Rigore nei conti e riforme. La ricetta del Portogallo per uscire dalla crisi

Amato detestato, nessuno può rimanere indifferente. Parliamo del portoghese José Mourinho, che fin dalla conferenza stampa di presentazione come allenatore dell’Inter, ad un giornalista che aveva fatto una domanda furbastra rispose con un memorabile “ma io non sono un pirla”. Ecco questa frase sembra diventata il motto del governo portoghese di sinistra che ha vinto le elezioni nel ottobre del 2015, frutto dell’alleanza tra i socialisti del premier Costa e due partiti di estrema sinistra che rappresentavano ben il 18,5% dei voti. Il paese era in un periodo di flebile è ripresa dopo aver applicato le ricette europee e del Fondo Monetario Internazionale resesi necessare per rimediare a conti pubblici fuori controllo ad un sistema bancario pericolosamente fragile. Nel 2013 la recessione aveva raggiunto livelli devastanti e dal Paese lusitano, che ha poco più di 10 milioni di abitanti, erano emigrati in ben 500.000 in soli pochi anni.

Il centrodestra aveva perso per un’austerità percepita come eccessiva che aveva comportato blocco dei salari pubblici, allungamento dell’età pensionabile, un modesto inasprimento fiscale, taglio della spesa pubblica e così via. I mercati erano preoccupati che l’ingresso dei due partiti ultra sinistra al governo con i socialisti, che solo qualche anno prima col premier sopra adesso si erano comportati da spendaccioni, avrebbe minato la stabilità finanziaria. Dopo tre anni però il deficit pubblico per il 2018, tenuto sotto controllo sia nel 2016 che nel 2017, si avvia scendere allo 0,7% del PIL, la crescita è sul 2,5% annuo, il debito pubblico è diminuito nel 2017 di 4,3 punti rispetto al PIL ed oggi è circa al 124%. La disoccupazione è addirittura passata dall’11,1% del 2016 all’attuale 7,9%. Per il 2018-2019 tutti questi indici continueranno ad essere positivi, tanto che già quest’anno il deficit si restringerà allo 0,2 e il rapporto debito/PIL calerà di altri 3 punti.

Per un breve periodo si era diffusa la leggenda metropolitana che la ripresa lusitana fosse dovuta a delle misure di espansione “keynesiana” in barba a rigore di bilancio. Niente affatto: rivendica il rigore dei conti lo stesso ministro delle Finanze portoghese, Mario Centeno. In un paper scritto a 4 mani con il suo capo economista per Vox una rivista online di un centro studi, il ministro ricorda che la competitività portoghese è il frutto di prudenza di bilancio e riforme.

La spesa pubblica è passata dal 48,3% sul Pil del 2015 ad una previsione del 44,5% per il 2018 mantenendo le entrate invariate (in sostanza niente aumenti di tasse). Come si afferma nell’articolo il governo si basa su una “prudente, rigorosa gestione delle finanze pubbliche” anche attraverso meccanismi strutturali di spending review che ottimizzi l’efficienza della spesa (suonerebbe familiare). Ma i progressi sono stati frutto anche dei provvedimenti presi dai governi precedenti che oltre ad iniziare l’austerity hanno reso più flessibile il mercato del lavoro (contratti a termine, orari elastici, malleabilità salariale, licenziamenti) e posto una grande enfasi al miglioramento del capitale umano portoghese. In pochi anni la percentuale dei laureati è aumentata sostanzialmente e la qualità degli studenti pure. Mentre ai test Pisa negli anni passati i risultati degli scolari lusitani erano ben al di sotto la media OCSE (l’organizzazione dei paesi sviluppati), ora sono al di sopra in tutte le materie, matematica, scienze e lettura.

Avendo saputo sfruttare al meglio i fondi europei, pure gli investimenti, pubblici e privati, sono cresciuti al di sopra della media Ue e si sono concentrati su infrastrutture, sanità, ricerca e sviluppo, innovazione, educazione.

Gli investimenti privati sono indirizzati verso i settori più esposti alla competizione internazionale, migliorandone l’efficienza e aiutando un forte aumento dell’export, senza bisogno di agire sul cambio e con robuste iniezioni di liberalizzazioni e deregolamentazione del mercato di energia, telecomunicazioni, trasporti, poste e professioni, avendo altresì perfezionato la normativa antitrust (sotto questo profilo, alto è il rammarico per le resistenze corporative italiane alla nostra legge sulla concorrenza).

Basta così. Contro ogni illusione di uscire dalla crisi stampando moneta, elevando barriere protezionistiche, facendo più debiti, irrigidendo il mercato del lavoro, il piccolo Portogallo ci dà una facile lezione: senza rigore e riforme, zero tituli!

Articolo pubblicato su La Stampa il 15 giugno 2018.



Elezioni, partiti e analisi: intervista a Luca Ricolfi

Professore, andiamo verso le elezioni più incerte della Storia repubblicana?

No, i risultati elettorali sono sempre incerti. Quel che è nuovo è che questa volta, anche se sapessimo con precisione assoluta (all’ultimo seggio), quali saranno i numeri in Parlamento, nessuno potrebbe dedurne che governo avremo. Al momento ci sono ben cinque governi verosimili: Fi-Lega-FdI, Fi-Pd, Pd-Leu-Grillo, Leu-Grillo, Grillo-Lega.

L’ultima volta le previsioni non ci hanno preso, chi dice che a marzo vada proprio come tutti prevedono?

Questa volta i sondaggisti sbaglieranno di meno, per ragioni che ha spiegato in modo eccellente Paolo Natale in un articolo pubblicato sul sito della Fondazione David Hume. Si potrebbe parafrasare (ed estremizzare un po’) l’analisi di Paolo Natale così: più diventiamo un paese di disinibiti che non si vergognano di niente, più rendiamo facile il lavoro dei sondaggisti.

E secondo lei come andrà invece?

Penso che il centro-destra prenderà leggermente meno voti di quelli che gli assegneranno i sondaggi, e il Pd di Renzi qualche voto in più.

Oltre all’incertezza pesano una certa apatia generale e sondaggi negativi sul voto dei giovani…

Sì, ma il trend di distacco dalla politica non è nuovo. La novità è che il partito di Grillo ha perso di appeal, nessuno pensa seriamente che votare Raggi o Appendino sia uno sberleffo al sistema.

Secondo lei l’Italia è una vera democrazia compiuta?

No, ma non è l’unica. Quasi nessun paese occidentale è ormai più una vera democrazia, la differenza è solo che alcuni paesi in passato si sono avvicinati ad esserlo, noi ne siamo sempre rimasti lontani.

Ma perché nessun paese è più una democrazia compiuta?

Perché la spettacolarizzazione della politica, senza un sistema di partiti funzionante, crea un cortocircuito.

Mattarella ha invitato i politici ad un uso responsabile dei numeri. Lei cosa pensa delle proposte elettorali in formazione?

Penso quel che, immagino, ne pensa Mattarella, con la differenza che io posso dire quel che penso: i numeri dei partiti o non ci sono (vedi il silenzio sul debito pubblico), o non stanno in piedi.

In un recente editoriale lei ha criticato l’impostazione di fondo del M5s: dirigismo e tassazione.È il pericolo maggiore?

Secondo me sì, il programma e il personale politico dei Cinque Stelle sono il maggiore pericolo per la stabilità economica del Paese. Tuttavia anche Lega e Leu non scherzano…

Da dove viene secondo lei questa nouvelle vague anti-sistema, anti-scienza, anti-industria alimentare che pervade anche i grillini?

Non è nuova. I sociologi da almeno mezzo secolo descrivono l’Italia come un paese in cui la cultura anti-industriale ha radici profonde.

In questa situazione la sinistra è tornata a dividersi ed è in crisi d’identità e di leadership, come lei ha rilevato da tempo nel suo libro Sinistra e popolo (Longanesi). Come vede quel campo ora?

Lo vedo mal messo, e ostaggio di un incantesimo da cui non intende liberarsi. Il Pd, di fatto, è diventato un “partito radicale di massa” (copyright: Marcello Veneziani), che si occupa quasi esclusivamente di temi sovrastrutturali: unioni di fatto, fine vita, discriminazioni, fecondazione eterologa, tutela delle minoranze, diritti umani, eccetera. Niente di male: a Renzi è riuscito in 4 anni quello che a Pannella e Bonino non è riuscito in 40. Il punto, però, è che, pur essendo diventato il partito dei “ceti medi riflessivi”, che si credono la parte migliore del paese, anziché prendere coscienza di questa mutazione culturale e sociale, si ostina a proclamarsi di sinistra, difensore dei ceti popolari, eccetera. Qualcuno si può stupire che i ceti popolari dicano “no grazie” e si rivolgano altrove?

Renzi merita la sua decadenza?

Sì e no. Umanamente la merita tutta, perché quando si ha poca cultura è buona regola non alzare i toni e stare a sentire chi ha più cultura (e esperienza) di te. Politicamente sarei più indulgente: Renzi è uno dei pochi politici che non vedono la modernizzazione del Paese come una disgrazia. Ma così torniamo al punto di partenza di questa chiacchierata, la profondità dei sentimenti anti-industriali e anti-moderni degli italiani: a noi la modernizzazione piace solo come elargitrice di doni insperati, dai telefonini, al turismo, all’intrattenimento, mentre la detestiamo quando pretende di cambiare i nostri costumi, le nostre abitudini, i nostri privilegi.

Come giudica l’avventura di Liberi e uguali?

Interessante espressione di conservatorismo politico, in un paese in cui tutti vogliono presentarsi come innovatori.

Il campo liberale è ancora dominato da Berlusconi. Che ne pensa?

Non ho mai capito perché, in un quarto di secolo, in quel campo non si sia mai affermata una personalità comparabile a quella di Berlusconi, capace di sfidarlo o di raccogliere il testimone. È forse il segno che in Italia di cultura liberale ce n’è assai poca, anche a destra.

Quali sono le tre riforme urgenti che suggerirebbe al prossimo governo?

Potrei dire: fisco, giustizia civile, Pubblica Amministrazione. Ma preferisco dire: riformate quel che vi pare, ma che siano vere riforme, ben studiate e davvero modernizzatrici, non i modesti e pasticciati ritocchi cui ci avete abituati, sia a sinistra sia a destra.

Su immigrazione e cittadinanza quali le paiono i provvedimenti urgenti da prendere?

La questione della cittadinanza non è una battaglia di civiltà, ma una normalissima questione di tempi, condizioni, verifiche. Non sono sfavorevole a rendere più rapida l’acquisizione dei diritti di cittadinanza, ma penso che le condizioni per concederla dovrebbero essere più stringenti di quelle attuali. Ma il vero problema non sono i residenti regolari che vogliono la cittadinanza, il vero problema sono gli irregolari che alimentano la criminalità (anche su questo, rimando ai dossier della Fondazione David Hume)

Davvero si possono abbassare in qualche modo le tasse o col debito presente sarebbe una follia?

È inutile nasconderselo: se si vogliono abbassare le tasse l’unica strada seria è una la spending review permanente, “di legislatura” (ordine di grandezza: fra 5 e 10 miliardi l’anno, per 5 anni). Però la mia opinione, basata sulle analisi statistiche che ho condotto ne L’enigma della crescita (Longanesi 2014), è che il nodo vero sia quali tasse abbassare: con poche risorse meglio concentrare l’intervento su Ires e Irap. Se si vogliono aiutare le famiglie è molto più efficace accelerare la crescita del Pil e dell’occupazione, che concedere sgravi fiscali e contributivi a pioggia.

Da torinese come valuta l’operato della sindaca Appendino?

Senza infamia e senza lode. Torino è una città in declino, oppressa da un debito mostruoso, di cui nessuno vuole parlare.

Rifacendosi a Hume lei si definisce un liberale? E di sinistra?

No, io non mi considero un liberale, ma piuttosto un empirista, del resto è precisamente l’empirismo il contributo più importante di Hume alla storia delle idee. Quanto alla sinistra, che dire? la sinistra non è ancora di sinistra, aspetto che impari ad apprezzare il merito e la libertà.

Chi sono gli analisti, commentatori e giornalisti che ama leggere o consultare?

Purtroppo Natalia Ginzburg, Pasolini e Montanelli non ci sono più.

Al sito della Fondazione collabora anche sua moglie, la scrittrice Paola Mastrocola, come vi dividete il lavoro e che effetto le fa condividere vita personale e impegno pubblico con lei?

Lei si occupa della sezione Humanities, che raccoglie contributi letterari ed artistici, io mi occupo della ricerca empirica. Ma in realtà collaboriamo da sempre (da 30 anni!) in modo naturale, per affinità di vedute, specie per la comune insofferenza per il conformismo. Attualmente stiamo varando uno studio sugli effetti che l’abbassamento della qualità degli studi può aver esercitato sulla mobilità sociale. L’ipotesi è che 50 anni di scuola e università facile abbiano danneggiato i poveri e favorito i ricchi.

Da La Stampa al Sole 24 Ore, adesso al Messaggero, lei ha scritto per tanti giornali, come mai tutti questi passaggi?

Per ragioni ogni volta diverse, ma mai per dissensi sulla linea del giornale. Semplicemente ho ceduto al corteggiamento di alcuni direttori.

In definitiva, quando pensa al suo lavoro di analista si sente ancora speranzoso? Può fare qualche esempio pratico di quando ha avuto l’impressione di influire o cambiare in meglio qualche situazione?

Tutte le volte in cui ho prodotto informazioni o analisi che prima non esistevano: fra quelle recenti, il nostro indice VS, che misura la vulnerabilità strutturale dei conti pubblici di un paese.

Intervista di Francesco Rigatelli per Libero pubblicata l’8 gennaio 2018



Tasse, spese, debito: il triangolo aritmetico ineludibile del voto di marzo

Sciolte le Camere, fissata la data del voto (4 marzo 2018), siamo entrati in campagna elettorale anche ufficialmente. È il tempo delle promesse, o forse sarebbe meglio dire dei sogni, perché la maggior parte di quel che viene promesso è tanto meraviglioso quanto inattuabile.

Prima di volgersi alle promesse, allora, forse è meglio partire dalle premesse, e chiederci quali sono i problemi, o meglio i gruppi di problemi, che questa legislatura lascia aperti. A me pare che siano sostanzialmente tre.

Il primo (non necessariamente il più importante) è quello dei diritti, primo fra tutti quello della cittadinanza per gli stranieri. Pur avendo affrontato molti nodi (fine vita, unioni civili, caporalato, femminicidio, stalking, autismo), la XVII legislatura lascia completamente aperta la questione della cittadinanza italiana agli stranieri (i cosiddetti ius soli e ius culturae). Una questione su cui le opinioni sono divise, ma che andrà affrontata, anziché rimandata sine die per evitare conflitti.

Il secondo gruppo di problemi è quello delle riforme istituzionali. La vittoria del fronte del no al referendum del 4 dicembre 2016 ha bocciato (a mio parere non senza buone ragioni) la proposta di Renzi, ma non ha soppresso la necessità di ammodernare e correggere la Costituzione, un’esigenza peraltro più volte riconosciuta da esponenti del no. Un’esigenza, vale la pena sottolinearlo, che non riguarda solo i limiti del bicameralismo, ma anche il pessimo assetto dei rapporti fra Stato centrale ed Enti locali: il tipo di federalismo imposto dal centro-sinistra nel 2001 con la riforma del titolo V ha condotto sia a una dilatazione della spesa pubblica sia a un rallentamento dei processi decisionali. Dopo quasi vent’anni, è venuto il momento di correre ai ripari.

Ma il gruppo di problemi più importante è, a mio parere, il terzo, ovvero quello delle riforme economico-sociali. Qui non si può dire che nulla sia stato fatto in questa legislatura: 80 euro in busta paga, decontribuzione, Jobs-Act, (lieve) alleggerimento della pressione fiscale su alcune categorie. E tuttavia i problemi fondamentali del Paese sono ancora lì, tutti quanti: il tasso di crescita del Pil e il tasso di occupazione, pur in miglioramento grazie al Quantitative Easing e alla ripresa dell’economia europea, restano fra i più bassi d’Europa; il numero di famiglie che versano in condizione di povertà assoluta è in continuo aumento, anche negli ultimi anni; il debito pubblico resta fra i più alti del mondo, e non ha ancora iniziato a scendere.

Di fronte a questi nodi, tutti e tre i principali schieramenti avanzano le loro proposte per risollevare le sorti del Paese. In materia di lotta alla povertà e di sostegno del reddito si fronteggiano tre formule: reddito di cittadinanza (Cinque Stelle), reddito di inclusione (Pd), imposta negativa e aumento delle pensioni minime (Forza Italia). In materia di tasse, se lasciamo da parte l’estrema sinistra, sempre attratta dall’idea di “far piangere i ricchi”, tutti promettono riduzioni fiscali: flat tax al 15% (Lega), flat tax al 23% (Forza Italia), 30 miliardi di tasse in meno (Renzi), revisione delle aliquote Irpef a favore delle fasce dei contribuenti medio-basse (Cinque Stelle).

Se si prova a fare qualche addizione, non si arriva alle cifre denunciate da Renzi nei giorni scorsi, secondo cui il programma del centro-destra costerebbe 157 miliardi e quello dei Cinque Stelle 84, se non altro perché mancano troppi dettagli per fare calcoli attendibili. Però si arriva almeno a capire una cosa: che i conti non tornano, e non possono tornare.

Già nel 2018 l’Italia avrà il problema di disinnescare 20 miliardi di clausole di salvaguardia, ossia di minacciati aumenti dell’Iva. Ci sono poi gli impegni, già assunti con la Commissione europea, di mantenere l’indebitamento netto in prossimità dell’1.6%, un obiettivo che secondo alcuni potrebbe richiedere una manovra correttiva già nella primavera prossima, ovvero appena insediato il nuovo governo.

In una situazione del genere, il fatto che le varie forze in campo promettano di tutto, sia in termini di sussidi a poveri e pensionati, sia in termini di minori tasse, dimostra una cosa soltanto: che, sia pure in misura diversa, un po’ tutti stanno ignorando l’invito del Presidente della Repubblica a fare proposte “realistiche”. E invece quell’invito andrebbe preso molto sul serio. Perché almeno un punto dovrebbe essere chiaro: se vogliono essere una cosa seria, riduzione delle tasse e nuovi sussidi sono possibili solo aumentando ancora, e di molto, il debito pubblico. E, viceversa, se si vuole iniziare a ridurre il debito pubblico, o perlomeno a non farlo ancora aumentare, quelle promesse di nuove spese e minori tasse sono insostenibili.

La realtà è che le tasse, le spese e il debito sono i vertici di un triangolo aritmetico ineludibile: non si possono ottenere risultati su un punto senza pagare un prezzo sugli altri due. Chi lo nasconde, o finge che il problema non sussista, sta ingannando gli elettori. E forse non merita il nostro voto.

Articolo pubblicato da Il Messaggero il 30 dicembre 2017



Il compleanno della Costituzione: le promesse tradite

La Costituzione italiana sta per compiere 70 anni. Li compirà esattamente il 22 dicembre, anniversario del 22 dicembre 1947, quando la Carta fondamentale fu approvata dall’Assemblea Costituente. Settanta anni non sono pochi, nella vita delle persone non meno come in quella delle istituzioni. E un compleanno a cifra tonda è un’ottima occasione per tentare un bilancio.

Una parte del bilancio, quella strutturale, o puramente descrittiva, è presto fatta. La Costituzione in parte è rimasta monca (non si è mai avuto il coraggio di specificare gli articoli 39 e 49, per non limitare lo strapotere di sindacati e partiti); in parte è stata completata da interventi successivi, come quello sulla Corte Costituzionale (1953), quelli su composizione e durata di Camera e Senato (1963), quello sulle Regioni (1970); in parte, infine, è stata manomessa con più o meno successo, come quando il centro-sinistra è intervenuto sul Titolo V introducendo il federalismo (2001), o quando il centro-destra ha tentato invano di cambiare la forma di governo (2006), o ancora quando, sotto la pressione della crisi e delle autorità europee, il Parlamento ha rafforzato l’articolo 81 rendendo più rigide le norme sui conti pubblici (2012).

Più difficile, molto più difficile, è fare un bilancio valutativo. Perché un vero bilancio dovrebbe rispondere ad almeno due domande strettamente intrecciate. La prima: in questi 70 anni la Costituzione è stata tradita? La seconda: la Costituzione, così com’è diventata, è ancora all’altezza dei tempi?

Sulla prima domanda personalmente non ho molti dubbi. Comunque la si pensi sulla bontà della Carta originaria (un punto su cui gli osservatori sono divisi), è difficile occultare che almeno una decina dei 54 articoli iniziali (“Princìpi fondamentali” e “Diritti e doveri dei cittadini”) sono stati largamente ignorati e talvolta sostanzialmente traditi. Fra di essi, i più calpestati sono probabilmente quelli concernenti il lavoro (1, 4, 36) e lo studio (34).

I primi stabiliscono il diritto ad avere un lavoro (1, 4) e una retribuzione adeguata (36), nonché l’impegno della Repubblica a rendere effettivo tale diritto. Basta una breve occhiata alla traiettoria storica dei tassi di occupazione e di disoccupazione per rendersi conto che questo diritto, solennemente enunciato all’articolo 1 (“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”), non è mai stato garantito, e negli ultimi due decenni è stato addirittura umiliato: oggi l’Italia non solo non è in un regime di piena occupazione (come la Germania e alcuni paesi del Nord) ma ha il tasso di occupazione giovanile più basso d’Europa.

Le cose vanno ancora peggio per quanto riguarda l’articolo 34, che nel secondo e terzo comma recita: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.

Anche questo diritto è negato e calpestato, come sa chiunque sia semplicemente “capace e meritevole”, senza essere anche povero. Oggi le pochissime borse di studio sopravvissute sono assegnate esclusivamente a coloro le cui famiglie, almeno sulla carta (attestazione Isee) versano in condizioni di disagio estremo. E uno dei drammi cui assisto all’università è che i pochi studenti davvero “capaci e meritevoli”, sono spesso costretti a lavorare per mantenersi agli studi, perché le loro famiglie sono modeste, ma non abbastanza povere da avere diritto alle limitatissime risorse disponibili. Così la concorrenza con i figli di papà diventa sleale, alla faccia dei principi egualitari e meritocratici proclamati in tanti articolo della Carta fondamentale.

Resterebbe la questione dell’attualità della Costituzione. Su questo, lo confesso, le mie sensazioni sono contrastanti. Da un lato ho molti dubbi sul fatto che il federalismo introdotto nel 2001, ma anche il regionalismo introdotto nel 1970, siano stati un progresso: il loro effetto è stato soprattutto di rendere più facile ad amministratori e politici dilapidare denaro pubblico. E ancora più dubbi ho sulla funzionalità del bicameralismo, che il referendum renziano del 2016 sciaguratamente non intendeva affatto eliminare, ma solo annacquare e imbastardire (con i senatori eletti dai consigli regionali). Dall’altro lato, però, mi assale anche un dubbio di segno opposto, e cioè che la maggior parte delle cose che non vanno, in Italia, non dipendano affatto dalla Costituzione, bensì dalla scarsa qualità degli uomini che dovrebbero rispettarla, attuarla, tradurla in norme e regolamenti: la lentezza del processo legislativo, ad esempio, dipende tantissimo dai regolamenti parlamentari e dalla irresponsabilità dei partiti, più che dal bicameralismo.

Sicché, alla fine, più che chiedermi se la Costituzione sia attuale oppure no, mi viene da farmi un’altra e più radicale domanda: e se il vero problema non fosse la Costituzione, ma fossimo noi stessi, cittadini italiani, con le nostre cattive abitudini, la nostra indifferenza, e in definitiva la nostra incapacità di sceglierci una classe politica decente?

Pubblicato su Panorama il 14 dicembre 2017

 




Sintonia tra PD e Forza Italia. L’intervista a Luca Ricolfi

“Di Maio è più pericoloso di Berlusconi”, ha detto il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari. Per Luca Ricolfi, sociologo e professore di Analisi dei dati all’Università di Torino, l’analisi non dev’essere considerata eretica. Anzi. Come scrive in un articolo sul sito della Fondazione David Hume si tratta “di una frase di chi ha la forza di mettere da parte i sentimenti, e il coraggio di far prevalere il cervello”.

  • Ricolfi, dando ragione a Scalfari, ammette quella che potrebbe essere l’unica soluzione possibile per governare ai tempi del Rosatellum: larghe intese tra Pd e Forza Italia?

No, un governo Pd-Forza Italia non è l’unica soluzione. Anche un governo Forza Italia-Lega-Fratelli d’Italia è una soluzione possibile. Dopotutto un governo Forza-Italia-Lega c’è già stato, e non è risultato catastrofico: semplicemente è stato mediocre come tutti gli altri governi della seconda Repubblica, paralizzati dai veti e incapaci di riformare il Paese

  • Per molti, anche nel Pd, è considerata un’idea indecente e si preferirebbe flirtare con i 5 Stelle. Un’alleanza con gli azzurri su quali presupposti si potrebbe reggere?

Credo che il punto di maggiore sintonia potrebbe essere la riduzione della pressione fiscale. Sfortunatamente sarebbero in sintonia anche su un altro punto: chiedere ulteriore flessibilità all’Europa, e rimandare alle calende greche la riduzione del debito pubblico.

  •  Renzi  ha perso ogni possibilità di costruire una coalizione, essendo stato abbandonato sia  da Giuliano Pisapia (a sinistra) sia da Angelino Alfano (al centro). E’ rimasto da solo?

Sostanzialmente sì. Formalmente no: ci sarà qualche penoso tentativo di creare due contenitori-cespuglio, uno alla propria destra (tipo Udc e simili), uno alla propria sinistra (tipo radicali-verdi-socialisti). Ma non porteranno molti voti, potranno solo assicurare qualche seggio ai notabili dei micro-partiti.

  • La minoranza Pd spinge per un passo indietro di Renzi, mentre Gentiloni sta raccogliendo sempre più consensi. Crede che potrebbe essere una soluzione per compattare il centrosinistra?

Forse Gentiloni potrebbe risolvere un problema politico, ma non credo accelererebbe il percorso delle riforme, che a mio parere è stato più incisivo (o meno lento) sotto Renzi.

  • La leadership di Renzi per molti è al capolinea. Ma c’è anche chi – come Cacciari – sostiene che l’unica sua possibilità sarebbe costruire un partito personale come ha fatto Macron. Che cosa ne pensa?

Per costruire un partito personale bisogna non essersi bruciati prima. Inoltre è bene aver studiato, avere alle spalle esperienze professionali vere, possibilmente di alto livello. Come ha notato saggiamente Lapo Elkann qualche giorno fa a “Otto e mezzo”, Macron – oltre ad essere nuovo – aveva tutte le carte in regola, Renzi no. Renzi ha molta energia, poca cultura, nessuna umiltà.

  • Il Rosatellum, tanto voluto anche dal Pd, non è stato un suicidio visto che le alleanze sono praticamente tutte naufragate?

Sì, direi che è stato il suicidio perfetto. Ma è la maledizione della legge elettorale: chi la cambia per aiutare sé stesso, finisce per aiutare l’avversario.

  • La sinistra-sinistra si è riunita attorno a Grasso. Crede che potrà far male al Pd? O magari potrebbe essere un’interlocutrice del Pd per il post-voto?

Secondo me la lista Grasso farà più male ai Cinque Stelle che al Pd, e dopo il voto farà una serena opposizione, dura e pura.

  • Il Pd, secondo i sondaggi, è ai minimi storici, mentre il centrodestra è in grande spolvero. Secondo lei, le urne confermeranno questo scenario? E, nel caso di un Pd, minoritario (al 20%) Renzi che fine farà?

Io non penso che il Pd prenderà solo il 20%, più facile che, con i cespugli, stia in prossimità del 30%. Quanto al futuro di Renzi non lo so: il ragazzo è sufficientemente scavezzacollo da risultare imprevedibile.

Intervista a cura di Rosalba Carabutti pubblicata su QN Quotidiano Nazionale il 9 dicembre 2017