Reddito di cittadinanza? Il grande inganno

Tasse, sicurezza e occupazione sono gli unici temi che sono stati centrali in tutte le campagne elettorali della seconda Repubblica, compresa questa. Oggi però si è aggiunto un quarto tema, assolutamente centrale e senza precedenti: il reddito minimo.

Con nomi e forme diverse lo hanno proposto un po’ tutti. Il Pd parla di reddito di inclusione, il Centro-destra di reddito di dignità, i Cinque stelle di reddito di cittadinanza (una sorta di fake word, o parola usata a sproposito, visto che il reddito di cittadinanza è tutt’altra cosa). I costi sono ragionevoli (pochi miliardi) nel caso della proposta del Pd, alti ma indeterminati (per mancanza di dettagli) nel caso del Centro-destra, certamente molto elevati (fra i 15 e i 30 miliardi) nel caso dei Cinque Stelle.

Fra tutte le forze politiche, quella che più risolutamente e da più tempo punta sul reddito minimo, e da ben cinque anni ha depositato un disegno di legge, è il Movimento Cinque Stelle. L’idea è di garantire a chiunque, indipendentemente dal fatto di lavorare o meno, il raggiungimento di un reddito familiare pari alla soglia di povertà relativa, che attualmente in Italia è di oltre 1000 euro per una famiglia di 2 persone e di 1500 euro per una di 3 persone. La misura, fondamentalmente, riguarda tre categorie di soggetti; chi lavora e guadagna meno della soglia di povertà; chi è disoccupato e cerca un lavoro; chi si trova nella condizione di pensionato, di casalinga o di inoccupato con un reddito familiare inferiore alla soglia. In sostanza ne sono esclusi soltanto i minorenni, e chi ha un reddito dichiarato superiore alla soglia di povertà.

Detta così, l’idea è affascinante. Ma come spesso accade, il diavolo si nasconde nei dettagli (e nelle conseguenze).

Vediamo. Primo dettaglio, il costo: comunque lo si computi (le stime oscillano fra 15 e 30 miliardi, ma se si sta alla lettera del disegno di legge la seconda cifra è la più verosimile), un costo annuo di una ventina di miliardi corrisponde a una manovra finanziaria permanente. E’ come dire che, una volta impegnati questi soldi, null’altro si potrà fare: né abbassare le tasse, né incentivare l’occupazione e gli investimenti, per non parlare delle altre innumerevoli promesse dei Cinque Stelle stessi.

Secondo dettaglio: il disincentivo a lavorare. Il disegno di legge sul reddito di cittadinanza ignora il fatto che, così configurato, il reddito minimo renderebbe non conveniente lavorare per ben 9 milioni di italiani. Perché mai un occupato a tempo parziale a 500 euro al mese dovrebbe continuare a lavorare se può guadagnarne quasi 700 non facendo nulla?

Certo, si può obiettare che, in realtà, il diritto al reddito di cittadinanza si perde se non si rispettano determinati obblighi (come la ricerca di un lavoro, la formazione, la disponibilità a lavori socialmente utili) e, soprattutto, se si rifiutano le offerte di lavoro. C’è un piccolo dettaglio, però: il percettore di un reddito di cittadinanza può rifiutare ben 3 offerte di lavoro, e arrivato alla quarta può eccepire che l’offerta non è “congrua”, o che una delle precedenti offerte non lo era, e quindi non va inclusa nel conteggio. Ma che significa congrua?

Lo specifica nei minimi dettagli il comma 2 dell’articolo 12 del Disegno di legge dei Cinque Stelle. Un’offerta di lavoro è considerata congrua se (cito solo alcune delle condizioni); “è attinente alle propensioni, agli interessi e alle competenze acquisite dal beneficiario”; “la retribuzione oraria è maggiore o eguale all’80% di quella riferita alle mansioni di provenienza”; il posto di lavoro è raggiungibile in meno di un’ora e 20 minuti con i mezzi pubblici. Tutte condizioni che devono essere soddisfatte congiuntamente, altrimenti l’offerta non è congrua.

Non ci vuole moltissima fantasia ad immaginare le conseguenze. L’enorme burocrazia di funzionari pubblici pagati per gestire questi 9 milioni di beneficiari non riuscirà ad “accompagnare” al lavoro, al servizio civile, o nei corsi di formazione che una minima parte di essi. A chiunque non voglia accettare un’offerta di lavoro perché preferisce percepire il sussidio senza lavorare (o lavorando in nero) basterà rifiutarla (ha diritto a rifiutarne ben tre senza alcuna giustificazione). Se poi fosse così sfortunato da riceverne ben quattro, e anche la quarta non gli andasse bene, gli basterà considerarla “non attinente alle sue propensioni ed interessi”, che evidentemente nessuno, tantomeno un giudice del Tar, potrà pretendere di conoscere meglio del diretto interessato (l’unico freno all’abuso di questa possibilità di rifiuto è posto dal comma 2, che comunque scatta solo dopo un anno e nel caso di rifiuto di tutte le offerte precedentemente ricevute). In breve: l’effetto economico più macroscopico del reddito minimo in formato Cinque Stelle sarebbe di ridurre ulteriormente l’offerta di lavoro, che in Italia è già patologicamente bassa rispetto a quella delle altre economie avanzate.

Ma il dettaglio più inquietante del reddito minimo sta nella sua iniquità. Essendo basato sul reddito nominale, anziché sul potere di acquisto, esso non potrà che creare nuove diseguaglianze, come se non ne avessimo già abbastanza. Una misura equa, come il “minimo vitale” proposto dall’Istituto Bruno Leoni, dovrebbe basarsi sul reddito in termini reali e non sul reddito monetario. Stanti le enormi differenze nel livello dei prezzi, analiticamente documentate dall’Istat, mille euro di un operaio che vive a Milano valgono poco più della metà di quel che valgono per un manovale che vive in un piccolo comune del Mezzogiorno. Ecco perché tutte le misure basate sul reddito nominale (anche quelle del Pd e del Centro-destra) sono intrinsecamente inique: rischiano di escludere dal beneficio molti veri poveri nelle regioni del centro-nord, e di sussidiare molti finti poveri in quelle del Mezzogiorno. Per non parlare di altri squilibri: l’iniezione nell’economia di 20 miliardi di sussidi all’anno sulla base del reddito nominale dichiarato è strutturalmente una misura pro-evasori, perché beneficerebbe chi guadagna abbastanza ma dichiara poco o nulla, e taglierebbe fuori chi guadagna poco ma dichiara tutto.

Si potrebbe obiettare, naturalmente, che il fascino del reddito minimo deriva anche dal fatto che la formazione di posti di lavoro è molto lenta, molti mestieri e molte occupazioni stanno sparendo, i robot e l’intelligenza artificiale stanno sostituendo gli uomini. In un mondo in cui, come aveva previsto Keynes fin dagli anni ’20 del Novecento, il monte ore totale di una società tende a contrarsi, è logico che la maggioranza non lavori, e che sia la mamma-Stato a provvedere agli sfortunati (o ai fortunati?) che dal lavoro saranno esentati, che lo vogliano o non lo vogliano. Dopotutto, almeno in Italia, in parte è già così: la patologia di uno Stato che da sociale si fa assistenziale risale a circa mezzo secolo fa, quando per la prima volta venne denunciata vigorosamente da un manipolo di studiosi e di politici coraggiosi: Franco Reviglio, Giorgio Galli, Alessandra Nannei, Ugo La Malfa, autori di libri e analisi tanto memorabili quanto inascoltate.

A questa obiezione si possono, a mio parere, fornire due sole risposte. La prima è una domanda: è questo il tipo di mondo in cui vorremmo vivere? Davvero ci piacerebbe che il lavoro fosse il destino di una minoranza di super-efficienti, competitivi, stakanovisti cui spetta, attraverso la mano pubblica, mantenere tutti gli altri?

La seconda risposta, invece, è una constatazione, che emerge dal confronto con gli altri paesi. Se guardiamo all’evoluzione del numero di posti di lavoro nelle società avanzate, scopriamo una cosa molto interessante, anche se leggermente frustrante per noi: dopo la crisi, e a dispetto della crisi, sono molti i paesi che hanno oggi un tasso di occupazione più alto di quello di dieci anni fa. Questo basta a mostrare che automazione, intelligenza artificiale, globalizzazione, delocalizzazioni non bastano a spegnere le energie di un paese vitale, che vuole continuare a crescere e prosperare.

Certo, è possibile che fra dieci o venti anni l’Italia si ritrovi irrimediabilmente al di fuori dei sentieri della crescita e della modernizzazione, e che a un manipolo di produttori sia affidato il compito di mantenere una maggioranza di cittadini impoveriti e impotenti, in un paese che decresce e diventa sempre più marginale. Ma non raccontiamoci che è colpa del progresso, o che era destino, o che la responsabilità è dell’Europa, della signora Merkel o dell’austerità. Perché se a noi andrà così, e altri invece ne verranno fuori come già stanno facendo, è solo a noi stessi che dovremo chiedere: come mai, anziché reagire alla crisi, creando posti di lavoro veri, abbiamo preferito continuare, come facciamo da mezzo secolo, a puntare tutte le nostre carte sullo Stato assistenziale?

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 24 febbraio 2018




Sussidi e redditi integrativi: l’intervista a Luca Ricolfi

Berlusconi promette fino a mille euro grazie al suo “reddito di dignità”. I Cinquestelle dicono di aver trovato 17 miliardi per finanziare “il loro reddito di cittadinanza”. Ma tutti questi soldi ci sono? E soprattutto, non si rischia di innescare nella società spinte parassitarie o favorire il lavoro in nero?

I 17 miliardi all’anno non ci sono, a meno di tornare a una crescita del Pil di almeno il 3%. Tanto più che le coperture previste dai Cinque Stelle sono in gran parte costituite da nuove tasse o aumenti di gettito di tasse preesistenti. Per non parlare delle clausole di salvaguardia da disinnescare, che da sole limitano i margini di manovra di qualsiasi governo.

Quanto alle spinte parassitarie e al lavoro nero, bisogna essere ciechi per non vedere che sarebbero la principale conseguenza del “reddito di cittadinanza” (in realtà: reddito minimo) proposto dai Cinque Stelle.

Tornando al “reddito di dignità” proposto da Berlusconi, può veramente annoverarsi tra le imposte negative rilanciate da Friedman e dalla scuola austriaca?

Nulla osta a introdurre un’imposta negativa, e poi chiamarla “reddito di dignità”. Questa espressione peraltro non è nuova (un sussidio denominato reddito di dignità esiste già in Puglia, e si chiama ReD), anche se a me non piace, per il suo sapore paternalistico-assistenziale.

Anche lei in passato è sembrato favorevole a questo modello. Perché? E quali sono le altre soluzioni per sconfiggere la povertà?

Bisogna distinguere. Se per “sconfiggere la povertà” si intende sradicare la povertà assoluta, allora l’imposta negativa non è la soluzione, perché essa colma solo in parte la differenza fra reddito effettivo e soglia di povertà. Per garantire che un’imposta negativa del 50% (questa è l’aliquota di cui normalmente si parla) sradichi la povertà assoluta occorrerebbe posizionare l’asticella della povertà a un livello doppio rispetto alla soglia Istat, che per un single fluttua intorno ai 700 euro al mese in funzione del livello dei prezzi (al Sud può scendere a 550 euro, al Nord può salire oltre gli 800). Il costo per le casse dello Stato sarebbe enorme.

Se invece quel che si desidera è fornire un sostegno ai poveri che al tempo stesso non disincentivi la ricerca di un lavoro, l’imposta negativa è un’ottima soluzione, naturalmente con un’asticella posta in prossimità della soglia di povertà assoluta.

Più in generale ci spiega la differenza tra reddito di cittadinanza e reddito minimo, e quali categorie fino che grado di intervento da parte del pubblico è auspicabile per non generare storture.

Il reddito minimo è rivolto solo ai poveri, e comporta il rispetto di alcuni doveri (accettare un lavoro, seguire corsi di formazione, ecc.). Il reddito di cittadinanza invece è rivolto a tutti, anche ai ricchi, e non comporta alcun dovere. La proposta dei Cinque Stelle è una proposta di reddito minimo, denominata reddito di cittadinanza al solo scopo di attirare il consenso degli elettori.

Evitare le storture, ossia la rinuncia alla ricerca di un lavoro la ricerca di lavori in nero per poterli cumulare con il sussidio, non è facile. Anzi, è il problema dei problemi che nessuno stato europeo ha risolto in modo soddisfacente.

Nessuno ha la soluzione in tasca, ma ci si può muovere lungo due direzioni principali, ed opposte: sussidi più apparato di monitoraggio e accompagnamento (soluzione statalista), oppure imposta negativa più voucher per la formazione professionale (soluzione di mercato).

Partendo da questa distinzione, possiamo fare un bilancio del Rei?

Il sussidio governativo è meglio di niente, ma ha due limiti molto gravi. Il primo è di essere troppo limitato sia nell’importo sia nei destinatari. Il secondo è di non poter contare su un apparato amministrativo capace di seguire individualmente chi cerca un lavoro ed evitare gli abusi. In un certo senso è un ibrido, che combina i difetti delle due soluzioni estreme: i lavoratori saranno al tempo stesso vessati (come nell’approccio statalista) ed abbandonati (come nell’approccio di mercato). Un capolavoro di cecità politica.

Nell’ultimo contratto per i lavoratori pubblici viene garantito un bonus di 20 euro agli statali più poveri. Siamo di fronte a un nuovo caso di quello che lei chiama “Reddito Arlecchino”?

Sì, una misura del genere va esattamente nella direzione sbagliata: qualsiasi proposta seria di contrasto alla povertà dovrebbe assorbire e unificare su base nazionale tutti i sussidi (anche di natura locale) preesistenti, se non altro per ragioni di equità. E inoltre dovrebbe cercare, in qualche modo, di tenere conto delle enormi differenze territoriali nel livello dei prezzi, anche qui innanzitutto per ragioni di equità (anche se, secondo alcuni, una differenzazione dei sussidi su base territoriale potrebbe sollevare problemi di costituzionalità). Fra le proposte esistenti solo il “minimo vitale” dell’Istituto Bruno Leoni tiene conto del livello dei prezzi.

La Germania è ripartita dopo che con la riforma HartzIV ha rivisto in senso restrittivo il sistema dei sussidi. La politica italiana avrebbe la forza di prendere una decisione simile?

No, ma comunque non basterebbe (ammesso che fosse giusto: il nostro sistema di sussidi non è troppo generoso, semai ha un problema di mancati controlli). Per far ripartire l’Italia non basta riformare il mercato del lavoro, un punto su cui mi sento di condividere alcune obiezioni sindacali.

Con la disoccupazione che cresce tra i quarantenni, non sarebbe il caso di utilizzare queste risorse per processi di outplacement?

Ho i miei dubbi: finché non si torna a tassi di crescita sostenuti (almeno il 3%) accanirsi sul collocamento è una fatica di Sisifo. Tanto più che, spesso, il problema delle imprese non è il mancato incontro fra domanda e offerta di lavoro, ma semplicemente il fatto che, per certe competenze (specie tecniche), l’offerta di lavoro semplicemente non c’è, o è insufficiente.

Può l’apparato burocratico italiano, arretrato e frastagliato viste le diverse competenze concorrenti, gestire e far funzionare processi come questi?

No, la burocrazia è una delle due grandi palle al piede dell’Italia (l’altra sono le tasse sui produttori), e un handicap del genere non si neutralizza in pochi anni.

Intervista a cura di Francesco Pacifico pubblicata da Il Mattino il 28 dicembre 2017



Adesso pensiamo alla Povertà

Sono convinto che, alle prossime elezioni politiche, si parlerà soprattutto di tre cose: immigrazione, flat tax, reddito di cittadinanza.

I discorsi sull’immigrazione sono prevedibili. La destra chiederà di fermare il caos degli ingressi, la sinistra dirà che è difficile, e abbiamo il dovere dell’accoglienza. Il copione è quello di sempre, solo i numeri sono radicalmente diversi da quelli del passato.

I discorsi sulla flat tax (stessa aliquota per tutti i redditi), invece, sono meno prevedibili, perché estremamente tecnici. Quel che è prevedibile è che il grande pubblico non riuscirà a capire quali proposte stanno in piedi e quali no. La sinistra dirà che la flat tax è incostituzionale, la destra spiegherà perché non è vero che lo sia. Gli appassionati discuteranno se l’aliquota di equilibrio possa essere il 15%, il 20% o il 25%, ma alla fine, probabilmente, non se ne farà nulla.

Diverso il caso del terzo tema, quello del reddito di cittadinanza. Tutto fa pensare che di questo parleremo a lungo e appassionatamente, per due buoni motivi. Il primo è che qualsiasi proposta di sostegno del reddito suscita interesse e può essere spiegata in modo comprensibile. Il secondo è che il tema è decisamente attuale, se non altro perché diversi partiti (fra cui il Movimento Cinque Stelle) hanno depositato proposte di legge.

Ecco perché è importante capire esattamente di che cosa parleremo, senza farsi ingannare dalle parole. Naturalmente ciascuno è libero di chiamare le cose come vuole, ma – se ci si vuole capire – non è mai una buona idea quella di chiamare in modo eguale cose diverse, o chiamare in modo diverso cose eguali. Meglio attenersi al significato ordinario, e quindi più condiviso, delle parole. Ecco dunque un piccolo glossario.

Per reddito di cittadinanza, o reddito di base, si intende un reddito che è fornito a tutti i cittadini, senza condizioni, e permanentemente. Il reddito di cittadinanza è erogato agli individui, ed è del tutto indipendente dalle condizioni economiche o di lavoro del singolo o della sua famiglia. Lo prende Berlusconi e lo prende il clochard, lo prende il politico e lo prende l’operaio.

Le definizioni più dettagliate di che cosa si debba intendere per reddito di cittadinanza possono differire solo su due punti importanti: da che età lo si percepisce (nascita, maggiore età) e che cosa succede quando si raggiunge l’età della pensione.

La proposta di Grillo di un “reddito di cittadinanza”, come vedremo fra poco, non ha nulla a che fare con il reddito di cittadinanza vero e proprio.

Per reddito minimo, o reddito minimo garantito, si intende invece un reddito riservato a quanti si trovano sul mercato del lavoro e non raggiungono un livello di reddito sufficiente per vivere. La differenza principale con il reddito di cittadinanza è che per usufruire del reddito minimo occorre essere poveri (a livello individuale o familiare) e disponibili ad accettare proposte di lavoro o di formazione. A qualche forma di reddito minimo possono accedere i disoccupati e i sottoccupati, ma non casalinghe, studenti, e più in generale quanti, pur abili al lavoro e in condizione di povertà, non sono disposti ad accettare offerte di lavoro.

La proposta di Grillo di reddito di cittadinanza è, in buona sostanza, una proposta di reddito minimo garantito, anche se con alcune peculiarità.

Il reddito di cittadinanza non esiste in alcun paese del mondo, salvo l’Alaska in cui tuttavia quel che c’è non è un vero reddito di cittadinanza ma un bonus dell’ordine di 150 dollari al mese, largamente al di sotto della soglia di povertà.

Forme di reddito minimo esistono invece in tutti i paesi dell’Unione Europea, salvo la Grecia e l’Italia.

Quel che esiste nel nostro paese è una miriade di forme di sostegno del reddito, che tuttavia sono del tutto prive del requisito dell’universalità, in quanto riservate a specifiche categorie di persone individuate su base lavorativa, settoriale, residenziale, sanitaria. Nel loro insieme queste misure, a differenza di quelle previste dal reddito minimo, non sono sufficienti a proteggere gli individui e le famiglie dal rischio di cadere al di sotto della soglia di povertà. Possiamo chiamare reddito sub-minimo il sistema di sussidi previsto in paesi come l’Italia e la Grecia.

Le differenze fra reddito di cittadinanza e reddito minimo sono almeno tre. La prima è il costo dell’erogazione: in un paese come l’Italia qualsiasi forma di vero reddito di cittadinanza costerebbe circa 300 miliardi e sfascerebbe i conti dello Stato, mentre l’introduzione di qualche tipo di reddito minimo costerebbe fra i 10 e i 20 miliardi (la versione del Movimento Cinque Stelle ne costa 16). La seconda differenza è il costo di gestione: il reddito di cittadinanza, non essendo soggetto a verifiche di alcun tipo, ha un costo di gestione irrisorio, il reddito minimo ha un costo di gestione molto alto, perché inevitabilmente fa crescere un apparato di controlli, funzionari pubblici, scuole di formazione, centri per l’impiego che, rischi di corruzione e abusi di potere a parte, assorbe una frazione notevole delle risorse destinate al reddito minimo. Chi vuol farsi un’idea di quel che può succedere quando un apparato pubblico si occupa del nostro (presunto) benessere può vedere il film di Ken Loach, Io, David Blake, che puntualmente descrive le storture e le aberrazioni dei centri per l’impiego inglesi.

La differenza più importante, tuttavia, è la terza, ed è di natura filosofica. L’idea implicita nel reddito di cittadinanza, ossia di introiti fissi, permanenti e intoccabili, è di sottrarre la scelta di lavorare o meno a calcoli sui sussidi che si potrebbero acquisire o perdere a seconda delle proprie scelte lavorative. Il problema è che il reddito di cittadinanza costa troppo, mentre quello minimo porta inevitabilmente a extra-costi burocratici, nonché a innumerevoli storture e inefficienze.

La sfida è trovare un meccanismo che costi come il reddito minimo, ma funzioni in modo automatico come il reddito di cittadinanza. Sfortunatamente né la proposta Cinque Stelle, che è una proposta di reddito minimo iper-burocratica, né le misure varate dal Governo Renzi, che sono semplici misure di reddito sub-minimo, rispondono all’obiettivo che le politiche contro la povertà dovrebbero porsi: sradicare la povertà, farlo senza alimentare sprechi e comportamenti opportunistici.

Pubblicato su Panorama il 19 gennaio 2017



Reddito di cittadinanza, pubblicità ingannevole

Qualche tempo fa avevo scritto che, stante la completa assenza di idee politiche nuove, la prossima campagna elettorale sarebbe stata dominata dal dibattito sul cosiddetto reddito di cittadinanza, o reddito di base.

Non pensavo, però, che questo sarebbe accaduto così presto, ovvero un anno prima della data del voto. E invece basta ascoltare la radio, guardare la tv, navigare su internet o leggere i giornali per rendersi conto che ci siamo già dentro in pieno. Da alcune settimane un po’ tutti ne parlano.

L’idea di un reddito di cittadinanza, lanciata dal Movimento Cinque Stelle fin dal 2013, subito dopo le passate elezioni, ormai tiene banco un po’ in tutte le forze politiche. Ne parla il Pd, tramortito dalla scissione e alla ricerca di slogan efficaci in vista delle imminenti elezioni politiche. Ma ne parlano anche dalle parti di Forza Italia, dove circolano cifre (10 miliardi l’anno) e strumenti (la cosiddetta imposta negativa sul reddito). Né mancano le proposte provenienti dalla società civile, come quelle del Reis (Reddito di inclusione sociale), promossa dalle ACLI e da decine di altre associazioni, per lo più appartenenti al cosiddetto Terzo settore.

Tutti pazzi per il reddito di cittadinanza, dunque?

Proprio per niente. Il bello è che nessuna, ma proprio nessuna, delle proposte che partiti e forze politiche si affannano a denominare “reddito di cittadinanza” corrisponde a un vero reddito di cittadinanza. Anzi, nella maggior parte dei casi ne rappresenta l’esatto contrario.

Curioso. Se c’è un’espressione su cui tutti gli esperti e gli studiosi di scienze sociali concordano, se c’è un’espressione su cui non si assiste mai a sterili controversie terminologiche, perché tutti la intendono nello stesso modo, è proprio l’espressione reddito di cittadinanza, un’idea che risale ad oltre un secolo fa ma che è tornata di grandissima attualità fin dagli anni ’80, quando sorse un movimento di pensiero a suo favore (guidato dal filosofo belga Philippe von Parijs), e venne fondato il BIEN (Basic Income European Network, oggi ribattezzato Basic Income Earth Network).

Che cos’è il reddito di cittadinanza?

E’ un reddito che lo Stato corrisponde a tutti i suoi cittadini, ricchi e poveri, su base individuale e non familiare, dalla nascita o dalla maggiore età, senza alcuna restrizione, obbligo o contropartita. Detto in altre parole, è un sostegno permanente e incondizionato, che proprio perché viene erogato a tutti e senza chiedere nulla in cambio, non richiede di mettere in piedi un apparato di amministrazione, controllo, monitoraggio dei beneficiari.

Ebbene, molto si può discutere sui meriti e demeriti delle varie proposte messe in campo in Italia da partiti e associazioni, quasi sempre presentate come forme di “reddito di cittadinanza”, ma su tre punti c’è perfetta sintonia: in tutte le proposte il sussidio, o “sostegno” (espressione più raffinata e politicamente corretta), il reddito che si intende attribuire non è destinato a tutti (ma solo ai poveri), è determinato su base familiare (anziché individuale), e prevede precise contropartite (non è incondizionato). In breve: è l’esatto contrario del reddito di cittadinanza.

Da questo punto di vista, il massimo di bisticcio con la lingua italiana è offerto dal Movimento Cinque Stelle, che per giustificare il titolo del suo disegno di legge sul “reddito di cittadinanza” di fronte a chi giustamente  criticava la scelta di un termine così fuorviante, non ha trovato di meglio che rispondere: la nostra è una proposta di “reddito di cittadinanza condizionato”, come non sapessero che, per definizione, il reddito di cittadinanza è incondizionato, altrimenti è un’altra cosa, che in tutta Europa viene chiamata, più prosaicamente, “reddito minimo”.

Ma quali sono le differenze fra le varie proposte di reddito minimo?

Fondamentalmente sono cinque.

Primo. La quantità di risorse stanziate, che va da un minimo di 1-2 miliardi l’anno (Governo Renzi), a un massimo di 15-20 (Cinque Stelle e Sel).

Secondo. La percentuale di famiglie o di individui beneficiari, che varia ovviamente in funzione delle risorse stanziate, ma anche a seconda degli importi e della durata. A questo proposito vale la pena osservare che il concetto di povertà è così elastico che, a seconda di come lo si definisce, si può passare dal 7% degli individui (povertà “assoluta”) al 29% (“rischio di povertà o di esclusine sociale”), passando attraverso le platee intermedie del 14 % (povertà relativa) e del 20% (rischio di povertà relativa).

Terzo. Le condizioni di accesso e di mantenimento del sussidio, che possono essere più o meno severe, potendo comportare l’obbligo di cercare attivamente un lavoro, di seguire corsi di formazione, di accettare proposte di lavoro retribuito, di erogare lavoro gratis in attività “socialmente utili”.

Quarto. La complessità (e il costo) dell’apparato di amministrazione, sorveglianza, formazione messo in campo per gestire i beneficiari. Un indicatore assai significativo in proposito è la quota delle risorse stanziate che non va in tasca ai poveri, ma a coloro che dei poveri stessi dovrebbero occuparsi, tipicamente tecnici, impiegati, assistenti sociali, formatori ed esperti, tutte figure appartenenti al ceto medio. Fra le varie proposte in campo quella che meno concede agli apparati di controllo è l’imposta negativa (caldeggiata da Forza Italia), mentre quella che dirotta la quota maggiore di risorse alla macchina dell’inclusione sociale è quella dell’Alleanza contro la povertà (i proponenti del Reis), come del resto è comprensibile visto che occuparsi del disagio sociale è il mestiere, più o meno volontario e più o meno retribuito, di tante fra le associazioni che propugnano il “Reddito di inclusione sociale”.

Quinto. L’incentivo a cercare e trovare lavoro, che è fortemente compromesso dalla prospettiva di perdere in parte o in tutto il sussidio. Questo, in realtà, è il tallone di Achille di un po’ tutte le proposte, perché tutte (tranne, in parte, quella dell’imposta negativa) di fatto rendono alquanto conveniente non lavorare, o lavorare in nero, una scelta che i recenti dati sulle dichiarazioni dei redditi (straordinariamente basse rispetto a quel che ognuno di noi vede a occhio nudo) mostrano essere tutt’altro che teorica.

Che fare, dunque?

Il mio consiglio è di fare come si fa (o si dovrebbe fare), quando si fa un investimento finanziario: “leggere attentamente il prospetto informativo”, senza lasciarsi sedurre dalla pubblicità ingannevole dei proponenti.

Pubblicato su Panorama il 13 marzo 2017