Remigration

20 Settembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Le cose che accadono poco per volta rischiano di passare inosservate. Succede nella vita, quando un rapporto si deteriora giorno dopo giorno, e poi improvvisamente si rompe. Succede in natura, quando la parete di una collina si impregna d’acqua per
giorni e giorni e poi di colpo frana. Succede in economia, quando uno Stato accumula debito pubblico per decenni e poi va a gambe all’aria nel giro di una sola seduta di borsa.

E succede pure in politica, dove un movimento o un partito radicale possono arrivare al potere per approssimazioni successive, di vittoria elettorale in vittoria elettorale. È successo in passato con Mussolini e Hitler, potrebbe risuccedere in futuro – e in parte
già sta succedendo – con i partiti di destra radicale che da anni avanzano (e talora governano) in tanti paesi europei: Alternative für Deutschland (Germania), Rassemblement National (Francia), Partito della libertà (Austria), Veri finlandesi (Finlandia), Democratici svedesi (Svezia), Partito per la libertà (Olanda).

Quasi sempre, in questi casi, il carburante del successo elettorale è il problema degli immigrati, o meglio il monopolio politico-ideologico che sul tema immigrazione esercita la destra, in assenza di una sinistra che del problema sia disposta a farsi
carico (uniche importanti eccezioni: Danimarca e Regno Unito). Una cecità che, a livello europeo, è ancora più macroscopica, perché non riguarda solo la sinistra, ma anche i suoi alleati liberali, verdi e popolari.

Dentro questo processo di lungo periodo, che sospinge verso il potere la maggior parte delle forze politiche di estrema destra (compresi alcuni partiti con frange neo-naziste), esiste però anche una discontinuità, cui rischiamo di non dare la dovuta
attenzione: negli ultimi anni alla richiesta di fermare gli immigrati che vogliono entrare in Europa sta subentrando, sempre più frequentemente e rabbiosamente, la richiesta di riportarli indietro.

Tutto cominciò nel 2022, quando il governo Johnson stipulò un accordo con il governo del Ruanda per trasferire in quel paese i migranti illegalmente sbarcati nel Regno Unito dal 1° gennaio 2022 in poi. Anche se quell’accordo, firmato il 13 aprile
del 2022, ha subito molte traversie, e nemmeno il premier conservatore Rishi Sunak è mai riuscito a renderlo operativo, da lì in poi il problema migratorio si è posto sempre più frequentemente in termini di remigration: in varie forme, l’idea di esternalizzare
il problema ha cominciato a prendere piede in diversi paesi europei.

È successo in Danimarca, dove la ex premier socialdemocratica Mette Frederiksen è riuscita a riconquistare il governo su un programma simile a quello di Johnson e Sunak. Ma è successo di recente anche in Germania, in Svezia, in Olanda, dove l’idea
dei rimpatri più o meno forzati, e più o meno di massa, non piace solo ai partiti di estrema destra, ma – talora – comincia ad attirare l’interesse di governi e partiti di sinistra, come il governo (socialdemocratico) di Scholz, messo in crisi dall’attentato
di Solingen, o il partito BSW di Sahra Wagenknecht, strana formazione politica al tempo stesso di sinistra e anti-immigrazione.

La realtà, verosimilmente, è che in diversi paesi europei il peso demografico degli immigrati, specie se la componente islamica è dominante, sta raggiungendo un livello di guardia, ovvero una soglia difficilmente compatibile con la sicurezza e la pace
sociale. È questo che alimenta la domanda di politiche di rimpatrio o remigration, è questo che porta sempre più cittadini a rivolgersi ai partiti che non prendono sotto gamba il problema dell’immigrazione. Forse è venuto il momento che le forze
politiche progressiste ne prendano atto, se non vogliono improvvisamente risvegliarsi in un’Europa in cui nessun governo è possibile senza i voti dell’estrema destra.

[articolo uscito sulla Ragione il 17 settembre 2024]