse e che in realtà i nostri cari leader non vogliano affatto che l’Ucraina vinca e che, invece di levarsi dai piedi Putin una volta per tutte, preferirebbero indurlo ad accettare (benché – sempre lo stesso fastidioso dettaglio – nessuno sappia come) una qualche sorta di spartizione dell’Ucraina stile guerra fredda, in cui lui si prenderebbe la Crimea e parte del Donbass, come anche la maggior parte degli esperti da sempre suggerisce. Perché mai, però, una soluzione del genere dovrebbe convenirci più dell’altra, che porterebbe alla sua eliminazione, è a sua volta un mistero.

Una spiegazione, che qualcuno ha effettivamente proposto, potrebbe essere che i nostri governi non trovino molto tranquillizzante l’idea di dover convivere in futuro con una Ucraina col morale alle stelle per la vittoria sulla Russia e dotata, grazie al nostro aiuto, di un esercito tecnologicamente all’altezza di quelli delle principali potenze europee, ma di essi molto più numeroso e agguerrito.

Non mi sento di escludere questa ipotesi, ma, se è vera, allora significa che i nostri governanti sono ancora più stupidi di quel che sembrano. Dopo una guerra del genere, infatti, l’ultima cosa che potrebbe venire in mente agli ucraini sarebbe minacciare o anche solo infastidire i loro alleati, di cui continuerebbero ad avere bisogno a lungo, sia per ricostruire il paese, sia per mantenere in efficienza gli armamenti che gli avremo fornito, che ancora per molto tempo non saranno in grado di produrre e riparare da soli. I loro sforzi militari sarebbero invece concentrati nel tenere a bada la Russia, onde evitare che possa cercare una rivincita, il che converrebbe a tutti.

Converrebbe agli USA, che avrebbero finalmente all’interno della NATO un alleato politicamente fedele, militarmente forte e geograficamente collocato nella posizione più strategica che si possa immaginare, sicché per molti decenni potrebbe fare, molto meglio degli imbelli paesi europei, da “cane da guardia” nei confronti della Russia, ma anche di un eventuale tentativo turco o cinese di espandersi nelle repubbliche ex sovietiche attualmente controllate da Putin.

Ma converrebbe ancor di più a noi, che di spendere i nostri soldi o (non sia mai!) le nostre vite per difenderci proprio non ne abbiamo nessuna voglia: meglio quindi lasciare che se ne occupino i più battaglieri ucraini. Eppure, non pare che sia questo il modo in cui ragionano i nostri leader politici, sia di maggioranza che di opposizione.

Un’altra ipotesi, avanzata ancora da Kasparov, è che gli Stati Uniti «temevano il caos potenziale di una sconfitta della Russia più di quanto temessero la distruzione dell’Ucraina». Ma, se è così, allora gli americani sono stati ancora più stupidi di noi, giacché in questo modo «stanno ottenendo proprio quello che paventavano maggiormente: dittatori ringalluzziti e caos dilagante » (si veda ancora l’articolo citato in precedenza, così illuminante che consiglio a tutti di leggerlo per intero: https://www.lastampa.it/esteri/2023/11/06/news/dallucraina_al_medio_oriente_i_passi_falsi_di_biden_in_politica_estera-13838505/).

Ma forse la spiegazione più vera del comportamento ondivago e incerto dei nostri leader va cercata, ancora una volta, nella tragicomica vicenda del Covid. Infatti, la “legge di Ricolfi” («se vuoi fare qualcosa, più tardi lo fai, più costerà caro a tutti») non vale solo per le pandemie, ma per tutte le situazioni di crisi, compresa questa. Se avessimo fatto subito quello che andava fatto, certamente ci sarebbe costato più caro sul momento, ma la guerra sarebbe stata vinta rapidamente e quindi il saldo finale sarebbe stato ampiamente positivo, da tutti i punti di vista. Ma purtroppo, come già ai tempi del Covid, sembra proprio che questo i politici non riescano a capirlo. E così, ancora una volta, invece di anticipare gli eventi, li rincorrono.

Speriamo solo che la piega preoccupante che stanno prendendo gli eventi serva a dar loro la sveglia e che gli aiuti necessari per vincere la guerra vengano forniti al più presto, ovviamente insieme ad altri aiuti più urgenti che servono per consolidare il fronte in attesa che i mezzi più moderni siano pronti a entrare in azione. Lo sblocco degli aiuti americani è già qualcosa, ma è ancora ben lungi dall’essere sufficiente. Timor Dei initium sapientiae, dicevano gli antichi: a volte la paura può anche essere buona consigliera…

Perché tutto questo: gli esperti

Più difficile è capire perché non solo gli pseudo-esperti, ma anche gli autentici esperti di cose militari continuino a ripetere come un disco rotto le assurdità che abbiamo visto e molte altre ancora. È mai possibile che davvero non si rendano conto che sono assurdità? Oppure ci sono altre spiegazioni?

Certamente anche qui, come già col Covid, pesa molto l’indisponibilità a riconoscere i propri errori. Praticamente tutti, all’inizio, avevano previsto che la Russia avrebbe vinto facilmente e ora sembra quasi che molti sperino che ci riesca, solo per avere l’amara soddisfazione di dimostrare che avevano ragione (mentre ad altri, più modestamente, sembrerebbe bastare che la Russia, se proprio non può vincere, almeno non perda). Capire fin dove arriva la malafede e in che misura invece si tratta di una vera e propria incapacità di abbandonare convinzioni troppo radicate è probabilmente impossibile e sicuramente inutile: quale che sia il motivo, infatti, resta che si sta facendo prevalere la teoria sulla realtà e che questo rappresenta la negazione più radicale che si possa immaginare del metodo scientifico e, più in generale, di qualsiasi forma di conoscenza degna di tal nome.

Ma c’è anche un altro fattore da tenere in conto, che col Covid non era molto rilevante, mentre qui, trattandosi di guerra, lo è: il peso delle motivazioni ideologiche, che condizionano anche gli esperti. E ciò accade assai più spesso di quanto sembra. Non dimentichiamo, infatti, che il più efficace metodo di propaganda consiste nel travestire le proprie opinioni soggettive da previsioni oggettive.

Così, se uno ritiene che non si debba aiutare l’Ucraina in nome del pacifismo, per difendere gli interessi dei nostri imprenditori che esportano in Russia o, peggio ancora, perché sotto sotto parteggia per Putin, anziché manifestare apertamente le proprie idee, che difficilmente sarebbero accettate, potrebbe trovare più conveniente cercare di convincere i suoi interlocutori che aiutare gli ucraini è inutile o addirittura contro il loro stesso interesse, perché servirebbe solo a prolungare le loro sofferenze senza impedire la “inevitabile” vittoria finale russa. Discorsi del genere si sono effettivamente sentiti molte volte (soprattutto nella prima parte della guerra, quando le cose andavano peggio, ma anche dopo) e venivano sempre da persone che notoriamente condividevano l’una o l’altra delle suddette posizioni ideologiche.

L’ideologia più micidiale di tutte, però, non ha un preciso colore politico, anche se storicamente è figlia del comunismo, ma ormai ha contagiato un po’ tutti: è quella del dialogo-che-risolve-tutti-i-problemi (cfr. Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/politica/la-frattura-tra-ragione-e-realta-3-marx-e-vivo-e-lotta-dentro-a-noi-dodici-idee-comuniste-a-cui-credono-anche-gli-anticomunisti/). Essa infatti, mescolandosi al sempre più dilagante (e sempre più delirante) complottismo, ha già convinto milioni di persone che l’unica via di uscita dalla guerra sono le mitiche “trattative di pace” e che se queste non sono ancora iniziate è solo perché “manca la volontà politica”, con il che in realtà si intende che manca la nostra volontà politica, perché secondo questa mentalità per definizione i “cattivi” siamo noi.

Questa idea, inoltre, è condivisa anche da molti “liberal” non di sinistra e perfino da molti “comunitari” (destra più frange di marxisti ortodossi; per questa distinzione vedi l’articolo appena citato), che ne respingono la versione “buonista” di cui sopra, tipica della sinistra e del mondo cattolico, ma ne accettano un’altra che proclamano essere una semplice questione di realismo: siccome le guerre, come qualsiasi altra cosa, sono dovute agli interessi (ultimamente economici) delle parti in causa, l’unico modo di farle finire è mettere da parte le questioni morali e trovare un bilanciamento degli interessi in gioco che lasci tutti ugualmente soddisfatti (o tutti ugualmente insoddisfatti, secondo la celebre battuta di Henry Kissinger).

Ora, nessuno più di me è favorevole al realismo, ma già a priori è evidente che questo ragionamento è piuttosto una forma di cinismo amorale. Il realismo autentico, infatti, consiste nel cercare di seguire le indicazioni della realtà, per cui già il fatto in sé di identificarlo a priori con una specifica soluzione è contraddittorio. Inoltre, è falso che le guerre (o qualsiasi altra cosa) siano sempre dovute a questioni di interesse, come ho cercato di illustrare ancora nell’articolo sulle Dodici idee comuniste, a cui perciò rimando.

Ma, soprattutto, la storia dimostra che (tranne quando, come per esempio nella guerra Iran-Iraq, i contendenti giungono contemporaneamente all’esaurimento delle forze) non è mai l’inizio delle trattative a determinare la fine della guerra, ma è piuttosto la fine della guerra (determinata dalla vittoria di una parte e dalla sconfitta dell’altra) a permettere l’inizio delle trattative. Ed è facile capirne il motivo.

Nessuno, infatti, neppure un dittatore psicopatico come a suo tempo Hitler e oggi Putin o i capi di Hamas, inizia una guerra a cuor leggero, se non altro perché non può farla da solo e ha quindi bisogno che almeno un certo numero di persone lo sostengano per convinzione e non solo per paura, perché la guerra può fare più paura di qualsiasi dittatore. Inoltre, una guerra si può perdere e quando a perderla è un dittatore ciò in genere ne determina la caduta e spesso anche la morte. La guerra, quindi, è certamente una tragedia, ma non è affatto una follia, come continua purtroppo a ripetere Papa Francesco, evidentemente anche lui molto mal consigliato dai suoi “esperti” (una volta o l’altra dovrò scrivere qualcosa sulle stranissime idee del cattolicesimo contemporaneo circa la politica internazionale), bensì una scelta accuratamente ponderata che ha sempre una sua logica, perfino quando è la logica di un folle.

La famosa frase di Von Clausewitz per cui «la guerra non è altro che la continuazione della politica con altri mezzi» non è soltanto una battuta brillante e un po’ cinica, ma una precisa descrizione di ciò che accade. Alla guerra, infatti, si arriva quando almeno una delle parti in causa ritiene che la situazione che si è creata non le permetta più di raggiungere i propri obiettivi attraverso le vie della politica: perché mai, quindi, tale parte dovrebbe accettare di tornare a trattare prima che qualcosa di sostanziale sia cambiato? Pretendere poi che ciò possa accadere addirittura il giorno dopo l’apertura delle ostilità (come quasi tutti hanno fatto, sia per l’Ucraina che per Gaza) non è soltanto ingenuo, ma semplicemente stupido.

Ma forse c’è anche un altro motivo, stavolta non ideologico, anche se si tratta comunque di un pregiudizio infondato. Ed è che dopo l’11 settembre tutti gli scontri tra noi e le varie dittature nostre nemiche non sono avvenuti nella forma di guerre tradizionali, bensì di “guerre asimmetriche” contro la guerriglia, a parte la seconda guerra con l’Iraq (che però si è presto trasformata anch’essa in una guerra di questo tipo) e l’intervento in Serbia (troppo breve per fare testo).

Questo tipo di guerra, infatti, riduce notevolmente il peso della nostra superiorità tecnologica, creando la sensazione che i nostri nemici siano diventati più forti e che anche in uno scontro tradizionale avremmo delle difficoltà a spuntarla. Ma questa è, appunto, solo una sensazione, priva di qualsiasi fondamento nella realtà dei fatti. In Ucraina non si combatte tra le montagne, ma in una vastissima pianura quasi completamente priva di ripari naturali, che rappresenta lo scenario ideale perché le nostre armi ad alta tecnologia possano dispiegare tutto il loro potenziale. E, di fatto, così è già accaduto con quelle che fin qui abbiamo dato agli ucraini. Non c’è quindi nessuna ragione di pensare che le cose vadano diversamente con quelle che (si spera) gli daremo in futuro.

Ciò che è sorprendente è che questa falsa impressione abbia contagiato anche buona parte degli analisti e degli stessi vertici militari. Eppure, è accaduto. E forse non è neanche tanto sorprendente.

Siamo noi, infatti, che tendiamo a mitizzare gli esperti, come se fossero persone dotate di una razionalità superiore e immuni alle debolezze della gente comune. Ma in realtà studiosi di geopolitica, professori universitari, politici e generali (sì, anche loro) sono esseri umani come noi, anch’essi figli del nostro tempo. Un tempo in cui l’apparenza e l’emotività tendono a prevalere sulla conoscenza e sulla razionalità, fino al punto di generare delle vere e proprie forme di “bispensiero” orwelliano, per cui si è convinti che una certa cosa è vera, eppure al tempo stesso si nutre anche una convinzione contraddittoria con la prima, senza nemmeno accorgersi che è contraddittoria.

E tuttavia dobbiamo accorgercene. Perché se non lo faremo al più presto, liberandoci di queste forme sbagliate di pensiero, in Ucraina finirà col vincere Putin. Che non si fermerà certo lì: e allora, oltre ai soldi, dovremo metterci anche i soldati. Che però non abbiamo, perché da noi nessuno ha più voglia di morire per la libertà (o per qualsiasi altra cosa).

Molto meglio per noi, quindi, che a fare il lavoro sporco siano gli ucraini, che non sono ancora così rammolliti e, soprattutto, hanno ancora abbastanza senso della realtà da capire che le pallottole non si fermano con le chiacchiere.

Se non per generosità, aiutiamoli almeno per egoismo.

La frattura tra ragione e realtà 3 / Marx è vivo e lotta dentro a noi – Dodici idee comuniste a cui credono anche gli anticomunisti

2 Novembre 2023 - di Paolo Musso

In primo pianoPolitica

In due articoli precedenti avevo cercato di mostrare come, benché al comunismo nel suo complesso ormai non creda più nessuno, molte idee tipiche del comunismo e addirittura del marxismo in senso stretto sopravvivano ancora, sia nella Russia di Putin che nella sinistra occidentale, rendendo molto difficile un suo processo di autentica riforma. Oggi vorrei mostrare come alcune di queste idee siano inconsapevolmente condivise anche da molte persone non di sinistra e perfino da molti anticomunisti dichiarati. Tuttavia, se è urgente e necessario prendere coscienza del peso che ha ancor oggi l’ideologia comunista nella formazione delle nostre convinzioni e, quindi, anche delle nostre decisioni, ciò non significa che a destra o al centro o da qualsiasi altra parte le cose vadano molto meglio: la frattura tra ragione e realtà è purtroppo una malattia assolutamente bipartisan, o, più esattamente, “omnipartisan”, come vedremo nei prossimi articoli.

 

Premessa

Apparentemente, il comunismo in Occidente è oggi una dottrina ampiamente minoritaria, sostenuta solo da piccoli partiti e per di più in una versione piuttosto differente da quella originale di Karl Marx, a cui ormai fanno riferimento solo alcuni movimenti extraparlamentari, insieme a pochi, benché agguerriti, intellettuali. Eppure, molte idee non solo comuniste, ma addirittura marxiste in senso stretto sono più vive che mai, al punto che vengono sostenute (ovviamente senza esserne coscienti) anche da molti non comunisti e perfino da molti anticomunisti dichiarati.

Anzi, non è neanche corretto dire che esse vengono “sostenute”: si sostiene un’idea quando si ritiene necessario argomentarla e difenderla, mentre le idee di cui sto parlando vengono perlopiù date semplicemente per scontate. Questo spiega anche come è possibile che siano così ampiamente condivise: una discussione esplicita, infatti, ne renderebbe chiara l’origine e la logica intrinseca e porterebbe al loro rigetto da parte di chi tale origine e logica non condivide. Esse, invece, si diffondono in modo quasi inconsapevole (“per osmosi”, potremmo dire), attraverso la ripetizione automatica di una serie di luoghi comuni diffusi soprattutto nella letteratura, nel cinema, nei mass media e nei libri di scuola, a causa della popolarità che il comunismo ha avuto in passato (e in parte ha ancora) negli ambienti intellettuali dell’Occidente.

Una questione terminologica

Prima di entrare nel merito, tuttavia, va fatta un’importante precisazione terminologica. Infatti, alcune delle idee di cui parlerò hanno “contagiato” praticamente tutti, ma altre sono condivise solo da quella parte della società occidentale che si riconosce in quell’ampio schieramento che comprende tutta la sinistra moderata, una parte di quella radicale, tutti i partiti di centro e una parte consistente di quelli del centrodestra moderato. Tali idee vengono invece rifiutate principalmente dalla destra e da una (piccola) parte del centrodestra, ma anche, almeno in parte, dalla sinistra più estrema, rimasta fedele all’ortodossia marxista originaria (che le respinge non perché siano troppo comuniste, ma perché non lo sono abbastanza, ma comunque le respinge).

Ciò non è così strano come potrebbe sembrare, dato che i partiti comunisti storici hanno dovuto “reinterpretare” molti punti del marxismo ortodosso per ricavarne una dottrina politica applicabile, a cominciare da Lenin e Stalin, che per giustificare la loro rivoluzione dovettero inventarsi la teoria del “socialismo in un solo paese”, che Marx avrebbe giudicato una vera e propria eresia. Il marxismo, infatti, non è una dottrina politica, ma una filosofia della storia che pretende, esattamente come quella di Hegel, da cui deriva, di individuarne un senso immanente che si affermerà inesorabilmente seguendo una sua logica intrinseca che nessuno ha il potere né di fermare né di accelerare. Paradossalmente, quindi, un marxista perfettamente ortodosso non dovrebbe far nulla, se non sedersi sulla riva del fiume della Storia aspettando che la sua inarrestabile corrente gli porti il cadavere del capitalismo e, con esso, il “paradiso” della nuova società comunista.

Essendo così eterogenei, non è facile definire adeguatamente questi due blocchi, che in quasi tutti i paesi occidentali hanno ormai in gran parte soppiantato le tradizionali divisioni politiche, compresa, appunto, quella tra destra e sinistra. Per il primo gruppo, infatti, i termini abbondano, ma sono troppo specifici, sottolineando uno solo fra i vari aspetti che lo caratterizzano (progressisti, globalisti, “maggioranza Ursula”, fautori del politically correct o della “ideologia europea”, ecc.) oppure troppo connotati in senso positivo (democratici, antifascisti, “persone civili”, ecc.). Per il secondo caso, invece, i termini abitualmente usati sono troppo generici e anch’essi troppo connotati, stavolta in senso negativo (populisti, peronisti, “impresentabili”, quando non semplicemente “fascisti”, anche se quest’ultimo epiteto, ovviamente, si applica alla sola componente di destra).

Dopo averci pensato a lungo, sono giunto alla conclusione che la classificazione migliore è quella proposta da Marcello Veneziani e fatta propria da Luca Ricolfi nel suo ultimo libro La mutazione (La nave di Teseo, 2022), che definisce “liberal” gli esponenti del primo gruppo e “comunitari” i loro oppositori, sia di destra che di sinistra, perché ciò che li avvicina, a dispetto delle grandi differenze che pure rimangono, è proprio il fatto di sottolineare l’importanza dell’aspetto comunitario contro l’individualismo radicale che rappresenta invece il fattore unificante dei “liberal”. A questa terminologia e alla corrispondente divisione concettuale mi atterrò quindi nel seguito di questo articolo e anche nei prossimi. E torniamo al nostro tema.

Dodici idee comuniste di successo

Fra le idee comuniste che si sono diffuse ben al di là del loro ambito originario vi sono innanzitutto alcune di quelle che in un precedente articolo (https://www.fondazionehume.it/politica/la-frattura-tra-ragione-e-realta-2-il-comunismo-eterno-e-la-impossibile-riforma-della-sinistra/) avevo indicato come tuttora ben presenti, benché spesso in modo implicito e inconsapevole, all’interno della sinistra italiana e, più in generale occidentale, che quindi ora riesaminerò brevemente in questa nuova prospettiva.

1) La prima di esse è la fede nel progresso, cioè, per dirla con Ricolfi, l’idea che «la freccia del tempo storico punta sempre nella direzione giusta» (Ricolfi, La mutazione, p. 200). Benché tipica della sinistra, infatti, tale idea è accettata praticamente da tutta l’area liberal, al punto che perfino quei (pochi) pensatori che ne riconoscono i limiti finiscono per condividerne almeno in parte i presupposti. Si prenda per esempio questo passo di Giovanni Orsina, che pure è uno dei commentatori politici più acuti ed equilibrati in circolazione:

«Il progressismo ha reagito al montare dell’onda conservatrice facendo forza su una concezione – appunto – progressista della storia: la storia avrebbe una logica e una direzione e, una volta superate certe soglie, indietro non si può più tornare. Da qui l’accusa che vien mossa ai conservatori di essere disperatamente fuori sintonia col proprio tempo, reduci di un’epoca ormai remota e conclusa, “medievali” addirittura. L’errore è nel manico: la concezione progressista della storia non regge più, e la rivolta contro la coppia globalizzazione-individualismo nasce proprio dalla sua crisi. È perché non credono più che la storia abbia una logica e una direzione, insomma, perché sono spaesati e angosciati dal futuro, che gli elettori votano a destra. E con l’idea di progresso in pezzi, allora, tocca ai progressisti essere disperatamente fuori sintonia col proprio tempo» (La destra orgogliosa e la scoperta dei valori, su La Stampa del 23/10/2022).

Il ragionamento è in gran parte condivisibile, ma sostenere che tale paura del futuro nasca dal “non credere più che la storia abbia una logica e una direzione” equivale di fatto a ritenere che l’unico modo di dare un senso alla storia sia, appunto, “credere che la storia abbia una logica e una direzione” e che chi non ha questa fede nel progresso non possa che essere “spaesato e angosciato”. Ora, benché sia vero che in questo processo la paura gioca un ruolo rilevante, è invece falso che chi vota a destra lo faccia solo per paura e non invece anche perché ha una diversa idea del futuro. Giorgia Meloni, per esempio, un’idea di come dovrebbe essere il futuro ce l’ha eccome: si può discuterne la validità, ma non negare che tale idea esista, né che molti elettori la condividano e che proprio per questo abbiano votato per lei. Ridurre tutto alla paura impedisce di discutere razionalmente «il lato oscuro del progresso, o meglio, di quel che i progressisti vedono come progresso» (Ricolfi, La mutazione, p. 200) e che invece non è necessariamente tale.

Parafrasando ciò che ho scritto a proposito del razionalismo nel mio libro più importante, La scienza e l’idea di ragione (Mimesis 2019, 2a ed. ampliata, p. 242), potremmo perciò dire che “l’antiprogressista liberal è un progressista deluso, che però continua ad essere progressista, nel senso che continua a pensare che se fosse possibile dare un senso alla storia, l’unico modo di riuscirci sarebbe attraverso la concezione progressista: solo che egli non crede che ciò sia possibile e quindi nega che esista una qualsiasi possibilità di arrivare a dare un senso alla storia” (l’analogia, peraltro, non è casuale, dato che il progressismo è una forma di razionalismo, la cui prima compiuta enunciazione programmatica si trova nel saggio Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, scritto nel 1798 da Immanuel Kant, da cui l’idea è passata all’idealismo tedesco, in particolare ad Hegel, e da questi a Marx).

2) Anche la tipica tendenza dei comunisti a demonizzare chiunque si opponga a ciò che essi “vedono come progresso” è condivisa da gran parte dei liberal, soprattutto ora che il trucco tipico dei comunisti di autoproclamarsi antifascisti per definizione (cosicché i loro avversari risultassero, sempre per definizione, anti-antifascisti e quindi fascisti) è stato opportunamente aggiornato nei termini del politically correct. Quest’ultimo, infatti, ha ben poco a che vedere con la difesa dei poveri ed è quindi più facilmente accettabile dai ricchi borghesi in cerca di qualcosa che permetta loro di mettersi a posto la coscienza a buon mercato. Così oggi i liberal si identificano essenzialmente come antirazzisti (in senso lato, includendo in questo termine ogni forma di discriminazione, anche se non c’entra nulla con la razza), per cui i loro oppositori risultano essere per definizione anti-antirazzisti e quindi razzisti (cfr. Ricolfi, La mutazione, pp. 96-97).

3) Un’altra idea comunista di grande successo emerge nella diffusissima tendenza a riconoscere al comunismo stesso, anche da parte di chi gli è ostile, una qualche forma di “superiorità morale” rispetto alle altre ideologie totalitarie. Tale idea è così radicata che perfino molti oppositori del comunismo negano che esso sia totalitario per natura, ma solo a causa di sue erronee realizzazioni storiche, benché ritengano che la loro frequenza e gravità dimostri che sia troppo pericoloso provare a metterlo in pratica. Tuttavia, chi la pensa così paradossalmente rifiuta il comunismo per “eccesso di stima”, cioè non perché lo ritiene intrinsecamente cattivo, bensì perché lo ritiene intrinsecamente “troppo buono”, cosicché l’imperfetta natura umana non sarebbe in grado di realizzarlo senza pervertirlo.

Ciò si vede in modo particolarmente chiaro nell’uso del termine “stalinismo”, che ormai per tutti, perfino per quelli di destra-destra, serve a designare non solo una determinata fase della storia del comunismo sovietico, bensì qualcosa che in qualche modo (quale esattamente non si sa, ma non importa) si differenzierebbe dal comunismo in quanto tale. Eppure, a nessuno verrebbe in mente di parlare di “mussolinismo” o di “hitlerismo” come qualcosa di distinto dal fascismo o dal nazismo in quanto tali, e non solo perché fascismo e nazismo sono (per fortuna) morti con loro e non hanno conosciuto ulteriori fasi.

In effetti, la sola idea suona ridicola, ancor prima che sbagliata, tant’è vero che neppure i nostalgici più incalliti si sognerebbero mai di usare questo escamotage per difendere le suddette ideologie distinguendole dalla supposta cattiva applicazione che questi regimi ne avrebbero fatto. Ma allora perché la stessa operazione non ci fa lo stesso effetto quando viene applicata al comunismo? Dato che dal punto di vista razionale non c’è nessuna differenza, l’unica risposta possibile è che, come dicevo, in Occidente esiste nei confronti del comunismo un così radicato e diffuso pregiudizio favorevole che esso finisce per condizionare inconsciamente perfino i suoi più accaniti oppositori.

Tale pregiudizio traspare ancor più chiaramente nell’atteggiamento aprioristicamente benevolo che anche molti non comunisti tendono ad avere verso qualsiasi movimento sudamericano che si presenti come “rivoluzionario”. Certo, il mito del “Che” è duro a morire, eppure basterebbe informarsi in modo appena sommario per capire che la guerriglia in America Latina è morta, appunto, con Che Guevara. Dopo di lui, con la sola eccezione dei sandinisti in Nicaragua (qualsiasi cosa se ne pensi: e io, sia chiaro, ne penso piuttosto male) e di Sendero Luminoso in Perù (che però conduceva una vera e propria guerra di sterminio, le cui prime vittime erano i contadini e gli indigeni che diceva di voler proteggere), la guerriglia un po’ alla volta è diventata soltanto una scusa per fare narcotraffico con la benedizione degli intellettuali occidentali. E a quanto pare funziona…

Farò solo tre esempi, fra i tanti possibili. Il primo è l’assurda demonizzazione dell’ex Presidente peruviano Alberto Fujimori, ritenuto  quasi universalmente  un dittatore e spesso addirittura uno dei più sanguinari del nostro tempo. Eppure, Fujimori è sempre stato eletto con maggioranze schiaccianti in elezioni di cui nemmeno i suoi più accaniti oppositori hanno mai contestato la regolarità, ha salvato il paese dalla bancarotta e dal terrorismo e ha dato al Paese una Costituzione che è una delle pochissime cose che ancor oggi funziona tra le sue scalcagnate istituzioni, tanto che è difesa a spada tratta contro i tentativi di revisione periodicamente proposti dalla sinistra anche da moltissimi antifujimoristi.

L’unico reato per cui Fujimori è stato condannato, nel 2009, è l’uccisione di una decina di oppositori verso la fine del suo secondo mandato, in cui effettivamente aveva cominciato a manifestare una certa involuzione autoritaria. Ciononostante, è stato ritenuto responsabile di questi delitti, materialmente ordinati dal capo dei servizi segreti Vladimiro Montesinos, sull’unica base del principio, a noi purtroppo ben noto, ma non per questo accettabile, del “non poteva non sapere” (non casualmente: i magistrati peruviani hanno partecipato a diversi seminari tenuti dai magistrati del pool di Mani Pulite, da cui purtroppo hanno imparato molto).

Ma ciò che davvero i nostri intellettuali non possono perdonargli non è questo, bensì il fatto di avere usato il pugno di ferro contro i movimenti “rivoluzionari” di Sendero Luminoso e del MRTA, in particolare nell’irruzione all’ambasciata giapponese di Lima il 22 aprile 1997, in seguito alla quale vennero uccisi tutti i 14 terroristi del MRTA che l’avevano occupata. Non importa che questi ultimi stessero apprestandosi a sterminare i 72 ostaggi, come questi ultimi hanno sempre concordemente affermato. Non importa che il MRTA fosse uno dei movimenti terroristici più sanguinari che si siano mai visti (anche se non allo stesso livello di Sendero). L’unica cosa che importa è che Fujimori ha ucciso dei guerriglieri comunisti e quindi “deve” essere per forza un fascista, un dittatore e un mostro.

Ancor più incredibile è stata la vicenda di Ingrid Betancourt, candidata socialista alla presidenza della Colombia, rapita dai “guerriglieri” delle FARC per essersi spinta in una zona pericolosa contro le indicazioni della polizia. Tenuta prigioniera per anni, venne infine liberata insieme ad altri ostaggi dalle forze speciali colombiane, che riuscirono a catturare i guerriglieri senza sparare un solo colpo, facendosi passare per loro complici. Fu un autentico capolavoro, che lasciò a bocca aperta perfino la CIA. Eppure, per i media e gli intellettuali liberal gli eroi della vicenda furono la stessa Betancourt (da alcuni sciamannati addirittura candidata al Nobel per la pace) e il dittatore venezuelano Hugo Chávez, che si era offerto di fare da mediatore per la sua liberazione. Invece, il vero eroe, il Presidente colombiano Álvaro Uribe, venne aspramente criticato (e naturalmente definito “fascista”) per avere usato la forza anziché confidare nei buoni uffici di Chávez.

Anche qui, non importa che l’unico “merito” della Betancourt sia stato quello di essersi fatta incautamente rapire, mettendo irresponsabilmente in pericolo non solo la propria vita, ma anche quella dei suoi soccorritori. Non importa che durante l’operazione siano state trovate le prove del traffico di droga da parte delle FARC e quelle di un versamento di 300 milioni di dollari a loro favore fatto dallo stesso Chávez. Non importa che questi si sia mantenuto al potere inserendo nella Costituzione la “rielezione infinita” e truccando sistematicamente il voto, mentre Uribe ha rinunciato a introdurre nella Costituzione colombiana la rielezione anche per un solo mandato pur avendo il 90% di approvazione popolare. L’unica cosa che importa è che Uribe ha usato la forza contro un gruppo di autoproclamati “guerriglieri” comunisti, quindi è per definizione un fascista e un dittatore (al “mostro” non ci siamo ancora arrivati, ma c’è tempo…).

La cosa più incredibile è che si tratta di vicende su cui è abbastanza facile trovare le informazioni corrette. Ma nessuno le cerca, perché non solo i comunisti, ma un po’ tutti credono già di sapere come “ovviamente” stanno le cose. Chi non ne fosse convinto vada a leggersi le incredibili ricostruzioni di questi eventi nelle relative voci di Wikipedia, che sono interamente e acriticamente baste sulle tesi della sinistra.

Non si tratta, però, solo della guerriglia. In generale, qualsiasi governo di sinistra tende a godere di un’indulgenza che sarebbe inimmaginabile veder accordata ad altre parti politiche. Un esempio clamoroso è quello del neo-(ri)eletto Presidente brasiliano Ignacio Lula: certo, rispetto a Bolsonaro è il male minore, ma altrettanto certamente non è affatto quell’eroe senza macchia e senza paura che ci viene sempre raccontato.

Non c’è dubbio, infatti, che Lula abbia usato i soldi di Odebrecht, l’impresa brasiliana di costruzioni responsabile del più grande fenomeno di corruzione della storia umana (vedi Paolo Musso, https://www.ilsussidiario.net/news/dal-peru-il-caso-odebrecht-mani-pulite-e-gli-strani-effetti-dellautonomia-dei-pm/1889314/), per finanziare illegalmente, mentre era Presidente del Brasile, le campagne elettorali dei candidati di sinistra nei principali paesi sudamericani. Al proposito, oltre a molti documenti, c’è la testimonianza dello stesso Marcelo Odebrecht, che ho avuto modo di leggere in versione integrale sui quotidiani peruviani dopo la sua deposizione ai PM di Lima e che non lascia margini di dubbio.

E infatti la condanna di Lula non è mai stata revocata nel merito, ma solo dichiarata nulla con un cavillo formale escogitato da un giudice della Corte Suprema brasiliana: la presunta incompetenza del tribunale, veramente difficile da sostenere, soprattutto considerando che da tempo i magistrati un po’ in tutto il mondo rivendicano la “competenza universale”, che per me è un’aberrazione pericolosa, ma per la sinistra è invece cosa buona e giusta – tranne, ovviamente, quando colpisce politici di sinistra. È davvero difficile capire perché mai il PM spagnolo Baltasar Garzón avrebbe il diritto di perseguire il dittatore cileno Pinochet per crimini commessi in Cile e i PM italiani potrebbero processare gli agenti egiziani che hanno ucciso Giulio Regeni in Egitto, mentre un tribunale brasiliano non potrebbe giudicare un cittadino brasiliano per crimini commessi, almeno in parte, in Brasile.

E attenzione: non si tratta di “semplice” corruzione, che in Sudamerica è purtroppo così fisiologica da essere quasi “scusabile”. Per capirci, è come se, per esempio, Macron avesse per anni usato i fondi neri di un’impresa amica per sostenere illegalmente le campagne elettorali dei candidati a lui vicini in Italia, Spagna, Inghilterra, Germania, ecc. Qualcosa, insomma, di talmente enorme da essere quasi inimmaginabile. Eppure, per tutti i liberal d’Italia e del mondo Lula è un eroe del popolo ingiustamente condannato, “ovviamente” a causa di un complotto (del complottismo parleremo fra poco). E nemmeno l’atteggiamento a dir poco ambiguo da lui tenuto nei confronti di Putin è riuscito, almeno finora, a scalfirne il mito.

Ma ci sono molti altri esempi del genere, fra i quali ne sceglierò solo alcuni, particolarmente clamorosi.

Il primo è quello della cosiddetta “Seconda Repubblica Spagnola”, abbattuta da Francisco Franco nel 1939. In realtà, quando la guerra civile iniziò la Repubblica non era già più tale, in quanto era caduta in mano al Fronte Popolare, un’alleanza di partiti di sinistra guidata da un Partito Comunista caratterizzato da una particolare propensione genocidaria, non molto diversa da quella di Hitler e paragonabile, a sinistra, solo a quella dei Khmer Rossi di Pol Pot e del già citato Sendero Luminoso peruviano.

Il loro “programma politico” era molto semplice: sterminare tutti gli oppositori, a cominciare dai loro alleati più moderati. Ne sapeva qualcosa il socialista George Orwell, che, come poi raccontò egli stesso in Omaggio alla Catalogna, dovete scappare a gambe levate per evitare che quegli stessi che era andato a difendere come volontario, beccandosi pure una pallottola in gola, gli facessero la pelle perché “non abbastanza di sinistra”. Più in generale, i comunisti spagnoli avevano intenzione di sradicare completamente il cristianesimo dal paese, cosa possibile solo sterminando milioni di persone, come avevano già cominciato a fare, fucilando tutti (ma proprio tutti) i sacerdoti, i monaci e le suore che si trovavano nelle zone da loro controllate.

Analoga mitologia è quella che riguarda il governo “popolare” di Salvador Allende, abbattuto dal golpe militare del generale Augusto Pinochet, di cui ricorreva il cinquantenario proprio pochi giorni fa. Peccato che Allende non fosse affatto un eroe, bensì un aspirante dittatore, che si era già portato abbastanza avanti col lavoro, avendo ridotto il paese sull’orlo della bancarotta e moltiplicato le violenze contro gli oppositori, al punto che l’intervento dell’esercito venne richiesto, per disperazione, dalla maggioranza dei parlamentari, compresi molti del suo stesso partito. Paradossalmente, Allende deve la sua beatificazione postuma proprio a Pinochet: senza il suo golpe, infatti, avrebbe combinato un disastro e oggi sarebbe ricordato come uno dei tanti caudillos, sia di destra che di sinistra, che hanno infestato (e in parte infestano ancora) l’America Latina, portando alla rovina paesi che avrebbero tutto per essere ricchi e felici.

Sia chiaro: non sto dicendo che Franco e Pinochet fossero brave persone. Non lo erano, perché usarono metodi brutali non solo per prendere il potere (il che si poteva ancora capire, data la situazione), ma anche dopo, quando ciò non era più giustificabile. È però incredibile che, mentre essi vengono in genere giudicati come si meritano, lo stesso non accade (mai) con i rispettivi avversari, che non erano migliori di loro e, anzi, almeno nel caso dei “repubblicani” spagnoli erano decisamente peggiori.

Ma niente: tranne pochissimi politici e intellettuali di destra-destra (che tra l’altro in genere esagerano nel senso opposto, finendo così per screditare ulteriormente i già pochi e isolati tentativi di ristabilire la verità storica), tutti gli altri, anticomunisti compresi e compresa perfino una parte della destra più moderata, continuano a parlare della eroica lotta della “Repubblica spagnola” contro la brutale aggressione nazifascista e della eroica resistenza del “compagno Presidente” asserragliato col mitra in mano nel Palacio de La Moneda bombardato dall’aviazione. E, per colmo di paradosso, lo fanno anche molti ammiratori di Orwell, dando così un esempio pratico di quel “bispensiero”, da lui stesso immaginato in 1984, che permette ai sudditi del Grande Fratello di credere a cose contraddittorie senza accorgersi della contraddizione e che da qualche tempo si sta diffondendo (in modo sempre più preoccupante) anche nel mondo reale.

Il terzo esempio, più recente, è quello delle “enclaves” spagnole di Ceuta e Melilla in Marocco, dove si sono verificati molti gravi incidenti e in due occasioni delle vere e proprie stragi di migranti: la prima il 30 settembre 2005, quando il premier di ultrasinistra José Luis Zapatero fece addirittura sparare addosso a quelli che cercavano di entrare, causando 5 morti; la seconda il 25 giugno dell’anno scorso, mentre era premier Pedro Sánchez, pure lui di sinistra-sinistra, con ben 37 morti, anche se stavolta la Guardia Civil almeno non ha sparato, ma è comunque intervenuta molto duramente. Eppure, in entrambe le occasioni non è successo sostanzialmente nulla. Ve lo immaginate se l’avesse fatto Salvini?

A proposito: “enclaves” è un eufemismo che significa “colonie”. Alle quali la Spagna, che da un po’ di tempo in qua ci dà lezioni di civiltà un giorno sì e l’altro pure, a quanto pare non ha nessuna intenzione di rinunciare, neanche quando è guidata da governi super-progressisti…

L’esempio più recente (e più drammatico, perché qui i nostri errori di giudizio stanno anche avendo gravi conseguenze pratiche, dato che vengono ripresi dai media locali, alimentando le tensioni sociali) è quello dell’ultimo Presidente peruviano, Pedro Castillo, vincitore per un soffio al ballottaggio del 2021contro Keiko Fujimori, figlia dell’ex Presidente Alberto, e destituito il 7 dicembre 2022.

Ancora una volta, non importa che il suo governo sia stato il più corrotto della pur corrottissima storia peruviana. Non importa che avesse rapporti comprovati con il terrorismo e la malavita organizzata. Non importa che finché è rimasto in carica non abbia fatto niente per aiutare i poveri e gli indigeni di cui si era autoproclamato paladino. Non importa che fosse così ignorante e incompetente da essere espulso dal partito che lui stesso aveva creato (un po’ come se Berlusconi fosse stato espulso da Forza Italia mentre era Presidente del Consiglio). Non importa che per evitare l’impeachment abbia tentato un maldestro colpo di Stato, in cui (per fortuna) nessuno l’ha seguito.

E non importa neanche che continuare a presentarlo come un eroe popolare vittima di un diabolico complotto dei poteri forti (quali, visto che in Perù non ce ne sono?), “ovviamente” ispirato dagli USA (perché, se agli USA del Perù non gliene frega nulla?), contribuisca ad alimentare le tensioni sociali e gli scontri di piazza. Tensioni e scontri che certamente alla base hanno problemi molto seri, che però in questo modo non vengono certo risolti, ma piuttosto aggravati (ho visto con i miei occhi, solo qualche mese fa, come in molte zone dell’Amazzonia peruviana la benzina arrivi con estrema difficoltà per via dei blocchi stradali eretti dai manifestanti, causando inflazione e disoccupazione, soprattutto fra i più poveri).

Agli intellettuali liberl importa solo che Castillo è un contadino comunista con sangue indio, quindi è per definizione dalla parte dei “buoni” e chi protesta per il suo arresto e per il rifiuto di concedere elezioni anticipate ha per definizione ragione, benché il Perù abbia arrestato tutti i presidenti che ha eletto dal 1985 a oggi e le elezioni anticipate non siano mai state concesse, come peraltro vuole la Costituzione, che prevede che in tal caso subentri il Vicepresidente, come infatti è accaduto.

4) E veniamo allo statalismo. Apparentemente, al di fuori della sinistra (e spesso perfino al suo interno) lo statalismo non è più di moda, tanto che i critici della UE se la prendono spesso con il suo presunto “liberismo”. Tuttavia, ciò vale soltanto a livello teorico, mentre nei fatti le cose sono assai diverse. Il liberismo, infatti, si regge su due pilastri: detaxation e deregulation. Noi, invece, soffriamo (in Italia in modo particolare, ma sempre più anche nel resto d’Europa) di iper-tassazione e iper-regolamentazione, che coesiste con alcune politiche liberiste relative ad alcuni ambiti (perlopiù quelli sbagliati, a cominciare dalla finanza), formando una strana e perversa miscela che ricorda assai più il capitalismo di Stato cinese che le politiche di Margaret Thatcher o di Ronald Reagan.

In ciò ha avuto certo un grosso peso l’influenza degli euroburocrati di Bruxelles, ma sarebbe sbagliato ridurre tutto a questo, dato che la tendenza è universale e per certi aspetti ha iniziato a contagiare perfino gli USA. Come sostengo da tempo, alla base di tale fenomeno c’è a mio avviso la “mania del controllo”, vera ossessione della modernità, che spesso affligge anche chi a parole la combatte.

Poiché ne ho già parlato ampiamente nell’articolo precedentemente citato, non tornerò sull’argomento a livello teorico, limitandomi a un solo esempio pratico, ma particolarmente clamoroso: la riforma dell’Università fatta da Mariastella Gelmini, allora pasdaran berlusconiana e quindi anticomunista per definizione, oltre che per (continua) autoproclamazione.

Eppure, la sua è stata una riforma di concezione non “semplicemente” comunista, ma addirittura sovietica, non nel senso generico di iperstatalista, ma proprio in senso tecnico. Anche se ben pochi lo sanno, infatti, la Costituzione sovietica del 1936, promulgata da Stalin, non negava affatto la libertà di culto, parola, stampa, riunione e manifestazione, che erano anzi esplicitamente riconosciuti a tutti i cittadini dagli articoli 124 e 125 (https://it.wikipedia.org/wiki/Costituzione_sovietica_del_1936#Capitolo_X_%E2%80%93_Diritti_e_doveri_fondamentali_dei_cittadini).

Il problema era che ogni volta che qualcuno voleva esercitare tali diritti doveva richiedere un’autorizzazione a qualche organo dello Stato. Se questa veniva negata, come regolarmente accadeva ogniqualvolta ciò confliggeva in un qualsiasi modo con la linea del regime, ci si trovava costretti a scegliere tra rinunciare a farlo oppure farlo lo stesso ed essere denunciati per “attività antisovietiche”. Non però (formalmente) per le proprie idee, bensì per averle espresse senza autorizzazione.

Ebbene, la riforma Gelmini funziona esattamente così. Basata sul principio, di per sé impeccabile, di “autonomia nella responsabilità”, ha però il piccolo difetto di concepire la responsabilità non come obbligo di render conto dei risultati ottenuti nella propria autonoma attività, bensì come obbligo di render conto (in maniera ossessivamente e irragionevolmente dettagliata, proprio come in Unione Sovietica) di ogni singolo passo che si muove per raggiungere i risultati di cui sopra, il che in molti casi finisce col rendere impossibile raggiungerli.

Naturalmente non sto dicendo che la Gelmini si sia ispirata alla Costituzione sovietica, che probabilmente nemmeno conosce. Ma proprio per questo è ancor più significativa questa convergenza involontaria con il modus operandi di chi teoricamente dovrebbe stare ai suoi antipodi. E la stessa tendenza è presente in pressoché tutte le regolamentazioni di qualsiasi attività concepite negli ultimi anni da tutte le forze politiche, compreso il famigerato “controllo concomitante” del PNRR da parte della Corte dei Conti, di cui tanto si è parlato nei mesi scorsi.

Józef Tischner, considerato “il filosofo di Solidarność” (il sindacato degli operai polacchi guidato da Lech Wałesa che tanto contribuì alla caduta del comunismo in Polonia e, più in generale, nel blocco sovietico), soleva dire che il principio base del comunismo potrebbe essere riassunto nel seguente slogan: «È meglio il melo di Stato senza mele che il melo del contadino con le mele». Sotto questa forma nessun liberal lo sottoscriverebbe, ma se lo riformuliamo così: «È meglio il melo del contadino controllato dallo Stato senza mele che il melo del contadino senza controllo statale con le mele», allora abbiamo il principio che guida, se non esplicitamente almeno implicitamente, gran parte delle scelte dell’Europa da almeno due decenni.

Come ho già notato, c’è una singolare convergenza tra questa versione dell’esagerato statalismo marxista e il liberismo altrettanto esagerato (e altrettanto ideologico) che ispira altre parti della politica europea. In effetti, questo controllo ossessivo da parte dello Stato per le piccole imprese rappresenta un grave problema, che può anche portarle al fallimento, mentre per quelle grandi è solo una seccatura, che fa perdere tempo e denaro, ma che comunque sono in grado di gestire. Così, pur essendo di per sé penalizzante per tutti, alla fine l’oppressione burocratica finisce per favorire le grandi imprese, che già godono di altri ingiusti vantaggi, soprattutto in campo finanziario e fiscale, il che spiega come mai non ci sia mai da parte loro una protesta così decisa come ci si potrebbe aspettare.

5) Hanno invece fatto meno presa al di fuori della sinistra alcune altre idee che avevo menzionato come tuttora facenti parte integrante delle sue politiche, come la visione classista della società (anche se intesa in un senso un po’ diverso da quello tradizionale) o l’identificazione dei “lavoratori” con i soli lavoratori dipendenti. Tuttavia, almeno per alcuni aspetti, anche qui qualche conseguenza c’è stata.

La prima idea sta infatti alla base dell’ideologia del politically correct, che non è condivisa da tutta l’area liberal, ma nemmeno è limitata alla sola sinistra. Non insisterò tuttavia su questo, perché, a parte ciò che ne ho scritto io nell’articolo precedente, ne ha già trattato ad abundantiam Luca Ricolfi, anche su questo sito.

6) Una motivazione ultimamente classista, inoltre, si può intravedere a mio avviso anche nelle assurde norme che regolano la legittima difesa, che in effetti per la legge italiana praticamente non esiste, dato che per essere considerata tale richiede che anche un tabaccaio sessantenne che tiri fuori la pistola per la prima volta in vita sua davanti a dei delinquenti armati si comporti con una lucidità e una freddezza che neanche un marine perfettamente addestrato e armato di tutto punto.

Certo, ben pochi, perfino nella sinistra-sinistra, sottoscriverebbero quanto disse diversi anni fa Marco Rizzo in un soprassalto di onestà intellettuale dopo una rapina a una gioielleria: che il gioielliere era ricco, mentre il ladro era povero, quindi rubando in fondo faceva quasi un atto di giustizia (quello che una volta si chiamava “esproprio proletario”). Però è difficile credere che non sia questo che pensa, magari inconsapevolmente, molta gente, anche non di sinistra, quando la si sente dire cose del tipo “non si può togliere la vita a un ragazzo anche se voleva rubare” o “la vita umana vale comunque più dei soldi”: che, cioè, chi ha un’impresa commerciale (non importa se modestissima) è per definizione un privilegiato, mentre chi ruba (non importa se puntando una pistola in faccia al prossimo) è per definizione una vittima della società, della quale fa parte anche l’aggredito, che quindi, in fondo, è almeno parzialmente responsabile dell’aggressione che ha subito.

7) Quanto alla seconda idea, anche tra chi riconosce ai lavoratori autonomi lo status di lavoratori a pieno titolo, ha fatto breccia il pregiudizio che siano tutti, poco o tanto, evasori fiscali per definizione, arrivando spesso perfino a negare che, quando un’evasione (parziale) si verifica effettivamente, si tratti spesso di “evasione di sopravvivenza”, cioè dovuta al fatto che pagare le tasse per intero porterebbe al fallimento (il che tra l’altro non converrebbe nemmeno allo Stato, perché un’impresa fallita non paga più le tasse neanche parzialmente e in più gli getta sulle spalle dei disoccupati che dovrà in qualche modo aiutare).

8) Questo però non è tutto. Vi sono infatti alcune altre idee comuniste di successo che non avevo menzionato nell’articolo precedente perché non hanno conseguenze politiche dirette. Ma ne hanno molte a livello sociale e culturale e hanno in parte favorito anche l’affermarsi di quelle che ho discusso fin qui.

E, paradossalmente, quella più di successo di tutte è anche la più comunista, anzi, la più marxista di tutte: l’idea che tutto ciò che accade nel mondo (e in particolare tutto ciò che vi accade di male) si spieghi ultimamente in termini di interessi economici.

Ovviamente, non sto negando che le motivazioni economiche abbiano un peso rilevante e spesso anche decisivo nell’agire umano. Ma non sono le uniche e, almeno mediamente, neanche le più importanti, tant’è vero che nessuno (ma proprio nessuno) sarebbe disposto ad ammettere che le proprie azioni siano motivate esclusivamente o anche solo principalmente dall’interesse economico. E non perché ci auto-inganniamo (cosa in cui siamo effettivamente molto bravi, ma non in questo caso), ma semplicemente perché sappiamo, in base alla nostra esperienza interiore, che non è vero. E la prova che non di autoinganno si tratta è che sappiamo che non è vero neanche delle persone che conosciamo abbastanza da capirne le reali motivazioni.

Nonostante i nostri molteplici difetti, infatti, praticamente tutti, almeno ogni tanto (e molti anche spesso), agiamo in modo disinteressato, per motivi ideali o anche soltanto per quell’istinto che altrimenti ci impedirebbe di guardarci allo specchio e che fino a non molto tempo fa si chiamava coscienza. E anche quando agiamo male, non lo facciamo solo per avidità di denaro, ma per molti altri motivi, come orgoglio, rabbia, invidia, sesso, fame e disperazione (chi ha ancora un po’ di familiarità col Catechismo si renderà conto che non ho fatto altro che elencare, solo “aggiornandone” un po’ i nomi, i cosiddetti “sette vizi capitali”, così chiamati perché riconosciuti, non solo dal cristianesimo, ma anche dalla sapienza greca e romana, come le principali cause delle cattive azioni umane).

La riduzione di tutte queste cause a una sola – appunto l’interesse economico – è stata operata per la prima volta nella storia da Karl Marx e la giustificazione che egli ne ha dato è legata in modo strettissimo ai principi fondamentali della sua personale filosofia, per cui nessuno che non sia un marxista superortodosso ha il minimo motivo di accettarla. Eppure, oggi praticamente tutti, compresi gli anticomunisti più accaniti, sono dispostissimi ad ammettere – anzi, a sostenere a spada tratta – che “gli altri” (cioè tutti tranne noi e i nostri amici) si comportano proprio così, senza rendersi conto che se tutti pensano che siano “gli altri” a comportarsi così, in realtà ciò significa che nessuno lo fa realmente.

9) Da tale idea altre ne sono derivate, altrettanto infondate eppure altrettanto popolari. La prima è la contrapposizione tra “il Palazzo” e “la gente”, versione aggiornata della classica contrapposizione marxista tra capitalisti e proletariato, che ha fortemente contribuito a inaugurare la “stagione dell’antipolitica”, in cui siamo tuttora immersi. Da essa derivano, fra l’altro, lo strapotere di cui gode oggi la magistratura (il meno democratico dei “tre poteri” dello Stato moderno, dato che è l’unico non elettivo) e l’assurda quanto diffusissima idea che il compito del giornalista non sia informare bensì “lottare contro il potere”, qualsiasi cosa ciò voglia dire (e siccome può voler dire qualsiasi cosa, con ciò si apre la porta a qualsiasi abuso).

Il pregiudizio di cui sopra, infatti, si applica in modo particolarmente efficace ai potenti, che sono “gli altri” per eccellenza, dato che difficilmente la gente comune ha modo di conoscerli di persona. Inoltre, laddove c’è un grande potere inevitabilmente ci sono sempre di mezzo anche dei grandi interessi economici, per cui da qui ad affermare che i potenti agiscono soltanto per interesse economico il passo è breve. Ma non per questo è giustificato.

La storia umana, infatti, ci mostra chiaramente l’esatto opposto: e cioè che anche i potenti agiscono spesso in base a motivi diversi dal puro calcolo economico e a volte anche da qualsiasi calcolo, in modo semplicemente irrazionale. E perché non dovrebbero, dato che sono anche loro esseri umani, esattamente come noi? Quanti potenti sono caduti per aver agito spinti dalla rabbia o dall’orgoglio o per non aver voluto dare ascolto ai loro uomini migliori ed essersi circondati di adulatori e yes-men? Succede a tutti i livelli, in dittatura come in democrazia, nei partiti politici come nelle industrie, negli eserciti come nella criminalità organizzata. Succede perfino nelle squadre di calcio, con buona pace del luogo comune per cui “l’allenatore conosce meglio di noi i suoi giocatori e se ne lascia fuori qualcuno c’è di sicuro un motivo”: e, certo, un motivo c’è sempre, ma non sempre è razionale. La semplice e banale verità è che le passioni determinano la vita dei popoli, nel bene e nel male, esattamente nella stessa misura in cui determinano quella degli individui: cioè molto.

Ma non c’è niente da fare: pensare che i potenti agiscano sempre per interesse e quindi siano sempre “cattivi” è una tentazione quasi irresistibile, non solo perché fornisce un comodo capro espiatorio su cui scaricare le proprie frustrazioni senza prendersi le proprie responsabilità, ma anche perché fornisce una “spiegazione” a buon mercato che permette a chiunque di illudersi di capire senza sforzo dinamiche che invece spesso non sono dominabili neanche dagli studi più approfonditi.

E non solo di capire, ma addirittura di capire meglio degli altri, che è ancor più gratificante. Non per nulla, ogni volta che in una discussione, sia al bar sotto casa o nel salotto di Bruno Vespa, qualcuno tira fuori la “vera” causa economica di un fatto qualunque, accompagna immancabilmente la sua perlopiù semplicistica spiegazione con un irritante sorrisetto di superiorità (dimenticando, ancora una volta, che, siccome tutti pensano che la “vera” causa sia quella economica, la sua “superiore comprensione”, di cui va tanto fiero, altro non è in realtà che il più trito dei luoghi comuni).

10) Da ciò deriva un’altra conseguenza, che sta diventando un problema gravissimo: il complottismo. A prima vista questa affermazione può stupire, perché non solo il complottismo è sempre esistito, ma oggi è prevalentemente di destra. Tuttavia, le teorie complottiste odierne si distinguono per una peculiare caratteristica: anche quando sostengono tesi “di destra”, ne danno sempre una giustificazione “di sinistra”, perché nascono sempre dal portare alle sue estreme (benché sbagliate) conseguenze il ragionamento appena visto. In effetti, non conosco una sola teoria del complotto che non lo spieghi ultimamente in termini economici (tranne – forse – quelle sui Rettiliani, che dopotutto potrebbero anche essere venuti sul nostro pianeta per mangiarci anziché per fare affari).

11) Anche le protagoniste indiscusse di queste pseudo-spiegazioni pan-economiciste sono prese di peso dall’armamentario marxista: sono le cattivissime Multinazionali (la maiuscola è d’obbligo, dato che in queste narrazioni assumono caratteri più metafisici che storici), che nel giro di mezzo secolo sono passate dagli sproloqui per iniziati dei volantini ciclostilati delle Brigate Rosse ad essere tra i principali protagonisti della cultura popolare. Al giorno d’oggi il termine viene pronunciato con tono di “ovvia” riprovazione praticamente da chiunque, indipendentemente dalla sua collocazione politica, compresi quelli (e sono i più) che non sanno nemmeno cosa significa.

Di per sé, infatti, le multinazionali (senza maiuscola, cioè intese come entità sociologiche e non metafisiche) sono semplicemente «imprese di grandi dimensioni, la cui proprietà e direzione si trovano in un paese, mentre gli impianti di produzione e le strutture di distribuzione sono dislocati in paesi diversi» (definizione del Dizionario Treccani). Certo, essendo “grandi” hanno anche grandi poteri e grandi interessi e potrebbero decidere di usare i primi per favorire i secondi, a discapito del bene comune. Ma che possano farlo e che spesso lo facciano davvero (cosa che non intendo certo negare) non significa che debbano farlo per forza, sempre e comunque. Per esempio, solo per restare in casa nostra, la FIAT ha interferito con la politica italiana molto più pesantemente quando era un’impresa a carattere nazionale, che dava per scontato che i propri interessi coincidessero per definizione con quelli del Paese anche quando non era vero, che non dopo essersi trasformata nella multinazionale Stellantis.

Anche qui, per capire quanto i pregiudizi possano accecare potrà essere utile un esempio. Il 15 gennaio 2022 una petroliera della Repsol ha rovesciato in mare oltre 7000 tonnellate di petrolio di fronte alle coste del Perù. Che avesse o no delle colpe nell’incidente, la multinazionale ha comunque subito allestito un piano per ripulire le spiagge contaminate, ingaggiando 1500 operai, tra cui molti minorenni, pagati 80 soles al giorno. Il 15 febbraio su La Stampa è uscito un mega-articolo di Emiliano Guanella intitolato I ragazzini schiavi del Perù, in cui si denunciava questa vicenda come, appunto, un comportamento schiavistico da parte della multinazionale, dato che 80 soles al cambio attuale equivalgono a 20 euro, che per un lavoro così duro sembrano effettivamente pochi (anche se da qui a parlare di “schiavismo” ce ne corre).

Ma c’è un piccolo dettaglio che l’autore non ha considerato: in Perù il costo della vita è un quarto rispetto all’Italia, sicché prendere 80 soles al giorno laggiù è come prendere 80 euro al giorno qui da noi, ovvero 2400 euro al mese, che è lo stipendio di un professore universitario di seconda fascia al primo incarico. Al di là dell’opinione che si può avere del lavoro minorile nel Terzo Mondo (che comunque ha cause molto complesse e non può certo essere imputato a questa specifica iniziativa della Repsol), la paga era quindi buona, anzi, molto buona. E per di più era molto facile verificarlo.

Non so quale sia l’orientamento politico di Guanella, ma di certo il suo articolo è stato letto da persone di ogni orientamento politico, compresi molti anticomunisti. Eppure, sono pronto a scommettere che nessuno di loro, proprio come lui, si è nemmeno posto il problema di sapere quanto valgono 80 soles in Perù. Perché infatti perdere tempo a informarsi, dato che si tratta di una Multinazionale (con la maiuscola), che, come tale, “ovviamente” deve avere agito da schiavista? È molto più semplice (e più comodo…) indignarsi.

Ma c’è un ultimo aspetto che vale la pena sottolineare. Le multinazionali con la minuscola, cioè quelle che esistono nel mondo reale, sono prevalentemente occidentali (come è ovvio, dato che l’Occidente resta ancora di gran lunga la parte di mondo più ricca), ma non esclusivamente: esistono anche multinazionali in Russia (per esempio Gazprom, quella che ci ha tagliato il gas lo scorso inverno), in Cina (per esempio Alibaba, colosso delle vendite online molto più grosso e certo non molto più buono di Amazon) e insomma un po’ in tutti i paesi la cui economia sia abbastanza grande da permetterlo.

Eppure, le Multinazionali con la maiuscola, cioè le loro versioni mitologizzate che sono malvage per necessità metafisica, sono sempre occidentali per definizione, dato che l’Occidente è più ricco e quindi, in questa logica, più cattivo. Ancora una volta, questo finiscono per pensarlo, più o meno coscientemente, tutti quelli che credono a tale mitologia, anche se non sono di sinistra. E così finiscono anche per convincersi (ancora una volta più o meno coscientemente, ma comunque realmente) che l’unico colpevole di tutti i mali del mondo è l’Occidente.

Che tali mali possano essere dovuti, almeno in parte, anche a difetti delle altre culture è un’idea semplicemente inconcepibile (oggi doppiamente, perché per il politically correct, secondo il quale l’unica cultura che può essere accusata di ogni nefandezza è la nostra, ciò sarebbe discriminatorio). Perfino le ideologie violente e intolleranti, sia politiche che religiose, che dominano in gran parte degli altri paesi vengono sempre spiegate come effetto (e mai come causa) della povertà e dell’arretratezza, di cui “ovviamente” i responsabili siamo noi, il che in parte è vero, ma solo in parte. Pretendere invece che ciò valga in senso assoluto equivale in pratica a sostenere che le idee sono una mera conseguenza delle condizioni economiche, che è l’unica vera causa di tutto. In termini marxisti, “la struttura è l’economia, mentre l’ideologia è solo la sovrastruttura, che è determinata dalla struttura”. Appunto…

12) L’ultima conseguenza è il pacifismo e, in particolare, il mito del dialogo-che-risolve-sempre-tutto. A prima vista questa sembrerebbe un’idea comunista solo per accidens, nel senso che storicamente il pacifismo è stata un’invenzione puramente strumentale dei partiti comunisti europei per mettere in difficoltà i nemici dell’Unione Sovietica. Per Marx, infatti, non il dialogo, bensì la violenza è la levatrice della storia. Eppure, c’è almeno un senso in cui il pacifismo si basa su un’idea autenticamente marxista, cioè, ancora una volta, la tesi pan-economicista. Se infatti le guerre sono dovute esclusivamente a interessi economici, allora ne saranno responsabili solo i “cattivi” governi che tali interessi difendono, mentre i “buoni” popoli, che ne sono le vittime, saranno naturalmente portati a fare la pace.

Ora, in questo c’è qualcosa di vero, ma se lo si assolutizza si finisce per non capire più come sia possibile che un popolo possa decidere di combattere e morire per la propria libertà. E allora, quando l’evidenza di ciò sembra schiacciante, come per esempio nel caso degli ucraini, ecco arrivare in soccorso le altre idee preconcette che abbiamo appena visto: una bella teoria del complotto che ci “spiega” come e perché “in realtà” essi siano manipolati (ovviamente per motivi economici) dai loro capi, a loro volta manovrati dalle cattivissime Multinazionali (ovviamente occidentali) che vogliono “usarli” per distruggere la Russia, ovvero la neo-URSS dell’ex-mica-tanto-ex comunista Putin (https://www.fondazionehume.it/politica/la-frattura-tra-ragione-e-realta-1-su-mosca-sventola-bandiera-rossa/).

E così il cerchio si chiude e si arriva all’assurdo di vedere marce per la pace in Ucraina (cioè, di fatto, per la sua resa) svolgersi al canto di Bella, ciao, che racconta la storia di un tizio qualunque che una mattina si è svegliato e, trovandosi in casa l’invasor, ha deciso di combattere per la libertà anche a costo di morire. Che poi non è una storia, ma ciò che è realmente successo in Italia con la Resistenza. Eppure, spesso sono proprio quelli che più di tutti la esaltano quelli che meno di tutti riescono a credere che gli ucraini stiano semplicemente facendo la stessa cosa. A meno di pensare che siano tutti pazzi o in malafede, mi pare che l’unica spiegazione sensata di tale atteggiamento schizofrenico sia quella che ho appena proposto.

Ma non è tutto. Infatti, proprio perché interessati solo al guadagno, in quest’ottica anche i “cattivi” governi dovrebbero essere disposti a mettersi d’accordo, purché si proponga loro un compromesso vantaggioso per tutti. Di qui, come dicevo, la fiducia nell’onnipotenza del dialogo, che è un’altra faccia del pacifismo, meno facilmente riconoscibile, ma non per questo meno reale, che per alcuni è certamente un mero pretesto funzionale a precisi fini ideologici, ma per molti altri nasce invece da una sincera convinzione. Che però, essendo erronea, ha conseguenze drammatiche.

Secondo questa logica, infatti, che qualcuno possa rifiutare un accordo non in base a un interesse quantificabile (problema che richiede solo un più paziente e prolungato dialogo), ma per motivi ideologici o addirittura irrazionali (che invece lo escludono in radice) è semplicemente inconcepibile. E ancor più inconcepibile appare l’idea che a rifiutare il dialogo possano essere i governi dei paesi più poveri, che in questa logica sono per definizione i meno propensi alla guerra, avendo pochi interessi da difendere. Purtroppo, ancora una volta la questione non è solo teorica: come tutti gli errori concettuali, infatti, anche questo finisce sempre per condurre a scelte pratiche altrettanto errate e spesso disastrose.

Per esempio, è essenzialmente in base a questa logica che moltissimi occidentali, non solo a sinistra, anche quando criticano i palestinesi, in fondo in fondo sono convinti che tutto ciò che di male accade in Palestina ultimamente sia colpa di Israele. Non importa che fin dall’inizio, prima che iniziassero le guerre e l’occupazione e che Israele diventasse una potenza militare, i palestinesi (non solo i capi, ma anche il popolo) abbiano lottato non per creare il proprio Stato, ma per distruggere quello israeliano. Non importa che invece in Israele solo alcuni governi (anche se purtroppo tra essi c’è anche quello attuale) abbiano rifiutato ogni dialogo, mentre altri hanno davvero cercato di fare la pace e con chi si è dimostrato disponibile, come Egitto e Giordania, l’hanno anche fatta realmente. Non importa che i palestinesi non  abbiano mai manifestato contro Hamas, non solo a Gaza, dove è pericoloso (ma è pericoloso anche in Iran, eppure i dissidenti iraniani lo hanno fatto), ma neanche in Europa, dove non correrebbero nessun rischio. E non importa neppure che a Gaza l’occupazione israeliana sia finita da ben 18 anni e che a governare la Striscia per tutto questo tempo, con risultati disastrosi, sia stato Hamas. Conta solo che i palestinesi sono poveri e quindi “non possono” realmente volere la guerra, ma vi sono spinti dalla loro condizione economica.

La possibilità inversa, che cioè il fanatismo, il terrorismo e l’indisponibilità al dialogo possano, almeno in parte, derivare da un certo tipo di cultura e possano, almeno in parte, essere non l’effetto, ma la causa della povertà, in genere non viene nemmeno presa in considerazione. Solo l’ultimo attacco di Hamas, che ha raggiunto un livello di disumanità mai visto, è riuscito a far vacillare, per la prima volta, questa convinzione, ma vedrete che non durerà (i distinguo sono già iniziati e il fatto che a guidare la controffensiva israeliana sia Netanyahu, che purtroppo è anch’egli un fanatico, non aiuta).

Un altro esempio clamoroso è l’atteggiamento che l’Occidente ha tenuto nei confronti dei colpi di Stato in Turchia ed Egitto, che abbiamo condannato duramente, mentre avremmo dovuto sostenerli senza esitazioni, se non pubblicamente almeno sottobanco, dato che erano l’unico modo di liberarci di regimi pericolosissimi, come la “democratura” islamista pseudo-moderata di Erdogan e la dittatura islamista a tutto tondo che i Fratelli Musulmani si stavano preparando ad instaurare, tant’è vero che l’intervento dell’esercito era stato richiesto da tutti i partiti egiziani democratici, nessuno escluso.

Ma niente: “i problemi vanno risolti con il dialogo e non con la forza”, abbiamo ripetuto come un mantra dal mondo dei sogni in cui viviamo ormai quasi in permanenza, col risultato che Erdogan se l’è cavata per il rotto della cuffia e il giorno dopo il colpo di Stato l’ha fatto lui. Ovviamente abbiamo condannato anche quello, ma, altrettanto ovviamente, le nostre sono rimaste parole vuote. Il risultato nel mondo reale è stato che ora ci troviamo a fare i conti con un tiranno sanguinario e mezzo pazzo che ha già ammazzato migliaia di persone, sia in patria che fuori, contribuendo pesantemente a destabilizzare tutto il Medio Oriente, e che ora sta pure dalla parte di Hamas. E pensare che sarebbe bastato passare discretamente ai ribelli la posizione del suo aereo e con un solo missile ci saremmo risparmiati tutto questo…

In Egitto, invece, il golpe di Al-Sisi per fortuna è riuscito, ma non certo per merito nostro. Naturalmente quando dico “per fortuna” non è perché pensi che l’attuale regime egiziano sia l’ideale, ma perché è il male minore realisticamente possibile in quella parte di mondo in questo momento storico. Se non siete d’accordo, provate a pensare a quanto peggiore sarebbe oggi la situazione in Medio Oriente se l’Egitto fosse guidato dai “fratelli maggiori” di Hamas (perché Hamas, per chi non lo sapesse, non è altro che la “filiale” palestinese dei Fratelli Musulmani). E, già che ci siamo, provate anche a pensare a quanto migliore sarebbe invece la situazione, non solo in Medio Oriente, ma anche in Ucraina, se la Turchia fosse tornata ad essere ciò che era prima di Erdogan, cioè un paese laico, moderato, membro affidabile della NATO e nemico della Russia.

Il vertice (almeno per ora…) della disconnessione dalla realtà prodotta da questa fede acritica nell’onnipotenza della parola è stato probabilmente raggiunto qualche mese fa, quando l’allora ancora direttore del quotidiano La Stampa, Massimo Giannini, in un memorabile editoriale, dopo aver (giustamente) bollato con parole di fuoco la repressione del dissenso in Iran, aveva solennemente annunciato che basta, la misura era colma ed era giunta l’ora di fare qualcosa di veramente drastico, eclatante e soprattutto incisivo, cioè… una raccolta di firme!

Forse qualcuno penserà che questa iniziativa è certo inutile, ma almeno non è dannosa. Ma non è così. Qualsiasi espressione di questa ideologia del dialogo-che-è-sempre-possibile quando in realtà non lo è (che ovviamente è cosa ben diversa dal grave dovere di perseguirlo ogni volta che è davvero possibile) è dannosa, anche quando non ha conseguenze negative dirette, perché contribuisce a creare nell’opinione pubblica la falsa idea che se il dialogo non dà risultati è solo perché non lo si persegue con la dovuta convinzione.

Così, perfino quando, come per esempio nel caso di Putin, è chiaro come la luce del sole che l’indisponibilità a trattare non ha affatto motivazioni economiche, ma ideologiche (e, almeno in parte, psichiatriche), a impedire che si prenda finalmente atto dell’evidenza scatta di nuovo lo stesso meccanismo di prima: una bella teoria del complotto che ci “spiega” quali sono le “vere” ragioni (ovviamente di ordine economico) per cui le cattivissime Multinazionali (ovviamente occidentali) impediscono che si tengano i negoziati di pace che “in realtà” Putin non vede l’ora di iniziare. E così ancora una volta il cerchio (rosso) si chiude…

Eppure, le guerre danneggiano sempre l’economia, il che è difficilmente compatibile con la loro spiegazione in termini meramente economici. Per convincersene basta guardare l’indice Dow Jones nell’ultimo secolo (fig. 1), che, come dice lo stesso Hirsch, autore dello studio, «mostra come il mercato non sia riuscito a compiere alcun progresso duraturo mentre il mondo era coinvolto in una significativa conflagrazione».

Figura 1 – L’indice Dow Jones dal 1913 al 2010 con indicate le date chiave delle 6 guerre a cui gli USA hanno preso parte nel periodo considerato: I Guerra Mondiale: 1917 entrata in guerra – II Guerra Mondiale: 1934 Hitler prende il potere; 1939 invasione tedesca della Polonia; 1941 attacco a Pearl Harbor ed entrata in guerra – Corea: 1950 entrata in guerra – Vietnam: 1955 entrata in guerra; 1965 inizio del coinvolgimento massiccio; 1972 ritiro delle truppe – Guerra del Golfo: 1993 inizio e fine – Afghanistan: 2001 attacco alle Torri Gemelle e invasione dell’Afghanistan. Si tenga presente che il grafico è in scala logaritmica, che rappresenta le variazioni percentuali in modo sostanzialmente indipendente dal valore assoluto, il che permette un confronto omogeneo tra diversi periodi, ma dà anche l’impressione che esse siano di minore entità rispetto a quella reale. Il grafico è tratto da Jeffrey A. Hirsch, Super boom is underway!, in “Stock Trader’s Almanac”, 11/04/2019 (https://www.stocktradersalmanac.com/Alert/20190411_2.aspx).

Solo la Guerra di Corea e quella del Golfo, che peraltro godeva di un vastissimo sostegno internazionale e si è conclusa in pochi mesi con una vittoria totale, non hanno causato danni significativi all’economia americana (e per questo non erano state incluse nel grafico), anche se un calo nella fase iniziale c’è comunque stato. In tutti gli altri casi, l’entrata in guerra è sempre stata seguita (e nel caso della II Guerra Mondiale anche preceduta, a causa dei drammatici eventi che la facevano presagire) da un prolungato crollo della Borsa. Quando le cose sono andate bene c’è stata poi una progressiva ripresa, a volte a guerra ancora in corso, a volte soltanto dopo, che peraltro è almeno in parte solo apparente, poiché in larga misura è dovuta al fatto che, come nota ancora Hirsch, «una volta finita la guerra, è iniziata l’inflazione causata dalla spesa pubblica», il che ha fatto crescere il PIL nominale, ma non la ricchezza reale. Invece, quando in Vietnam le cose hanno iniziato a mettersi male c’è stata una lunga stagnazione e poi, al momento della ritirata, un lungo crollo seguito da un’ancor più lunga stagnazione.

Ovviamente, le guerre non sono l’unica causa che ha influito sull’andamento dell’economia americana in questi periodi, ma a uno sguardo d’insieme sembra davvero difficile sostenere che le abbiano fatto bene. E del resto la cosa è soltanto logica. L’economia moderna, infatti, per prosperare ha bisogno di facilità nel reperire le materie prime e nel far circolare le merci, sicurezza nei trasporti, stabilità politica, fiducia nel futuro e, sì, anche un pizzico di superficialità, che favorisce il consumismo: tutte cose che le guerre mettono a rischio. Certamente, una vittoria militare può portare dei benefici economici, ma anche in tal caso non è la guerra in sé a portarli, ma solo le sue conseguenze.

La verità è che dall’economia di guerra trae vantaggio solo l’industria di guerra, che perfino negli USA rappresenta appena il 2% del PIL. Certo, la sua influenza sulla politica è ben maggiore di questa misera percentuale, ma è ugualmente difficile credere che possa arrivare al punto di poter far prevalere i propri interessi contro quelli del restante 98% del sistema economico, che comprende moltissime industrie almeno altrettanto grandi e influenti, se non addirittura di più.

Eppure, nonostante l’evidenza contraria, l’idea che a causare le guerre siano le industrie che producono armi è radicatissima.  Anzi, molti ritengono addirittura che non ci sia neanche bisogno di particolari pressioni da parte loro, ma che a scatenare le guerre basti il fatto in sé di produrre armi e venderle ai vari governi.

Ora, è certo brutto che si investano tante risorse per questo (anche se questo non è sicuramente l’unico modo in cui sprechiamo i nostri soldi e probabilmente neanche il più assurdo: ne riparleremo presto). E, certo, avere molte armi a disposizione può invogliare qualcuno ad usarle. Ma pretendere che questa sia la causa delle guerre è davvero mettere il mondo alla rovescia. Sarebbe come dire che, se invece di usare il coltello per tagliare la torta da offrire ai miei ospiti lo uso per sgozzarli, la colpa è del coltello. Ed è ancor più paradossale (nonché, per me cattolico, fonte di un certo disagio) che questa stramba idea compaia anche in molti documenti ufficiali della Chiesa, che pure sa bene, come dice il Vangelo, che la causa del male si trova nel cuore dell’uomo e non in ciò che sta fuori di lui.

Inoltre, seguendo questa logica, se volessimo essere coerenti, allora dovremmo disarmare anche la polizia o, meglio ancora, abolirla del tutto. E infatti questo è esattamente ciò che vorrebbe Black Lives Matter, per il quale è l’esistenza della polizia a causare la criminalità. È soltanto un caso che questo movimento nasca nell’ambito della sinistra radicale e sostenga la cancel (in)culture, cioè, per dirla chiara, la completa distruzione della cultura occidentale, ritenuta la causa di ogni male esistente al mondo? Ed è soltanto un caso che nelle università americane più influenzate da questa ideologia ci siano continue manifestazioni a favore di Hamas (non dei palestinesi in generale, ma proprio di Hamas)?

La realtà è ben diversa. Solo se entrano in gioco questioni di natura più complessa e di più lungo periodo (sul quale si può sperare di compensare i danni che inevitabilmente la guerra produrrà sul breve periodo), che riguardano anche una parte sostanziale dell’industria non di guerra e hanno inoltre una rilevanza strategica e politica, come per esempio assicurarsi il controllo di determinate materie prime o di determinate rotte commerciali – allora, e solo allora, gli interessi economici possono effettivamente causare delle guerre. E spesso le hanno causate realmente. Ma di qui a dire che tutte le guerre hanno soltantomotivazioni economiche c’è un salto enorme, che né la logica né la storia possono giustificare.

Non per nulla, perfino un autore non certo incline all’idealismo o al sentimentalismo come Lucio Caracciolo è arrivato a scrivere:«Il movente primario dei conflitti di potere non è l’acquisizione di beni materiali. È lo status. Identità riconosciuta da chi riconosciamo abilitato a riconoscercela. Diamo al thymós quel che è del thymós. È la brama di riconoscimento che muove la storia. […] La Russia invade l’Ucraina perché vuole certificato da Washington il rango di grande potenza mondiale revocatole dal Numero Uno finita la pace della guerra fredda» (La mente prigioniera di Putin, su La Stampa dell’11/11/2022).

Enunciata in termini così generali, questa affermazione è certo eccessiva, anche se per quanto riguarda l’Ucraina è a mio avviso assolutamente corretta (e ciò significa che nemmeno un capo di Stato comunista e nostalgico dell’Unione Sovietica come Putin si comporta secondo i dettami della filosofia marxista). In ogni caso, se è vero che le guerre non scoppiano certamente solo per questo motivo, è altrettanto vero che scoppiano anche per questo motivo – oltre che per molti altri: e quindi non solo per motivi economici.

Perché tutto questo?

Terminata la nostra analisi, c’è però un’ultima cosa che dobbiamo chiederci: perché così tante idee tipiche del comunismo sono penetrate così profondamente nella nostra mentalità, al punto che spesso le facciamo nostre senza nemmeno rendercene conto?

Io credo che ciò dipenda dal fatto che il comunismo ha qualcosa che entra in risonanza con alcune profonde inclinazioni dell’uomo moderno, che sono presenti anche in chi a livello cosciente vi si oppone. Questo lo aveva già capito, ben 45 anni fa, Václav Havel, il più geniale dei dissidenti del blocco sovietico, che dopo la sua caduta divenne Presidente prima della Cecoslovacchia liberata e poi della neonata Repubblica Ceca. In un passo, che cito molto spesso, del suo straordinario libro Il potere dei senza potere (La Casa di Matriona – Itacalibri, Milano – Castel Bolognese 2013), pubblicato clandestinamente nel 1978 tramite il samizdat, parlando del sistema comunista Havel scriveva infatti:

«Che l’uomo si sia creato e continui, giorno per giorno, a crearsi un sistema finalizzato a sé stesso, attraverso il quale si priva da sé della propria identità, non è una incomprensibile stravaganza della storia, una sua aberrazione irrazionale o l’esito di una diabolica volontà superiore che per oscuri motivi ha deciso di torturare in questo modo una parte dell’umanità. Questo è potuto e può succedere solo perché evidentemente ci sono nell’uomo moderno determinate inclinazioni a creare o per lo meno a sopportare un tale sistema. […] La crisi planetaria della condizione umana penetra sia il mondo occidentale sia il nostro: in Occidente assume solo forme sociali e politiche diverse. […] Si potrebbe anzi dire che quanto più grande è […], rispetto al nostro mondo, lo spazio per le intenzioni reali della vita, tanto meglio […] nasconde all’uomo la situazione di crisi e più profondamente ve lo immerge» (pp. 51 e 125).

Havel non ha specificato l’esatta natura di tali “inclinazioni”, ma l’ha lasciata chiaramente intendere. Si tratta essenzialmente di quelle per la giustizia e l’uguaglianza, però intese (attenzione!) non in senso generico, bensì nel modo peculiare in cui l’uomo moderno vorrebbe assicurarsele: «sognando sistemi così perfetti che nessuno avrà bisogno di essere buono», per dirla con un altro passo che cito in continuazione, tratto da un’opera teatrale del grande poeta inglese Thomas Stearns Eliot (The Rock, Coro VI, vv. 23-24).

Come ho sostenuto nel già citato La scienza e l’idea di ragione e, su questo sito, nell’articolo La frattura tra ragione e realtà(https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta/), che ha concluso la mia serie di interventi sul Covid e ha fornito lo spunto iniziale per questa nuova serie di contributi, io credo che dietro a questo atteggiamento ci sia quello che per me rappresenta “il” problema di fondo della modernità, cioè il radicale rifiuto del rischio, che nasce da una altrettanto radicale diffidenza verso la realtà e ha per conseguenza una patologica mania del controllo.

Nato nel Rinascimento, tale atteggiamento ha trovato la sua espressione più compiuta ed emblematica nella filosofia di Cartesio, ma per molto tempo è rimasto circoscritto a ristrette élites intellettuali, diventando mentalità dominante solo negli ultimi decenni. E non c’è dubbio che a renderlo tale sia stato principalmente il comunismo (che della filosofia moderna è figlio legittimo, derivando direttamente dall’idealismo hegeliano), il quale promette esattamente questo: la giustizia e l’uguaglianza garantite da un meccanismo oggettivo, inesorabile e – soprattutto – impersonale, anziché dallo sforzo personale di usare bene la propria libertà. Infatti, cosa c’è di più rischioso della libertà?

Trovo convincente questa chiave di lettura soprattutto perché spiega parecchie cose che a prima vista appaiono non collegate o addirittura in contrasto fra loro. Una delle cose più importanti che ho cercato di mostrare nel libro è come tale atteggiamento stia alla base sia del razionalismo che del relativismo, le due correnti filosofiche più caratteristiche della modernità, che però in apparenza sono contraddittorie. Viste in quest’ottica, invece, appaiono come due facce della stessa medaglia, giacché entrambi condividono la convinzione che la verità non si possa incontrare nell’esperienza (convinzione che per la sua importanza fondamentale nel mio libro ho chiamato “dogma centrale della modernità”) ed entrambi portano all’idolatria delle regole, che, assolute o convenzionali che siano (da questo punto di vista non fa differenza), diventano l’unico possibile (e perciò intrascendibile) orizzonte di senso.

Tra le altre cose, questa interpretazione rende un po’ più comprensibile come mai la sinistra occidentale, partita da posizioni iper-razionaliste, abbia finito col diventare la paladina del relativismo, dato che è lo stesso cammino che ha compiuto nell’ultimo secolo il razionalismo occidentale nel suo complesso. Ma ci sono anche implicazioni più dirette.

In particolare, il rifiuto del rischio e la mania del controllo spiegano come mai gli aspetti del comunismo che riscuotono più successo fra i liberal non comunisti non siano in genere quelli più nobili e visionari, ma quelli più illiberali e autoritari. E infattinegli ultimi anni, favoriti dalle varie crisi, a cominciare dal Covid, tali aspetti hanno cominciato ad emergere in maniera decisamente preoccupante in molte democrazie occidentali (su questo, oltre agli interventi miei e di Ricolfi sul Covid, si vedano gli articoli dello stesso Ricolfi e di Marco Del Giudice sul politically correct). E il peggio rischia di arrivare adesso, con l’ecologically correct (vedi ancora Ricolfi, https://www.fondazionehume.it/societa/punire-il-negazionismo-climatico/).

Ma ha la stessa radice anche il dilagare nel mondo liberal dell’ossessione per il digitale e, in particolare, per la (inesistente) intelligenza artificiale, nonostante tutti gli argomenti e anche i dati di fatto che ne mostrano i limiti intrinseci e gli effetti negativi che il loro uso pervasivo ha già adesso e rischia di avere ancor di più in futuro (si vedano per esempio: Luca Ricolfi, https://www.fondazionehume.it/societa/chatgpt-limpostore-autorevole/; Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/societa/chatgpt-io-e-chat-lo-studente-zuccone/).

Anche qui, infatti, la motivazione di fondo che induce a “voler credere” a tutti i costi, contro ogni evidenza e ragionevolezza (cfr. Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/societa/chatgpt-gli-imposturati-autorevoli-e-la-superluna/), nella reale esistenza dell’IA è la promessa di un sistema che garantisca la generazione del bene in modo automatico, senza dover passare attraverso il “rischioso” giudizio personale, che, non per nulla (fateci caso, per favore!), sempre più spesso e in un numero sempre maggiore di ambiti è considerato come di per sé stesso negativo.

Pertanto, se la mia analisi è giusta, allora ultimamente il problema non è liberarsi dall’influsso del comunismo, ma da quello della modernità in quanto tale. Non però – si badi bene – cercando un nostalgico quanto vano ricupero di un passato che aveva anch’esso i suoi problemi e che in ogni caso non può tornare, bensì in nome di un’altra e migliore modernità. Infatti, come sostengo da tempo, non esiste una sola modernità, ma due.

La prima, che ha prevalso a livello culturale, è appunto quella inaugurata da Cartesio, che è basata su una radicale frattura tra ragione ed esperienza, ha come principio fondamentale la prevalenza della teoria sulla realtà e ha generato l’ideologia. La seconda, invece, è quella di Galileo, che è basata sulla inscindibile unità di ragione ed esperienza, ha come principio fondamentale la prevalenza della realtà sulla teoria e ha generato la scienza. Quest’ultima, però, ha vinto a livello pratico, perché tutta la nostra civiltà si basa sulla scienza, ma ha perso a livello culturale: e questa è la radice di molti, se non tutti, i nostri attuali problemi.

La soluzione, quindi, può consistere solo nel diffondersi di una mentalità autenticamente scientifica, che ristabilisca il primato della realtà e dell’esperienza (e che è cosa ben diversa dallo scientismo, che è anch’esso un’ideologia che fa violenza alla realtà invece di adeguarsi ad essa).

Mi pare evidente che questo non è ciò che sta accadendo, non solo a sinistra, ma anche a destra, dove si fanno spesso critiche giuste, ma poi le si vanificano andando dietro alla pseudoscienza e al complottismo. Ne parleremo nei prossimi articoli.

Nota bene finale

Prima di chiudere, però, vorrei aggiungere un “nota bene”, a scanso di possibili equivoci. Se ho ritenuto importante scrivere questa sorta di “trilogia del comunismo” (nella Neo-URSS di Putin, nella Sinistra occidentale e nell’Occidente in generale), è perché il comunismo gode tuttora di una fama molto migliore di quanto meriti e, soprattutto, è ancora ben vivo e vegeto, mentre generalmente lo si ritiene ormai morto e sepolto, il che può portare (e porta effettivamente) a formarsi idee sbagliate e, di conseguenza, a compiere scelte altrettanto sbagliate. Ciò però non significa che io sia un uomo di destra o comunque un conservatore, come si vedrà ben presto, soprattutto quando cominceremo a parlare di economia.

In effetti, io non seguo nessuna particolare dottrina politica. L’unica cosa a cui sono o almeno cerco di essere fedele, per come ne sono capace, è la realtà. Comunque, se proprio dovessi definirmi, direi che sono un “anarchico pragmatico”.

Sono tendenzialmente anarchico perché è un dato di realtà che le regole (tutte le regole) di per sé sono un male, dato che rappresentano sempre l’imposizione della volontà di qualcuno a tutti (quando tutti sono d’accordo, infatti, non c’è bisogno di regole) e, di conseguenza, hanno sempre dei costi: anzitutto in termini di libertà, ma poi anche in termini economici, perché per farle rispettare c’è bisogno di uomini e mezzi che vengano pagati per occuparsi di questo anziché per dedicarsi a scopi costruttivi.

Non sono però completamente anarchico perché è pure un dato di realtà che in un mondo senza nessuna regola non si affermerebbe la libertà di tutti, bensì la prepotenza di pochi: di conseguenza, le regole sono un male necessario, che però non per essere necessario cessa di essere un male. Di conseguenza, le regole dovrebbero essere limitate, appunto, a quelle realmentenecessarie e, soprattutto, dovrebbero essere giudicate non astrattamente, in base a principi teorici, quali che siano, bensì pragmaticamente, in base alla loro capacità di produrre benefici maggiori dei danni che sempre inevitabilmente causano (un corollario di ciò è che non esistono regole “semplicemente” inutili e che pertanto ogni regola che non sia utile è dannosa: se ogni regola ha un costo, infatti, una regola inutile, non producendo benefici che possano compensare i suoi costi, ha un saldo negativo e quindi è in realtà dannosa).

Perciò, in tutti i miei ragionamenti cerco sempre di attenermi a un semplice metodo, che tuttavia non per esser semplice è anche facile (“semplice”, infatti, è il contrario di “complicato”, non di “difficile”). Tale metodo presenta una certa analogia con quello della scienza naturale, la quale infatti vi gioca un ruolo importante, ma da sola non è sufficiente, perché qui si tratta anche di valutare i fini, che per definizione non rientrano nell’ambito di competenza del metodo sperimentale galileiano. E questi sono i punti fondamentali:

1) per ciascun problema, cercare anzitutto di stabilire quali sono i dati di realtà di cui disponiamo e, in particolare, quali cose sono ragionevolmente certe e quali invece incerte;

2) in base a ciò, cercare di stabilire quali effetti avrebbero le diverse soluzioni che si possono immaginare per risolvere il problema in questione;

3) infine, discutere i pro e i contro di ciascuno dei possibili effetti per stabilire qual è quello che ci appare preferibile, dal che consegue quale soluzione vada adottata.

Forse tutto ciò vi sembrerà ovvio. E lo è, in teoria. Ma se credete che lo sia anche in pratica, allora temo che non abbiate un’idea chiara di come funziona il mondo in cui vivete..

Oggi, infatti, quasi tutti procedono in senso esattamente inverso: prima fanno un elenco dei fini che ritengono desiderabili e/o necessari, poi in base a questi propongono delle soluzioni ispirate a principi teorici che sembrano in armonia coi fini prescelti e infine cercano di dimostrare che i dati di realtà supportano le soluzioni da loro proposte, il che, però, in genere non accade (e per forza, dato che tali soluzioni sono state scelte prescindendo dai dati di realtà). A questo punto ci si aspetterebbe che le soluzioni proposte venissero rimesse in discussione per adattarle alla realtà, ma, di nuovo, in genere ciò non accade: quello che accade, invece, è che si cerca di adattare la realtà alla teoria (senza farsi problema di deformarla e travisarla) o, addirittura, semplicemente la si ignora.

Uno dei pochi luoghi in cui oggi è possibile ragionare per dritto anziché per rovescio (che non significa necessariamente riuscirci, ma almeno provarci) è il sito della Fondazione Hume. È per questo che ci dedico tanto tempo, anche se in termini di carriera accademica quello che scrivo qui non vale nulla, benché il vaglio critico a cui vengono sottoposti i contributi sia sicuramente molto più serio di quello di molte riviste che invece vengono considerate valide ai fini concorsuali (ah, le meraviglie della Legge Gelmini…).

Ma, anche se sicuramente molti, pur avendo letto questo articolo, continueranno a non crederci, io invece penso davvero che l’interesse economico non sia l’unica cosa che conta nella vita. Perciò continuerò a scrivere di queste cose finché mi sembrerà di avere qualcosa di utile da dire. E finché Ricolfi mi sopporta, temo che dovrete farlo anche voi.

“Lo Zar è autentico oppure no?” – Sulla morte di Evgenij Prigozhin

28 Agosto 2023 - di Paolo Musso

In primo pianoPolitica

La morte (ampiamente annunciata) di Evgenij Prigozhin, avvenuta mercoledì 23 agosto, ha riproposto tutti gli interrogativi sulla sua apparentemente incomprensibile rivolta e la sua ancor più incomprensibile resa.

Almeno una, fra le tante ipotesi avanzate, cioè quella complottista, per cui sarebbe stata tutta una farsa, orchestrata di comune accordo con Putin per far “venire allo scoperto” i potenziali traditori, dovrebbe essere stata spazzata via, visto che il suo presunto complice l’ha appena fatto fuori (anche se i suoi fautori difficilmente se ne daranno per intesi, dato che per loro non vale né il principio di realtà né quello di non contraddizione).

Ma se questa ipotesi è certamente sbagliata, è difficile dire quale sia invece quella giusta, anche perché il fallimento della rivolta ha impedito di cogliere appieno l’enormità dell’evento, che appare invece in tutta la sua imponenza se si pensa a cosa sarebbe successo se la Wagner fosse arrivata a Mosca e Prigozhin avesse preso il potere, come a un certo punto è sembrato perfettamente possibile. Si sarebbe infatti trattato del primo colpo di Stato riuscito in Russia dopo quello della Rivoluzione d’Ottobre del 1917, oltre un secolo fa, nonché dell’unico finora verificatosi in una moderna superpotenza.

Tenendo presente questo, i fatti, già di per sé sconcertanti, diventano quasi incomprensibili, a cominciare da quale fosse il vero obiettivo della rivolta.

È difficile credere che Prigozhin volesse davvero prendere d’assalto la capitale del più grande Paese del mondo con appena ventimila mercenari e senza nessun appoggio evidente da parte di altri poteri dello Stato. Ma è almeno altrettanto difficile credere che abbia intrapreso un’azione così dirompente e senza ritorno solo per qualche rivendicazione “sindacale” (il non assorbimento della Wagner nell’esercito russo) o politica (la testa dei suoi nemici Shoigu e Gerasimov).

E poi, altre domande. Come è stato possibile che la Wagner abbia potuto penetrare come un coltello nel burro per centinaia di chilometri nel territorio della seconda superpotenza del mondo, che per giunta si trovava già da tempo in stato di mobilitazione generale a causa della guerra? E perché la rivolta di Prigozhin ha avuto un così entusiastico sostegno popolare? Chi l’ha fermato e come, se fino a quel momento nessuno aveva mosso un dito? O, se si è fermato da solo, perché l’ha fatto, sapendo perfettamente che con ciò avrebbe firmato la sua condanna a morte?

Alcune risposte sensate sono state date, ma mi sono sempre sembrate insufficienti.

Sul primo punto, per esempio, Lucio Caracciolo aveva sostenuto che ciò era dipeso dal fatto che Putin ha mandato in Ucraina tutti i soldati che ha potuto, lasciando quasi completamente sguarnito il territorio del suo immenso paese, il che sembra plausibile (benché contraddica l’altra tesi dello stesso Caracciolo secondo cui la Russia sarebbe in grado di continuare la guerra praticamente all’infinito; ma questo è un altro discorso, che prima o poi riprenderò).

Ciò però non spiega perché da parte dell’esercito russo non ci sia stata la benché minima reazione all’avanzata della Wagner  (un paio di aerei militari abbattuti e una dozzina di soldati uccisi non indicano certo una resistenza organizzata, ma piuttosto delle sporadiche iniziative individuali, verosimilmente non autorizzate). E ciò benché il suo primo passo sia stato occupare il centro di comando di Rostov che presiedeva all’intera “Operazione Speciale”, cioè il luogo meglio difeso di tutta la Russia.

Quanto al perché Prigozhin si sia fermato, il mistero è ancor più fitto. Uno dei nostri generali a riposo che collaborano come esperti con le televisioni (non mi ricordo più chi, forse Angioni) aveva detto che la Wagner non poteva essere già arrivata così vicino a Mosca come Prigozhin sosteneva, perché i mezzi militari non si muovono così rapidamente. Anche questo sembra plausibile, ma, di nuovo, non spiega granché. Infatti, quando pure gli ci fosse voluto ancora un giorno o due per raggiungere la capitale, non sarebbe cambiato molto, dato che nessuno sembrava volersi muovere per difenderla.

Personalmente, ho sempre pensato che Prigozhin si sia fermato di sua iniziativa, semplicemente perché non c’è il minimo indizio che sia stato fermato da qualcun altro. Ma perché mai abbia deciso di farlo e di cercare un accordo con Putin pur sapendo perfettamente che era un suicidio, questo davvero non riuscivo a capirlo.

Poi giovedì scorso, proprio il giorno dopo la sua morte, ho ascoltato una lettura “alternativa” di questi eventi fatta dal grande scrittore russo dissidente Mikhail Shishkin che ho trovato molto convincente e che perciò qui vi ripropongo.

Intervenendo alla tavola rotonda Tra democrazia e autocrazia: il destino della libertà nell’ambito del 44° Meeting di Rimini, Shishkin ha spiegato che in Occidente abbiamo un’idea dei russi basata essenzialmente sulla loro grande letteratura, che si interroga continuamente sul male, sulla colpa, sulla responsabilità, ecc. Ma in realtà questo modo di pensare è limitato a una ristretta élite di persone istruite, mentre alla grandissima maggioranza dei russi di tutte queste grandi domande non importa nulla, essendo ancora legati a una concezione della politica di tipo zarista.

Per loro la vera questione da porsi «era ed è e resta tuttora: “Lo Zar è autentico oppure no?” Questa è la principale domanda russa, perché se lo Zar è autentico, allora ci sarà l’ordine, se invece lo Zar è falso, allora ci sarà l’anarchia, i torbidi, il caos». E l’unico modo per capire se lo Zar è autentico oppure no è vedere se vince.

Per questo Stalin, che ha ucciso milioni di persone, ma ha vinto la guerra contro Hitler, è ancor oggi amatissimo dal popolo, mentre Gorbacev, che ha cercato di modernizzare il paese, ma ha perso la guerra in Afghanistan e la guerra fredda contro l’Occidente, è generalmente disprezzato.

Sempre per questo, mi permetto di aggiungere (perché di questo Shishkin non ha parlato, ma mi sembra coerente con la sua logica), è un errore di prospettiva pensare, come molti fanno, che il tentativo di democratizzare la Russia sia fallito quando Boris Eltsin prese a cannonate il Parlamento che gli si era ribellato (peraltro ancora dominato dai comunisti irriducibili che avevano tentato il golpe contro Gorbacev, quindi non esattamente dei campioni della democrazia). Al contrario: ciò agli occhi del popolo avrebbe dovuto legittimare Eltsin come “autentico Zar”, il che semmai lo avrebbe aiutato a continuare il processo di democratizzazione. A impedirglielo (oltre alla vodka…) fu la crisi cecena, che non riuscì a domare e che pertanto lo delegittimò.

E infatti il suo successore Putin, che da ex ufficiale del KGB conosceva bene i meccanismi del potere in Russia, iniziò la sua carriera politica promettendo di vincere la guerra in Cecenia con qualsiasi mezzo («inseguiremo i terroristi dovunque si nascondano, anche dentro il cesso»). Avendo mantenuto la promessa, pur usando una brutalità inaudita, venne accettato da tutti come autentico Zar. E ancor più lo divenne nel 2014, con l’annessione della Crimea e di parte del Donbass.

A questo punto qualcuno potrebbe osservare che tutti i regimi usano le guerre per rafforzarsi, in modo da unire il popolo contro il nemico esterno e sviare la sua attenzione dai problemi interni. Questo è certamente vero, ma non è esattamente la stessa cosa. Secondo Shishkin, infatti, in Russia il semplice richiamo patriottico all’unità contro il nemico esterno non basta, perché se il popolo ha la sensazione che lo Zar non sia in grado di vincere perderà la fiducia in lui e non sarà più disposto a seguirlo, nonostante la minaccia incombente.

Non è che il patriottismo per i russi non conti: conta moltissimo, invece. Però non c’entra nulla con la loro concezione del potere, che è pragmatica fino alla brutalità e non contiene alcun elemento di idealismo. La vittoria dello Zar non ha (non primariamente, almeno) lo scopo di garantire il bene della patria e del popolo, bensì quello di dimostrare la sua forza e la sua capacità di imporsi a tutti. Perciò lo Zar non deve necessariamente fare la guerra, ma, se la inizia, deve necessariamente vincerla (il che, fra parentesi, significa che è illusorio sperare che Putin si decida a trattare: sa bene, infatti, che se lo fa è morto).

Per questo, secondo Shishkin, Putin è ormai da tempo considerato un falso Zar e tutti stanno aspettando che ne sorga un altro che possa prendere il suo posto. Prigozhin aveva le caratteristiche giuste: era forte; era spietato (caratteristica negativa per un leader occidentale, ma non per uno Zar); era l’unico che era riuscito a vincere (a Bakhmut) da quando Putin aveva iniziato a perdere; era l’unico che aveva osato denunciare pubblicamente la debolezza del falso Zar; e infine aveva avuto l’ardire supremo di muovere in armi contro di lui.

Quindi l’azione di Prigozhin era davvero ciò che sembrava: un tentativo di colpo di Stato. E, a dispetto delle apparenze, non era affatto campato in aria, ma poteva davvero riuscire. Il motivo per cui nessuno l’ha appoggiato apertamente, ma nessuno l’ha nemmeno ostacolato, infatti, è che erano tutti in attesa di vedere che cosa avrebbe fatto. Se fosse andato fino in fondo, sarebbe stata la prova che era proprio lui il vero Zar che aspettavano e allora tutti l’avrebbero seguito.

Ma perché Prigozhin invece si è fermato?

Perché, ha risposto Shishkin, mentre «tutta la popolazione era pronta ad accettare il fatto che lui potesse diventare il nuovo Zar della Russia, l’unico a metterlo in dubbio era lo stesso Prigozhin, che psicologicamente si è dimostrato non pronto a prendere il potere, che avrebbe avuto ai suoi piedi».

Quella esitazione è stata fatale. Una volta fermatosi, Prigozhin non poteva più ripartire: per tutti, ormai, compresi i suoi stessi uomini, era diventato anche lui un falso Zar. E a quel punto non gli restava che sforzarsi di credere alle promesse di Putin, pur sapendo benissimo che erano false.

A chi ha una concezione razionalista della storia, per cui il suo svolgersi è il prodotto di cause sempre perfettamente logiche e perfettamente coerenti, questa spiegazione apparirà di sicuro insoddisfacente. A chi, come me, è invece convinto che la storia non è fatta da forze impersonali, ma dagli esseri umani, che non agiscono solo in base alla ragione, ma anche alle emozioni, dovrebbe sembrare molto plausibile.

D’altronde, tante volte abbiamo visto campioni affermati e blasonati giungere a un passo dal trionfo agognato per tutta la vita e poi farsi prendere dal panico e fallire proprio quando bastava allungare la mano per raccoglierlo – o meglio, proprioperché bastava allungare la mano per raccoglierlo. E se succede nello sport, dove in fondo è in gioco solo la gloria o al massimo i quattrini, perché mai non dovrebbe accadere anche in situazioni ben più drammatiche, in cui è in gioco la vita, propria e altrui, e magari anche il destino del mondo?

Inoltre, la lettura di Shishkin ha anche un altro punto a suo favore: è l’unica (almeno fra quelle fin qui proposte) che si accordi con tutti i fatti attualmente noti. Magari un giorno verranno alla luce altri fatti che la smentiranno, ma per ora le cose stanno così. E ciò non è poco.

Resta però ancora una domanda: cosa succederà adesso?

Secondo Shishkin, anche se per il momento Putin è rimasto al potere, la sua condizione non è cambiata, perché non è lui che ha vinto, ma Prigozhin che ha perso, mentre la situazione in Ucraina resta critica. Di conseguenza, tutti continuano provvisoriamente ad ubbidire all’attuale Zar, ma continuano a considerarlo delegittimato e perciò continuano ad aspettare che sorga un nuovo pretendente a cui non tremino il cuore e la mano nel momento supremo.

Shishkin ritiene che ciò accadrà molto presto, perché è convinto che Putin sia gravemente malato e che quello che si vede in pubblico sia ormai da tempo un suo sosia. In ogni caso, quando ciò accadrà, sia domani o più tardi, chiunque prenda il suo posto metterà subito fine alla guerra, esattamente come avrebbe fatto Prigozhin se avesse avuto successo.

Non ho elementi per dire se la prima convinzione di Shishkin sia giustificata, anche se lo spero, ma almeno la seconda mi sembra plausibile, posto (ovviamente) che la sua chiave di lettura sia corretta.

La ragione, infatti, è sempre la stessa: per legittimarsi lo Zar deve vincere e in Ucraina, ormai, ciò non è più possibile. Prigozhin lo sapeva bene, avendo visto con i suoi occhi la situazione sul campo e i cadaveri dei suoi uomini, che aveva perfino mostrato in diretta televisiva al “falso Zar” che intendeva spodestare. Ma nessuno che aspiri al ruolo di “autentico Zar” di tutte le Russie può permettersi di cominciare il suo regno facendosi logorare dal terribile tritacarne ucraino.

Perciò, chiunque sarà il successore di Putin, secondo Shishkin per prima cosa cercherà di chiudere quella nefasta partita il più presto possibile, riconoscendo la sconfitta, ma dandone la colpa al “falso Zar” appena abbattuto, per poi cercare la sua definitiva legittimazione attraverso una vittoria di altro tipo, presumibilmente contro i suoi nemici interni.

Non resta che augurarci che abbia ragione.

La frattura tra ragione e realtà 1 / Su Mosca sventola bandiera rossa

27 Ottobre 2022 - di Paolo Musso

In primo pianoPolitica

Da quando è iniziata la guerra in Ucraina va di moda ripetere che Putin sarebbe un “fascista”. Eppure, sia la logica che i dati di fatto dicono il contrario: Putin è a tutti gli effetti un comunista e anche i suoi comportamenti che possono a prima vista apparire “di destra” in realtà si collocano tutti perfettamente nel solco della tradizione sovietica in cui si è formato. Perché allora questa idea si è diffusa al punto che oggi viene data praticamente per scontata non solo da tutta la sinistra, ma anche da gran parte dei moderati? In parte si tratta di opportunismo politico, ma la ragione più profonda è la perdurante assenza di un giudizio chiaro sulla natura totalitaria del comunismo.

Con questo articolo inizio una serie di interventi su problemi abbastanza diversi fra loro, ma unificati dal tema della frattura tra ragione e realtà, che aveva suscitato un certo dibattito anche fuori dal sito della Fondazione Hume e con il quale avevo concluso i miei contributi sul Covid (che, per la cronaca, usciranno fra poco raccolti in un libro, Covid, la lezione del Pacifico, scritto a sei mani con le mie dottorande Silvia Milone e Loredana Parolisi e con una prefazione di Luca Ricolfi, di cui siamo profondamente onorati e per la quale colgo l’occasione per ringraziarlo pubblicamente).

Anche se la maggior parte di tali interventi riguarderà temi legati alla scienza, che è il mio principale campo di ricerca, voglio dedicare i primi tre (che idealmente costituiscono un unico articolo in tre parti) a una grande questione culturale in cui la suddetta frattura tra ragione e realtà è particolarmente grave, non solo per la sua importanza intrinseca, ancor maggiore dopo le ultime elezioni, ma anche perché ha spesso conseguenze rilevanti per gli altri temi che toccherò in seguito.

Per farlo partirò da una delle cose più surreali che si siano sentite in questi mesi e di cui avevo già parlato in precedenza, ma solo brevemente (https://www.fondazionehume.it/politica/la-prevedibile-caporetto-di-putin-e-quella-inquietante-degli-esperti/): il fatto, cioè, che la sinistra italiana, dopo aver deciso di schierarsi (quasi) compattamente contro Putin, cosa di per sé lodevole, abbia sempre più accentuato le accuse di “populismo” e “sovranismo” che già da tempo gli rivolgeva, fino ad arrivare al paradosso di definirlo esplicitamente “fascista”.

Tale posizione è stata espressa nel modo più chiaro qualche mese fa da Giuseppe Provenzano (non proprio uno qualunque, visto che si tratta del vicesegretario del PD) nella seguente dichiarazione resa a Annalisa Cuzzocrea: «Il problema di filo-putinismo ce l’ha la destra, in particolare quella italiana. Il silenzio di Berlusconi i legami consolidati della lega di Salvini con il partito di Putin, ma anche Giorgia Meloni, che ancora guarda a Trump, l’altro polo del vento conservatore e reazionario, che non a caso definisce Putin “un genio”. Poi c’è qualche cretino di sinistra, avrebbe detto Leonardo Sciascia. Quelli che sono talmente “complessi” da ignorare anche la verità più banale: al Cremlino non sventola bandiera rossa, sventola bandiera nera» (Giuseppe Provenzano, “Giusti gli aiuti militari a Kiev, gli amici di Putin sono a destra”, su La Stampa del 27/03/2022).

Ma se questa è la formulazione più epslicita, non è certo l’unica. Si tratta infatti di una tesi molto comune, non solo tra i politici. Per limitarci agli ultimi giorni, l’hanno ripetuta, fra gli altri, il celebre storico britannico Timothy Garton Ash, il direttore del quotidiano La stampa Massimo Giannini e un opinionista in genere moderato ed equilibrato come Paolo Mieli, che a Porta a porta di domenica 2 ottobre è arrivato addirittura ad affermare che «a parte la Camera dei Fasci e delle Corporazioni» quello di Putin è a tutti gli effetti un regime fascista.

Ma perché Putin dovrebbe essere considerato fascista, questo nessuno lo sa dire. Forse perché è un dittatore? O perché fa una propaganda spudoratamente menzognera? O perché è imperialista? O perché è guerrafondaio? Ma tutte queste caratteristiche le aveva anche il regime sovietico, di cui Putin è figlio legittimo, dato che è stato per 16 anni un alto ufficiale del KGB, ha sempre giudicato una catastrofe la dissoluzione dell’URSS e da tempo, forse da sempre, sta dedicando tutte le sue forze a ricostruirla.

Inoltre, Putin ha l’esplicito sostegno del Partito Comunista Russo, giustifica l’intervento in Ucraina dicendo che bisogna liberarla dai nazisti, chiama i paesi del Terzo Mondo a unirsi a quella che presenta come una crociata contro l’Occidente capitalista che li opprime e segue pedissequamente in ogni dettaglio i metodi dell’Unione Sovietica degli anni Settanta, sia nella comunicazione che nella repressione del dissenso interno e perfino nel modo di fare la guerra, benché ciò rischi di fargliela perdere (cfr. Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/reality-check/e-se-sulla-no-fly-zone-avesse-ragione-zelensky/). E se ancora non bastasse, pochi giorni fa ha ulteriormente chiarito il concetto mettendo a capo della sua sporca guerra il generale Sergey Surovikin, uno dei protagonisti del fallito golpe contro Gorbaciov messo in atto nel 1991 dall’ala dura del Partito Comunista Sovietico in un estremo tentativo di restaurare il vecchio assetto dell’URSS.

È pertanto evidente che chiamare Putin “fascista” è semplicemente grottesco e ricorda molto i mitici servizi del TG3, da sempre monopolio della sinistra, che, quando ci fu la caduta del comunismo in Romania, parlava degli eroici insorti che combattevano «contro i fascisti di Ceausescu» o i discorsi di tanti intellettuali di sinistra di allora sulle «sedicenti Brigate Rosse» che “in realtà” sarebbero state anch’esse “fasciste”.

Ma non solo è falso che Putin sia fascista. È falso anche che lo siano i suoi amici. Per convincersene basta guardare i risultati del voto all’ONU sui referendum-farsa in Donbass.

I 4 paesi che hanno votato a favore della Russia sono tutti retti da dittature comuniste (Bielorussia, Nicaragua e Corea del Nord) o socialiste (Siria). Quanto ai paesi che si sono astenuti (35) o non hanno partecipato al voto (10), di essi 8 sono retti da dittature comuniste (Cina, Cuba, Eritrea, Laos, Tajikistan, Turkmenistan, Venezuela, Vietnam), 11 da governi di sinistra con forti tendenze autoritarie (Algeria, Bolivia, Repubblica Centrafricana, Congo, Mongolia, Mozambico, Namibia, Tanzania, Togo, Uganda, Zimbabwe) e 3 da regimi islamici integralisti apertamente antioccidentali (Iran, Pakistan, Sudan). L’unico regime comunista che abbia votato contro Putin è la Cambogia.

Al contrario, nessun regime di destra ha votato a favore (neanche l’Ungheria del “fascista” Orbán, che anzi ha votato contro, così come il Brasile di Bolsonaro) e soltanto 7 si sono astenuti (Burkina Faso, Burundi, Eswatini, Guinea, Guinea Equatoriale, Mali, Thailandia). Completano il quadro degli astenuti o non votanti 5 repubbliche ex sovietiche, democratiche ma fortemente condizionate da Mosca (Armenia, Azerbaijan, Kazakistan, Kyrghizistan, Uzbekistan) e 10 paesi del Terzo Mondo retti da governi moderati (Camerun, El Salvador, Etiopia, Honduras, Gibuti, Lesotho, São Tomé, Sudafrica, Sud Sudan, Sri Lanka), nessuno dei quali ha mai manifestato particolari simpatie per l’estrema destra, almeno in tempi recenti, a parte l’Honduras, che però attualmente ha un governo di centrosinistra. Infine c’è l’India, che gioca una partita tutta sua, retta com’è da un governo nazionalista, ma comunque democratico e con una politica estera spiccatamente terzomondista.

Insomma, non sono esattamente i paesi che ci si aspetterebbe di vedere schierati a sostegno di un regime fascista…

E anche se guardiamo a quanto sta accadendo in Europa, il quadro non cambia molto. L’unico politico occidentale che sia finito sul libro paga di Putin alla luce del sole è il socialdemocratico tedesco Gerhard Schröder, assunto come dirigente (strapagato) di Gazprom non appena terminato il suo mandato di Cancelliere. A rompere la ritrovata solidarietà europea è stato un altro Cancelliere tedesco socialdemocratico, quello attualmente in carica, Olaf Scholz, con il suo sciagurato ostruzionismo all’introduzione di un tetto al prezzo del gas. Il pacifismo di sinistra, dopo un breve periodo di eclissi, sta tornando a riempire le piazze con manifestazioni che, pretendendosi equidistanti tra l’aggredito e l’aggressore, finiscono oggettivamente per essere a favore di quest’ultimo.

Infine, per quanto riguarda l’Italia, il partito più filo-russo attualmente è quello dei 5 Stelle, che ormai da tempo è un partito di sinistra a tutti gli effetti e il cui già annunciato voto contrario alla prossima fornitura di armi all’Ucraina pesa molto più delle parole in libertà di Berlusconi. Queste ultime, infatti, per quanto censurabili, non sono dettate da una strategia politica, bensì dal suo narcisismo e dalla sua incapacità di accettare di non essere più lui il capo, ma non hanno prodotto nessuna conseguenza pratica rilevante e verosimilmente non ne produrranno neanche in futuro.

Poi, certo, è vero che Putin in patria è sostenuto anche dai nazionalisti di destra e dai vertici della Chiesa ortodossa; che si richiama a simbologie che spesso hanno a che fare più con la tradizione zarista e, appunto, ortodossa che con quella comunista; e che, in generale, si presenta come garante dei “veri” valori tradizionali contro la corruzione morale dell’Occidente. Ed è altrettanto vero che è visto con simpatia anche da diversi partiti occidentali di destra, che ha certamente condizionato e  probabilmente pure finanziato (anche se prima di darlo per scontato sarebbe meglio aspettare di vedere le prove promesse dagli USA).

Tuttavia, il fatto che Putin collabori (anche) con forze di destra non significa che sia egli stesso di destra. Anzi, è vero esattamente il contrario: questi, infatti, sono tutti comportamenti da perfetto manuale del KGB, tanto che erano già stati tutti messi in atto da Stalin in persona.

Anzitutto, l’alleanza con forze politiche di qualsiasi orientamento, purché utili alla causa, è sempre stata praticata dall’URSS, che da questo punto di vista era di un pragmatismo, o, più esattamente, di un cinismo totale. Inoltre, ai sovietici trattare con le forze di estrema destra è sempre riuscito più naturale che avere a che fare con quelle democratiche, per via di un’affinità culturale di fondo, dato che marxismo, fascismo e nazismo hanno tutti le loro comuni radici nell’idealismo tedesco, in particolare nella dottrina hegeliana dello Stato etico, anche se dirlo è gravemente politically incorrect e può causare seri problemi (vedi il linciaggio subito per anni da Nolte e De Felice).

Oggi tutti fanno finta di dimenticarsene, ma l’Unione Sovietica è stata per ben due anni alleata della Germania nazista, in virtù dello sciagurato patto Ribbentrop-Molotov che fu all’origine della Seconda Guerra Mondiale, giacché permise a Hitler di rivolgersi contro l’Occidente sapendo di avere le spalle coperte sul fronte orientale. E se Hitler stesso non l’avesse violato, invadendo l’URSS a tradimento (con una decisione che non ha spiegazioni strategiche, ma esclusivamente psichiatriche), quest’ultima non sarebbe mai entrata in guerra al nostro fianco contro i nazisti.

D’altra parte, quando ciò accadde e la sua stessa sopravvivenza fu messa in discussione, Stalin proclamò la mobilitazione generale non in nome del comunismo o della dittatura del proletariato, ma della “Grande Madre Russia”, che (a parte la parola “Madre” al posto di “Santa”, il che obiettivamente per lui sarebbe stato un po’ troppo) si richiamava all’immaginario collettivo della Chiesa ortodossa e non certo a quello dell’Internazionale Socialista.

Ma non si trattò di un fatto episodico e strumentale. A differenza del comunismo europeo, più marcatamente laicista e scientista, quello sovietico ha sempre avuto una forte componente messianica, ascetica e quasi mistica, derivante anch’essa dalla mitologia ortodossa e, in particolare, dall’idea della “missione” unica che Dio avrebbe assegnato alla Russia.

È stato anche grazie a questa idea, sia pure opportunamente “laicizzata”, che Stalin ha potuto giustificare il suo tentativo di realizzare “il socialismo in un solo paese”, che da un punto di vista marxista è una vera e propria eresia. Ed è sempre a causa di questa idea che l’URSS, esattamente come la neo-URSS putiniana di oggi, non ha mai escluso l’uso delle armi nucleari in una guerra contro l’Occidente, anche a costo di rischiare un olocausto atomico su scala globale. In questa prospettiva, infatti, un mondo senza la Russia è letteralmente privo di senso e quindi non vale la pena che continui ad esistere, come Putin ha più volte esplicitamente affermato, benché, di nuovo, da un punto di vista marxista ciò non abbia invece alcun senso.

Eppure, non è solo Putin a dirlo: anche i sovietici ragionavano così. Chi non ci crede vada a leggersi La terza guerra mondiale di Sir John Hackett, generale inglese che per cinque anni fu a capo delle armate NATO dell’Europa Settentrionale (anche se è del 1978 si trova facilmente su Internet). Si tratta di un saggio camuffato da romanzo che a suo tempo fece scalpore e probabilmente ci evitò la terza guerra mondiale di cui parla. Hackett, infatti, riuscì a convincere i paesi europei a tornare a curare le proprie difese convenzionali, mostrando attraverso documenti originali trafugati ai sovietici che questi ultimi se si fossero convinti di poter vincere avrebbero attaccato, anche a costo di rischiare un conflitto nucleare.

Anche il sostegno del Patriarca Kirill, che è arrivato a usare toni degni degli integralisti islamici, promettendo il Paradiso a tutti quelli che moriranno in guerra (mancavano solo le 72 vergini…), è certamente scellerato, ma per niente affatto sorprendente, né tantomeno nuovo. È vero infatti che molti sacerdoti ortodossi si sono opposti eroicamente al regime sovietico e per questo hanno subito dure persecuzioni e spesso perfino il martirio. Tuttavia, storicamente i vertici della Chiesa ortodossa sono sempre stati conniventi con il potere di turno, compreso quello sovietico. E questo non solo per paura o per comodo, ma per una ragione molto più profonda.

Infatti, a differenza di quella cattolica (parola che significa “universale”), la Chiesa ortodossa ha sempre concepito sé stessa come una Chiesa intrinsecamente nazionale. E se è vero che l’amore per la patria è un valore importante, che ha prodotto frutti meravigliosi di arte, di letteratura e di santità, è altrettanto vero che questo particolare modo di concepirlo porta troppo spesso a una sua indebita sacralizzazione. Molti aspetti della cosmovisione ortodossa, pur esposti con linguaggio cristiano, sono di fatto assai più affini ai miti pagani della terra e del sangue che non al cristianesimo. E purtroppo gli dei della terra e del sangue prima o poi pretendono sempre tributi di terra e di sangue.

Su questo aveva detto parole chiarissime la grande poetessa russa Olga Sedakova (collaboratrice dell’associazione Memorial che ha appena vinto il Nobel per la pace) già nel 2014, dopo l’invasione della Crimea, che è all’origine di ciò che sta accadendo oggi e che era stata giustificata da Putin esattamente con le stesse menzogne: «Putin dice di essere il difensore dei valori tradizionali. È qualcosa di abbastanza comico, perché da noi i valori tradizionali sono stati distrutti ormai molti anni fa. […] Oggi si pensa soltanto al valore della famiglia. Si tratta, in realtà, di una polemica nei confronti della richiesta, in Occidente, di leggi per i matrimoni tra omosessuali. Ma non si parla mai di lavoro, né di persona, né di libertà. L’unica cosa che si accosta alla famiglia è il patriottismo: ognuno deve essere pronto a dare la vita per la patria. Il valore ultimo non è la persona, ma la patria. E non mi pare sia una posizione molto cristiana. […] Ai tempi di Stalin l’aborto era proibito, e le donne morivano perché abortivano clandestinamente senza medici. Esisteva il divieto, non la ragione per cui era sbagliato abortire. Così non ci si faceva problemi ad abortire clandestinamente. Trovo curioso che Stalin sia diventato il nuovo modello di moralità. La società tardo-staliniana era, potremmo dire, vittoriana. Il divorzio, ad esempio, era molto difficile da ottenere, in alcuni casi era addirittura proibito. Ma più che una difesa della famiglia, era un modo per limitare la libertà» (Olga Sedakova, L’infinito contro la noia, in Tracce n. 7, 2014, pp. 40-44).

D’altronde, anche il comunismo occidentale, pur essendo più laico di quello sovietico, in passato era piuttosto “vittoriano” (si pensi solo ai problemi che ebbe Togliatti, che pure era il capo indiscusso del PCI, quando lasciò la moglie per mettersi con Nilde Jotti). Anche da questo punto di vista, pertanto, Putin continua ad agire come un comunista sovietico degli anni Settanta, il periodo in cui si è formato e in cui, come sostengo da tempo, è rimasto mentalmente “imprigionato” (cfr. Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/reality-check/e-se-sulla-no-fly-zone-avesse-ragione-zelensky/ e https://www.fondazionehume.it/politica/la-prevedibile-caporetto-di-putin-e-quella-inquietante-degli-esperti/).

Ma se così stanno le cose, perché allora la sinistra, non solo in Italia, ma in tutto l’Occidente, continua a ripetere che Putin è fascista?

Certamente vi è un aspetto di opportunismo politico, perché ciò da un lato la aiuta a far “digerire” più facilmente la guerra ai suoi elettori, tra i quali il pacifismo è ancora molto forte, mentre dall’altro le permette di tacciare di “fascisti” tutti i partiti di destra che hanno simpatie per Putin. Tuttavia, la vera ragione, che in fondo ricomprende anche questa, è molto più profonda.

A metterci sulla strada giusta è lo stesso Provenzano nella parte finale della sua dichiarazione, laddove dice che i “cretini di sinistra” non sono disposti a condannare Putin perché non capiscono che la sua bandiera non è rossa, ma nera, cioè che non è comunista, ma, appunto, fascista. Ciò, infatti, equivale ad affermare che Putin non va condannato in quanto criminale, bensì in quanto fascista. E da questo, secondo logica, seguirebbe che se invece Putin fosse davvero comunista, allora i suddetti “cretini di sinistra” non sarebbero più tali e farebbero bene a non condannarlo anche se lui commettesse esattamente le stesse azioni criminali.

Attenzione! Non sto dicendo che Provenzano pensi realmente questo. Anzi, sono certo che non lo pensa affatto, per la semplice ragione che, come tutti i suoi colleghi, non è nemmeno in grado di concepire un pensiero simile. Infatti, per la sinistra italiana (e non solo italiana) il Male è sempre per definizione di destra e la destra è sempre per definizione il Male, mentre il Bene è sempre per definizione di sinistra e la sinistra è sempre per definizione il Bene. Ne segue che il dilemma su cosa fare se Putin fosse comunista e ciononostante commettesse ugualmente queste nefandezze semplicemente non si pone perché è logicamente impossibile: se Putin fosse comunista, infatti, non potrebbe per definizione commetterle, mentre se le commette non è per definizione comunista.

Ora, questo atteggiamento nasce dal fatto che la sinistra non ha mai fatto realmente i conti con il comunismo (intendo dire con il comunismo in quanto tale e non con questa o quella sua concreta realizzazione storica), rifiutandosi ostinatamente di riconoscerne la natura intrinsecamente totalitaria e perciò irrimediabilmente oppressiva e violenta, attribuendo tali caratteristiche solo ed esclusivamente al totalitarismo di destra. E ciò ha avuto e ha tuttora conseguenze profonde, non solo quanto al giudizio su Putin, ma anche quanto alla questione di fondo della crisi di identità della sinistra e del suo possibile (o impossibile) rinnovamento.

Ne parlerò nel prossimo articolo.

 

Paola Musso

L’arte della contro-escalation

18 Ottobre 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Si comincia, finalmente, a parlare con qualche serietà di un percorso di raffreddamento delle tensioni fra Russia e Stati Uniti, che possa portare (almeno) a un cessate il fuoco, e possibilmente a passi ulteriori verso accordi di pace.

Sulle ragioni di questo, per ora timidissimo, cambiamento di clima, ci sono solo ipotesi. Le più plausibili mi paiono tre.

La prima è che gli attentati-incidenti-sabotaggi delle ultime settimane, chiunque ne sia l’autore, stiano convincendo un po’ tutti che la situazione può andare fuori controllo, a dispetto delle consultazioni continue (e riservate) fra russi e americani.

La seconda è che Biden si stia rendendo conto che arrivare alle elezioni di midterm con un’opinione pubblica spaventata dal rischio di un conflitto nucleare possa costargli caro.

La terza è che lo spettro di una recessione mondiale, provocata dalle conseguenze commerciali della rottura dell’ordine internazionale, stia inducendo i principali giocatori in campo (Cina e Usa in testa) a correre ai ripari.

Quale che sia l’origine dei nuovi segnali, la domanda è: ci sono possibilità realistiche che, alla fase di escalation finora in corso, succeda una fase di escalation inversa (o contro-escalation, o “de-escalation psicologica”)? Ci sono strumenti con i quali è possibile favorire un’inversione di fase efficace?

Non so che cosa ne pensino i veri esperti, ossia generali, strateghi, politici, studiosi di relazioni internazionali. Ma azzardo l’idea che qualcosa si possa imparare anche dagli esperti di “de-escalation” nel senso psicologico (non militare) dell’espressione, ossia psicologi, operatori sanitari, operatori sociali alle prese con interlocutori aggressivi. Se si passano in rassegna consigli e linee guida per gestire questo tipo di conflitti, si deve constatare che, fin qui, occidentali e russi hanno fatto esattamente quel che le tecniche di contro-escalation raccomandano di non fare: offese, delegittimazione dell’interlocutore, minacce, intimazioni, ingiunzioni, totale rifiuto di mettersi dal punto di vista dell’avversario.

Tutti questi comportamenti sono perfettamente comprensibili alla luce del fatto che la situazione non è simmetrica né oggettivamente (A è stato aggredito da B), né soggettivamente (A pensa di essere nel giusto). Ma occorre riflettere su un punto decisivo: anche nelle situazioni in cui si usano tecniche di contro-escalation la situazione non è mai simmetrica. L’infermiere del pronto soccorso che deve fronteggiare un paziente infuriato che agita un coltello, o l’agente di polizia che deve interagire con un rapinatore che minaccia con la pistola dodici ostaggi, non si trovano certo in una situazione simmetrica. Sanno perfettamente di avere ragione loro, non certo il paziente furioso o il rapinatore armato. Però si comportano come se la situazione fosse simmetrica, ossia come se anche il loro interlocutore fosse dotato di razionalità e di ragioni più o meno valide. Lo scopo della contro-escalation, infatti, non è affermare la propria ragione, ma evitare che il conflitto si trasformi in tragedia, con l’accoltellamento dell’infermiere o l’uccisione degli ostaggi.

Ed ecco il punto. La difficoltà del passaggio da una situazione di escalation a una di contro-escalation sta nel fatto che occorre rovesciare completamente il registro e gli obiettivi della comunicazione. E bisogna farlo in contraddizione con tutto ciò che si è fatto fino a quel momento. Un’operazione che è particolarmente dolorosa per la parte in causa che, obiettivamente, ha più ragione (o meno torto).

Ma perché è così difficile cambiare registro?

La ragione profonda della difficoltà è di tipo logico: la medesima azione cambia di significato (e di razionalità) a seconda che si sia in una fase di escalation o in una di contro-escalation.

Facciamo un esempio. Il recente gesto del ministro degli esteri Lavrov (aprire a colloqui di pace in margine al prossimo G-20) è un segnale di debolezza (Putin ha paura, eccetera) se lo collochiamo in una fase di escalation, ma diventa un segnale di apertura (Putin è disposto a trattare) se lo leggiamo in una fase di contro-escalation. Reciprocamente, la conferma delle esercitazioni nucleari Nato della prossima settimana è un messaggio di forza (mostrare i muscoli) se la collochiamo in una fase di escalation, ma diventa un segnale di chiusura (noi non cambiamo) se la leggiamo in una fase di contro-escalation.

Se vuole entrare in una fase di contro-escalation, la politica deve riuscire a non giudicare i propri atti nel registro della fase precedente. Finché si continuerà a pensare che qualsiasi gesto di apertura equivale a “dare ragione a Putin”, nessun percorso di pace sarà possibile.

Ma perché la politica non riesce a passare dalla fase di escalation a quella di contro-escalation, gove?

Fondamentalmente, perché è scomparsa la realpolitik o, se preferite, si è persa la fondamentale lezione dei classici: la distinzione fra razionalità rispetto al valore e rispetto allo scopo (Max Weber), la separazione fra morale e politica (Machiavelli). La crisi ucraina è stata affrontata, finora, esclusivamente nel registro morale, con scarsissima attenzione alle cause della guerra e alle conseguenze delle azioni che si stavano e si stanno intraprendendo. E’ venuto il tempo, se vogliamo provare a entrare in una fase di raffreddamento, o contro-escalation, di rovesciare il registro, e tornare alla politica.

Luca Ricolfi

image_print
1 2 3
© Copyright Fondazione Hume - Tutti i diritti riservati - Privacy Policy