Il partito che non c’è

Ma chi ha vinto il match fra Renzi e Salvini, andato in onda martedì notte a “Porta a Porta”?

Se badiamo solo all’efficacia comunicativa, credo sia solo una questione di gusto, tanto diverse sono state le due prestazioni. Alla dialettica puntigliosa e sferzante di Renzi, Salvini ha risposto nel solito modo un po’ grezzo, ma tutto sommato efficace, con cui suole cercare (e ottenere) il consenso dei ceti popolari.

Ma se andiamo alla sostanza, alla forza delle argomentazioni dei due contendenti, le cose cambiano notevolmente. Nello scontro fra “i due Mattei” non è andato in scena un match unico, più o meno dominato da uno dei due contendenti, ma sono andati in scena due match distinti, uno sull’immigrazione, l’altro sulla politica economica (e in particolare su “quota cento”).

Il match sull’immigrazione lo ha nettamente vinto Salvini, quello sulla politica economica l’ha vinto nettamente Renzi. Se pareggio c’è stato, non è perché gli argomenti dei due contendenti si sono equivalsi, ma perché ciascuno di essi ha stravinto sul proprio terreno, e perso rovinosamente sul terreno altrui.

Sull’immigrazione, e in particolare sul problema degli sbarchi, Renzi ha tentato invano di far credere che la differenza fra il numero di arrivi quando governava lui (170 mila all’anno) e il numero di arrivi quando al Ministero dell’interno c’era Salvini (meno di 9 mila l’anno) sia attribuibile al cambiamento della situazione in Libia, piuttosto che ai differenti segnali provenienti dai governi italiani in carica. Né gli è riuscito di nascondere che, sotto il nuovo governo giallo-rosso, gli sbarchi sono quasi triplicati, e che nell’ultima tragedia in mare Salvini non c’entra nulla.  Così come non gli è stato possibile negare che, con i “cattivi” al governo, il numero assoluto di morti in mare è diminuito, e tanto meno nascondere che, con i “buoni” al governo, l’accoglienza sia stata un disastro. Insomma, sull’immigrazione Renzi ha mostrato di non avere idee concrete, ma solo posizioni morali e formule retoriche.

Sulla politica economica, tuttavia, le cose si sono capovolte. Specie su “quota 100” (la norma che permette di andare in pensione prima) Renzi è stato molto convincente. Le cifre che ha presentato sul costo di “quota 100” sono leggermente esagerate (20 miliardi in 3 anni), ma la sostanza del suo discorso è perfettamente corretta: quota 100 non è sbagliata in sé, ma costituisce una incredibile dissipazione di risorse pubbliche a favore di una piccola minoranza di anziani, e nemmeno dei più bisognosi. Con una cifra comparabile (9 miliardi l’anno), Renzi era riuscito a dare sollievo ai bilanci di milioni di famiglie. E, di nuovo con una cifra analoga, Renzi era riuscito – grazie alla decontribuzione – a dare un po’ di ossigeno alle imprese, e per questa via imprimere una spinta all’occupazione.

La posizione di Renzi, che considera sprecati 10 o 20 miliardi a favore di poche centinaia di migliaia di anziani, quando con la medesima cifra si potrebbero fare cose ben più utili, è tanto più giustificata se riflettiamo su una circostanza: tutti gli studi sulla diseguaglianza concordano sul fatto che l’unica vera, clamorosa e macroscopica diseguaglianza fatta esplodere dalla crisi è quella fra anziani (in particolare pensionati) e giovani (in particolare minori). I giovani hanno visto drammaticamente ridotti i redditi, le possibilità di occupazione, le prospettive future, minacciate dal declino generale del Paese, ma anche dall’aumento del debito pubblico, che oggi serve (anche) a finanziare “quota 100”, e domani dovrà essere ripagato innanzitutto dai figli e nipoti dei beneficiari degli attuali pensionamenti anticipati. Su questo Salvini non è stato in grado di replicare alcunché di convincente, esattamente come Renzi nulla di convincente era stato in grado di dire sul contenimento degli sbarchi. Dunque: su “quota 100” Renzi batte Salvini 3 a 0.

Se devo riassumere, direi: Salvini non ha in tasca la soluzione miracolosa per il problema dell’immigrazione clandestina ma, agli occhi di buona parte degli italiani (compresi molti ex elettori del Pd), ha il merito di non negare il problema, e di aver tentato una strada per risolverlo; Renzi non ha la soluzione in tasca per il problema della condizione giovanile, ma ha il merito di averne capito la centralità, e soprattutto l’assoluta priorità rispetto alle pur comprensibili aspirazioni degli anziani.

Un partito non negazionista sul problema dell’immigrazione irregolare, e capace di rompere con l’assistenzialismo pro-pensionati, sarebbe assai utile all’Italia. Perché le preoccupazioni popolari per l’insicurezza delle periferie, o per la concorrenza degli immigrati su salari e accesso al welfare, sono semplicemente sacrosante; e, d’altro canto, la sconfitta dell’assistenzialismo è una precondizione cruciale per non rendere irreversibile il declino economico e sociale del nostro paese.

E tuttavia, curiosamente, un tale partito non esiste, né a sinistra né a destra. Renzi e il Pd, dopo la marginalizzazione di Marco Minniti e la demonizzazione di Salvini, hanno dimostrato chiaramente che il problema dell’immigrazione non riescono a vederlo, e tanto meno ad affrontarlo. Lega e Cinque Stelle, d’altro canto, sono stati capaci di governare insieme solo spartendosi i rispettivi assistenzialismi: “quota cento” per soddisfare le voglie politiche di Salvini, reddito di cittadinanza per soddisfare quelle di Di Maio.

E’ come se, nello spazio politico, ci fosse posto per tutte le combinazioni, ma non per l’unica che servirebbe. C’è chi vede il problema dell’immigrazione, ma non riesce a rinunciare all’assistenzialismo (Lega e Cinque Stelle). C’è chi vede il pericolo dell’assistenzialismo, ma è cieco di fronte ai problemi dell’immigrazione (Italia viva e +Europa). E c’è, infine, chi non si nega nulla: il Pd e l’estrema sinistra non vedono né il problema dell’immigrazione, né i pericoli dell’assistenzialismo e della spesa in deficit.

A quanto pare, nonostante ci siano una decina di partiti, partitini e aspiranti-partito a sinistra, e quasi altrettanti a destra, l’unica cosa che il sistema politico italiano non sembra in grado di partorire è una forza politica che sia anti-assistenziale in politica economica, e non cieca sui problemi dell’immigrazione e della sicurezza. Una stranezza, e un vero peccato.

Articolo pubblicato sul Il Messaggero del 17 ottobre 2019



A che servono i liberali?

Da un po’ di tempo si torna a parlare del ruolo dei liberali. Alla tradizione liberale si richiama Berlusconi, impegnato in due missioni (quasi) impossibili: fermare l’emorragia di consensi di Forza Italia, mettere un freno alla deriva populista dei suoi alleati Salvini e Meloni. Ma alla tradizione liberale si richiamano anche i due partiti virtuali, ipotetici o futuribili di Renzi e di Calenda, entrambi ostili al giustizialismo e alla cultura assistenziale del Movimento Cinque Stelle, ma anche alla deriva del Pd, sempre più lontano dalla cultura riformista e modernizzatrice che Renzi aveva tentato di imporgli.

C’è spazio, oggi in Italia, per le forze che hanno qualche cromosoma liberale nel loro DNA? Secondo i sondaggi, il consenso potenziale delle formazioni liberali, talora impropriamente qualificate come centriste o moderate, è attualmente compreso fra il 10 e il 20% dei consensi. E in futuro?

In futuro qualcosa potrebbe cambiare, perché il consenso dipende anche dalla leadership. Non si può non notare che, nelle graduatorie di popolarità dei politici italiani prodotte a getto continuo dai sondaggi, i leader delle due principali formazioni di matrice liberale (Forza Italia di Berlusconi, e Italia viva di Renzi), occupano le due ultime posizioni. Detto altrimenti, e un po’ crudamente, al momento Forza Italia e Italia viva sono “zavorrate” dallo scarso credito che riscuotono i rispettivi leader. Domani si vedrà: Berlusconi potrebbe cedere ad altri il comando di Forza Italia, Renzi potrebbe scrollarsi di dosso parte dell’antipatia e dell’ostilità che attualmente lo circondano. In questo caso lo spazio dei liberali potrebbe allargarsi ancora un po’, anche se difficilmente fino al punto di far nascere un “partito liberale di massa”. Quel progetto, infatti, ha già dimostrato – con Berlusconi prima, con Renzi poi – di essere difficilmente realizzabile in Italia, dove la cultura liberale è sempre rimasta estremamente debole.

La domanda più importante, però, è un’altra: a che cosa può servire, in un’epoca come la nostra e in un paese come l’Italia, la presenza di alcuni partiti di ispirazione liberale?

Credo che la risposta sia molto diversa a seconda che volgiamo lo sguardo a sinistra, dove dominano Pd e Cinque Stelle, o a destra, dove dominano la Lega e Fratelli d’Italia.

A sinistra un presidio liberale può essere utile soprattutto sul terreno della politica economica, per neutralizzare l’involuzione anti-crescita e anti-imprese del Pd, indotta dall’alleanza con i Cinque Stelle. Un compito paradossale, visto che a consegnare il Pd ai Cinque Stelle è stato proprio Renzi. E nondimeno un compito necessario, se si vuole evitare che l’Italia prosegua nel percorso di “argentinizzazione lenta” in cui si è incamminata da una ventina di anni.

A destra una formazione liberale funzionante, esentata dalla stanca ripetizione del copione berlusconiano, avrebbe una funzione ancora più importante, quella di rendere di nuovo possibile (come nella seconda Repubblica) l’alternanza al governo fra centro-sinistra e centro-destra. Se una cosa ci hanno insegnato le recenti vicende che hanno portato dal Conte 1 a l Conte 2 è che l’approccio muscolare (e illiberale) di Salvini non può funzionare, e che l’ostinazione con cui viene ribadito e riproposto in ogni circostanza e in ogni contesto (compreso quello cruciale dell’Europa), è un formidabile ostacolo alla conquista e alla conservazione del governo.

Certo si può obiettare che il gioco politico è truccato, perché l’establishment europeo non è neutrale, e usa sistematicamente due pesi e due misure con i governi italiani: inflessibile con quelli populisti, indulgente con quelli progressisti. Ma proprio la consapevolezza di questa circostanza dovrebbe indurre i leader populisti a considerare preziosa l’alleanza con le forze di matrice liberale, senza il cui scudo corrono un rischio mortale: la costituzione di una “conventio ad excludendum” come quelle che in Italia per decenni tennero lontani dal governo i fascisti e i comunisti, e in Francia tuttora sbarrano il passo al partito di Marine Le Pen.

Del resto, è precisamente questo che è successo in Italia nelle ultime settimane. Di fronte a un Salvini del tutto disinteressato al dialogo con le autorità europee, e radicalmente demagogico nelle sue esternazioni, per gli “altri” è stato un gioco da ragazzi inventare, e far credere reale, una inesistente (o quantomeno gonfiatissima) “emergenza democratica”, e rispedire l’aspirante dittatore al Papeete.

Io penso che, almeno nel prossimo futuro, il panorama politico italiano continuerà ad essere dominato dalle forze più grandi e più demagogiche, ovvero Lega, Cinque Stelle e Pd, e che il consenso alle forze di ispirazione liberale resterà limitato, specie a destra. Nello stesso tempo, però, penso che il ruolo delle formazioni politiche liberali potrebbe essere cruciale. Non tanto perché, nel caso di un (non improbabile) ritorno al proporzionale, esse potrebbero risultare decisive per la formazione di una maggioranza di governo, quanto perché senza di esse quel che il futuro potrebbe riservarci è una grottesca riedizione della stagione del “Pentapartito”, a ruoli invertiti. Da una parte una coalizione di 4 o 5 formazioni di sinistra, esclusivamente interessate alla conservazione del potere, dall’altra un partito (la Lega) o una diade (Lega e Fratelli d’Italia) perennemente confinata all’opposizione, come lo fu il Partito comunista italiano per la maggior parte della sua storia.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 21 settembre 2019



Le rose che non colsi

L’uno-due di Renzi, che prima ha imposto al Pd l’alleanza con i Cinque Stelle, e un istante dopo lo ha abbandonato al suo destino per farsi un partito tutto suo, non ha precedenti nella storia d’Italia. Come non ha precedenti, a dispetto della tradizione trasformistica dei parlamentari italiani, un simile capovolgimento delle proprie idee e convinzioni. Fino a ieri i Cinque Stelle erano giustizialismo, assistenzialismo e decrescita infelice, oggi sono la salvezza dell’Italia contro la calata degli Hyksos. Ieri ci si batteva per un sistema elettorale che permettesse, la sera delle elezioni, di sapere chi ha vinto, ora si dichiara di essere pronti a un ritorno al sistema proporzionale “se lo prevede l’accordo di governo”.

Se il livello di spregiudicatezza raggiunto da Renzi (e non solo da lui) è senza precedenti, lo stesso non si può dire per il metodo. Anzi, forse è il caso di sottolineare la continuità fra il comportamento odierno di Renzi e la storia della sinistra italiana negli ultimi 100 anni. Se ci volgiamo all’indietro non possiamo non ricordare che la scissione, ovvero l’uscita dal partito principale per creare un nuovo partito, è sempre stato il modo in cui, a sinistra, si sono affrontate le divergenze politiche. Il Partito Comunista è nato, il 21 gennaio del 1921, da una scissione guidata dall’ala sinistra del Partito Socialista, ansiosa di instaurare anche in Italia la “dittatura del proletariato”, seguendo le orme dei bolscevichi in Russia. Dopo di allora di partiti socialisti e pseudo-socialisti se ne sono visti parecchi, fra fusioni e ricomposizioni (ricordate il Psi, il Psdi, il Psu, lo Psiup?), e lo stesso Partito Comunista si è diviso più volte, anche se con modalità diverse. Nel 1969 sarà il partito stesso a radiare il gruppo del Manifesto, guidato da Rossana Rossanda e Luigi Pintor. Nel 1991, invece, saranno la “svolta della Bolognina” di Occhetto e il cambio del nome (da partito Comunista a Partito della Sinistra) a provocare la nascita di Rifondazione Comunista. Ma non era finita. Sia il ramo principale della sinistra, sia le correnti nostalgiche del comunismo, di scissioni e ricomposizioni ce ne regaleranno ancora innumerevoli, in un tripudio di alchimie, sigle e ridenominazioni: Pds, Ds, Pd, Asinello, DL, Margherita, Ulivo, Unione, Sinistra Arcobaleno, Rivoluzione civile, Potere al popolo, giusto per ricordare le prime che mi vengono in mente.

Dunque, collocata su questo sfondo, la scissione di Renzi non dovrebbe stupire nessuno. Scindersi e ricomporsi è lo sport preferito dei politici di sinistra, e la sola differenza importante con il passato è che un tempo le scissioni, per quanto favorite da disegni di potere e ambizioni personali, erano politicamente comprensibili. Tutti capivamo le ragioni che conducevano Achille Occhetto a ripudiare il comunismo,  come capivamo quelle che inducevano Cossutta a rimpiangerlo. Così come, vent’anni prima, avevamo capito su che cosa quelli del Manifesto litigavano con i dirigenti del vecchio Pci, e perché ne venivano cacciati via. E ancora poco tempo fa, sia pure a fatica, riuscivamo a capire le ragioni di D’Alema e Bersani per uscire dal Pd. Nessuno, invece, è oggi in grado di capire che cosa costringa Renzi ad abbandonare il Pd, dopo aver spinto Zingaretti nelle braccia di Grillo.

Riuscirà, Renzi, nell’intento di rimodellare la sinistra? E’ ragionevole aspettarsi che, accanto ai Cinque Stelle e al Pd (riunificato con i transfughi di Leu), sorga un moderno partito liberal-riformista, che non si limiti a vietare “Bandiera rossa” alle feste di partito?

Penso che molto dipenderà dal sistema elettorale ma che, anche con un sistema proporzionale, l’impresa sarà difficile. E questo non solo perché, diversamente dal passato, questa volta la sostanza politica della scissione è invisibile, ma anche per un’altra ragione, che ha a che fare con la forma mentis del popolo di sinistra. Proprio perché viene da una lunga e dolorosa storia di divisioni e di scissioni, l’elettorato di sinistra ha maturato nel tempo una profonda idiosincrasia per i “cespugli” che di volta in volta hanno provato a gravitare intorno al partito principale. Una idiosincrasia che lo ha portato a dare poco credito al progetto radicale di “rifondare il comunismo”, ma anche a tributare un consenso limitato e perlopiù effimero ai rari esperimenti di partito personale che si sono succeduti nella seconda Repubblica: la Rete di Leoluca Orlando (1991), Rinnovamento Italiano di Lamberto Dini (1996), l’Italia dei Valori di Di Pietro (1998), Scelta Civica di Mario Monti (2013). Tutti partiti che hanno ballato per una o due stagioni elettorali, e solo in un caso (quello della meteora Mario Monti) sono riusciti a superare la soglia del 5% dei consensi.

Il destino del partito di Renzi può essere diverso?

Credo che la risposta sia che avrebbe potuto essere diverso, e che Renzi, guardando al proprio passato politico, non possa che rimpiangere, come Guido Gozzano, “le rose che non colsi”. Se avesse fondato un partito quando il vecchio establishment del Pd tentava in ogni modo di sbarrargli il passo, e il profilo innovatore, riformista e liberale dello sfidante erano chiari a tutti, il progetto di affiancare agli ex comunisti una forza di sinistra giovane, dinamica e moderna, qualche chance di successo l’avrebbe avuta. Perché Renzi all’apice del suo successo era un catalizzatore di speranze (parlo anche per esperienza personale), mentre ora è un enigmatico collettore di delusioni, se non di rancori. Fondare un partito personale di successo non è impossibile (Berlusconi docet), ma la scelta dei tempi e dei contenuti è cruciale.

Il problema è che i tempi sono sbagliati (perché la popolarità di Renzi è ai minimi, persino inferiore a quella del Berlusconi attuale) e i contenuti sono spiazzanti. Profondamente spiazzanti. Il fatto è che, comunque lo si giudichi, il marchio Renzi è associato al binomio Jobs Act + Mare Nostrum (accoglienza dei naufraghi). Esattamente il contrario di quel che predicano i Cinque Stelle, che hanno contestato ferocemente tanto il Jobs Act (con il decreto dignità) quanto l’operazione Mare Nostrum (con le Ong definite “taxi del mare”).

E’ certamente possibile che vi sia, nell’elettorato di sinistra, un segmento che apprezza il Jobs Act ed è orgogliosa delle politiche di accoglienza del triennio renziano. Ma è difficile immaginare che, proprio perché crede nel vecchio marchio-Renzi, non si faccia la domanda cruciale: se i Cinque Stelle rappresentano l’esatto contrario del renzismo, perché mai dovremmo dare il voto a chi li ha sdoganati?

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 18 settembre 2019



Tutta colpa di Renzi?

Da mesi, se non da anni, il ritornello è sempre il medesimo: se il Pd va male, se il Partito Democratico è uscito dalla scena politica e dall’immaginario collettivo del “popolo della sinistra”, la colpa è soprattutto del suo ultimo segretario Matteo Renzi. Lui è il principale imputato di un trend che ha visto il suo partito passare dal 33.2% del 2008 al misero 18.7% delle ultime consultazioni legislative. La crisi della sinistra e del suo principale referente politico sarebbe addebitabile, quasi in toto, all’ex-sindaco di Firenze, che l’ha portata su posizioni totalmente aliene dalla mainstream della tradizione post-comunista, verso tratti decisamente liberali, se non evidentemente conservatori.

Giorni fa. Intervista televisiva. Un operaio licenziato perché la sua fabbrica è stata acquisita da una multinazionale francese e trasferita nel nord della Francia: è stata colpa di Renzi e del Pd! Ora, dopo anni in cui ho votato Pci e la sinistra, ho scelto la Lega di Salvini. L’unico che può invertire la rotta che ha preso il nostro paese.

Sardegna. Agosto 2018. Festa del porceddu. Tra un discorso e l’altro, un anziano contadino: ho votato Lega, è il vero partito del cambiamento. Renzi ci ha ridotto proprio male, a noi sardi, ci ha ridotto in miseria. E sì che gli avevo pure dato il mio voto, la volta precedente. Purtroppo.

Renzi, Renzi, Renzi. Un fantasma si aggirerebbe dunque per l’Italia, il fantasma di colui che, a dispetto del glorioso partito che tentava di costruire il volto nuovo del paese, l’ha portato sostanzialmente alla rovina. Ma sarà vero? Sarà realmente tutta sua la colpa?

Osserviamo intanto per un attimo il trend dei consensi dell’area vicina al centro-sinistra in questo nuovo secolo, dal 2001 ad oggi (fig.1). Come si può notare, nei primi anni del decennio Ds e Margherita, separati o sotto il simbolo unitario dell’Ulivo, hanno costantemente ottenuto un successo elettorale di poco inferiore ad un terzo dei votanti. L’exploit di Veltroni del 2008, che correva per la prima volta con il neonato Partito Democratico, in realtà non è che sia stato un vero exploit: ha migliorato soltanto di poco, un paio di punti percentuali, il retaggio delle formazioni politiche aggregatisi nel Pd e, considerando  inoltre il fatto che il resto della sinistra (Rifondazione & soci) sia praticamente scomparsa, non si può che giungere alla conclusione che il bacino elettorale di quell’area non riuscisse ad andare molto oltre il 35-36% della popolazione italiana.

Fig 1. Consensi elettorali. Politiche + Europee

Una storia non inedita, peraltro. Una storia che ci riporta agli anni della prima repubblica, quando quell’area (sommando il Pci con le altre piccole formazioni di sinistra, come Democrazia Proletaria) anche allora non otteneva una quantità di consensi molto differente da quella di Pd e Rifondazione. Forse era inutile illudersi: gli italiani favorevoli alla sinistra di allora (o al centro-sinistra odierno) non sono mai stati nemmeno lontanamente prossimi al 40% della popolazione.

Il Partito Democratico, per certi versi, aveva scommesso sull’allargamento di quella base elettorale, tentando di attirare a sé anche una parte inedita di elettori, che avrebbe potuto guardare alla proposta del Pd con occhi nuovi, diversi dal passato. Il Pd, per riuscirci avrebbe dovuto partire dal quel 33% di Veltroni, incrementando anno dopo anno il suo bacino di consenso.

Ma così non è stato. Anzi. Dal 2008 in poi, in tutte le consultazioni legislative (fig.2) il Pd è costantemente retrocesso nel favore degli italiani, prima con Bersani (-8% rispetto a Veltroni) e poi con lo stesso Renzi (un ulteriore -6.5% rispetto a Bersani), in una costante e continuativa incapacità di intercettare quei settori sociali cui puntava per accrescere il proprio appeal. Tutti “colpevoli”, dunque, parrebbe di dover dire. Non soltanto infatti il Pd non è riuscito a diventare il referente di un nuovo elettorato, ma poco alla volta ha perso sia una parte dei suoi antichi estimatori ex-Pci, con Bersani, che anche dei nuovi, di quelli che avevano sperato in un cambio di prospettiva con Renzi.

Fig.2 Consensi elettorali. Solo Politiche – Camera

Perché, se torniamo ad osservare il primo grafico, si può chiaramente individuare un momento in cui, all’interno di questo cammino da gambero, il Partito Democratico ha vissuto una situazione così anomala che oggi molti stentano a credere che sia davvero accaduto. Nelle europee del 2014, pochi mesi dopo il suo insediamento, Matteo Renzi ha davvero compiuto un mezzo miracolo, andando a superare per la prima volta nella storia l’asticella del 40%. Certo, con un numero di votanti inferiore a quelli di Veltroni, ma comunque un risultato simbolicamente significativo.

Renzi era stato dunque capace di convincere una fetta importante di elettori che, con lui, sarebbe iniziato realmente un nuovo corso, un nuovo partito di centro-sinistra che si smarcava dai retaggi del passato, per guardare ad un futuro diverso. Inedito. La sua colpa, forse, è stata proprio quella di candidarsi ad un modo nuovo di governare, ad una modalità politica inedita per un partito di sinistra, senza averne realmente le capacità “politiche”. Il suo fulgore è durato poco, lo sappiamo, e presto è rientrato nei consueti parametri, inimicandosi inoltre con il suo comportamento gran parte di chi aveva per un attimo creduto in lui. Ma probabilmente la vera anomalia è stata proprio quel suo grande successo, che ha fermato per un attimo il declino inevitabile del Pd. Che poi è ripreso in maniera ineluttabile, con o senza Renzi.




L’eredità del centro-sinistra

Può sembrare strano, ma un bilancio del quinquennio di governo del centro-sinistra (dal 2013 al 2018), ovvero dell’azione dei governi Letta, Renzi e Gentiloni, ancora non l’abbiamo né letta né ascoltata. Renzi se l’è sbrigata con poche battute, ma anche dai padri nobili e dai candidati alla successione sono arrivati, finora, solo discorsi più fumosi che alati, ma ben poche analisi. E autocritica ancor meno, se non la ferma  decisione di voler fare autocritica, e le solite due ammissioni di colpa: forse c’è stato un difetto di comunicazione, forse dovevamo parlare di più con la gente.

Eppure è di analisi e di autocritica che ci sarebbe bisogno. Servirebbero al Pd, se vuole fermare il declino e sperare di tornare al governo, ma servono anche a noi, studiosi ed opinione pubblica, per inquadrare l’azione (e le difficoltà) del governo gialloverde. L’azione di un nuovo governo, infatti, non è mai un inizio assoluto, ma sempre la continuazione di una storia scritta da altri, con cui i nuovi venuti sono costretti a fare i conti.

Qual è, dunque, l’eredità del centro-sinistra?

La risposta dei diretti interessati la conosciamo abbastanza bene, è il racconto autocelebrativo che abbiamo ascoltato in tutte le salse, centinaia e centinaia di volte: noi siamo quelli che hanno portato il Paese fuori della crisi; prima davanti al dato del Pil c’era il segno meno, ora c’è il segno più; con il Jobs Act e la decontribuzione abbiamo creato centinaia di migliaia di posti di lavoro; con gli 80 euro abbiamo dato un po’ di ossigeno alle famiglie, stremate da 9 anni di crisi; siamo stati noi a varare, per la prima volta in Italia, una misura di carattere universalistico contro la povertà (il reddito di inclusione); anche se con lo ius soli non ce l’abbiamo fatta, abbiamo varato importantissime leggi su unioni civili, fine vita, femminicidio; con il ministro Minniti abbiamo ridotto dell’80% gli sbarchi. Come hanno fatto gli italiani a non accorgersi di quanto bene abbiamo governato? Come hanno potuto spedirci all’opposizione?

Provo a rispondere, prima come studioso, poi come cittadino. Come studioso la mia obiezione è semplice: molto di quel che rivendicate come merito vostro, cari dirigenti del Pd, è semplicemente effetto della ripresa economica, che ha preso vigore, in Europa, giusto quando voi siete andati al governo. La marea alza tutte le barche, ma la barca dell’Italia negli ambiti che contano (occupazione e crescita del Pil) è rimasta agli ultimi posti in Europa, esattamente come prima, in certi casi peggio di prima.

Dunque la vera domanda non è se, dopo cinque anni di governo, l’Italia stia meglio o peggio di prima, ma è che cosa avreste potuto fare di diverso, e che cosa avete lasciato in eredità a chi oggi deve governare.

E allora vediamola, questa eredità.

Tasse. Per avere l’ok dell’Europa alle leggi di bilancio avete, come tanti governi del passato, inserito le stramaledette “clausole di salvaguardia”; così oggi chi ci governa deve trovare 12 miliardi e mezzo per non far aumentare l’Iva.

Conti pubblici. Anziché approfittare della ripresa per ridurre il debito pubblico, avete mendicato flessibilità in Europa, promettendo ogni anno che il debito l’avreste ridotto, ma l’anno dopo; poi l’anno dopo arrivava, e il debito continuava a crescere, e voi rimandavate di nuovo, o promettevate senza poi mantenere; una vera discesa del rapporto debito/Pil non è mai iniziata. E i mercati finanziari se ne sono accorti: contrariamente a quel che si crede, la tensione sui nostri titoli di Stato è partita fin dalla fine del 2016, in corrispondenza con il referendum perduto da Renzi (per accorgersene, basta dare un’occhiata, anziché allo spread con la Germania, allo spread fra i titoli di Stato di Spagna, Portogallo e Grecia rispetto a quelli dell’Italia).

Povertà. Che il numero di poveri fosse aumentato durante la crisi e continuasse ad aumentare anche negli anni della ripresa, l’Istat ve l’ha comunicato ogni anno. Ciononostante, quando si è trattato di decidere se ridurre l’Irpef, ridurre l’Irap o pensare agli “incapienti” (così poveri da non pagare tasse), avete preferito – con il bonus da 80 euro – convogliare le risorse sul ceto medio dipendente, il più vicino alla vostra base elettorale. E quando avete varato il reddito di inclusione, che ora chiedete al nuovo governo di potenziare, gli avete destinato le briciole, circa un decimo di quel che servirebbe. Come potete stupirvi che gli elettori abbiano voluto credere alla promessa del “reddito di cittadinanza”?

Investimenti pubblici. Nonostante i ripetuti omaggi a Keynes e alle politiche keynesiane, i governi di centro-sinistra si sono ben guardati dal sostenere gli investimenti pubblici, che anzi di anno in anno, chiunque fosse al governo (Letta, Renzi, Gentiloni), sono sempre stati ridotti, a differenza della spesa corrente, ben più redditizia sul piano elettorale. Il precario stato di tante infrastrutture in Italia ha indubbiamente origini lontane, ma è difficile non notare che – negli ultimi anni – la costante preferenza accordata alla spesa corrente non può che averlo aggravato.

Immigrazione. Minniti ha fatto un buon lavoro, non c’è dubbio, e questo è forse il principale asset che il governo gialloverde ha ricevuto in dote. Ma come ci si è arrivati? Il fenomeno che Minniti ha domato, gli sbarchi, è stato alimentato da anni e anni in cui i suoi compagni di partito hanno badato solo a sostenere l’industria dell’accoglienza, fatta di eroici salvataggi in mare e assai più prosaiche gesta delle cooperative che gestiscono gli sbarcati. Il risultato è stato che, in pochi anni, in Italia sono entrati quasi 500 mila migranti che non avevano diritto ad alcuna forma di protezione, e che nessuno (nemmeno Salvini) è in grado di rimandare indietro. Se il lavoro di Minniti non è stato apprezzato dall’elettorato è anche perché, in fondo, il Pd e la sinistra se ne vergognavano, in quanto capovolgimento dell’ideologia dell’apertura cavalcata negli anni precedenti.

Questi, purtroppo, sono i lati oscuri, il non detto e non visto, dell’eredità del centro-sinistra. Capisco che riconoscerli sia difficile, perché può suonare come un’implicita legittimazione del governo gialloverde. Ma non si riflette abbastanza sul fatto che non riconoscerli può essere ancora più pericoloso: senza un’autocritica spietata, un’opposizione di sinistra credibile non vedrà mai la luce.

Quello cui invece quotidianamente assistiamo, sui giornali come in Tv, è l’incredibile recita del seguente copione fisso: prima si dice che certamente c’è stato qualche errore di comunicazione, e che si sarebbe dovuti stare di più sulla rete; poi si ammette che sì, qualche errore politico deve essere stato fatto, se no non si sarebbero persi milioni di voti; ma poi, quando l’incuriosito giornalista chiede “dove avete sbagliato?”, o se il Jobs Act è stato un errore, scatta il grande nulla: dobbiamo riflettere, dobbiamo discutere (ma allora perché non avete ancora indetto il Congresso?), dobbiamo tornare fra la nostra gente. Come se la gente li avesse abbandonati non per le loro scelte politiche, ma perché non si facevano più vedere in giro. Incredibile.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 10 settembre 2018