Le priorità per il Paese: intervista a Luca Ricolfi

Lega e M5S parlano entrambi nei loro programmi di Salario minimo garantito come primo punto della parte dedicata al lavoro. Lega aggiunge la proposta di una standardizzazione alla media europea (flat rate). Una priorità per il Paese, quella del salario, a suo parere?

No, la priorità è creare posti di lavoro aggiuntivi e, in attesa che i posti si formino in misura sufficiente, dare un reddito minimo alle famiglie in povertà assoluta, che sono circa 1 milione e mezzo (di cui quasi il 40% immigrati). Il problema è che, per essere equa, una misura del genere dovrebbe tenere conto del livello di prezzi, molto più bassi al Sud e nei piccoli centri: in caso contrario avremo due soli veri beneficiari: i cittadini del Sud e gli immigrati (questi ultimi prevalentemente residenti nel Centro-Nord). Pochissimo resterà per i cittadini italiani poveri residenti nelle regioni del Centro-Nord.

M5S si riferisce sia a un investimento (due miliardi di euro per il rafforzamento e potenziamento dei servizi pubblici per l’impiego) in politiche attive che al reddito di cittadinanza. Di fatto è anch’essa una misura di politica attiva? Quale criticità intravede? È solo questione di sostenibilità per i conti? I servizi pubblici per il lavoro (centri per l’impiego) potranno supportare questo tipo di intervento? L’aspetto della condizionalità per come è stato esposto il progetto di reddito di cittadinanza è molto forte…

Non è solo questione di sostenibilità per i conti pubblici. Le criticità sono due. Se le politiche attive si fanno all’italiana, ossia senza veri controlli e senza veri posti di lavoro da allocare, si generalizza la situazione attuale, in cui i sussidi sono spesso erogati a persone che li usano per non lavorare o per lavorare in nero. Se le politiche attive si fanno alla tedesca o all’inglese, è probabile che si formi anche in Italia una mostruosa burocrazia che umilia i disoccupati (chi non avesse idea di cosa questo significhi può vedere il bellissimo, drammatico film di Ken Loach, Io, Daniel Blake). Purtroppo soluzioni perfette non esistono. La meno imperfetta, a mio parere, sarebbe quella di dare dei voucher per la formazione, lasciando i lavoratori completamente liberi di spenderli con i corsi che preferiscono, e garantendo un premio in denaro per i casi di successo, in cui il corso di formazione ha permesso di trovare un lavoro.

La Lega, per bocca di Siri, sembra aver rilanciato rispetto al reddito di cittadinanza il prestito al lavoro. Di fatto si tratta dell’assegno di ricollocazione, ma con la clausola della restituzione? Si tratta di un costo di due miliardi all’anno, pari all’investimento previsto dai Cinque Stelle per rafforzare i cpi. I lavoratori italiani sembrano non aver accolto favorevolmente l’assegno di ricollocazione nella sua sperimentazione: aderirebbero a una forma di prestito così congegnata?

No, pochissimi accetterebbero. In Italia l’idea di restituire i soldi non funziona, né all’Università né sul mercato del lavoro. Possiamo deplorare il fatto, ma la realtà è quella.

Pensa che i due programmi possano avere importanti punti di convergenza? Quale potrebbe essere la base comune?

Se c’è la volontà politica, i punti di convergenza si trovano. E comunque su molte cose la convergenza già c’è: abolizione della legge Fornero, riduzione delle tasse alle piccole imprese, ulteriore aumento del debito pubblico.

Quali sono invece i punti di divergenza più critici a suo parere? (Io noto la sostanziale assenza di un riferimento al fisco nel programma a Cinque Stelle, ad esempio…)

Mi sembrano solo due. La Lega non è disposta a varare il reddito di cittadinanza nella forma estrema proposta dai Cinque Stelle. Il Movimento Cinque Stelle non sembra pronto a una politica veramente severa su sbarchi e immigrazione irregolare. E il fatto che arrivi la primavera, con il mare calmo e il sole, non può che complicare le cose: gli sbarchi ricominceranno proprio al momento di varare il nuovo governo.

Lei ha scritto su Panorama che il voto ha riproposto una frattura del Paese e che occorrerebbe pensare a misure differenti: quali, per il lavoro? Il reddito di cittadinanza quanto ha influito sul risultato elettorale?

Sì, ha portato voti al partito di Grillo. Quanto alle misure per il lavoro ne vedo soprattutto due: sopprimere l’Irap e azzerare i contributi, ma solo alle imprese che aumentano l’occupazione.

Intervista a cura di Giulia Cazzaniga per Libero del 6 aprile 2018



Lega e Cinque Stelle, programmi incompatibili?

Buio totale. È passato quasi un mese dal voto e nessuno è in grado di dire se avremo un nuovo governo, o invece si tornerà alle urne. Quel che si comincia a intravedere, tuttavia, è che potrebbe, e il condizionale è d’obbligo, nascere un governo Cinque Stelle-Lega. Questa alternativa pare meno inverosimile delle altre.

Le ragioni per cui questa appare l’eventualità meno improbabile sono diverse. La prima è che, a quanto pare, il Centro-destra non ha alcuna volontà di restare unito, e di cercare in Parlamento i voti di cui ha bisogno, che sono molti di meno di quelli che occorrono ai Cinque Stelle. Se davvero avesse intenzione di restare unito, farebbe valere il fatto di essere risultato la coalizione con il maggior numero di voti (37.5% contro il 32.2% dei Cinque Stelle), e si presenterebbe con una delegazione unica al colloquio con il Presidente della Repubblica. Invece pare di no, andranno separati. Misteri della politica (almeno per me).

C’è anche un’altra ragione per cui un governo Di Maio-Salvini è meno improbabile di altre soluzioni. Ed è che l’unica alternativa numericamente possibile, ossia un governo Cinque Stelle-Partito democratico, pur essendo vagheggiata da molti (compresi Franceschini e Orlando, secondo i rumors dei giorni scorsi), sarebbe profondamente divisivo per il Pd. Se anche i nemici di Renzi dovessero avere la meglio, eventualità che nel clima restaurativo attuale non è da escludere, resterebbe, come freno, la necessità di evitare una sanguinosa spaccatura del Pd, un partito che tutto può permettersi tranne che di dividersi in un troncone governativo e uno di opposizione.

Supponiamo dunque che il governo Di Maio – Salvini, magari presieduto da un premier meno divisivo, veda la luce. Starebbe insieme un simile governo?

A giudicare dai programmi, si direbbe proprio di no. Flat tax e reddito di cittadinanza sono due ricette di politica economica opposte. La prima punta a rilanciare la crescita, puntando su ingenti sgravi fiscali sui produttori, prevalentemente insediati nel Centro-Nord. Il secondo punta ad attutire le conseguenze della mancata crescita, puntando su sussidi ai poveri, prevalentemente insediati nel Sud. A queste difficoltà si aggiunge la circostanza che quel che unisce Salvini e Di Maio, ovvero la ferma volontà di sfondare la barriera del 3%, non potrà che attirarci l’ostilità delle autorità europee e, presumibilmente, la diffidenza dei mercati. Per non parlare dell’ostacolo più prosaico: il nuovo governo dovrà trovare subito 12 di miliardi di euro per disinnescare l’aumento automatico dell’Iva, e forse altri 2-3 miliardi per non incorrere in una procedura di infrazione per deficit eccessivo.

E tuttavia…

Tuttavia ci sono discrete possibilità che questi ostacoli siano superati. Intanto perché se in qualcosa i politici non hanno rivali, è nel manipolare il racconto che fanno ai comuni cittadini (che poi i manipolati ci caschino, è un altro paio di maniche, e si scoprirà vivendo). Ne abbiamo già avuto parecchie avvisaglie in questi giorni. Dopo i proclami di assoluta incompatibilità, e dopo le promesse più avventate, verrà il tempo degli aggiustamenti. Salvini ha già cominciato ad aprire sul reddito di cittadinanza, purché sia “uno strumento per reintrodurre nel mondo del lavoro chi oggi ne è uscito”. Toninelli, capogruppo Cinque Stelle al Senato, ha già aperto sulla flat tax, purché sia “costituzionale” e “includa i poveri”. Per non parlare della legge Fornero, sulla cui abolizione o superamento i due partiti sono d’accordo fin da prima del voto.

Non è tutto però. A favore di un governo Cinque Stelle-Lega militano anche fattori, per così dire, paradossali. Uno è l’irrealizzabilità del programma. Sia per la Lega sia per i Cinque Stelle, un governo di coalizione, che limiti il potere del partner, è la migliore assicurazione contro il risentimento degli elettori traditi. Quando, fra qualche tempo, si scoprirà che la flat tax al 15% era una bufala, Salvini dirà che la colpa è di Di Maio, che ha frenato. E quando i cittadini del Sud si renderanno conto che il reddito di cittadinanza effettivamente attuato dal nuovo governo non vale molto di più del reddito minimo introdotto a suo tempo da Renzi e Gentiloni, Di Maio avrà buon gioco a dire che la colpa è di Salvini, che ha sempre remato contro.

Infine, un altro fattore paradossale che può, almeno all’inizio, favorire la nascita di un governo Cinque Stelle – Lega è il patriottismo anti-europeo. Proprio l’ostilità delle autorità europee a un esecutivo “populista” potrebbe essere un forte elemento di coesione di un governo esplicitamente schierato contro la “burocrazia di Bruxelles”. Un esito, questo, lungamente preparato da una stagione di demagogia anti-austerity che ha coinvolto quasi tutte le forze politiche, compreso il Pd renziano.

Poco male, se dovessimo solo incontrare le resistenze delle sempre più deboli, e meno autorevoli, “autorità europee”. Ma malissimo se, sull’onda dei rimproveri dell’Europa, del declassamento delle agenzie di rating, e di un repentino deterioramento dei conti pubblici, dovessimo incontrare l’ostilità dei mercati, che ogni anno ci prestano svariate centinaia di miliardi per rinnovare i titoli del nostro debito pubblico.

Il 2011 magari non si ripeterà, perché la storia non si ripete mai identica a sé stessa. Ma qualcosa dovrebbe averci insegnato.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 31 marzo 2018



Due stati

Di una frattura fra Nord e Sud si parla da quando esiste lo Stato italiano, dunque dal 1861. Il modo in cui se ne parla, le modalità con cui la si declina, le linee lungo le quali se ne tracciano i confini, sono invece piuttosto mutevoli.

Fino agli anni ’50 del Novecento, fondamentalmente, il problema è stato pensato come “questione meridionale”, una grande sfida politica che ha appassionato legioni di meridionalisti, fin dalla fine dell’800: da Giustino Fortunato a Francesco Saverio Nitti, da Antonio Gramsci a Pasquale Villari, da Gaetano Salvemini a Pasquale Saraceno. Nel meridionalismo classico il Sud da sostenere e sviluppare coincideva con l’intero Mezzogiorno statistico (inclusi Abruzzo e Sardegna), e arrivava talora ad includere le aree più depresse del Lazio, oggetto anch’esse di attenzione da parte della Cassa del Mezzogiorno. Questo confine fra le due italie sarà poi ribadito e precisato dagli studiosi di scienza politica, che sulla scorta del famoso libro di Robert Putnam sulla “tradizione civica” delle regioni italiane (1993), fisseranno la linea di demarcazione fra l’Italia arretrata, che non ha avuto la civiltà comunale e perciò scarseggia di fiducia interpersonale, e l’Italia civica, in cui la civiltà comunale ha creato le condizioni dello sviluppo, lungo la linea che va dalla foce della Fiora (sud della Toscana) alla foce del Tronto (sud delle Marche). E sarà un politologo italiano, Roberto Cartocci, a mostrare che quel confine coincide con impressionante precisione con quello del voto di scambio, o clientelare, che si concentra a Sud di quella linea ideale.

Questa visione di un’Italia divisa in due, con il Sud (più o meno allargato) da un lato, e il Centro-Nord (più o meno ristretto) dall’altro non è mai venuta meno. Il problema, per gli studiosi, riguardava solo la questione dei confini esatti fra le due italie, perché due regioni, Lazio e Marche, si venivano spesso a trovare “a cavallo” fra il Centro-Nord e il Sud.

Accanto a questo filone di pensiero, sostanzialmente dualista, a partire dagli anni ’60 si è sempre più irrobustito un altro modo di descrivere l’Italia, più legato agli esiti elettorali. Secondo questo modo di vedere l’Italia elettorale era suddivisa in più di due aree relativamente omogenee: almeno quattro secondo alcuni, tre secondo altri. L’elemento comune di queste analisi, dovute soprattutto all’Istituto Cattaneo, ad Arnaldo Bagnasco e a Giorgio Fuà, era di vedere il centro-Nord come un luogo relativamente eterogeneo, suddiviso fra regioni di antica industrializzazione (Piemonte, Lombardia, Liguria), dominate dalla grande impresa, e regioni della terza Italia, dominate dalla piccola impresa, e divise quasi esclusivamente dalla cultura politica, con il Triveneto cattolico contrapposto alle Regioni rosse.

Nel 1992-1994, con la fine della prima Repubblica e la netta vittoria del centro-destra nelle regioni settentrionali, lo schema delle molte italie subisce una nuova e ulteriore torsione: ora la frattura fondamentale pare innanzitutto fra il Nord, produttivo e insofferente per l’oppressione fiscale, e il resto del Paese. E infatti da allora, e per molti anni, si parlerà di “questione settentrionale”, e il federalismo fiscale diventerà nel giro di pochi anni una specie di tema fisso della politica italiana.

Ma che cosa accade il 4 marzo 2018? Che tipo di paese è quello che esce dalle urne?

A mio parere è un paese che torna ad essere spaccato essenzialmente in due, fra il Sud e il resto della penisola, come era risultato nitidamente nel 1992, ultime elezioni della prima Repubblica. Allora il Sud si distingueva dal resto d’Italia perché vi resisteva la Democrazia cristiana, esattamente come oggi il Sud si distingue dal resto d’Italia per l’insediamento dei Cinque Stelle. Ed è impressionante la precisione con cui la carta geopolitica di oggi riflette quella di allora, regione per regione, provincia per provincia: i Cinque Stelle hanno sfondato là dove maggiore era la forza della Dc. L’unica differenza significativa è che oggi le Marche sono, per così dire, annesse al Mezzogiorno grillino, mentre il Lazio è annesso al centro-nord presidiato dal centro-destra e dal Pd.

Abbiamo provato a metterle a confronto, queste due italie che il voto del cinque marzo ci ha consegnato, e l’esito non potrebbe essere più nitido: un abisso le divide in termini di reddito, occupazione, povertà, evasione fiscale, peso dei dipendenti pubblici, infrastrutture, funzionamento della giustizia, partecipazione elettorale, istruzione, asili nido, percentuale di Neet (giovani che non studiano, non lavorano, non stanno imparando un lavoro). Solo su una variabile, l’accesso alla banda larga, il Mezzogiorno appare più avanti del resto del Paese.

*Lazio: valore stimato (dati non definitivi)
Fonte: elaborazioni Fondazione Hume su dati Istat, RGS, Ministero della Giustizia, Ministero dell’Interno, Mise – Piano strategico Banda Ultra Larga,
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Ferrovie dello Stato e CGIA di Mestre

È come se, in Italia, coesistessero due Stati, che in oltre 150 anni non sono riusciti in alcun modo a raggiungere un accettabile livello di convergenza.

Ma se siamo di fronte a due Stati, con economie e strutture sociali radicalmente diverse, forse sarebbe giunto il momento di prenderne atto nel solo modo conseguente, ovvero pensando a due politiche economiche radicalmente diverse per queste due italie. Proprio perché tutto è profondamente diverso, risulta difficile pensare che un’unica ricetta vada bene per tutto il paese. Prendiamo il tema delle tasse. Qualcuno si può stupire che la flat tax non abbia sedotto gli elettori meridionali? Quel problema il Mezzogiorno l’ha risolto da sempre autoriducendosele, le tasse. Il problema, semmai, sono le “condizioni al contorno” dell’attività economica: infrastrutture precarie o incomplete, mancanza di asili nido, una sanità disastrata, una scuola di bassa qualità, una burocrazia inefficiente nonostante l’eccesso di personale. Forse è di qui che una politica per il Mezzogiorno dovrebbe prendere le mosse. Naturalmente il Mezzogiorno ha anche bisogno, e da subito, di più posti di lavoro, proprio per far sì che il reddito minimo (impropriamente chiamato reddito di cittadinanza) sia l’unica prospettiva. Ma come fare?

Un’idea potrebbe essere di riprendere, magari solo per il Mezzogiorno, la proposta del maxi-job che la Fondazione David Hume aveva lanciato nel 2014, e che era stata raccolta sia da Susanna Camusso sia da Giorgia Meloni: azzerare tutti i contributi sociali non già per chi, genericamente, assume, ma per quelle imprese che aumentano l’occupazione e lo fanno con lavori veri, a tempo pieno o quasi pieno (di qui il prefisso maxi, che si contrappone ai mini-job della Germania). Un’altra idea, e in un certo senso una misura complementare ai maxi-job, potrebbe essere di favorire l’occupazione femminile nel Mezzogiorno (dove è a livelli bassissimi) con un grande piano di costruzione di asili nido, che oggi sono drammaticamente scarsi (1 bambino su 9).

Un ragionamento analogo e speculare, probabilmente, meriterebbe di essere fatto per il Centro-Nord. Qui una misura chiave sarebbe disboscare la selva degli adempimenti burocratici, e rendere più rapido il rilascio di permessi e autorizzazioni, specie in ambito edilizio e nel commercio. Quanto ai bilanci delle imprese, più che sul contenimento del costo del lavoro, forse sarebbe meglio puntare direttamente sulla riduzione dell’imposta societaria (Ires e Irap). L’evidenza econometrica suggerisce che, se si vuol accelerare la crescita del Pil, è molto più efficiente puntare sulla riduzione delle tasse sui profitti che ridurre la pressione contributiva, o la pressione fiscale in generale.

Con le risorse degli 80 euro e della decontribuzione (circa 20 miliardi l’anno), anziché sostenere gli stipendi di chi un lavoro già ce l’ha, forse sarebbe stato meglio pensare a una più drastica riduzione dell’imposta societaria, e a un sostegno ai veri poveri, ossia a chi guadagna così poco da non poter usufruire di alcuno sgravio fiscale. Certo, lo si sarebbe dovuto fare mirando alla povertà assoluta, anziché alla povertà relativa, e tenendo conto del livello dei prezzi, come proposto a suo tempo dall’Istituto Bruno Leoni: un sussidio di 500 euro a Caltanissetta pesa molto di più, in termini di potere di acquisto, di un sussidio di 500 euro a Milano.

Se il Pd lo avesse fatto, probabilmente l’economia italiana e l’occupazione avrebbero ricevuto una spinta maggiore, e il Sud, in cui si concentrano la maggior parte dei poveri assoluti, si sarebbe sentito meno solo. Il successo dei Cinque Stelle è anche il frutto di anni di superficialità, omissioni, e slogan vuoti nelle politiche per il Mezzogiorno.

Pubblicato su Panorama il 15 marzo 2018 con il titolo “Le due Italie”.



L’Italia dopo il voto del 4 marzo: intervista a Luca Ricolfi

«È molto probabile che, la sera del voto, non avremo la minima idea di che governo si potrà insediare da lì a qualche settimana»: previsione di Luca Ricolfi, datata 3 marzo. Sociologo, docente di Analisi dei dati all’università di Torino, editorialista del Messaggero, osservatore tra i più lucidi delle cose della politica, allergico agli sconti a destra come a sinistra (vedi le sue analisi sul sito della Fondazione David Hume). Ci siamo rivolti a lui per interpretare le più clamorose elezioni anti establishment degli ultimi decenni e tracciare qualche scenario futuro.

Per trovare un altro risultato così dirompente bisogna tornare al 1994. Allora iniziò la Seconda repubblica, sta nascendo la Terza?

«No, stiamo tornando alla Repubblica “di mezzo” (fra la prima e la seconda), quella che è esistita fra le elezioni politiche del 1992 e le elezioni del 1994, al tempo in cui tutto cominciò a cambiare, grazie al referendum sulla preferenza unica, a Mani pulite, all’esplosione della Lega, alla nuova legge elettorale (il compianto Mattarellum). Non tutti lo ricordano ma, allora, gli studiosi di comportamenti elettorali congetturarono che l’Italia fosse ormai divisa in tre: la Padania, egemonizzata dalla Lega (Forza Italia non era ancora nata), l’Etruria, egemonizzata dal Pds, il Mezzogiorno, ancora saldamente in mano alla Dc. Oggi la carta geopolitica è tornata a essere quella di allora, con i 5 stelle al posto della Dc».

Quali sono i fattori di maggior novità del voto del 4 marzo?

«C’è molta più chiarezza di prima: il Centronord vuole proseguire sulla via della modernizzazione del Paese, timidamente intrapresa in questi anni, ma lo fa con sensibilità diverse, rappresentate dal centrodestra e dal Pd. Il Sud vuole continuare a sussistere nell’unico registro che un ceto dirigente irresponsabile è stato in grado di prospettargli: assistenza, assistenza, assistenza».

Concorda con chi sostiene che le urne ci consegnano un’Italia geograficamente e socialmente bipolare: nel Sud della disoccupazione e della povertà ha vinto il M5s, nel Nord dove si teme per la sicurezza ha vinto la Lega.

«Concordo, ma solo in parte. Oggi il voto del Nord sembra ad alcuni soprattutto anti-immigrati, ma a mio parere esprime invece, molto di più, l’ennesima rivolta antifisco e anti burocrazia».

Sarà difficile mantenere le promesse di flat tax e reddito di cittadinanza. È per questo che, sotto sotto, né Lega né M5s smaniano di governare?

«Non so se davvero esitano, a me sembrano piuttosto smaniosi entrambi. Il mancato mantenimento delle promesse penso sia messo in conto da tutti, tanto basterà dire: noi volevamo ma gli alleati, ma l’Europa, ma la situazione, eccetera eccetera».

Si è votato in marzo, quando non ci sono sbarchi d’immigrati.Se si fosse votato in maggio, la Lega avrebbe superato anche il Pd di Matteo Renzi?

«L’ho sostenuto in un’intervista a Sky pochi giorni fa. Votare a marzo ha attutito i danni subiti dal Pd, checché ne dica Renzi, che si è lamentato di non aver potuto votare prima: se si fosse votatola primavera scorsa non avrebbe potuto giocare la carta Marco Minniti».

Che però, a sorpresa, è stato sconfitto.

«Il fatto ha stupito anche me, ma forse io ho un pregiudizio positivo nei confronti di Minniti, che mi pare uno dei pochissimi ministri che sanno di che cosa parlano».

Con Lega e M5s è nato anche un nuovo bipolarismo politico che sostituisce quello composto da Forza Italia e Pd, ora residuali?

«No, il sistema per ora è quadripolare e instabile. Lega e M5s rappresentano solo la dialettica interna alle forze antieuropee. Un vero bipolarismo richiederebbe il compattarsi di due aggregazioni più ampie e robuste: ad esempio centrodestra contro mutanti».

Chi sono i mutanti?

«Pd e 5 stelle, Organismi politicamente modificati (Opm) costruiti a partire dal ceppo antico del socialismo e del comunismo».

Un ceppo che germoglia sempre meno. La sinistra è in declino dovunque in Occidente. La crisi di quella italiana ha fattori specifici più gravi?

«La sinistra non è affatto in declino, semplicemente sta assumendo forme che i media (e pure gli studiosi, devo ammettere) si rifiutano di riconoscere per quello che sono. Quella che continuiamo a chiamare sinistra è semplicemente la sinistra ufficiale, ovunque amata e votata dai ceti medi riflessivi, istruiti e urbanizzati, e dal mondo della cultura. Ma esiste anche un’altra sinistra, trasgressiva e populista, prediletta dai giovani e da una parte dei ceti popolari, che si esprime in forme nuove: Podemos in Spagna, Syriza in Grecia, 5 stelle in Italia, France insoumise oltralpe, per citare i casi più importanti. Quel che sta succedendo è che, in molti paesi, tranne il Regno Unito, la sinistra populista sta diventando più forte di quella ufficiale, riformista, benpensante, assennata e politicamente corretta».

Com’è possibile che non ci si interroghi sul fatto che il Pd tiene nei centri storici e scompare nelle periferie e tra i lavoratori?

«Me lo sono chiesto anch’io, e ne è venuto fuori un libro (Sinistra e popolo, Longanesi 2017). Però la vera domanda forse è anche quest’altra: perché del problema ci accorgiamo solo ora visto che il distacco fra sinistra e popolo è in atto da almeno 40 anni?».

Augusto Del Noce diceva che il partito comunista sarebbe diventato un grande partito radicale di massa.L’apparentamento con Emma Bonino ne è stata l’ultima piccola conferma?

«Sì, quello di partito radicale di massa è un concetto che descrive a pennello l’evoluzione del comunismo dal Pci al Pd renziano. Ne parla anche Marcello Veneziani nel suo ultimo libro (Imperdonabili, Marsilio 2017). Il Pd è diventato una sorta di macchina per proclamare diritti, e anche un rifugio identitario per i ceti alti e medi, bisognosi di impegno per espiare la colpa di non essere poveri. Una mutazione che l’alleanza con la Bonino ha reso evidente, per non dire plateale. Ma a questo tipo di evoluzione (o involuzione?) ha contribuito anche una certa dose di stupidità autolesionista, una quasi inspiegabile incapacità di capire il punto di vista della gente comune: come si può pensare, nell’Italia di oggi, di attirare consensi con l’antifascismo e lo ius soli? Se ci fossero pulsioni fasciste e nostalgiche Casa Pound e Forza Nuova avrebbero avuto un risultato decente, non i pochi decimali (0.9 e 0.37%) che qualsiasi simbolo buttato sulla scheda finisce per raccogliere».

Che responsabilità hanno gli intellettuali nel distacco tra la classe dirigente del Pd e la sua area tradizionale di riferimento?

«Negli ultimi 30 anni, intellettuali e mondo della cultura molto si sono preoccupati di veder rappresentati loro stessi e i loro interessi, e pochissimo di convincere il Pd a rappresentare anche i ceti popolari. Questa è una delle differenze fra Prima e Seconda repubblica: gli intellettuali della prima pretendevano di conoscere meglio dei dirigenti del Pci quali fossero i veri interessi della classe operaia; a quelli della seconda è premuto assai di più che gli eredi del Pd rappresentassero il loro mondo incantato. Ci sono riusciti benissimo».

Che giudizio dà di Renzi come amministratore, comunicatore e stratega politico?

«Non voglio infierire, l’ho già criticato a sufficienza in questi anni. Anzi, voglio dire che, se solo avesse fatto meno il bullo e avesse provato ad ascoltare chi lo criticava stando dalla sua parte, oggi ricorderemmo le non poche buone cose che ha fatto, dal Jobs act a industria 4.0. Il dramma dell’Italia è che questo modesto Pd è pur sempre la miglior sinistra disponibile sul mercato, visto quel che offrono 5 stelle e Leu».

Cosa pensa dell’esperienza di Liberi e uguali? A chi è maggiormente attribuibile la colpa della scissione?

«Un’operazione politica penosa, nei contenuti e nelle persone. Quello che non capisco è perché abbiano scelto come capo una figura scolorita come quella di Pietro Grasso: chiunque altro, tranne forse il demonizzatissimo Massimo D’Alema, avrebbe portato a casa più voti. Quanto alla scissione, non so se è stata una colpa, forse è stata un atto di chiarezza».

Quanto il successo di M5s e Lega complica il rapporto con l’Europa?

«Meno di quanto si pensi. Noi continuiamo a fare uno sbaglio: pensare che il problema siano le autorità europee. No, il problema sono i mercati, come si è visto nel 2011, quando le autorità europee lodavano Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi, e sono bastati tre mesi di impennata dello spread per capovolgere tutto».

Che scenario intravede? Se la sente di fare delle percentuali dei possibili governi?

«No, non me la sento. Credo che molto dipenderà dal Pd, ovvero da quanti Pd vi saranno fra qualche mese. Se ve ne sarà uno solo, non si potrà che tornare al voto. Se ve ne saranno due, vedremo se la spunterà quello assistenzialista, che vuole dare una mano al sud (e ai 5 stelle), o quello sviluppista, che vuole dare una mano al Centronord (e quindi al centrodestra)».

Quanto un governo a guida Di Maio con il sostegno del Pd aggraverebbe il bilancio dello Stato?

«Molto, perché anche il Pd è tentato dalla spesa in deficit».

Dobbiamo rassegnarci all’ennesimo governo del Presidente?

«Speriamo di no, abbiamo già dato. E poi Sergio Mattarella mi pare più arbitro di Giorgio Napolitano, che era chiaramente un giocatore in campo».

Quali sono le prime riforme che suggerirebbe al nuovo governo?

«Sgravi fiscali sui produttori, alimentati da una lotta senza quartiere contro gli evasori totali».

Che cosa consiglierebbe a Silvio Berlusconi che si chiede «adesso dove si va»?

«Di decidersi a scovare un successore».

Se si rivotasse entro un anno le tendenze del 4 marzo uscirebbero radicalizzate o ridimensionate?

«Dipende: se nel frattempo non succede nulla avremo un Parlamento fotocopia. Ma qualcosa succederà. Basta che non sia un nuovo 2011».

Intervista di Maurizio Caverzan per La Verità del 12 marzo 2018



Le due italie

Questa elezione non somiglia a nessuna di quelle della storia della Repubblica. Mai era successo che le forze antisistema (o percepite come tali) ottenessero la maggioranza dei consensi, mai era successo che il principale partito di destra e il principale partito di sinistra venissero scavalcati da partiti concorrenti più radicali. E questo esito, bisognerà prenderne atto, non è un frutto della legge elettorale: è lo specchio fedele delle scelte politiche dell’elettorato.

Il voto italiano, dunque, sembra nuovissimo e rivoluzionario. A ben vedere, tuttavia, lo è molto meno di quanto appare. Per certi versi, anzi, è un ritorno nella norma, e forse persino un ritorno al passato.

Ritorno nella norma, innanzitutto. Il dato che più ha colpito, e più fa discutere, è il netto sorpasso dei Cinque Stelle rispetto al Pd. Nel 2013 questi due partiti avevano ottenuto circa il 25% a testa, oggi i voti dei Cinque Stelle sono quasi il doppio di quelli del Pd. E, anche volessimo rendere il confronto meno umiliante per la sinistra tradizionale, e decidessimo di sommare tutti i partiti di centro-sinistra, dal Pd a Più Europa fino a Leu, il risultato non sarebbe consolante per il Pd: con il suo 26.2% la sinistra tradizionale resta ampiamente al di sotto del 32.7% dei Cinque Stelle. Ma è una stranezza, questo?

Non in Europa. Se si eccettua l’importante caso del Regno Unito, dove Corbyn sta guidando un partito laburista decisamente spostato a sinistra e privo di concorrenti, la sinistra tradizionale è quasi sempre sfidata da un partito “più a sinistra”, o comunque percepito come tale. In Francia i socialisti sono praticamente dissolti e brilla la stella di Mélenchon, leader di “La France Insoumise”. In Spagna Podemos e Izquierda Unida contendono il primato ai socialisti. In Grecia Syriza di Tsipras ha ormai soppiantato il Pasok, il vecchio movimento socialista di Papandreou. In Germania i socialdemocratici sono al minimo storico, un pelo sopra il 20%, e pesano più o meno quanto le due liste radicali della Linke e dei Verdi. Insomma, voglio dire che il Pd di Renzi, inebriato e drogato dal 40.8% delle Europee del 2014, era l’eccezione, non la regola. Ora siamo nella norma anche noi, qui in Italia.

La realtà è che le istanze di sinistra, dopo la lunga crisi iniziata nel 2007, ormai hanno quasi ovunque due espressioni: una tradizionale, che piace soprattutto ai ceti medi più o meno istruiti, urbanizzati e “riflessivi”, ed una populista, che attira il consenso dei ceti popolari e di chi si sente escluso. Questa spaccatura, in Italia, non contrappone il Pd agli altri, ma tutta la sinistra, compresi i radicali e Leu, al Movimento Cinque Stelle. E dentro questa spaccatura, il fatto curioso è che Pd e lista Bonino, che sembrano il vecchio, sono la componente più modernizzatrice ed europeista, mentre il Movimento Cinque Stelle, che sembra il nuovo, è la componente più anti-europea e anti-moderna, non a caso imbevuta di arcaismi come l’utopia della “decrescita felice”, di nostalgie come il culto di Berlinguer, di parole d’ordine stataliste e assistenziali come il reddito di cittadinanza.

Il problema della sinistra riformista, non solo in Italia, è abbastanza semplice da formulare ma difficilissimo da risolvere. Da molti decenni il primo partito della sinistra ha cessato di occuparsi seriamente dei ceti popolari ed è diventato un partito di ceto medio. La cosa poteva funzionare finché i benefici della globalizzazione eccedevano i costi, non funziona più da quando, con la crisi, non solo la globalizzazione ha mostrato il suo lato inquietante, ma è sorta un’offerta politica alternativa e concorrente con quella della sinistra modernizzatrice. Tradotto in politica italiana: finché i ceti popolari si limitavano a preferire il centro-destra alla sinistra (negli ultimi 30 anni), i dirigenti del Pd hanno ritenuto di potersene infischiare, ora che un’offerta politica con sembianze di sinistra assottiglia l’elettorato Pd, invece sono guai. E quando dico “infischiarsene” non uso le parole a caso: come altro descrivere un partito che, solo a pochi mesi dal voto sembra capire che l’accoglienza indiscriminata e caotica era una politica anti-popolare? Come altro descrivere un partito che, con gli 80 euro, ha scelto di sostenere il ceto medio dipendente (la sua base) e ha ignorato completamente i veri poveri, i cosiddetti incapienti (il nocciolo duro della base Cinque Stelle)? Come hanno potuto non capire che, se anziché distribuire bonus e spendere miliardi in accoglienza, fossero intervenuti risolutamente contro la povertà e contro l’immigrazione irregolare, oggi il risultato elettorale premierebbe il governo anziché punirlo? Mistero.

Ma non c’è solo ritorno alla normalità europea, nella disfatta Pd e nell’affermazione dei Cinque Stelle. C’è anche, per certi versi, un clamoroso ritorno al passato. Luigi Di Maio ha solennemente affermato “inizia oggi la terza Repubblica, quella dei cittadini”. Se però guardiamo alla cartina del voto del 4 marzo, quel che impressiona è la somiglianza con l’esito delle elezioni del 1992, l’anno che segna l’agonia della prima Repubblica. Oggi come allora l’Italia è sostanzialmente suddivisa in Padania, Etruria, Mezzogiorno (una tipologia che dobbiamo al compianto prof. Giacomo Sani, che la propose proprio per leggere il risultato del 1992), con la Lega egemone al Nord (Padania), la sinistra post-comunista arroccata nelle regioni rosse del centro (Etruria), e il Sud egemonizzato dal partito di maggioranza relativa: allora la Dc, oggi i Cinque Stelle, entrambi vicini al 30% dei consensi. La distribuzione del voto ai Cinque Stelle oggi ricalca, con precisione impressionante, la distribuzione del voto alla Dc nel 1992 (vedi grafico accanto).

Voglio dire, con questo, che il Movimento Cinque Stelle non è la nuova sinistra, ma è la nuova Dc?

In un certo senso sì. La correlazione fra i due voti è così stretta da rendere quasi inevitabile una lettura in chiave di sostituzione. L’elettorato del Mezzogiorno è da sempre abituato, anche per responsabilità delle sue classi dirigenti, a puntare sull’assistenza, sui sussidi, sulla spesa pubblica, sul posto fisso. Tutto ciò nel 1992 era fornito dalla Dc e dai suoi alleati del “Pentapartito”, oggi è promesso da un governo Di Maio che ancora non c’è e forse non ci sarà mai (anche se non tutti paiono averlo capito, viste le richieste di informazioni ai Caf: ma era già successo 30 anni fa, ai tempi del “Cacao Meravigliao”, un prodotto immaginario che i consumatori cercavano invano negli scaffali dei supermercati).

Per altri versi, invece, la situazione è molto diversa dal 1992.  Una differenza importante è che, oggi, il primo partito della sinistra ufficiale, è divenuto molto più “nordista”. Oggi il Pd è arroccato nei medesimi territori in cui lo era il Pds nel 1992, ma risulta relativamente più forte di allora in tutte le regioni del Nord (eccetto la Liguria).  Il Pd renziano, in altre parole, di fatto è un partito “nordizzato”, e lo è non solo negli insediamenti elettorali ma anche nelle scelte politiche: sotto Renzi la pressione fiscale è diminuita di poco, ma comunque è diminuita.

Ma la differenza più grande fra oggi e il 1992 è politica. Il 1992 fu, per molti versi, l’urlo del Nord contro la corruzione e l’oppressione fiscale, il 2018 è, prima di tutto, l’urlo del Sud contro l’abbandono di cui i cittadini meridionali si sentono vittime. Si potrebbe pensare che, se così stanno le cose, lo sbocco naturale di questa crisi sia un governo Cinque-Stelle, come nel 1992 lo sbocco della crisi fu la discesa in campo di Berlusconi e la nascita, nel 1994, del primo vero governo di destra in Italia. Ma il parallelismo è sbagliato. Il progetto di un governo Cinque Stelle, inevitabilmente caratterizzato dal varo del reddito di cittadinanza, non si scontra solo con il problema di trovare i voti in Parlamento (e i quattrini nel bilancio dello Stato), ma con la cartina geopolitica dell’Italia. Quel che non possiamo ignorare, è che nelle elezioni del 2018 c’è stato anche un altro urlo: l’urlo dei ceti produttivi del Nord e del Centro contro le tasse, la burocrazia, il disordine migratorio. Un urlo che, a differenza di quanto accadeva nel 1992, accomuna Nord e Centro, territori egemonizzati dalla Lega e territori egemonizzati dal Pd, spesso distinti gli uni dagli altri più per sensibilità e cultura politica che per l’adesione a progetti incompatibili. E’ praticamente impossibile che il reddito di cittadinanza, giusto o sbagliato che sia, non venga percepito, in quei territori, come l’ennesima tassa sui ceti produttivi destinata ad alimentare l’esercito degli scrocconi.

La mia impressione, insomma, è che il solco fra il Mezzogiorno, che oggi come ieri chiede più assistenza, e il resto del paese, che chiede più sicurezza e di essere messo in condizione di produrre, sia oggi molto più profondo che nel 1992: il voto di allora divise l’Italia in tre, quello di oggi l’ha divisa in due. Forse è da questo dato, prima ancora che da un deficit di senso di responsabilità, che possono derivare i nostri rischi maggiori per il futuro.