Riforma della giustizia – La flebile voce dei liberali

Non succede spesso, in Parlamento, che 3 forze di opposizione su 6 votino con la maggioranza. Ma è successo pochi giorni fa alla Camera con la legge sulla separazione delle carriere dei magistrati, approvata con i voti dei tre partiti di maggioranza, ma anche grazie al voto favorevole di Azione (Carlo Calenda) e di +Europa, nonché all’astensione di Italia Viva, il partito di Renzi. Contro la legge, invece, hanno votato i partiti del “monoblocco” Pd+Cinquestelle+Avs che, a dispetto di alcune divergenze interne, quasi sempre vota compattamente contro tutto ciò che viene proposto dalla maggioranza.

Se guardiamo alla storia dei tre partitini di opposizione che hanno votato a favore della separazione delle carriere, nessuno può sorprendersi del loro comportamento. Renzi e Calenda sono sempre stati garantisti. Quanto a +Europa, è una formazione politica con ascendenze radicali: chi è sufficientemente vecchio ricorderà che più volte in passato (in particolare nel 1994 e nel 1996) i radicali sono stati alleati del centro-destra e di Silvio Berlusconi. Nessuno stupore, quindi, che – su una questione che ha a che fare con la libertà e i diritti dei cittadini – si siano trovati in sintonia con la maggioranza.

Si potrebbe pensare, dunque, che quella sulla giustizia sia una scappatella minore che – a tempo debito – non impedirà al campo
largo di ricompattarsi su tutto il resto.

Ma è così?

Nessuno può escludere l’ipotesi della semplice scappatella: la retorica antifascista e il racconto di imminenti gravissimi pericoli per la democrazia possono fare miracoli, sdoganando alleanze contro natura e la formazione (o meglio ricostituzione) di “fronti popolari” contro le destre-destre.

Ma se ragioniamo a mente fredda, e ci interroghiamo sul DNA di quei tre partitini non solo in ambito giudiziario ma anche e soprattutto sul versante della politica economico-sociale, non possiamo ignorare alcune circostanze fondamentali. Primo, tradizionalmente le proposte di politica economica dei Radicali hanno puntato sulla riduzione delle tasse e sul risanamento dei conti pubblici, non certo sull’ulteriore espansione della spesa corrente. Secondo, Renzi e Calenda hanno sempre avuto un occhio di riguardo per le istanze del mondo imprenditoriale e le esigenze della crescita. Terzo, il periodo renziano è stato l’unico, nella seconda Repubblica, che ha visto una apprezzabile riduzione della pressione fiscale.

Di qui la domanda: che succederà quando, in vista delle prossime elezioni politiche, i partiti del monoblocco dovranno spiegare dove troveranno le risorse per rafforzare sanità e scuola, e soprattutto chi (stato o imprese?) dovrà sopportare i costi del salario minimo legale.

È facile immaginare che Pd-Avs-Cinquestelle, anche senza rispolverare la vecchia campagna “anche i ricchi piangano”, non potranno esimersi dallo spiegare da dove andranno prese le risorse del loro costoso programma, e inevitabilmente si tornerà a parlare di patrimoniale (“chi più ha, più deve contribuire”), anzi di patrimoniale permanente, visto che tutti gli aumenti di spesa strutturali (ad esempio quelli per gli stipendi di insegnanti, infermieri e medici) non possono essere coperti con imposte una tantum. A quel punto, che faranno i tre partitini di matrice liberale?

Non credo che riusciranno a convincere i partiti del monoblocco a cercare le risorse con una severa spending review, e ancor meno credo che si lasceranno convincere a lasciar correre il debito pubblico, in plateale contrasto con le raccomandazioni dell’Unione Europea. In breve, i tre partitini che oggi dissentono dai maggiori partiti di opposizione solo sulla riforma della Giustizia, potrebbero domani trovarsi a dover dissentire anche sulla politica economico-sociale. E avrebbero pure tutte le ragioni per farlo. Troppo spesso ce ne dimentichiamo, ma mentre si continuano (giustamente!) a denunciare le lunghe liste d’attesa negli ospedali, le aule fatiscenti nelle scuole, il permanente rischio idrogeologico, i bassi stipendi dei dipendenti pubblici, si dimentica che tutto ciò coesiste con una pressione fiscale record non solo in Europa ma rispetto a tutti i paesi avanzati, appartenenti all’Oecd (solo Francia e Danimarca fanno peggio di noi).

Basterà promettere che la lotta all’evasione fiscale risolverà tutto?

Forse sì, perché – fra le innumerevoli illusioni della politica – questa è l’illusione più dura a morire. Ma potrebbe anche succedere che i tre partitini non si scordino di un piccolo, cruciale, principio della politica economica: se non vuole innescare una drammatica implosione dell’economia, la lotta senza quartiere all’evasione fiscale deve servire ad abbassare le aliquote dell’economia legale, non certo ad alimentare una spesa pubblica corrente già largamente fuori controllo.

Insomma, la partita è incerta. Può essere che i partitini di ispirazione liberale, magari con il comprensibile obiettivo di non sparire, si lascino assorbire dalla “gioiosa macchina da guerra” del campo largo. Ma è anche possibile, e per alcuni auspicabile, che prevalga il desiderio di non sperperare un’eredità politica, e che la voce dei liberali non si estingua per sempre.

[articolo uscito sul Messaggero il 19 gennaio 2025]




A proposito di Renzi e campo largo – Sinistra e Quarta Via

Da quella benedetta partita di football in cui Matteo Renzi e Elly Schlein hanno giocato nella medesima squadra, si torna a parlare di un ritorno di Renzi nella casa del centro-sinistra, magari già alle prossime elezioni locali (a partire da quelle della Regione Liguria, rese necessarie dalle dimissioni di Toti).

La ratio del riavvicinamento è fin troppo ovvia: dopo lo smacco alle Europee, Renzi sa benissimo che confluire in uno dei due schieramenti è l’unica carta di cui dispone, se vuole sopravvivere politicamente.

Può darsi che, alla fine, tutto si riduca a qualche dichiarazione di facciata, che permetta a Renzi non meno che a Schlein di evitare imbarazzi e marce indietro esplicite rispetto alle prese di posizione del passato, a partire dal “pomo della discordia”, quel Jobs Act che Renzi ancora difende e Schlein non ha mai smesso di esecrare.

Ma potrebbe anche darsi – e sarebbe auspicabile – che il ritorno all’ovile del volubile ex segretario del Pd apra finalmente una discussione vera dentro il fronte progressista, da troppi anni incerto fra vocazione riformista e spinte massimaliste. Perché è vero che su alcune, poche cose (salario minimo legale, più soldi alla sanità) l’accordo sarà facilissimo, ma su tutto il resto i nodi devono ancora essere sciolti.

Vogliamo ricordarne alcuni?

Sulla politica economica, i progetti di iper-tassazione dei ricchi e redistribuzione del reddito confliggono con la linea di detassazione delle imprese e flessibilizzazione del mercato del lavoro.                                                                                                                 Sul versante delle politiche sociali, l’assistenzialismo dei Cinque Stelle fa a pugni con le politiche attive per l’occupazione. Riguardo ai diritti LGBT+ non tutti, a sinistra, condividono le posizioni più radicali in tema di utero in affitto, autoidentificazione di genere (self-id), inclusione di transgender e intersessuali nelle competizioni sportive femminili.                                                         In materia di giustizia, il garantismo liberal-riformista è incompatibile con il giustizialismo fin qui egemone a sinistra, non solo fra i Cinque Stelle.

E poi, naturalmente, c’è il tema dei temi, la patata bollente delle politiche migratorie. Qui le cose sono complicate. Le posizioni pro-accoglienza di Elly Schlein paiono vicinissime a quelle passate di Renzi (uno degli artefici dell’operazione di salvataggio
Mare Nostrum), ma in compenso stridono con quelle dei Cinque Stelle, da sempre prudenti in tema di migrazioni irregolari.

Su tutte queste e altre cruciali questioni, non solo Renzi, ma tutte le forze del futuro campo largo sono chiamate a discutere, a prendere posizione, e a trovare un accordo comprensibile. Perché può anche darsi che, per vincere alle prossime elezioni
politiche, al centro-sinistra bastino gli errori del governo di centro-destra e la propensione degli italiani a bocciare i governi uscenti. Ma potrebbe anche succedere che il bilancio di cinque anni di governo Meloni non sia negativo e che, per convincere gli italiani a cambiare governo, occorra anche avere un programma chiaro e credibile.

Ma quale programma?

A giudicare da alcuni recenti successi della sinistra in Europa – penso in particolare ai casi del Regno Unito e della Danimarca – sembra che la risposta possa essere: né con i massimalisti alla Jeremy Corbyn e alla Bernie Sanders, idoli dell’estrema sinistra, né con i riformisti-liberisti alla Tony Blair, tanto cari a Renzi e alla sinistra riformista. La sinistra che vince in Europa (e a novembre, forse, potrebbe farcela pure negli Stati Uniti), è una sinistra molto meno convinta delle virtù della globalizzazione, e molto più consapevole del problema migratorio. In breve, una sinistra più vicina alla sensibilità dei ceti popolari, che chiedono protezione in materia economico-sociale e sicurezza sui versanti della criminalità e dell’immigrazione irregolare. Una sorta di Quarta Via, ben lontana dalla destra e dalla sinistra classiche, ma anche dalle illusioni della Terza Via di Anthony Giddens, che per troppi anni
hanno ipnotizzato i leader del campo riformista.

[Articolo uscito sul Messaggero l’11 agosto 2024]




Il fascino discreto della rottamazione: Schlein come Renzi?

Che cosa abbia esattamente in testa Elly Schlein non si è ancora capito. Si citano, al riguardo, le incertezze o ambiguità sul termovalorizzatore di Roma, sull’utero in affitto, sull’invio di armi all’Ucraina. Però, se andiamo a rileggere il programma su cui ha vinto la battaglia per la segreteria del Pd, almeno una cosa risulta in modo chiarissimo: non farò come Renzi. Nella mente della neo-segretaria del Pd, Renzi e il renzismo sono, all’interno della sinistra, una sorta di male assoluto. Se c’è una cosa che il nuovo Pd non deve ripetere sono gli “errori” di Renzi. Che non riguarderebbero solo le scelte in materia di mercato del lavoro (Jobs Act), ma anche le relazioni industriali (asse con Marchionne contro la Cgil), le politiche migratorie (memorandum Italia-Libia di Marco Minniti), per non parlare del referendum istituzionale (Elly Schlein votò contro).

Da questo punto di vista, non è esatto dire che Elly Schlein non abbia le idee chiare. Sarà pure stata incerta su alcune tematiche sensibili (green, guerra, utero in affitto), ma non si può dire che le manchi una stella polare: portare il Pd lontano dal renzismo. Questa è la missione, su questo non ammette tentennamenti.

Però…

Però c’è una cosa su cui Elly Schlein non solo non è lontana da Renzi, ma pare ricalcarne perfettamente le orme. Ricordate gli anni della “rottamazione”? Ricordate l’aspra polemica con Massimo d’Alema? Le frecciate a Bersani e Veltroni? Ricordate quanti esponenti del Pd vennero messi da parte, o indotti ad andarsene? E la rivoluzione delle cinque capolista, tutte donne, alle (trionfali) elezioni europee del 2014? O la nascita di Articolo 1, in cui si rifugiarono Bersani, Speranza, e tanti altri illustri esponenti del Pd?

Insomma, c’è molto del (vecchio) Renzi nel modo in cui Elly Schlein tenta di governare il suo (nuovo) Pd. Con una importante differenza, però: lo stile. Che non può mai essere elegante quando si rottama, ma c’è modo e modo. Ha destato molto sconcerto, negli ultimi giorni, il modo in cui è stato rimosso e sostituito il vice-capogruppo Pd della Camera. Perché la rimozione di Piero de Luca, figlio di Vincenzo de Luca, ha tutto il sapore di una vendetta per le pungenti critiche del padre, governatore della Campania. E la sua sostituzione con Poalo Ciani, un esterno che ha votato contro l’invio di armi in Ucraina, è parsa a molti un gesto incomprensibile, per non dire arrogante. La sensazione, nel Pd, è che Elly Schlein non abbia alcuna intenzione di ascoltare i membri della minoranza riformista, più o meno bonacciniana, e ciò a dispetto del loro essere maggioranza fra gli iscritti del partito (ricordiamo che, nel voto degli iscritti, Schlein ha avuto appena il 35% dei consensi, contro il 53% di Bonaccini).

Persino Sansonetti, “vecchio comunista” e direttore del recentemente resuscitato quotidiano “L’Unità”, si è sentito in dovere di ricordare a Elly Schlein che il Partito comunista, spesso accusato di stalinismo, usava più rispetto verso i dissenzienti, al punto da nominare capigruppo alla Camera e al Senato personaggi dell’opposizione interna come Pietro Ingrao, o non allineati come Umberto Terracini.

Che dire, a questo punto?

Forse soltanto che, se vuole sopravvivere al partito di cui è divenuta segretaria, a Elly Schlein converrebbe trattenere il buono e prendere rapidamente congedo dal cattivo (o dal meno buono) dello stile di Renzi. Dove il buono è stato di ingaggiare con l’opposizione interna una battaglia politica aperta, fatta di idee e di proposte. Mentre il meno buono è stata la spavalderia con cui è stata rottamata la vecchia guardia. Anche perché, non va mai dimenticato, in un partito fatto di correnti e di cordate di potere, c’è sempre il rischio che i rottamati e le vecchie guardie, prima o poi, ti tendano un’imboscata.

Luca Ricolfi




Lettera a Renzi

Caro Renzi,

anche se non ci conosciamo, né ci siamo mai parlati a tu per tu, mi permetto di raccontarle che cosa passa per la testa di un ex-renziano come me.

Non sono mai stato iscritto a un partito, e meno che mai al Pd, di cui non mi sono mai piaciuti l’attaccamento al potere e l’ostinato convincimento di rappresentare “la parte migliore del paese”.

E tuttavia, quando lei di quel partito cercò di rinnovare la sostanza e il linguaggio, ho fatto una cosa per me del tutto innaturale, ma che allora mi sembrò utile: ho fatto la coda alle primarie, per votare lei, che mi pareva l’unico in grado di modernizzare la cultura politica del campo progressista, di cui mi sono sempre sentito parte.

Poi l’ho vista in azione al governo, e l’ho vista far naufragare il suo stesso progetto di riforma istituzionale. Ho cominciato a pensare che mi ero sbagliato, e che le mie speranze erano state mal riposte. Ma il colpo di grazia è arrivato nel 2019, quando lei si fece promotore della più spregiudicata manovra parlamentare della storia repubblicana: la nascita del governo giallo-rosso.

Attenzione, però. La spregiudicatezza di quella manovra, per me, non risiedeva nel fatto che l’unico collante del nuovo governo fosse il terrore del voto (per i Cinque Stelle) e l’amore per il potere (per il Pd). E nemmeno nel fatto che lei promuoveva un’alleanza, quella con il partito di Grillo, che fino ad allora aveva escluso, e che inevitabilmente avrebbe snaturato il suo Pd, spegnendone ogni residua vocazione riformista e modernizzatrice.

No, per me la spregiudicatezza sta nella giustificazione che di quella manovra lei volle dare. Allora lei si oppose strenuamente alle elezioni anticipate soprattutto con un argomento, ovvero il rischio che Salvini potesse assumere “i pieni poteri”. Di fronte a quel rischio si poteva, anzi si doveva, anche digerire il rospo-cinque Stelle.

Ebbene, quella giustificazione non sta in piedi. Quella giustificazione è solo il frutto di una consapevole e non scusabile manipolazione della realtà, o meglio delle parole altrui.

La terribile invocazione dei pieni poteri è la seguente:

“Non sono nato per scaldare le poltrone. Chiedo agli italiani, se ne hanno voglia, di darmi pieni poteri. Siamo in democrazia, chi sceglie Salvini sa cosa sceglie”.

Credo che chiunque non sia accecato dall’odio o dall’ideologia sa riconoscere, in una dichiarazione del genere, quel che è sempre stato il sogno irrealizzato di tuti i grandi partiti, o meglio di tutti i partiti di maggioranza relativa: avere il 51% dei seggi parlamentari, per poter realizzare il programma su cui hanno chiesto il voto ai cittadini.

Era stato il sogno della Dc di De Gasperi (ai tempi della cosiddetta legge truffa: 1953), è stato il sogno di Berlusconi, quando i “cespugli” del centro-destra gli impedivano di attuare la “rivoluzione liberale” promessa. Ma è stato anche il sogno del Pd, quando Veltroni parlava di “vocazione maggioritaria” e sognava una legge elettorale capace di individuare un vincitore. Ed è stato pure il sogno di Renzi, quando guidava un partito del 41%, e diceva che non importava quale legge elettorale si fosse scelta, purché la sera delle elezioni si sapesse chi aveva vinto.

Perché dunque quel che tanti leader avevano chiesto non poteva essere chiesto da Salvini?

Per questa domanda ci sono una serie di risposte ideologiche pronte, precotte e premasticate: perché Salvini ci avrebbe portati fuori dall’euro; perché Salvini avrebbe aumentato l’Iva; perché Salvini avrebbe instaurato una dittatura, o una quasi-dittatura (se no, perché temere i pieni poteri?).

Ma la risposta vera, secondo me, è un’altra, ed è drammatica: la sinistra, il campo progressista, ancora oggi (anno di grazia 2021) non ha raggiunto la maturità democratica. Che consiste nel trattare l’avversario politico come avversario, e non come nemico della democrazia. Nel considerare sé stessi come portatori di un progetto politico, anziché come depositari esclusivi del bene comune. Nella fiducia di poter combattere gli avversari con la forza delle idee, anziché cercando ogni volta di evitare il ricorso alle urne, quasi che noi progressisti, le molte idee di Salvini che non condividiamo, non fossimo in grado di sconfiggerle in campo aperto.

Ci aveva provato un po’ Veltroni, a rispettare l’avversario, ma non ce l’ha fatta nemmeno lui a cambiare il Dna del Pd. Anche per responsabilità della cosiddetta società civile che – attraverso  appelli, girotondi e sardine varie – ha ritenuto di dover gridare al pericolo per la democrazia ogni qualvolta all’orizzonte si è profilato il rischio che a vincere non fossimo noi, i “sinceri democratici”, unici interpreti degli interessi generali del paese, unico presidio contro le tentazioni autoritarie della destra.

Ora lei, caro Renzi, da qualche mese viene piagnucolando che quota 100 è una follia, il reddito di cittadinanza un obbrobrio, l’azione del governo inesistente, i progetti di utilizzo dei fondi europei imbarazzanti, l’economia allo sbando, la gestione dell’epidemia catastrofica, lo stile di governo improntato a vanità e spregio delle istituzioni. E mille altre cose ripete, per lo più sacrosante, e per cui si è deciso ad aprire una crisi di governo.

Ma io le faccio un’unica domanda: non lo sapeva, quando ha bussato alla porta di Zingaretti per proporre il patto incestuoso con i Cinque Stelle, che così avrebbe dissolto in un colpo solo il progetto da cui il Partito democratico era nato, e di cui lei era diventato l’interprete più brillante e coraggioso?

Non so perché, un anno e mezzo fa, lei si decise a ingoiare il rospo, e a ingoiarlo ancora vivo e vegeto. Capisco che le sia rimasto sullo stomaco, e non l’abbia digerito ancora oggi. Ma quando lei denuncia i limiti dell’azione di governo sta solo constatando una verità ovvia, che pare stupire solo lei: i Cinque Stelle sono i Cinque Stelle, e quindi fanno i Cinque Stelle. Come direbbe Gertrude Stein: una rosa è una rosa è una rosa è una rosa.

Che cosa si aspettava? Che il Pd rieducasse i cinque Stelle? Che nell’alleanza fra un partito non ancora pienamente riformista come il Pd e un partito populista e giustizialista come il partito di Grillo sarebbe stato il mite Zingaretti a prevalere? O che bastasse Italia viva a rieducare entrambi?

La realtà, temo, è che in Italia il sogno di una sinistra riformista – egualitaria e modernizzatrice – è tramontato definitivamente. Lei, è il momento di prenderne atto, a questo tramonto ha dato un contributo significativo. Ed è tristemente emblematico che i giorni di questa crisi, che hanno visto il trionfo del trasformismo e l’umiliazione di quel che resta del riformismo progressista, siano gli stessi in cui Emanuele Macaluso, il più coerente e sincero dei riformisti, ci ha lasciato per sempre. Quasi a segnare, con questa coincidenza di tempi, il passaggio di testimone fra due mondi e due epoche.

Peccato. Perché quel sogno aveva un senso, e alcuni di noi ci avevano creduto e lavorato. Ora tutto è più difficile, e addolora il fatto che a seppellire quel sogno sia stato proprio chi, di quel sogno, era stato l’ultimo e più incisivo interprete.

Pubblicato su Il Messaggero del 22 gennaio 2021




La destra della sinistra

Sono stati in molti, soprattutto a destra, ad affermare che il governo giallo-rosso è il governo “più di sinistra” che l’Italia abbia mai avuto. Questo giudizio non è privo di una sua plausibilità, se riflettiamo sul fatto che, oltre al Pd, nel governo sono presenti l’estrema sinistra di Leu e il Movimento Cinque Stelle, che alcuni vedono come una sinistra più pura, più radicale, meno compromessa con il potere. In effetti ci sono temi su cui Leu e il Movimento Cinque Stelle hanno posizioni più radicali (più di sinistra?) del Pd, ad esempio in materia di giustizia (i Cinque Stelle sono più giustizialisti) e di assistenza (la spesa per il reddito di cittadinanza è un multiplo di quella per il reddito di inclusione). Quanto al presidente del consiglio Giuseppe Conte, la sua dichiarazione di guerra all’evasione, con relativo patto degli italiani onesti contro quelli disonesti, non può non richiamare l’elogio delle tasse che così spesso è risuonato a sinistra, tanto ai tempi di Vincenzo Visco (che da destra veniva gentilmente dipinto come il “vampiro rosso”), quanto a quelli di Padoa Schioppa (sua l’affermazione secondo cui le tasse “sono una cosa bellissima”).

E tuttavia, a ben pensarci, la tesi che questo governo sia “di sinistrissima” non è poi così fondata. Io direi, piuttosto, che questo governo è sì un governo di sinistra, ma ha al suo interno due bombe a orologeria di destra, che prima o poi potrebbero portarlo a deflagrare.

Pensate a Renzi?

Sì, una è Italia Viva, il partito di Renzi. Sul tetto al contante, su quota 100, e più in generale sull’introduzione di nuove tasse, Italia Viva è più vicina all’opposizione di destra che agli alleati di governo (in particolare i post-comunisti di Pd e Leu). Questo non significa che Renzi sia “di destra”, come amano affermare i suoi detrattori di sinistra, ma mostra che la sinistra che ha in mente Renzi ha poco a che fare con quella del partito da cui proviene.

Ma la vera bomba a orologeria non è quella di Renzi, bensì quella di Di Maio. Non si può ignorare, infatti, che nel Movimento Cinque Stelle è presente anche una corposa componente di destra, o comunque ostile alla sinistra, e in particolare al Pd. Sui migranti, ad esempio, una parte considerevole degli elettori Cinque Stelle sono più vicini alla linea dura di Salvini che all’ideologia dell’accoglienza cara alla sinistra doc.

Quanto alle tasse, il minimo che si possa dire è che le “sensibilità” dentro il Movimento sono parecchio variegate. Il partito di Di Maio, da sempre, ha un occhio di riguardo per le partite Iva e per le piccole imprese. E ora che l’incauto Conte annuncia una lotta senza quartiere all’evasione fiscale, ai dirigenti Cinque Stelle non può non sovvenire che il grosso dei loro voti provengono dal Mezzogiorno, ossia dalle regioni con la più alta propensione all’evasione. Una propensione che è difficile mettere tutta in carico ai ricchi, alle grandi imprese e alle multinazionali, visto che – al Sudo come al Nord – la si vede quotidianamente, e ad occhio nudo, per le strade, nei negozi, nei mercati, nei cantieri, nei campi, dove coinvolge anche tante persone normali o povere, compresi disoccupati che lavorano in nero e occupati con il doppio lavoro.

Ed eccoci al punto. Questo sarà pure un governo di sinistra, ma le due bombe a orologeria Renzi e Di Maio potrebbero anche, prima o poi, farlo esplodere, o perlomeno provocare qualche terremoto interno.

Quando?

Credo che molto dipenderà da come andranno le molte elezioni regionali in vista, a partire da quella di domani in Umbria. Perché è vero che, se c’è la volontà di restare al potere fino all’elezione del Presidente della Repubblica (2022), non c’è risultato elettorale locale, per quanto eclatante, che possa convincere chi siede in parlamento ad affrontare anticipatamente la sfida elettorale. Ma è anche vero che, se l’elettorato Cinque Stelle, cui fino a ieri il Pd è stato presentato come l’impero del male, mostrasse di non gradire la nuova alleanza, difficilmente potrebbero non esservi conseguenze.

Ecco perché, nonostante gli elettori chiamati al voto non siano molti (circa 700 mila), il test umbro potrebbe risultare cruciale non solo per gli umbri, ma per il futuro del governo nazionale.

Pubblicato su Il Messaggero del 26 ottobre 2019