Deportazioni o rimpatri?

Sono tante le ragioni per cui la grande stampa nazionale, e più in generale i grandi media, hanno perso autorevolezza. Certo, anche in passato ben pochi si fidavano ciecamente di “quel che scrivono i giornali”, o di “quel che dice la tv”. Però mai
come oggi il pubblico ha tanto diffidato dell’informazione che pretende di essere obiettiva, non faziosa, o super partes.

Fra le tante ragioni per cui ciò è accaduto, ve ne è una che forse meriterebbe maggiore attenzione, e forse maggiore vigilanza: l’informazione main stream è diventata subdola. Ossia non conduce le sue battaglie fondamentali in campo aperto,
dichiarando esplicitamente da che parte sta, ma manipolando il flusso delle notizie. Un’arte che, con il tempo, si è arricchita di strumenti via via più potenti (e pericolosi).

Un posto importante, in proposito, è occupato dalla sistematica censura delle notizie gravemente dissonanti, condannate a vivere solo su fogli minori, per ciò stesso considerati estremisti, inaffidabili, o semplicemente irrilevanti. Ma un posto forse ancora più importante è costituito dall’uso, cosciente e intenzionale, di termini inappropriati e fuorvianti per descrivere i fatti della realtà.

Il modo di chiamare le cose è importante, perché può suscitare sentimenti e giudizi, ma proprio per questo è essenziale che non sia distorsivo. Qui si annida un pericoloso equivoco: molti giornalisti, e più in generale comunicatori, pensano di essere responsabili dei sentimenti che i loro scritti possono suscitare, e proprio per questo praticano sistematicamente la censura, la deformazione, la manipolazione terminologica. Come se chiamare le cose con il loro nome fosse legittimo solo quando la verità che il nome rivela è innocua, o non rischia di suscitare i sentimenti sbagliati, o è adatta a suscitare i sentimenti giusti.

Di questo tendenzioso uso della lingua abbiamo avuto un esempio lampante negli ultimi giorni. Tutte le maggiori testate italiane hanno tradotto il termine inglese deportation, che negli Stati Uniti è usato per indicare espulsioni o rimpatri, con il termine italiano ‘deportazione’ che nella nostra lingua ha un significato ben diverso, oltreché un sinistro richiamo alle deportazioni degli ebrei nei campi di concentramento nazisti (vedi in proposito il Dizionario Treccani, che dà due significati principali di ‘deportazione’, nessuno dei quali corrisponde a espulsioni o rimpatri). È vero che se si deve tradurre il nostro ‘deportazione’ si deve usare deportation (non c’è altra parola in inglese), ma il punto è che – nell’uso che ne fanno gli americani – deportation significa espulsione o rimpatrio, e quindi così andrebbe tradotto.

I giornalisti italiani non sono in grado di cogliere la distinzione fra rimpatrio e deportazione? No, semplicemente hanno ritenuto proprio dovere stigmatizzare le politiche migratorie di Trump, e altrettanto loro dovere non stigmatizzare le medesime politiche quando erano attuate da presidenti democratici.

Con questo non voglio dire che chi è contro le espulsioni non abbia le sue ragioni, o non abbia il pieno diritto di esporle pubblicamente. Il punto è che tali ragioni (che in parte io stesso condivido) dovrebbero essere argomentate come tali, non sostenute surrettiziamente manipolando il linguaggio per deformare l’immagine dell’avversario politico. Usare termini inappropriati (e squalificanti) per descrivere quel che l’avversario fa è una variante peggiorativa della ben nota e screditata tecnica dello straw man, ovvero criticare l’avversario mettendogli in bocca cose che non ha detto. Qui, in altre parole, non gli si fa dire quel che non ha detto, ma – chiamando con altro nome quel che ha fatto – gli si fa fare quel che non ha fatto.

E non si venga a dire che le manipolazioni della lingua sono a fin di bene, ovvero per mostrare al mondo in che orribili mani si sono posti gli americani, e rischiamo di finire pure noi. Questa obiezione è sbagliata non solo perché il compito specifico dell’informazione è dire la verità, non cambiare il mondo nella direzione prescritta dalla “linea” della testata. È sbagliata anche perché, proprio se si crede (erroneamente) che il giornalista sia responsabile dei sentimenti che suscita, è arduo non vedere che parlare di deportazioni produce almeno due effetti opposti: non solo indignazione nei già sempre indignati, ma anche ulteriore entusiasmo e odio in quanti sarebbero ben felici di vedere vere deportazioni. È amaro constatarlo, ma si può istigare all’odio anche cercando di spegnerlo.

[articolo inviato uscito sulla Ragione il 28 gennaio]




Immigrazione: I dilemmi dell’asilo politico

Dal gennaio 2014 all’agosto 2017, l’Italia ha registrato l’arrivo di 605.147 immigrati giunti attraverso la rotta del Mediterraneo Centrale (sul tema “sbarchi”, vedi anche la scheda a cura di Rossana Cima). Il marcato incremento degli arrivi ha portato, nello stesso periodo, ad un’impennata nel numero di richieste di asilo politico presentate in Italia. La figura 1 mostra il numero di richieste di asilo dal 1990 al 2016.

Figura 1. Richieste di asilo politico (persone, 1990 – 2016)
Fonte: Ministero dell’Interno

Gli ultimi tre anni, 2014-2016, hanno fatto registrare 271.026 richieste di asilo mentre il totale dei 24 anni precedenti è stato di 370.294 (il 2016, da solo, rappresenta un quarto delle richieste di asilo presentate in Italia dal 1990). L’apertura degli hot spot per l’identificazione degli immigrati e l’introduzione di stringenti controlli di frontiera da parte dei paesi europei confinanti, anche se membri dell’area Schengen, ha fatto sì che l’Italia sia sempre meno un paese di transito e sempre più un paese di destinazione. Il rapporto richiedenti asilo/migranti sbarcati era dello 0.37 nel 2014 per poi salire allo 0.55 nel 2015 e infine 0.68 nel 2016. E’ probabile che questo rapporto aumenti ulteriormente nel 2017. Quale è stato l’esito di queste richieste di asilo?

Tabella 1. Esiti domande di asilo politico, anni 2014-2016.
Fonte: Elaborazione su dati Ministero dell’Interno. Nota: (*) esaminati nell’anno indipendentemente dalla data di richiesta asilo.

La tabella mostra che solamente nel 6% dei casi viene effettivamente riconosciuto lo status di rifugiato. Una larga parte dei richiedenti riceve altre forme di protezione e con esse il permesso di risiedere in Italia: al 15,8% dei richiedenti è stata riconosciuta la protezione sussidiaria e al 22,6% la protezione umanitaria. La protezione sussidiaria è uno status molto simile a quello di rifugiato e da’ diritto ad un permesso di soggiorno di durata quinquennale (rinnovabile), consente l’accesso allo studio e alla formazione, e allo svolgimento di una attività lavorativa. La protezione umanitaria offre le stesse possibilità, ma con un orizzonte temporale decisamente più ristretto: nei fatti, da sei mesi a due anni. Complessivamente, per ogni cento richiedenti asilo, solamente 44 ottengono il permesso di risiedere e lavorare in Italia (22 ricevono un permesso della durata di cinque anni, ossia l’orizzonte temporale più consono per favorire l’inserimento nella società italiana e una piena integrazione).

I dati del periodo 2014-2016 mostrano, quindi, che la maggioranza dei richiedenti asilo (56 su cento) vede la propria domanda rifiutata, e con essa la possibilità di vivere e lavorare legalmente in Italia (le persone a cui la domanda di asilo è stata rifiutata vengono definite in gergo i “diniegati”). Questa quota è in aumento: nel 2016, sei domande su 10 sono state bocciate. E questo, a mio avviso, costituisce un serio problema che richiede una risposta politica in tempi brevi.

I “diniegati” perdono la possibilità di risiedere e lavorare legalmente in Italia, spesso dopo un iter di 1-2 anni. A questo punto – per definizione – le uniche opportunità di lavoro saranno di tipo informale o illegale. E questo, ovviamente, porta ad ulteriori problemi di ordine pubblico. Inoltre, per molti richiedenti asilo, lo stato italiano ha già speso risorse per la formazione, l’insegnamento della lingua italiana e, talvolta, l’inserimento in percorsi lavorativi in attesa della decisione finale sul loro status giuridico. Quale risposta adottare, quindi, per affrontare il problema dei 100,000+ “diniegati”? La decisione, ovviamente, spetta alla politica, ma vale la pena ricordare qui alcuni elementi utili.

Il primo: i dati presentati mostrano i limiti di una procedura largamente basata sull’asilo politico come strumento per la gestione dei flussi migratori. In una situazione come quella italiana, in cui le risorse sono estremamente scarse, mi pare che questo sistema porti ad una allocazione di tali risorse decisamente sub-ottimale (si pensi dal 60% di dinieghi registrati nel 2016 spesso dopo un lungo iter burocratico). Inoltre, anche nella situazione “ideal-tipica” in cui lo status di rifugiato viene conferito quasi di default – come nel caso dei profughi siriani in fuga dalla guerra – la procedura attuale comunque richiede che il profugo raggiunga una delle nazioni dell’Unione Europea per presentare la propria domanda. In questo modo si creano enormi opportunità per i gruppi criminali che organizzano i viaggi attraverso il Mediterraneo. Decisamente meglio sarebbe avere dei “corridoi umanitari” praticabili, sull’esempio di altri paesi come il Canada.  Il sistema attuale va ripensato al più presto.

Il secondo: i rimpatri forzati sono molto costosi, lenti e difficili da attuare dal punto di vista legale. Inoltre, provocano un impatto piuttosto radicale sulle vite delle persone se condotti dopo molto tempo dall’arrivo.

Il terzo: le operazioni di salvataggio in mare, che hanno fornito una risposta nobile e generosa all’emergenza sbarchi, stanno adesso dimostrando i loro limiti (tra cui la creazione di un massiccio e crescente numero di “diniegati”). L’idea europea di trasformare le operazioni Sofia e Triton in strumenti per combattere i cosiddetti “trafficanti” semplicemente non sta funzionando, e difficilmente funzionerà. La soluzione a questo riguardo è probabilmente da ricercare in politiche di terra e non navali. Un’estensione a tempo indeterminato di queste operazioni rischia di creare un sistema di incentivi perverso da cui diventa sempre più difficile uscire.

Credo che il punto tre sia la pre-condizione per attuare delle politiche che portino ad una soluzione al problema dei “diniegati” che sia, allo stesso tempo, umanitaria, efficiente dal punto di vista della risorse già impiegate e che minimizzi gli incentivi di tipo illegale. Un calo sostanziale degli arrivi può aprire la strada ad una legalizzazione di coloro che siano ancora presenti sul territorio italiano, che abbiamo seguito un percorso di formazione o inserimento lavorativo come richiedenti asilo, e che non abbiano commesso reati (ad eccezione, ovviamente, del reato di clandestinità). Una possibilità sarebbe di attuare questa legalizzazione nel contesto degli accordi di ricollocamento intra-UE: accordi che per il momento non stanno funzionando, ma che il Governo italiano potrebbe cercare di sbloccare in sede europea, anche nel contesto della discussione sulla revisione della Convenzione di Dublino sul diritto di asilo. Politicamente, questa potrebbe essere una strada molto difficile da percorrere. Ma il costo politico dell’inerzia potrebbe essere ugualmente elevato.