Consumismo, rivendicazione di diritti individuali e violenza contro le donne

Luca Ricolfi nel suo articolo A proposito di stupri. Il lato oscuro della civiltà, del 3 settembre scorso, ha fatto chiarezza sui dati statistici italiani ed europei relativi agli stupri e alle uccisioni di donne, compresi i femminicidi “di possesso”, in cui l’uomo non accetta di perdere quella che considera la “sua” donna. In questo come in altri casi, il confronto con i dati obiettivi consente di fare luce su un fenomeno, mettendo in discussione le interpretazioni stereotipate, individuali e collettive, che vanno per la maggiore.

A conclusione del suo intervento, l’autore si chiede: non sarà che il nostro modello di civiltà, basato sull’espansione illimitata dei consumi e dei diritti individuali, contenga in sé un difetto di fabbricazione, una sorta di vizio nascosto? Cerco qui di rispondere alla sua domanda, che a mio parere va al cuore della questione. Lo faccio riferendomi all’analisi del rapporto tra influenze culturali e disposizioni biologiche, relativamente alle relazioni tra uomini e donne, che ho approfondito nel mio libro Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia (Laterza, 2019).

Riguardo alle disposizioni biologiche, occorre in primo luogo prendere atto dell’esistenza di una tendenza filogeneticamente primitiva, radicata nella parte più arcaica dl cervello umano, che collega sessualità e aggressione nei maschi, così come sessualità e paura nelle femmine, in un rapporto di dominanza-sottomissione. Ci sono fortissime resistenze nel prendere consapevolezza dell’esistenza di queste disposizioni, e in particolare della disposizione maschile primitiva, principalmente per due ragioni: una di carattere generale, poiché si ritiene che tutto sia solo culturale (“dipende tutto soltanto dal modello patriarcale”), e una specifica, poiché vi è il timore che riconoscere l’esistenza di disposizioni biologiche significhi legittimare come inevitabile la violenza sulle donne (“la natura dei maschi è necessariamente violenta, non si può fare nulla, bisogna rassegnarsi”). Non è così, perché stiamo parlando di disposizioni filogeneticamente arcaiche e preumane, risalenti ai primi vertebrati (i rettili), quindi non specifiche della sessualità umana. Quest’ultima, al contrario, ha congiunto lungo la filogenesi il sesso ai legami e non alla violenza: nessuna necessità biologica costringe gli uomini alla sopraffazione, che è del tutto disadattiva e genera solo sofferenza individuale e sociale. Nella complessità dell’architettura e del funzionamento del cervello, da cui la mente emerge, queste disposizioni sono però ancora presenti come possibilità, non certo come necessità, e negarle costituisce un pessimo meccanismo di difesa, che non aiuta a evitare che tali disposizioni si manifestino e si traducano in azioni violente. Finché non si prende atto – come uomini e anche come donne – dell’esistenza di questa possibilità ancora presente nel cervello maschile non si farà mai nessun passo in avanti nel superamento dei rapporti di dominanza e sopraffazione delle donne, che non si concretizzano unicamente nello stupro.

Ma la presa d’atto non è che il primo passo, necessario ma non sufficiente, dal momento che siamo “animali culturali”, in cui la cultura – con l’educazione, i modelli, i simboli, gli stimoli, ecc. – interagisce continuamente con le nostre disposizioni biologiche. Si tratta quindi di chiedersi come la cultura può favorire l’emergere delle disposizioni primitive a scapito di quelle più evolute, specificamente umane, che congiungono la sessualità ai legami personali e danno luogo a rapporti egualitari, gli unici capaci di procurare benessere.

Veniamo allora alla domanda se non sia il nostro modello di civiltà, basato “sull’espansione illimitata dei consumi e dei diritti individuali”, a favorire e stimolare le disposizioni maschili più arcaiche. Dall’analisi dei processi psicologici implicati nei modelli individualisti e consumistici in cui siamo immersi ormai da decenni, la risposta è affermativa (ho esaminato in specifico questi aspetti nel capitolo 3 del libro citato).

Partiamo dal consumismo e dall’educazione consumistica che ne è derivata. Quest’ultima rappresenta la massima concretizzazione dell’educazione permissiva, che prevede il soddisfacimento di ogni richiesta infantile. Già era noto da tempo, perché confermato da tutti gli studi in proposito, che l’educazione permissiva conduce, assai più di quella autoritaria, a un aumento generalizzato del comportamento aggressivo e al mancato sviluppo del comportamento prosociale (Mestre et  Al., 2006) Con l’affermarsi del consumismo, non solo ogni desiderio infantile viene assecondato, ma le richieste sono crescenti, spinte dalla pubblicità e dal confronto conformistico con i coetanei; quest’ultimo diventa particolarmente pressante in adolescenza, per l’importanza che il gruppo dei pari acquisisce a quest’età. Inoltre, queste richieste sono soddisfatte grazie al denaro, che assume così un grandissimo valore come strumento per ottenere tutto ciò che si vuole.

I bambini educati in questi ultimi decenni secondo modalità permissive e consumistiche sono quindi cresciuti nell’abitudine a veder soddisfatto ogni desiderio di possedere qualcosa; di fatto non si tratta nemmeno di un vero desiderio, che richiederebbe ben altra consapevolezza, ma di un impulso, una voglia, un capriccio momentaneo. L’immediato passaggio da questo al possesso ha impedito lo sviluppo di tutte quelle capacità che consentono di raggiungere nel tempo un obiettivo significativo e appagante. Si tratta di capacità tra loro collegate che vengono distinte solo per comodità di analisi: cognitive (immaginazione, creatività, progettazione di uno o più percorsi, aggiramento, valutazione, ecc.), emotive (saper rimandare, avere pazienza, perseverare, gestire la paura e l’ansia, scegliere, riconoscere i limiti, ecc.), sociali (empatia, sapersi mettere dal punto di vista altrui, tenere conto dei desideri altrui, saper coinvolgere gli altri, saper cooperare per uno scopo comune, ecc.).  È stata al contrario favorita l’impulsività, con un appiattimento sul presente (voler ottenere tutto subito) e su di sé (conta solo il proprio desiderio). In modo ancora più profondo, questo tipo di educazione non sviluppa la sicurezza e la fiducia nelle proprie capacità di essere in grado di raggiungere un obiettivo e di superare gli eventuali ostacoli o insuccessi: sono aspetti basilari che si possono sviluppare solo facendo esperienza, lungo l’età evolutiva, di situazioni in cui il proprio desiderio non è immediatamente soddisfatto e il denaro non serve per raggiungere lo scopo.

Tutto questo ha effetti rovinosi sul piano relazionale, con un incremento dei comportamenti aggressivi. Un bambino diventato adolescente e adulto con questo modello educativo risulta incapace di rimandare la soddisfazione del suo desiderio sessuale, e quindi di tenere conto della volontà dell’altra persona, così come di tollerarne il rifiuto, che non sa come affrontare. Abituato a ottenere tutto ciò che desidera, ritiene di poter avere anche il corpo di chi desidera.  Viene quindi favorita l’imposizione sessuale con la violenza.

Anche a livello affettivo l’educazione permissiva consumistica ha provocato una diffusa incapacità a costruire relazioni sentimentali, poiché non ha permesso lo sviluppo delle competenze necessarie per coinvolgere l’altro. Poiché ci si aspetta che il proprio desiderio venga sempre soddisfatto, e ci si illude che sia possibile possedere l’affetto di un’altra persona, così come si posseggono le cose, i fallimenti e le frustrazioni sono inevitabili.  Infatti l’affetto non si può imporre e nemmeno comprare – come invece si può fare con il sesso – ma soltanto condividere e costruire insieme, cosa che non si è in grado di fare per mancanza delle indispensabili capacità relazionali. Di conseguenza, diventati adolescenti e adulti, i bambini cresciuti secondo il modello educativo consumistico sono del tutto incapaci di tollerare il rifiuto affettivo o l’abbandono, situazioni che appaiono allo stesso tempo inconcepibili (“come si permette di sfuggire al mio possesso?”) e insuperabili (“non posso fare niente”). La violenza rappresenta la reazione più facile a un tale profondo vissuto di frustrazione.

La soddisfazione illimitata dei propri desideri, caratteristica del modello consumistico, ha avuto un’altra importante conseguenza: essa ha favorito la trasformazione di ogni desiderio in diritto, reclamato non solo a livello individuale ma anche collettivo. Sul piano psicologico, questa trasformazione ha due grandi vantaggi: anzi tutto, essa converte una richiesta soggettiva ed egocentrica – e come tale censurabile – in qualcosa di oggettivo ed eticamente fondato; di conseguenza, essa permette di condannare chi avanza critiche come un illiberale che non rispetta i diritti altrui. Il risultato è una crescente enfasi sui diritti individuali, caratteristica delle società occidentali “avanzate”.

Questa centratura sui diritti individuali – espressione in realtà di desideri personali – è andata di pari passo con la disattenzione alle corrispondenti esigenze altrui, fino a dimenticare che la rivendicazione di un diritto comporta il riconoscimento speculare dell’analogo diritto degli altri, da cui derivano necessariamente dei limiti all’affermazione del proprio. Infatti, l’enfasi sui diritti ha avuto l’effetto retroattivo di favorire l’egocentrismo, poiché ha legittimato la pretesa di vedere soddisfatto ogni desiderio, senza tenere conto degli altri e dei limiti che da essi provengono. Si è così creato un circolo vizioso di progressiva chiusura egocentrica e di aumento della conflittualità relazionale, che sfocia facilmente in comportamenti aggressivi.

Per tornare dal punto da cui è partita questa analisi – l’interazione tra fattori biologici e culturali – dobbiamo essere consapevoli che la cultura consumistica in cui siamo immersi non sta favorendo lo sviluppo delle potenzialità di socialità positiva che sono caratteristiche della nostra specie (Bonino, 2012). Al contrario, l’espansione illimitata dei consumi e dei diritti che la caratterizza, sia nell’educazione dei bambini e degli adolescenti sia nella vita degli adulti, favorisce l’emergere delle disposizioni aggressive più arcaiche ancora presenti in noi, in particolare nel cervello maschile. Ne deriva che il superamento della diffusa sopraffazione e violenza sulle donne è possibile solo modificando in profondità i modelli educativi e culturali in cui siamo immersi: piccoli aggiustamenti non sono sufficienti. Di certo le disposizioni di socialità positiva di cui siamo biologicamente dotati come specie umana rendono possibile questo superamento e inducono alla speranza; occorre però una cultura e un’educazione che ne favoriscano l’attuazione.

 

Riferimenti bibliografici

Bonino S. (2012). Altruisti per natura. Alle radici della socialità positiva. Roma: Laterza.

Bonino S. (2019). Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia. Laterza: Roma.

Mestre V., Tur A.M., Samper P., Nàcher M. J., Cortés M. T., Stili educativi e condotta prosociale. In: Caprara G. V., Bonino S. (2006). Il comportamento prosociale. Erickson: Trento, pp. 135-156.




La fallacia oscurantista: dove sbagliano i nemici del merito – In esclusiva un estratto dal nuovo libro di Luca Ricolfi

Qualcuno potrebbe pensare che l’ostilità che il dibattito pubblico riserva al merito sia soprattutto il risultato di credenze errate o indimostrate. Molti non sanno quanto sia debole la corrispondenza fra classe di origine e risultati scolastici. O quanto numerosi siano i ragazzi poveri che vanno bene a scuola e i ragazzi ricchi che vanno male.  O quanta importanza abbia l’impegno negli studi.

Più in generale, molti adottano una visione alquanto determinista della vita sociale, che sottovaluta i gradi di libertà dell’individuo, e amplifica i condizionamenti dell’origine sociale, del corredo genetico, delle circostanze della vita.

Ma è solo questo?

No, se vogliamo capire fino in fondo perché a tanti l’idea di premiare i capaci e meritevoli non piace, o addirittura suscita un moto di ribellione, dobbiamo cercare di entrare nella testa dei detrattori del merito. Dobbiamo provare a ricostruirne la logica. Perché una logica esiste. È una logica sbagliata, ma è comunque una forma di ragionamento.

Possiamo riassumerlo così:

1 – i capaci e meritevoli, proprio perché sono tali, hanno meno bisogno di aiuto;

2 – chi ha veramente bisogno di aiuto sono i ragazzi in difficoltà, ossia i non capaci e meritevoli;

3 – se aiutiamo i primi, senza aver prima aiutato i secondi, amplifichiamo le diseguaglianze.

4 – quindi lo svolgimento dei programmi scolastici va tarato sui ragazzi in difficoltà.

Di qui due idee, entrambe risalenti a don Milani. Prima idea: la classe deve stare ferma “finché Gianni non ha capito”. Seconda idea: occuparsi dei capaci e meritevoli significa fare della scuola “un ospedale che cura i sani e respinge i malati”.

Non fa una grinza, apparentemente. Ma è radicalmente sbagliato, oltreché alquanto oscurantista. Ragionare così significa non aver compreso come funziona la macchina della disuguaglianza.

Qual è la fallacia logica?

La fallacia di base è di trattare quel che accade nel piccolo cosmo della classe come se fosse una versione in scala ridotta di quel che succede, o meglio di quel che succederà, nel più vasto mondo della società. Certo, fermare la classe in attesa di Gianni, a prima vista parrebbe ridurre la distanza fra Pierino e Gianni. Ma che succederà poi?

Poi succedono fondamentalmente due cose, una fra i ragazzi capaci e meritevoli, l’altra fra quelli che non vanno bene negli studi. Due gruppi che, è bene ricordarlo, non sono costituiti in blocco l’uno da ricchi e l’altro da poveri, ma contengono entrambi, sia pure in proporzioni diverse, ragazzi di estrazione sociale bassa e alta.

Ebbene, nel gruppo dei capaci e meritevoli, succede che il mancato sostegno economico a quanti sono “privi di mezzi” (ossia la mancata attuazione dell’articolo 34) fa un enorme favore ai cosiddetti pierini. Buona parte dei bravi a scuola poveri, infatti, rinuncerà ai percorsi di studio più prestigiosi (licei) e più lunghi (università e dottorato), permettendo ai pierini, che hanno mezzi economici e conoscenze familiari, di fare la loro corsa indisturbati, senza la fastidiosa concorrenza dei capaci e meritevoli provenienti dai ceti medio-bassi. La classe dirigente continuerà a formarsi attingendo quasi esclusivamente dai ceti privilegiati, in aperto contrasto con i sogni egualitari dei Padri costituenti.

E nel gruppo dei non capaci e meritevoli, che succederà?

Anche qui, come sappiamo, ci sono sia ragazzi dei ceti bassi (circa 2 su 3), sia ragazzi dei ceti alti (circa 1 su 3). Ebbene, il fatto che la classe sia stata ferma, e abbia imparato meno del dovuto, produrrà effetti di segno opposto ai due estremi della scala sociale. I figli dei ceti medio-alti andranno avanti a dispetto di tutto, perché il deficit di preparazione verrà compensato dalle risorse familiari: reddito, ricchezza, ripetizioni private, possibilità di prolungare indefinitamente gli anni di studio; e poi, sul mercato del lavoro, la preziosa risorsa delle conoscenze familiari. Mentre i figli dei ceti medio-bassi, le cui uniche risorse sono la conoscenza e la preparazione, pagheranno carissime le lacune e i deficit accumulati nei primi cicli di studio. Se, dopo l’obbligo, realisticamente intraprendono un percorso di studio breve, finiranno per doversi accontentare di occupazioni modeste, precarie o mal pagate. Se ne intraprendono uno lungo e/o impegnativo, correranno il rischio di interrompere prematuramente gli studi per mancanza di basi adeguate. Perché la scuola senza qualità, rinunciando a tenere alto per tutti il livello degli studi, ha tolto loro l’unica arma con cui avrebbero potuto misurarsi alla pari con i figli dei ceti medio-alti.

Ironia della sorte, è quel che capitò a suo tempo a diversi allievi di don Milani. Non tutti lo sanno o amano ricordarlo, ma Lettera a una professoressa venne scritto per vendetta, per punire una insegnante che, a causa della loro impreparazione, aveva respinto alcuni allievi di don Milani.

Come si vede, in entrambi i gruppi, quello dei bravi e quello dei non bravi, la linea di ragionamento anti-merito può avere effetti egualitari all’interno del micro-cosmo della classe – perché nessuno è bocciato e i bravi sono abbandonati a loro stessi – ma ne ha di drammaticamente disegualitari nel vasto mondo della vita adulta.

Pensare che quel che accadrà nella vita sia una sorta di proiezione o estrapolazione di quel che accade all’interno della classe è la fallacia logica fondamentale della guerra contro il merito. Una fallacia che, inevitabilmente, conduce a esiti oscurantisti.

Oscurantista è non riconoscere il merito dei bravi a scuola, e rinunciare a sostenerli negli studi quando sono “privi di mezzi”. Ma oscurantista è anche pensare che, per quelli che bravi a scuola non sono, la via maestra non sia quella di seguirli, aiutarli, supportarli fino a fargli raggiungere un livello di preparazione adeguato, ma sia quella di abbassare gli standard. Queste due rinunce, a sostenere economicamente i più bravi, e a elevare culturalmente i meno bravi, sono gli ingranaggi fondamentali della macchina della disuguaglianza.

[estratto dal libro La rivoluzione del merito, Rizzoli 2023]




Perché Meloni batte Schlein – Intervista a Luca Ricolfi

Il voto amministrativo ha di solito dinamiche molto locali. Perché queste comunali sono diverse?

Non è che le dinamiche locali e le personalità dei candidati sindaco non abbiano avuto il loro peso, quel che ha fatto la differenza è che una delle due parti in campo – la destra – sia prevalsa nettissimamente sull’altra, per di più in un tipo di consultazioni (le amministrative con ballottaggi) che storicamente non sono congeniali alla destra stessa. Poi c’è un’altra particolarità.

Quale?

Le consultazioni delle scorse settimane, essendosi svolte 9 mesi dopo il voto, sono fuori del raggio della “luna di miele”, che di solito dura pochi mesi. Ciò conferisce al successo della destra un significano politico per così dire “doppio”, o rafforzato, perché il consenso a Giorgia Meloni si manifesta a dispetto dell’esaurimento della fase a lei più favorevole.

L’analisi del risultato di Elly Schlein è stata che soffia il vento della destra e che il nuovo Pd ha avuto poco tempo per attrezzarsi. Che ne pensa di questa chiave di lettura?

In termini scientifici, invocare il “vento della destra” è ridicolo, è come postulare l’azione del demonio per spiegare le cattive azioni degli uomini. Quanto al “poco tempo per attrezzarsi” farei due osservazioni. Primo, se il valore aggiunto di Schlein è stato quello di rincuorare la sinistra, e se davvero il problema era riportare al voto gli elettori di sinistra-sinistra delusi, non si vede perché l’effetto del segnale-Schlein non si sarebbe dovuto avvertire già adesso, ossia a ridosso del suo insediamento al vertice del Pd. In un certo senso, era la neo-eletta Schlein ad essere in luna di miele, quindi non aver saputo cogliere il momento favorevole è particolarmente inquietante per le prospettive del Pd.

E la seconda osservazione?

Di questa sono meno sicuro, ma la butto lì sotto forma di domanda: e se il tempo giocasse contro Schlein piuttosto che a favore? Per confidare nel tempo a disposizione da qui alle Europee bisognerebbe avere una ragionevole chance di risolvere i due problemi fondamentali del Pd, ossia avere una linea politica chiara ed essere riconosciuto come il dominus di un’alleanza più vasta. Le sembra che ve ne siano le condizioni?

Eppure è vero, il voto in Europa, dalla Finlandia alla Spagna passando per l’Italia, dice che la stagione europea dei governi di centrosinistra sta finendo. O no?

È molto difficile dire se sia in atto una tendenza generale, però il fatto che in molti paesi si stiano rafforzando i partiti anti-immigrati o scettici con l’Europa suggerisce che qualcosa stia succedendo. La mia sensazione è che, negli ultimi anni, si stia consolidando un giudizio di inadeguatezza nei confronti dei vertici dell’Europa (Ue ma anche Bce), percepiti come incapaci di tutelare gli interessi primari dei cittadini: contrasto all’inflazione, fine della guerra in Ucraina, difesa delle frontiere esterne. Questo giudizio di inadeguatezza sembra toccare più la sinistra che la destra perché i progressisti hanno un’agenda astratta, etico-moralistica (ambiente, digitalizzazione, diritti, accoglienza eccetera), che va benissimo in tempi di crescita e prosperità, ma diventa inattuale in tempi bui come quelli che stiamo vivendo. Con Ronald Inglehart e la sua teoria della “rivoluzione silenziosa” (1977), si potrebbe dire che un po’ ovunque in occidente la destra è ancora attenta ai cosiddetti valori materialisti (a partire dalla sicurezza fisica ed economica), mentre la sinistra si attarda sui cosiddetti valori post-materialisti o post-borghesi: autorealizzazione, ecologia, diritti, minoranze, apertura.

C’è chi, come Dario Franceschini, ha appoggiato la Schlein sperando di dare la svolta per costruire qualcosa di nuovo a sinistra.

Mah, ho qualche dubbio. Se questo fosse il motivo, oggi vedremmo Francheschini impegnatissimo a elaborare idee, aprire tavoli di confronto, elaborare proposte. Io penso, più prosaicamente, che Franceschini abbia intuito che Bonaccini poteva perdere la sfida.

Ma la destra che si sta affermando in Italia che destra è?

Distinzione essenziale: un conto è la destra, un conto è Giorgia Meloni. La destra è un amalgama di culture politiche diversissime, al limite dell’incompatibilità. Quel che le tiene insieme è il pragmatismo, e la comune priorità di tenere la sinistra lontana dal potere. Giorgia Meloni, da quando è al governo, è espressione di un mix inedito: prudenza e moderazione nei consessi internazionali, esplicito conservatorismo sul piano culturale, cauta difesa degli interessi materiali dei cittadini (contro il fondamentalismo green dell’Europa), keynesismo in campo economico (è più importante aumentare l’occupazione che ridurre le tasse). La cosa interessante è che la sinistra pare non aver ancora capito chi è Giorgia Meloni. E quando dico la sinistra, non intendo tanto i partiti di sinistra, quanto i media che li sostengono. Anzi, direi di più: secondo me gli storici del futuro racconteranno questo periodo come quello in cui buona parte della grande stampa, delle grandi reti tv, degli intellettuali impegnati, riuscirono a far credere al Pd e agli altri partiti progressisti che in Italia fosse in arrivo una nuova forma di fascismo. Un formidabile assist a Giorgia Meloni, perché più il fascismo non arriva, più la sinistra anti-fascista perde credibilità.

Le alleanze finora non fatte nel centrosinistra potrebbero rendere di nuovo competitiva l’area?

Temo di no, anche se sarebbe auspicabile: una destra divenuta onnipotente per implosione dell’opposizione renderebbe zoppa la nostra democrazia.

Ma che cosa ostacola le alleanze a sinistra?

È molto semplice: in Italia ogni leader di sinistra si sente paladino di valori assoluti e irrinunciabili, anziché come rappresentante di interessi e obiettivi parziali, quindi negoziabili. Per questo, nel campo progressista, le alleanze o sono instabili (vi ricordate Bertinotti?), o sono impossibili. Emblematico, in questo senso, è stato il caso di Enrico Letta e del fallito “campo largo” alle ultime elezioni. I media lo hanno messo in croce come incapace e irresoluto, ma secondo me nessun leader progressista, anche infinitamente più carismatico e preparato di Enrico Letta, sarebbe mai stato in grado di mettere d’accordo Conte-Bonelli-Fratoianni-Bonino-Di Maio-Renzi-Calenda. Il problema cruciale della sinistra non è la linea politica, ma sono i suoi cacicchi, i signori della guerra che capeggiano i 7-8 partiti della galassia progressista.

Prossima conta, le Europee del 2024. Prima c’è una legge di bilancio da fare.

E sarà dura, senza ricorrere a scostamenti di bilancio. Proprio perché promette di lenire le ferite delle famiglie – dal caro-bollette all’alluvione, dall’inflazione al cuneo fiscale troppo alto – non sarà facile, per Giorgia Meloni, confezionare una legge di bilancio solida e attenta alle istanze dei ceti popolari. Tanto più che gli alleati cercheranno ognuno di far valere i propri provvedimenti bandiera. Il rischio, per il centro-destra, è di andare alla conta europea ancora più diviso del centro-sinistra. Con la differenza che un cattivo risultato alle Europee sarà molto più pericoloso per Giorgia Meloni che per Elly Schlein (sempre che nel frattempo le correnti del Pd non l’abbiano defenestrata, come fecero con il salvatore della patria Walter Veltroni).

[intervista a “Italia Oggi”, uscita il 1° giugno 2023]




Francesco Ghidetti di “Quotidiano Nazionale” intervista Luca Ricolfi

Professore, arrivati a questo punto, è vero quello che dicono in tanti che il Pd è un partito mai nato?

Non esattamente, il Pd delle origini, quello del congresso di Torino, guidato da Veltroni, una sua fisionomia ce l’aveva. È lungo la strada che, poco per volta, ha perso la sua ragion d’essere.

La famosa “fusione a freddo” tra Ds e Margherita: sta lì l’origine del male?

In parte sì, ma più che altro è la pretesa di incorporare tutte le maggiori culture politiche del paese: socialista, cattolica, liberale, ambientalista. Un’aspirazione alla totalità che ha conferito al partito tratti culturalmente totalitari. Anziché cercare di rappresentare una visione particolare del paese, in competizione con quella della destra, hanno preteso di ergersi a custodi del Bene, depositari della civiltà.

In vista del congresso, il Pd è davvero al capolinea come scrisse l’ex storico dirigente del Pci Emanuele Macaluso?

Ogni giorno che passa senza un’iniziativa politica, segmenti via via crescenti dell’elettorato Pd si spostano verso i Cinque Stelle e, in misura minore, verso il Terzo polo. Se vanno avanti così, a marzo potrebbero trovarsi poco sopra il 10% con I Cinque Stelle vicini al 20% e il Terzo Polo a sfiorare il 10%.

Si parla di due nomi per il dopo Letta: Stefano Bonaccini ed Elly Schlein. Unica cosa che li accomuna la provenienza dall’Emilia-Romagna. Vede rischi reali di scissione?

Sì, ne vedo. Se vince Elly Schlein il Pd diventa esplicitamente quel che già è, ossia un “partito radicale di massa”, concentrato su diritti civili, migranti, con una spruzzatina di ambientalismo. Se vince Bonaccini il Pd diventa un partito riformista, difficilmente distinguibile dal Terzo Polo. Una specie di partito di Renzi senza Renzi. Ma c’è anche una terza possibilità…

Quale?

Che il partito se lo prenda la sinistra di Bettini, Orlando e Provenzano. In questo caso il partito potrebbe diventare un normalissimo partito socialdemocratico, attento alla questione sociale e meno ossessionato dalla diade immigrati-diritti civili.

Schlein non è iscritta al partito. È credibile che possa prendersi il Pd? Quali prospettive vede per i dem?

Penso che la ragazza sia piuttosto ambiziosa, creda profondamente in sé stessa, e che non avrà alcun problema a prendere la tessera del Pd, ove questa diventasse la condizione per sfidare Bonaccini e gli altri aspiranti leader.

La sinistra si fa sempre folgorare da ‘papi stranieri’  e spesso da idee non sue. È la trasfigurazione delle idee da sinistra a destra di cui parla il suo libro (La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra)?

I “papi stranieri” sono quasi sempre semplicemente dei non-comunisti, chiamati a rassicurare un elettorato che non ha ancora digerito del tutto la cultura comunista. Ciampi, Prodi, Rutelli, Monti, Letta, Draghi, lo stesso Conte, sono i frontman (o le foglie di fico) che hanno permesso all’establishment ex PCI di occupare buona parte del potere e delle istituzioni senza esporsi direttamente.

Quello di cui parlo io nel mio libro è un altro processo storico, iniziato diversi decenni fa.

Quale?

Il processo che ha portato la sinistra a farsi scippare dalla destra due valori fondamentali della sinistra stessa: la difesa dei deboli e la libertà di espressione. Il primo scippo è avvenuto con il rifiuto di prendere sul serio la domanda di protezione che, da almeno 30 anni, sale dai ceti popolari, spaventati dalla globalizzazione e dalla presenza degli immigrati nelle periferie. Il secondo scippo è avvenuto con la adesione acritica al politicamente corretto, che ha trasformato in censori gli antichi difensori della libertà di pensiero. Ma c’è anche un terzo scippo, in atto da pochi mesi: la difesa del merito e della cultura alta come strumento di elevazione ed emancipazione dei ceti popolari. Incredibilmente, nelle ultime settimane, buona parte degli esponenti della sinistra si sono schierati contro il merito, finendo per mettersi sotto i piedi l’articolo 34 della Costituzione: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto a raggiungere i gradi più alti degli studi”.




Maurizio Caverzan intervista Luca Ricolfi per Panorama

Professore, leggendo il suo libro si ha l’impressione che il vizio della sinistra ufficiale stia nell’ambizione originale del partito democratico di «rappresentare la parte migliore dell’Italia». È corretto?

Sì, anche se non è l’unico vizio. C’è anche, fin dai tempi del partito comunista, la incapacità di analizzare la realtà in modo scientifico, e quindi spregiudicato. Di qui la tendenza a chiedersi, di qualsiasi proposizione empirica, non se è vera o falsa, ma se è utile o dannosa alla causa. La conseguenza è stata una sorta di cecità progressiva, nel doppio senso della parola: crescente e progressista. Con un esito finale: la totale incapacità di guardare la realtà con lenti non ideologiche.

Questo complesso di superiorità ha reso più difficile per la sinistra rappresentare i ceti popolari. Cosa nasconde la convinzione che la destra parli alla pancia del Paese?

Nasconde uno strano modo di pensare: se abbiamo ragione, e il popolo non ci capisce, allora vuol dire che il popolo non usa la ragione.

Spesso i politici progressisti denunciano con disprezzo la crescita del populismo. Come va interpretato l’uso di questo termine?

Le rispondo con la definizione della parola ‘populista’ proposta da Jean Michel Naulot: “POPULISTA: aggettivo usato dalla sinistra per designare il popolo quando questo comincia a sfuggirle”. Una definizione interessante anche perché risale al 1996, quando pochi vedevano il problema del divorzio fra la sinistra ufficiale e i ceti popolari.

La sinistra ufficiale si accorgeva dello scambio delle basi sociali in atto fra i due schieramenti? Ha scelto consapevolmente l’establishment?

Alcuni studiosi avevano segnalato il problema fin dai primi anni ’90, quando in fabbrica fece la sua prima comparsa la doppia tessera: operai iscritti alla Cgil & militanti della Lega. Poi ci sono stati diversi studi che hanno mostrato che la base del Pci-Pds-Ds stava diventando sempre più borghese. Infine, le analisi dei flussi elettorali hanno evidenziato il paradosso della Ztl che vota a sinistra e delle periferie che votano a destra.

Ma la sinistra ufficiale ha preferito non vedere. Sapevano, ma non volevano prendere atto. Sempre per quel motivo che dicevo poco fa: l’incapacità di guardare la realtà con un atteggiamento scientifico, ossia il primato dell’utile sul vero.

Il fatto che Giorgia Meloni nel primo discorso in Parlamento si sia presentata come underdog che rappresenta gli sfavoriti è la certificazione di questo scambio?

In un certo senso sì, anche se il termine underdog, di solito, designa gli sfavoriti in una competizione elettorale, cosa che il partito di Giorgia Meloni e il suo partito sono stati in passato, ma certo non nell’ultimo anno. Io piuttosto noterei una cosa: la novità di Giorgia Meloni non è solo che è la prima donna premier, ma che è il primo premier di umili origini. Tutti i premier della seconda Repubblica, oltre ad essere maschi, erano di origine sociale elevata, talora elevatissima o nobiliare. Per trovare un premier di origini sociali modeste dobbiamo risalire al 1988, quando venne eletto Ciriaco De Mita, nato in un piccolo comune montano dell’avellinese (Nusco), con un padre sarto e portalettere, e una madre casalinga.

Credo che il carisma di Giorgia Meloni – oltre che alla sua bravura, alla sua integrità e alla sua passione – sia dovuto all’ampiezza dei segmenti sociali per i quali può risultare naturale specchiarsi in lei

Quali segmenti ha in mente?

Le donne, ovviamente, ma anche gli strati popolari, ossia le persone che non possono contare su una famiglia di origine ricca, benestante, protettiva.

Persa la rappresentanza dei ceti deboli, la sinistra si è concentrata sui diritti civili e le minoranze Lgbt che coinvolgono i ceti medio alti. Perché, contemporaneamente, è così intransigente nella difesa degli immigrati?

Proprio perché ha abbandonato i ceti popolari. La difesa degli immigrati è una sorta di polizza di assicurazione contro la perdita della propria identità. Grazie agli immigrati, la sinistra può ancora pensare sé stessa come paladina degli ultimi. E grazie alla difesa delle rivendicazioni LGBT+ può pensarsi come campionessa di inclusione.

Perché la sinistra liberal appare come una forza tendenzialmente individualista, mentre la destra mantiene una tiepida dimensione comunitaria?

Perché la sinistra liberal, ovvero la sinistra ufficiale, crede che l’aumento senza limiti dei diritti individuali sia l’essenza del progresso, mentre la destra (e una parte del mondo femminile) vede il lato oscuro del progresso, a partire dalla distruzione dei legami comunitari e familiari.

Perché oggi la sinistra ufficiale parla più di inclusione che di eguaglianza? E questo che conseguenze ha nel dibattito pubblico?

Lo spiegò Alessandro Pizzorno una trentina di anni fa: parlare di inclusione rende più facile conferire un valore morale alla scelta di essere di sinistra, e assegnare un disvalore all’essere di destra: noi buoni vogliamo includere, voi cattivi volete escludere…

Il giudizio di Enrico Letta sul risultato elettorale del Pd è che «non è riuscito a connettersi con chi non ce la fa». A suo giudizio, quanto tempo gli servirà per tornare a farlo?

Non è un problema di connessione con chi non ce la fa, è un problema di comprensione della realtà.

Prima che completi il processo di revisione, può perdere ancora consensi? E a vantaggio del Terzo polo o del M5s?

I consensi li sta già perdendo. Secondo i dati che ho potuto analizzare, l’emorragia è bilaterale, ma un po’ più grave verso i Cinque Stelle che verso il Terzo polo.

Il catechismo politicamente corretto e la cancellazione della cultura rendono la nostra società più illiberale?

Sì, nella nostra società vengono predicate tolleranza e inclusione, ma il dissenso verso il politicamente corretto non è tollerato.

Fino agli anni Settanta gli intellettuali erano compatti contro la censura e per la libertà di espressione. Come mai oggi sono in gran parte schierati a difesa dell’establishment?

Perché ne fanno parte, specie nelle istituzioni culturali e nel mondo dei media. Difendendo l’establishment difendono sé stessi.

In Italia la battaglia sul politicamente corretto si è applicata sul ddl Zan: perché nonostante il parere contrario di eminenti giuristi, di movimenti femministi e di intellettuali di area progressista il Pd ne ha fatto un simbolo intoccabile?

Per il solito motivo, l’incapacità di accettare la realtà quando la realtà va contro l’utile di partito. In questo caso: l’incapacità di ammettere il fatto che il ddl Zan limita la libertà di espressione.

Perché il dibattito sulle desinenze è divenuto così importante? 

Perché l’agenda dei media è fatta da persone che non devono fare i conti con le asprezze della vita.

Perché l’introduzione del merito tra le competenze del nuovo ministero della Pubblica istruzione ha destato scandalo?

Un po’ per il mero fatto che ne ha parlato la destra, un po’ perché nella mentalità della sinistra c’è l’idea che premiare il merito di qualcuno significa umiliare il non-merito di qualcun altro. E’ questa mentalità che, negli ultimi 50 anni, ha distrutto la scuola e l’università.

Nel Novecento cultura e istruzione erano considerate a sinistra uno strumento di elevazione sociale, oggi non è più così?

No, la trasmissione del patrimonio culturale, cara a Gramsci e a Togliatti, non interessa più.

Sta passando a destra anche l’idea di emancipazione dei deboli attraverso la cultura?

Più che a destra, sta passando nel partito di Giorgia Meloni, secondo cui “eguaglianza e merito sono fratelli”.

In questo contesto, che cosa può significare la nascita del primo governo di destra in Italia?

La fine dell’egemonia culturale assoluta della sinistra.

Se dovesse dare un solo consiglio non richiesto alla premier cosa le suggerirebbe?

Dica che vuole, finalmente, che venga applicato l’articolo 34 della Costituzione, e vari un grande piano di borse di studio per “i capaci e meritevoli” privi di mezzi.