Il Manifesto di Ventotene. Qualche considerazione di metodo

Giuseppe Ieraci sul post di Paradoxa-Forum, del 28 marzo, Sovversivi e comunisti a Ventotene, analizzando criticamente Il Manifesto di Ventotene ha parlato di «un apparato concettuale che oggi desta perplessità: lotta e coscienza di classe, rivoluzione, collettivizzazione, proletariato, sfruttamento capitalistico, imperialismo, si tratta di un linguaggio tardo ottocentesco che era tipico dell’humus culturale dei nostri ‘resistenti’». Gli ho fatto rilevare che proprio quell’apparato concettuale avreb-be dovuto sconsigliare dal farne un testo di battaglia ancora attuale da sbattere in faccia al governo. Sennonché, con grande meraviglia, leggo su ‘Critica Liberale’ un articolo di Giuseppe Civati, All’armi son fascisti del 19 marzo u.s., – un politico che si dichiara alla sinistra della sinistra parlamentare – che sembra non condividere affatto le ‘perplessità’ di Ieraci.. A Giorgia Meloni – che aveva citato, a riprova del sostanziale illiberalismo del Manifesto, il passaggio: «Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato, e intorno ad esso la nuova vera democrazia» – Civati obietta che avrebbe dovuto proseguire nella citazione e leggere il seguito del discorso: «Non è da temere che un tale regime rivoluzionario debba necessariamente sboccare in un rinnovato dispotismo. Vi sbocca se è venuto modellando un tipo di società servile. Ma se il partito rivoluzionario andrà creando con polso fermo, fin dai primissimi passi, le condizioni per una vita libera, in cui tutti i cittadini possano partecipare veramente alla vita dello stato, la sua evoluzione sarà, anche se attraverso eventuali secondarie crisi politiche, nel senso di una progressiva comprensione ed accettazione da parte di tutti del nuovo ordine, e perciò nel senso di una crescente possibilità di funzionamento, di istituzioni politiche libere».

 È difficile capire se Civati si limita a riportare ciò che passava nella mente di Spinelli, Rossi e Colorni o se crede davvero alla plausibilità di un partito rivoluzionario che avrebbe potuto riformare una comunità politica (nella fattispecie, vasta come un continente) senza tramutarsi in un apparato dispotico. In realtà, se la premier avesse proseguito nella sua citazione avrebbe ulteriormente giustificato la denuncia del carattere illiberale del Manifesto. Quando mai, infatti, si è avuto nella storia un partito rivoluzionario demiurgico in grado di realizzare grandi riforme, di far trionfare libertà, eguaglianza e giustizia sociale e disposto poi a ritirarsi in buon ordine per dare la voce al popolo redento? Sembra essere ritornati ai tempi in cui la sinistra (oggi atlantista) inneggiava a Fidel Castro e ai barbudos ritenendo che avrebbero riportato la democrazia a Cuba. Si è tenuti a contestualizzare un documento storico – e certo è doveroso farlo – ma non si può far passare un progetto rivoluzionario come espressione di vera democrazia.

Ma c’è un altro punto sul quale vorrei richiamare l’attenzione. Nel suo post, Ieraci rimprovera alla premier di aver «attribuito un metodo (la lotta rivoluzionaria) e dei fini (il socialismo) ai protagonisti di oggi, che con quella temperie politica e culturale non hanno nulla a che fare, insomma ha fatto cadere presunte colpe dei padri sui figli». Difficile non essere d’accordo però questo deprecabile vizietto di far ricadere le colpe dei padri sui figli è diffuso sia a destra che a sinistra. Sui più grandi organi di informazione non si ritiene Giorgia Meloni l’erede del fascismo? Lo stesso Ieraci, a chiusura di articolo, rileva che la premier «quando dice che la sinistra ‘mostra un’anima illiberale e nostalgica’ dovrebbe – credo – anche interrogarsi sulle sue nostalgie». E va già bene che non abbia scritto che, appartenendo alla razza di quelli che confinarono Spinelli, Rossi e Colorni a Ventotene, non ha titoli per criticarli.

A mio avviso, qui va fatta chiarezza una volta per tutte. Ci sono formazioni politiche in Italia, a destra e a sinistra, che si richiamano a idealità che ispirarono regimi poli-tici illiberali degenerati in regimi totalitari. Ancora negli anni 60 persino nella tessera del PSI veniva dichiarata l’adesione ai principi del marx-leninismo, ovvero ai principi che oggi evocano la dittatura, la polizia segreta, l’eliminazione degli oppositori. Era ovvio che quanti si dicevano comunisti prendessero le distanze non solo dallo stalinismo ma anche dalle forme meno totalitarie del socialismo reale: in fondo, avevano contribuito a riportare, con la Resistenza, la libertà politica in Italia. A loro stavano a cuore la giustizia sociale e uno stato sociale in grado di assicurarla non l’eliminazione dei kulaki e il KGB.

Ma perché non deve valere lo stesso discorso per i pretesi nostalgici del fascismo? Tutti gli intellettuali di destra che ho avuto l’occasione di conoscere deprecavano le leggi razziali e molti consideravano l’asse Roma-Berlino l’errore imperdonabile del duce. Ma il loro pensiero andava alle bonifiche, agli enti assistenziali, alle riforme scolastiche, ai treni in orario, a Giovanni Gentile e ai grandi esponenti della cultura italiana che avevano creduto in Mussolini. Perché non dovrebbero essere ritenuti in buona fede come vengono (giustamente) ritenuti i postcomunisti? Che senso ha ricordare a questi ultimi i Gulag e agli altri il Tribunale della Razza?

Certo si può ritenere che già nel marxismo ci fossero i germi della popperiana ‘società chiusa’ e che nell’ideologia fascista ci fossero il confino e la ‘difesa della razza’. Ma queste sono conclusioni alle quali arrivano lo storico, lo studioso delle ideologie, lo scienziato politico – conclusioni fondate su congetture ragionevoli ma non infallibili: ciò che dovremmo criticare nei postfascisti e nei post-comunisti non è la famiglia di appartenenza ma comportamenti e programmi politici determinati.

In un articolo molto pacato pubblicato sul ‘Giornale’ il 26 marzo u.s., La coperta troppo corta del mito di Ventotene, Gaetano Quagliariello si è chiesto, parlando della Meloni, «perché tanto scandalo? Perché affermazioni come ‘Credo nell’Europa di De Gasperi e non in quella di Ventotene’; oppure ’Condivido la visione liberale di Einaudi e non mi ritrovo in quella giacobina di Ernesto Rossi’; o persino ‘Nel mio Dna ho l’Europa delle nazioni e non posso perciò riconoscermi in una visione federalista’, vengono ritenute alla stregua di inaccettabili profanazioni?» Forse perché nei periodi invernali della vita di una nazione, sono le tempeste in un bicchier d’acqua a scaldare gli animi.

 

[articolo pubblicato su PARADOXA-FORUM il 31 marzo 2025]




Perché la ‘filosofia della guerra’ è più umana della ‘filosofia della rivoluzione’

Il ricordo—non le celebrazioni che non ci sono state—della vittoria italiana nella Grande Guerra è stato l’occasione per riaprire le cataratte della retorica buonista nazionale. «Mai più inutili stragi!», «Mai più guerre!». «La guerra è sempre la soluzione peggiore!». Se si pensa a un conflitto armato tra superpotenze dotate di terribili arsenali atomici, non si può che essere d’accordo. Oggi la guerra può rappresentare la fine della vita sulla terra o, comunque, ridurre il pianeta in uno stato simile a quello descritto da Robert Altman nel film ‘Quintet’ del 1979. Tale evidenza, tuttavia, è tale per il presente ma si capisce assai meno per il passato. Qual’ è la ragione reale che induce i pacifisti in servizio permanente effettivo a ritenere che la guerra sia sempre stata il peggiore dei mali? Non vedo, all’interno di un’etica cristiano-illuministica, che una ragione sola: l’erogazione di violenza, accompagnata dalla distruzione di vite umane, di paesaggi naturali e artificiali prodotti nei secoli con enorme dispendio di risorse economiche e intellettuali, di opere architettoniche che, senza la guerra, avrebbero sfidato i secoli, di edifici civili, di chiese, di biblioteche, di monumenti dell’arte, di laboratori della scienza. Sennonché se si tratta di questo, non c’è qualcosa di ancora più terribile della guerra nella rivoluzione? Se parliamo del conteggio dei morti, della fame, della carestia, del saccheggio, dell’abbattimento delle case e dei luoghi di culto, della demolizione dei simboli del regime politico abbattuto, la rivoluzione appare oggettivamente ancora più esecrabile della guerra. Nella sola Russia sovietica sono perite, in pochi decenni, più del doppio delle persone cadute nella Grande Guerra o nell’insensata guerra dell’Asse. La Rivoluzione cinese sembra sia costata alla popolazione civile più di trenta milioni di ‘nemici del popolo. La stessa ‘Grande Rivoluzione’ ha causato in Francia (e in Europa) un numero di morti maggiore di quello che si era avuto nelle guerre dinastiche per l’egemonia da Richelieu a Luigi XVI.

Quel che è peggio, però, non è la quantità dei trapassati a miglior vita bensì il carattere ideologico, religioso, spietato, fondamentalista, della rivoluzione. Le guerre d’ancien régime—che non s’intende certo idealizzare—scaturivano da un mero conflitto di interessi: ciascun esercito combatteva per the King and the Country e i nemici—specie se ufficiali superiori—si sentivano parte di uno stesso corpo professionale, caratterizzato da uno specifico senso dell’onore, che imponeva il rispetto del ‘collega’.«Messieurs les Anglais, tirez les premiers !», sono rimaste celebri le parole pronunciate nella battaglia di Fontenoy (1745).’La Grande illusione’ di Jean Renoir (1937) resta ,forse, l’espressione più toccante di quel ‘mondo di ieri’ in cui erano ancora immersi i due aristocratici protagonisti del film– il comandante della prigione tedesca, il capitano von Rauffestein (Erich von Stroheim) e il suo prigioniero francese, il capitano Boeldieu (Pierre Fresnay)–ma che non riusciva a comprendere, per le sue origini borghesi, l’altro prigioniero francese, il tenente Marèchal (Iean Gabin).

E’ con la Rivoluzione francese, in effetti, che inizia the Great Transformation. Gli eserciti che si battono contro la reazione esterna e interna non inalberano la bandiera della ‘Ragion di Stato’—che, in quanto ragione con la erre minuscola, conosce l’arte della prudenza e la capacità dell’autolimitazione non in nome della morale ma dell’«interesse bene inteso»—bensì il vessillo dei «diritti dell’uomo e del cittadino» che porta a riguardare i nemici come agenti della Reazione, espressioni del Male assoluto, della negazione radicale dell’eguaglianza, della libertà e della dignità di tutti i Figli della Terra. La violenza non viene ora avvertita come una ineliminabile necessità ma come la giusta punizione dei corrotti e dei depravati che vogliono fermare il corso della storia. Non ci sono più ragioni al plurale ma c’è solo la Raison al singolare–e con la lettera maiuscola–che impone di bonificare il terreno della conquistata libertà dai parassiti e dalle cattive erbacce che, nel corso dei millenni, hanno impedito di trasformare il pianeta nel giardino sognato dagli utopisti. E’ l’eticizzazione (e, in seguito, la giuridicizzazione) del conflitto che rende, de facto, la rivoluzione, nel suo corso, più disumana della guerra, giacché nessuna Convenzione di Ginevra ne limita e contiene la violenza. Quando il nemico è un criminale nessuna pietà può muovere chi lo cattura e se, nondimeno, riesce a salvarsi (per essere portato dinanzi a un tribunale) ciò avviene per la sopravvivenza di antichi codici d’onore nel vincitore. Non è causale che durante la nostra guerra civile—la Resistenza—i partigiani provenienti dall’esercito siano stati meno spietati di quelli provenienti dai partiti (v. le memorie di Edgardo Sogno e di Alfredo Pizzoni); e che un fenomeno analogo si sia registrato nella ‘Guardia Repubblicana’ di Salò in cui i membri della Milizia o del disciolto PNF andavano meno per  le spicce rispetto ai soldati dell’ex esercito regio.( E’ la testimonianza–da me raccolta–di ufficiali che, vivendo al nord, si erano ritrovati nel territorio della Repubblica Sociale e che ad essa avevano dovuto aderire)

Ci si pone, allora, la domanda: se la quantità della violenza erogata e la sua stessa modalità avrebbero dovuto indurre a temere più la rivoluzione che la guerra, perché i costi della prima sono stati rimossi al punto da farne un evento da santificare (anche quand’è finita male, come nel caso del 1917) mentre la seconda è rimasta sempre la cloaca massima in cui si riversano tutte le fogne infernali della terra? Il motivo sta nel fatto che in una società caratterizzata da una political culture lontana dal realismo, e sommamente indulgente per tutto ciò che sa di—o si richiama al– ‘progresso’, contano soprattutto le intenzioni. Le rivoluzioni si fanno (o almeno così si pensa) per ragioni ideali, per liberare gli uomini dall’oppressione aristocratica o dalla tirannide borghese, mentre le guerre traggono origine dagli interessi e gli interessi non sono valori ma appetiti egoistici. Incendiare le case degli sfruttatori del popolo può essere riprovevole ma è, nondimeno, manifestazione di altruismo: difendersi (con le armi) da quanti vogliono toglierci il posto al sole o prevenirli nell’occuparlo non ha alcuna giustificazione, è manifestazione di nazionalismo e di sopraffazione, anche in presenza di un’oggettiva volontà di sopraffazione da parte degli Stati vicini e concorrenti—gli stati, diceva Benedetto Croce, sono leviatani dalle viscere di bronzo.

«La guerra non ha mai risolto nulla?». In un certo senso è vero, se i due conflitti mondiali hanno ridisegnato la cartina dell’Europa e del mondo, non sono riusciti poi a ridisegnarla in meglio, almeno in ogni loro parte :il vecchio continente nel 1918 assistette, in molte aree, all’affermazione del ‘principio di nazionalità’, al crollo degli Imperi centrali e dell’autocrazia zarista ma, nella voragine di potere aperta dalla Grande Guerra, si sarebbero ben presto installati regimi totalitari così disumani da far impallidire il ‘dispotismo asiatico’ di Montesquieu.

Sennonché «che cosa ha risolto poi la rivoluzione?» Il bilancio della rivoluzione sovietica è stato—anche per storici decisamente schierati a sinistra come Eric J. Hobsbawm—del tutto fallimentare e sulle sue macerie, quarant’anni fa, è nato un regime politico democratico-autoritario che solo vendendo all’estero le sue materie prime riesce a evitare la bancarotta. E quanto alla Francia, madre di tutte le rivoluzioni moderne si sarebbe, forse, trovata peggio senza il Terrore giacobino, la dittatura napoleonica, e il vorticoso avvicendarsi di repubbliche e monarchie? Sono domande che in nessuna scuola della Repubblica possono venir poste senza prestarsi all’accusa di disfattismo democratico se non di reazione. Eppure i fatti sono quelli e stanno lì più duri dell’acciaio.

A mio modesto avviso, per dirla brutalmente e senza nessuna preoccupazione per il politically correct, non saremo mai una democrazia  liberale a norma se non sostituiamo la “filosofia della guerra” alla “filosofia della rivoluzione”, se non ci rassegniamo a vedere nell’avversario uno come noi, che ha interessi diversi dai nostri–e talora componibili solo con le armi (le armi della scheda elettorale, non quelle militari)–ovvero se non rinunciamo a considerarlo un essere moralmente inferiore, da schiacciare senza pietà. Nella ‘filosofia della rivoluzione’ c’è l’idea della mela marcia, del virus letale che infetta una società (naturaliter) sana, nella ‘filosofia della guerra’, c’è, sostanzialmente–venata di scetticismo humiano–l’idea dell’eguaglianza per cui sui due lati della barricata ci si aspetta di trovare lo stesso materiale umano.