Qualcuno dica al signor Renzi di non vendere patacche

Qualcuno dovrà pur dirglielo, prima o poi, che il Presidente del Consiglio non è più lui.

Questo deve aver pensato il ministro Padoan quando, qualche giorno fa a Bruxelles, i giornalisti gli hanno chiesto di commentare le ultime proposte di Renzi in materia di economia: rottamare il fiscal compact, interrompere (anzi invertire) il già lentissimo percorso di riduzione del deficit, usare il deficit aggiuntivo (5 anni di indebitamento al 2.9%) per abbassare le tasse e fare investimenti pubblici.

Ma l’economia non è l’unico terreno su cui l’ex presidente del Consiglio ci martella da giorni. C’è anche il capitolo migranti, che si arricchisce ogni giorno di dichiarazioni e polemiche. Dopo aver praticato l’accoglienza indiscriminata nel suo triennio di governo, Renzi si è bruscamente risvegliato ed ora pare pensarla come Salvini: “aiutiamoli a casa loro”. Mentre per lo Ius soli arriva la decisione del premier Paolo Gentiloni di rimandare tutto all’autunno, con la possibilità che non se ne faccia più niente, per evitare un pericolosissimo voto di fiducia.

Né passa giorno senza che l’irrequieto segretario del Pd lanci i suoi strali, ora anche attraverso il suo nuovo libro (Avanti). Ce n’è per tutti, ma soprattutto per i suoi predecessori, Letta cui lui non ha fatto nulla (è stato il Pd a chiedergli di rottamarlo), Monti che è la vera causa dei nostri guai (se abbiamo le mani legate in economia è colpa sua). E se la Banca d’Italia rivede al rialzo le previsioni del Pil 2017 (dall’1.1% governativo di qualche mese fa a un incoraggiante 1.4%), eccolo di nuovo, che cinguetta su Twitter attraverso le parole del suo alter ego femminile, la sottosegretaria Maria Elena Boschi: “col tempo arrivano le prove che le politiche dei Mille Giorni erano coraggiose e giuste”.

Di fronte a una simile congerie di chiacchiere, forse, non sarebbe male provare a rimettere in fila i fatti. Perché il rischio dei mesi che ci aspettano, di qui alle elezioni (verosimilmente marzo 2018), è quello di una continua confusione fra il piano della realtà e quello della narrazione, fra la pietrosa verità delle cose e le parole alate con cui la politica prova ad addomesticarle.

Due sono, a mio parere, le insidie da cui dovremmo guardarci nei prossimi mesi. La prima è quella di prendere per buoni i propositi, spesso del tutto irrealistici, enunciati da chi si candida a guidare il paese. Vale per l’economia, dove l’idea di fare deficit (2.9% del Pil) per 5 anni, incrementando ulteriormente il nostro enorme debito pubblico, dovrebbe bastare a screditare chiunque la enunci, anziché essere dibattuta come un’alternativa davvero sul tappeto (e bene ha fatto il ministro Padoan a dissociarsene). Ma vale anche per l’immigrazione, dove sarebbe meglio prendere atto dei tre dati di fondo del problema anziché continuare ad alimentare illusioni: primo, l’Italia non ha né la volontà né la capacità di rimpatriare i migranti economici; secondo, la maggior parte degli Stati europei non hanno la minima intenzione di farsi carico dei rifugiati che noi abbiamo accolto; terzo, nessuno Stato europeo è disposto ad aprire i suoi porti alle navi che salvano migranti in mare.

Ma c’è anche un’altra insidia, ben più sottile, da cui dovremmo guardarci. Ed è l’insidia dei falsi bilanci, o fake stories (come verrebbe da chiamarle in questa strana era di fake news e di story telling). All’università c’è persino una disciplina scientifica che se ne occupa, si chiama “Analisi delle politiche pubbliche”. Dovrebbe essere obbligatoria per chi pretende di fare politica, e non farebbe male neppure a giornalisti e conduttori televisivi.

Che cosa si insegna in questa disciplina? In sostanza si insegnano le tecniche statistico-matematiche che, a certe condizioni, permettono di capire se un cambiamento intervenuto in un determinato sistema sociale in un dato arco di tempo è attribuibile all’azione di un decisore pubblico (tipicamente: un governo, nazionale o locale), e in quale misura. Ad esempio, se un aumento dell’occupazione, o della disoccupazione, o della povertà, è attribuibile a misure varate da un determinato governo. Quando sono usate con successo, queste tecniche di analisi dei dati aiutano ad evitare lo spettacolo cui i politici ci sottopongono sistematicamente quando raccontano i propri anni di governo.

Quali sono i capisaldi di questo spettacolo?

Sono tre: ignorare i fatti negativi, selezionare quelli positivi, attribuire questi ultimi alle politiche del governo.

Esempio. Ignorare che la povertà assoluta è aumentata e che il tasso di occupazione precaria ha toccato il massimo storico; sottolineare che l’occupazione è cresciuta e il Pil sta progredendo più velocemente di prima; attribuire questi ultimi risultati (positivi) all’azione di governo, e non fornire alcun resoconto dei primi (negativi).

Curioso. Uno studente di “Analisi delle politiche pubbliche” che ragionasse così sarebbe bocciato senza la minima esitazione. Un politico, invece, ottiene la deferente attenzione del pubblico e dei media.

Anche questo è un privilegio della casta. E, su di noi cittadini che dai politici siamo governati, produce effetti ben più gravi di quelli che siamo soliti attribuire ai vizi dei nostri governanti.

Pubblica su Panorama il 20 luglio 2017



Troppi soldi spesi male: tutto da rifare

Puntuale come un orologio svizzero, la manovra correttiva è arrivata. Non ci voleva molto a prevederlo, e infatti in molti l’avevano prevista, beccandosi puntualmente l’accusa di essere dei “gufi”.

Ma vediamo in che cosa consisterà e perché ci siamo arrivati. Di per sé non si tratta di grandi cifre: circa 3 miliardi e mezzo, pari allo 0.2% del Pil, più o meno un decimo di una vera manovra finznaziaria “lacrime e sangue”, tipo la manovra da 90 mila miliardi (di lire) del governo Amato nel 1992.

Secondo le cifre circolate nei giorni scorsi la manovra, che il governo – per ora – si è ben guardato dal tradurre in precisi provvedimenti di legge, consisterà di cinque provvedimenti.

Primo. Un aumento del prezzo dei tabacchi, che potrebbe valere 100 o 200 milioni.

Secondo. Aumento delle accise sui carburanti, con un incasso di circa 1.4 miliardi.

Terzo. Eliminazione di benefici fiscali (per meno di 100 milioni).

Quarto. Le solite, immancabili, “misure anti-evasione”, per un incasso previsto di 1 miliardo.

Quinto. Tagli ai consumi intermedi della Pubblica Amministrazione (quasi 800 milioni).

Come si vede, quasi l’80% sono aumenti di tasse, e solo una piccola parte (poco più del 20%) sono riduzioni di spese.  E’ un classico, specie con i governi di centro-sinistra: le spese non si possono ridurre, perché sono il cuore della macchina del consenso, e allora si aumentano le tasse, in modo più o meno mascherato. Né deve trarre in inganno la retorica della “lotta all’evasione”. Di per sé la lotta all’evasione, se riscuote quel che si prefigge di riscuotere (1 miliardo, in questa circostanza), costituisce un aumento della pressione fiscale, che resta invariata solo se i proventi della lotta all’evasione vengono usati per ridurre le aliquote che gravano sui contribuenti onesti e non per rimpinguare le casse dello Stato.

Ma perché siamo arrivati a questo punto? Perché il governo si è trovato, o meglio si è ritrovato ancora una volta, a dover spegnere precipitosamente l’incendio dello spread, tornato ad avvicinarsi perigliosamente ai 200 punti base?

La storia di come ci siamo arrivati è lunga, perché inizia fin dalla primavera del 2014. Allora Renzi stacca il primo grosso assegno cattura-consenso, quei 10 miliardi (all’anno) di riduzione Irpef con cui può erogare il bonus da 80 euro ai lavoratori dipendenti che guadagnano abbastanza da poter avvertire lo sgravio. Lì i conti pubblici subiscono il primo shock. La crescita ne beneficia pochissimo, come farà intendere (inascoltato) il vice-ministro Enrico Morando, che avrebbe preferito uno sgravio Irap, ben più incisivo sui conti delle imprese e quindi sugli investimenti. Così come ne beneficiano pochissimo (anzi niente) i veri poveri, esclusi dal provvedimento in quanto incapienti (per usufruire di uno sgravio fiscale bisogna pagare le tasse, e chi guadagna meno di 8000 euro l’anno non paga tasse, quindi non può beneficiare di alcuno sgravio).

Ma è solo il primo colpo. Dal 1° gennaio 2015 parte la decontribuzione per i neo- assunti a tempo indeterminato. Un provvedimento che costerà quasi altri 10 miliardi l’anno per 3 anni, e creerà pochissimi posti di lavoro aggiuntivi rispetto a quelli che si sarebbero creati comunque. La ragione è semplice: Renzi, che vuole (e avrà) il consenso convinto di Confindustria, intende alleggerire i costi salariali di tutte le imprese, anziché concentrare le risorse su quelle che aumentano l’occupazione, come gli suggeriscono, inascoltate, Susanna Camusso (Cgil) e Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia), che a loro volta raccolgono una proposta della Fondazione David Hume (il “job Italia”, un contratto a costo zero per lo Stato, ancora più conveniente per le imprese, ma riservato a chi aumenta il livello di occupazione).

Accanto a questi provvedimenti, molto costosi per le finanze dello Stato, ne partono diversi altri di impatto minore ma, proprio perché numerosi, complessivamente piuttosto onerosi. Ad esempio il bonus bebé, il bonus giovani per la cultura (da molti speso in ben altro), le assunzioni nella scuola (nonostante i confronti internazionali da anni segnalino, per l’Italia, un rapporto insegnanti/allievi troppo alto).

Tutto ciò nei primi due anni del governo Renzi. C’è poi la fase due, quella che va dalla primavera del 2016 alla data del referendum. Qui la compulsione a spendere entra in una nuova fase: si tratta di mettere sul piatto tutte le risorse possibili per conquistare voti alla causa del “sì” (promesse di fondi a Regioni e Comuni, promesse di aumenti ai pensionati, piani di messa in sicurezza del territorio, delle scuole, delle zone terremotate, ecc.). Ma non si tratta solo di promettere, si tratta anche di nascondere. Nonostante i dissesti bancari siano noti da anni, e i nodi stiano venendo tragicamente al pettine, il governo preferisce temporeggiare, rimandando tutto a dopo il 4 dicembre. Mentre le reti televisive vengono inondate dalle esternazioni del duo Renzi-Boschi e dalle rassicurazioni del ministro dell’Economia, decine e decine di provvedimenti giacciono in Parlamento, e l’inerzia sul nodo bancario alza i costi delle operazioni di salvataggio future (come, sia pure a cose fatte, non mancherà di rimarcare Bini Smaghi in un’intervista alla Stampa).

Nel frattempo la verità sui conti pubblici comincia a farsi strada anche fra gli osservatori meno desiderosi di prenderne atto. Quel che si vedeva ad occhio nudo fin dall’inizio del 2016, e cioè che l’Italia non avrebbe mantenuto la solenne promessa renziana di ridurre il rapporto debito-pil nel 2016, ora lo vedono tutti. Il debito continua  a salire, non solo in assoluto, ma anche in rapporto al Pil, la pressione fiscale e la spesa pubblica corrente – decimale più, decimale meno – sono al livello cui Renzi le aveva ereditate da Letta, lo spread è ai massimi da tre anni. Le previsioni di crescita dell’Italia nel 2017 sono le peggiori dell’intera Unione Europea. E, come se non bastasse, il nostro governo non trova di meglio che addossare alla rigidità delle regole europee la propria incapacità di far ripartire la crescita. Come se le regole europee valessero solo per l’Italia, e i paesi europei che sono tornati a crescere (la maggior parte) ne fossero invece esentati.

C’è da stupirsi se i mercati sono tornati a non fidarsi dell’Italia?