La quiete prima della tempesta?

Mentre i politici italiani, fra una consultazione quirinalizia e l’altra, non smettono di offrire ai cittadini lo spettacolo della loro inconcludenza, la realtà esterna al Palazzo è tutt’altro che immobile. I segnali che vengono dal mondo reale, tuttavia, non sono certo univoci. Sul versante dei consumi, nonostante la crisi e i suoi strascichi, il numero di famiglie che “non riescono ad arrivare alla fine del mese”, e quindi sono costrette a ricorrere ai risparmi o all’indebitamento, continua a diminuire. Sfioravano il 30% nel 2012-2013, al culmine della crisi dello spread, ora sono meno del 15%, il livello più basso da dieci anni. Sul versante della produzione, invece, si sente qualche scricchiolio. Giusto nei giorni scorsi l’Eurostat ha diffuso i dati della produzione industriale nell’eurozona, che per il terzo mese consecutivo segnalano un calo sia nell’eurozona stessa sia nell’Europa a 28. Anche in Italia la produzione è in calo (da 2 mesi), mentre le previsioni dei centri studi sulla dinamica del Pil nel 2018 diventano via via più caute.

Dove le cose si fanno più inquietanti, però, è sul versante finanziario. A livello europeo i timori sono legati a tre fattori fondamentali. Primo, l’inizio di guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina, ma anche, se non soprattutto, fra l’Europa e gli stati con cui commerciamo. Secondo, l’attesa di un aumento dei tassi di interesse non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa. Terzo l’esaurimento del Quantitative Easing (già alla fine di quest’anno) e la fine del mandato di Mario Draghi alla Banca Centrale Europea (alla fine del 2019).

Ai timori per le sorti dell’economia europea si aggiungono, in Italia, le incertezze e le preoccupazioni legate alla nascita del nuovo governo. Quel che inquieta non è tanto l’eventualità che il Paese stia per qualche mese senza un governo, o la facile previsione secondo cui il governo che verrà sarà debole e paralizzato dai dissensi interni, quanto il rischio che, a prescindere da quel che il nuovo governo effettivamente farà, e anche a prescindere da quel che la Commissione europea gli permetterà di fare, si riapra una fase in cui sono i mercati finanziari a dettare l’agenda politica al Paese.

Il fatto curioso è che i più acerrimi difensori della nostra sovranità, i più risoluti nemici della finanza internazionale e delle sue interferenze nella vita degli stati nazionali, sono i Cinque Stelle e la Lega, che però sono anche le forze che, con i loro programmi economici, hanno le maggiori probabilità di riconsegnare l’Italia all’arbitrio dei mercati e alla tutela delle autorità sovranazionali (la famigerata Troika, ossia Fondo Monetario, Bce e Commissione europea). Mentre i più preoccupati di una perdita di autonomia dell’Italia, se non di un vero commissariamento, paiono il Pd e Forza Italia, cioè precisamente le due forze che vengono accusate di subalternità verso i diktat dell’Europa.

Ma è reale il rischio di una nuova offensiva della speculazione verso l’Italia? Più precisamente: è realistico pensare che, di fronte a un esecutivo populista e anti-europeo, scatti una reazione a catena che, come nel 2011, possa distruggere la reputazione economica del Paese e mettere a repentaglio i suoi risparmi?

Per certi versi penso di no, soprattutto per un motivo: l’eventualità di un collasso dell’euro, profetizzata nel 2011-2012 da tanti luminari dell’economia, dopo il “whatever it takes” di Draghi (luglio 2012) sembra divenuta estremamente improbabile.

Ma per altri versi quella preoccupazione non andrebbe presa troppo sottogamba. Magari non si ripeterà il 2011, ma anche una crisi la cui entità fosse la metà di quella di allora sarebbe estremamente pericolosa. Finora abbiamo contenuto i nostri timori soprattutto sulla base di una circostanza: dopo il voto del 4 marzo lo spread dei titoli di Stato decennali dell’Italia con quelli della Germania è rimasto sostanzialmente invariato, intorno ai 130 punti base. Ma questa rassicurante staticità è altamente fuorviante. Se come termine di riferimento, anziché i titoli tedeschi, prendiamo quelli spagnoli e portoghesi (cioè quelli dei due Piigs a noi più comparabili), scopriamo che lo spread fra i nostri titoli e i loro era in miglioramento (diminuzione) fino al 2 marzo, il venerdì prima del voto, ed è in costante peggioramento (aumento) dal 5 marzo a oggi: il punto di svolta è esattamente il 4 marzo, giorno del voto. Apparentemente in sonno, i mercati di fatto hanno già reagito alla potenziale instabilità italiana.

Fonte: Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Bloomberg

Né le cose appaiono più rassicuranti se, anziché al comportamento dei mercati, guardiamo alla salute dei conti pubblici e ai fondamentali dell’economia. L’indice VS (elaborato dalla Fondazione Hume), che misura la vulnerabilità strutturale dei conti pubblici di un paese, segnala che, dopo un biennio di miglioramento, da circa 12 mesi la tendenza dei nostri fondamentali è di nuovo al peggioramento.

È vero dunque, come ha scritto qualche giorno fa Romano Prodi su questo giornale, che “ci troviamo ancora in una fase di quiete”, ma è ancora più vero (cito ancora Prodi) che “si tratta solo di un intervallo che, in quanto tale non sarà troppo lungo”. Il rischio è che, quella di oggi, sia la quiete che precede la tempesta.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 14 aprile 2018



L’Italia termidoriana

Si è tentati di parafrasare una frase caustica di Winston Churchill: «Processi politici e sistemi elettorali lasciateli agli esperti che non ne azzeccano una», leggendo in questi giorni gli articoli dei ‘competenti’ che invitano il PD a non lasciare il tavolo di gioco, rinchiudendosi in una sterile opposizione. In realtà, l’opposizione ha una funzione cruciale nella democrazia rappresentativa—in Inghilterra, non a caso, si parla di “Opposizione di Sua Maestà”! —ed ivi è sempre, e per definizione, responsabile—ovvero non fa mai mancare il suo voto quando si tratta di misure e di leggi in cui ne va di mezzo l’interesse nazionale. Ma non è su questo che voglio richiamare l’attenzione bensì su un malcostume che potrebbe definirsi ‘termidoriano’ e che, in Italia, è stato profondamente interiorizzato. Esso consiste nell’elaborare strategie di controllo della volontà del popolo sovrano attraverso norme costituzionali e leggi elettorali che non gli consentano di mandare al governo formazioni politiche che potrebbero minacciare i valori e gli interessi supremi della Repubblica. I termidoriani facevano colpi di Stato e cambiavano le regole del gioco per neutralizzare ora maggioranze monarchiche (fruttidoro) ora maggioranze democratico-giacobine (pratile). Tutto questo poteva essere giustificato in anni in cui non si era ancora riusciti a terminer la Révolution ma in periodi normali costituisce un grave vulnus per la democrazia, che non ha bisogno di guide responsabili ma di uno Stato che, col suo pluralismo istituzionale (divisione dei poteri, indipendenza della Pubblica Amministrazione, libertà della stampa, magistratura etc.) impedisca a quanti ricoprono cariche di governo, in virtù dell’investitura popolare, di attentare ai diritti dei cittadini. Non sono gli avversari politici dei ‘partiti inaffidabili’ a dover stabilire chi e come deve andare a Palazzo Chigi ma unicamente gli elettori.

Maggioranze molto orientate a sinistra o a destra non possono essere stoppate da bizantini meccanismi elettorali—suggeriti dai mass media, dagli opinion makers, da figure politiche considerate, non si sa bene perché, ‘risorse della Repubblica’—ma da regole semplici e trasparenti, di sicura efficacia anche se non prive di inconvenienti–come tutte le cose umane, ahimé. Non essendo un political scientist, ne conosco solo due: il proporzionale con elevato sbarramento (al 5%) e il maggioritario puro senza doppio turno. Il primo avrebbe sconsigliato ieri l’innaturale connubio della Margherita con il partito post-comunista–dei nipotini di Luigi Sturzo e di Alcide De Gasperi con quelli di Antonio Gramsci e di Palmiro Togliatti–e oggi l’abbraccio (forse mortale) di Forza Italia con la Lega di Salvini. Il secondo avrebbe riportato al centro l’asse della vita politica italiana senza violare l’ethos della democrazia e il principio di maggioranza che ne è alla base.

Tra i due mi pare preferibile il maggioritario. Certo può parere ingiusto che su dieci partiti in competizione, vinca quello che ha ottenuto il 20% dei suffragi mentre gli altri nove che rappresentano l’80% dell’elettorato rimangano esclusi dalla stanza dei bottoni, avendo ciascuno raccolto in media l’8,8% del consenso popolare. Il rimedio a questo inconveniente, però, non consiste in quel doppio turno che nasce appunto dalla doppiezza e non dall’onestà politica. Vediamo perché. Se vigente il maggioritario a doppio turno, si temesse che un partito della destra radicale—ma democratico se nessun tribunale lo ha sciolto—potrebbe ottenere il 45% dei suffragi, i suoi antagonisti, lo metterebbero fuori gioco inducendo estremisti e moderati, mangiapreti e ammazzaborghesi, classi alte e uomini dell’establishment a votare per lo stesso candidato. Se tutto questo sembra naturale, segno è di un ottundimento irrimediabile del senso morale.
Diverso sarebbe il caso del maggioritario puro. Qui gli opposti non sarebbero più costretti a matrimoni di convenienza ma, al contrario, sarebbero gli affini interessati a unirsi, superando quei fattori di divisione, che, in un sistema proporzionale, li porterebbero ad appoggiare partiti diversi ma contigui. A un forte candidato radicale, infatti, dovrebbero contrapporre candidature credibili in grado di essere bene accette al maggior numero di elettori e la cui forza non sia dovuta al controllo delle tessere e all’appoggio degli apparati ma a una riconosciuta competenza politica e amministrativa nonché al ruolo svolto nella vita civile. In tal modo, oltretutto, si avrebbe l’effetto collaterale di ridimensionare il potere dei partiti senza annullarne la funzione mediatrice, anch’essa importante in una democrazia a norma— Raymond Aron docet.

Come accade spesso nel nostro paese, invece, le riforme riescono a mettere insieme il peggio del vecchio e del nuovo e quella elettorale non fa eccezione. Ci ritroviamo, così, gli apparentamenti favoriti dal maggioritario, le divisioni del proporzionale e un alto indice di litigiosità tra i componenti della stessa coalizione. E i risultati sono l’ingovernabilità, l’incertezza, l’impossibilità stessa di attenersi al principio aureo della democrazia, quello della maggioranza. È più democratico dare l’incarico di governo a Matteo Salvini, capo della coalizione che ha avuto il più alto numero di voti ma è segretario della Lega votata da un numero di elettori che è la metà di quelli del M5S o è più democratico che a Palazzo Chigi vada Luigi Di Maio, leader di un partito che non è maggioritario? È un maremagno tutto pien d’imbrogli, per dirla con l’immortale Giuseppe G. Belli.

Il fatto è che, con buona pace di certi political scientist, poco interessati alla storia reale e intenti solo ad arabesche ingegnerie costituzionali–che, nel migliore dei casi, lasciano un segno ‘qual fummo in aere e in acqua la schiuma’—si ha paura degli estremisti (populisti di destra, di centro di sinistra) perché non c’è fiducia nelle istituzioni. È la mancanza dello Stato o, meglio, di un autentico Stato di diritto a far temere per il futuro. Se ci fosse lo Stato, l’irrompere del nuovo, per quanto indigesto, non susciterebbe alcuna apprensione, giacché in regime liberaldemocratico, lo spazio delle decisioni politiche è limitato: dalle leggi costituzionali, dai diritti civili, dalle garanzie di libertà. È l’invasione dell’amministrazione pubblica e della società civile da parte della politica—che i decreti Bassanini non hanno certo ridimensionato—a non farci dormire sonni tranquilli. E per ‘politica’ non intendo solo quella dei partiti: è politica anche quella di una parte della magistratura, che si assume un ruolo di supplenza di autorità assenti e corrotte e che, volendo bonificare moralmente il paese, non si limita al compito istituzionale di accertare un reato ma pretende anche di ‘snidarlo’ o di far valere, con le sue sentenze, diritti che i legislatori indugiano a riconoscere.

C’è Stato quando ogni organo opera in base ai ruoli che gli sono stati assegnati e ogni settore dell’edificio sociale si attiene ai suoi codici, «sotto la protezione delle leggi». Non c’è Stato quando un vigile urbano — Alberto Sordi nel vecchio film di Luigi Zampa del 1960– multando il sindaco (Vittorio De Sica), sente il fatidico «Lei non sa chi sono io!». Nel Rechtsstaat, il figlio di Metternich può essere bocciato e il figlio del macellaio di Metternich promosso, giacché, a scuola, Metternich è il professore. Se penso al giustizialismo ovvero al feeling del M5S con certe correnti della magistratura, c’è poco da stare allegri ma una democrazia sotto tutela, con il sigillo dell’establishment, non mi preoccupa meno.




Lega e Cinque Stelle, programmi incompatibili?

Buio totale. È passato quasi un mese dal voto e nessuno è in grado di dire se avremo un nuovo governo, o invece si tornerà alle urne. Quel che si comincia a intravedere, tuttavia, è che potrebbe, e il condizionale è d’obbligo, nascere un governo Cinque Stelle-Lega. Questa alternativa pare meno inverosimile delle altre.

Le ragioni per cui questa appare l’eventualità meno improbabile sono diverse. La prima è che, a quanto pare, il Centro-destra non ha alcuna volontà di restare unito, e di cercare in Parlamento i voti di cui ha bisogno, che sono molti di meno di quelli che occorrono ai Cinque Stelle. Se davvero avesse intenzione di restare unito, farebbe valere il fatto di essere risultato la coalizione con il maggior numero di voti (37.5% contro il 32.2% dei Cinque Stelle), e si presenterebbe con una delegazione unica al colloquio con il Presidente della Repubblica. Invece pare di no, andranno separati. Misteri della politica (almeno per me).

C’è anche un’altra ragione per cui un governo Di Maio-Salvini è meno improbabile di altre soluzioni. Ed è che l’unica alternativa numericamente possibile, ossia un governo Cinque Stelle-Partito democratico, pur essendo vagheggiata da molti (compresi Franceschini e Orlando, secondo i rumors dei giorni scorsi), sarebbe profondamente divisivo per il Pd. Se anche i nemici di Renzi dovessero avere la meglio, eventualità che nel clima restaurativo attuale non è da escludere, resterebbe, come freno, la necessità di evitare una sanguinosa spaccatura del Pd, un partito che tutto può permettersi tranne che di dividersi in un troncone governativo e uno di opposizione.

Supponiamo dunque che il governo Di Maio – Salvini, magari presieduto da un premier meno divisivo, veda la luce. Starebbe insieme un simile governo?

A giudicare dai programmi, si direbbe proprio di no. Flat tax e reddito di cittadinanza sono due ricette di politica economica opposte. La prima punta a rilanciare la crescita, puntando su ingenti sgravi fiscali sui produttori, prevalentemente insediati nel Centro-Nord. Il secondo punta ad attutire le conseguenze della mancata crescita, puntando su sussidi ai poveri, prevalentemente insediati nel Sud. A queste difficoltà si aggiunge la circostanza che quel che unisce Salvini e Di Maio, ovvero la ferma volontà di sfondare la barriera del 3%, non potrà che attirarci l’ostilità delle autorità europee e, presumibilmente, la diffidenza dei mercati. Per non parlare dell’ostacolo più prosaico: il nuovo governo dovrà trovare subito 12 di miliardi di euro per disinnescare l’aumento automatico dell’Iva, e forse altri 2-3 miliardi per non incorrere in una procedura di infrazione per deficit eccessivo.

E tuttavia…

Tuttavia ci sono discrete possibilità che questi ostacoli siano superati. Intanto perché se in qualcosa i politici non hanno rivali, è nel manipolare il racconto che fanno ai comuni cittadini (che poi i manipolati ci caschino, è un altro paio di maniche, e si scoprirà vivendo). Ne abbiamo già avuto parecchie avvisaglie in questi giorni. Dopo i proclami di assoluta incompatibilità, e dopo le promesse più avventate, verrà il tempo degli aggiustamenti. Salvini ha già cominciato ad aprire sul reddito di cittadinanza, purché sia “uno strumento per reintrodurre nel mondo del lavoro chi oggi ne è uscito”. Toninelli, capogruppo Cinque Stelle al Senato, ha già aperto sulla flat tax, purché sia “costituzionale” e “includa i poveri”. Per non parlare della legge Fornero, sulla cui abolizione o superamento i due partiti sono d’accordo fin da prima del voto.

Non è tutto però. A favore di un governo Cinque Stelle-Lega militano anche fattori, per così dire, paradossali. Uno è l’irrealizzabilità del programma. Sia per la Lega sia per i Cinque Stelle, un governo di coalizione, che limiti il potere del partner, è la migliore assicurazione contro il risentimento degli elettori traditi. Quando, fra qualche tempo, si scoprirà che la flat tax al 15% era una bufala, Salvini dirà che la colpa è di Di Maio, che ha frenato. E quando i cittadini del Sud si renderanno conto che il reddito di cittadinanza effettivamente attuato dal nuovo governo non vale molto di più del reddito minimo introdotto a suo tempo da Renzi e Gentiloni, Di Maio avrà buon gioco a dire che la colpa è di Salvini, che ha sempre remato contro.

Infine, un altro fattore paradossale che può, almeno all’inizio, favorire la nascita di un governo Cinque Stelle – Lega è il patriottismo anti-europeo. Proprio l’ostilità delle autorità europee a un esecutivo “populista” potrebbe essere un forte elemento di coesione di un governo esplicitamente schierato contro la “burocrazia di Bruxelles”. Un esito, questo, lungamente preparato da una stagione di demagogia anti-austerity che ha coinvolto quasi tutte le forze politiche, compreso il Pd renziano.

Poco male, se dovessimo solo incontrare le resistenze delle sempre più deboli, e meno autorevoli, “autorità europee”. Ma malissimo se, sull’onda dei rimproveri dell’Europa, del declassamento delle agenzie di rating, e di un repentino deterioramento dei conti pubblici, dovessimo incontrare l’ostilità dei mercati, che ogni anno ci prestano svariate centinaia di miliardi per rinnovare i titoli del nostro debito pubblico.

Il 2011 magari non si ripeterà, perché la storia non si ripete mai identica a sé stessa. Ma qualcosa dovrebbe averci insegnato.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 31 marzo 2018



Due Sinistre

Checché ne pensino i presunti vincitori, non esistono vincitori di queste elezioni. Solo mezze vittorie, o se preferite mezze sconfitte, perché sia il centro-destra sia i Cinque Stelle sono riusciti a raccogliere appena un terzo dei voti, e sono dunque lontanissimi sia dal 50% dei consensi, sia dal 50% dei seggi parlamentari. Se di vincitori non ce ne sono, in compenso uno sconfitto c’è, ed è il Pd, anzi è la sinistra tutta. Perché se è vero che il Pd ha più che dimezzato i voti del 2014, è altrettanto vero che le altre formazioni di sinistra sono andate decisamente male: malissimo i fuorusciti di Liberi e Uguali, che si sono dovuti accontentare di un misero 3.4% (più o meno il risultato di Sel nel 2013); male la Lista più Europa di Emma Bonino, che non è riuscita a raggiungere la soglia del 3%; penosamente i due cespugli alleati del Pd, che sono rimasti abbondantemente al di sotto della soglia dell’1%.

Ma il risultato più importante di questa tornata elettorale, a mio parere, è il cataclisma che ha investito l’elettorato della sinistra. Fino a ieri, per la maggior parte degli elettori esistevano il centro-destra, i Cinque stelle e la sinistra, con le sue varie anime e fazioni. Dopo il 4 marzo non è più così. Per molti è difficile ammetterlo, ma ormai la realtà è questa: una persona che si sente di sinistra si trova di fronte non una, ma almeno tre opzioni politiche fondamentalmente diverse: la sinistra riformista del Pd e di Più Europa, la sinistra conservatrice e nostalgica di Leu, la pseudo-sinistra o neo-sinistra dei Cinque Stelle. In parte era già così, perché molti elettori di sinistra da tempo avevano cominciato a votare Cinque Stelle, o a vedere con una certa simpatia chi lo faceva. Sono anni che, in una parte dell’elettorato progressista, i Cinque Stelle sono visti come una sorta di sinistra più pura, magari un po’ingenua e rozza, ma comunque meno compromessa con le logiche del Palazzo. E’ come se, agli occhi di una parte non piccola dell’elettorato progressista, ci fossero almeno due sinistre: quella tradizionale (Pd e fuorusciti), sostanzialmente identificata con l’establishment, e quella anti-establishment, più o meno adeguatamente rappresentata dai Cinque Stelle.

Questa doppia rappresentanza, riformista e populista, dell’elettorato progressista può non piacere a molti. Però bisogna rendersi conto che non è un’anomalia italiana. Una sinistra populista, che contende il primato alla sinistra tradizionale, esiste anche in altri paesi mediterranei, in particolare in Grecia (con Syriza) e in Spagna (con Podemos). La particolarità dei Cinque Stelle è di essere riusciti, finora, a nascondere la loro matrice principale che, secondo la stragrande maggioranza dei sondaggi degli ultimi anni, è più di sinistra che di destra. Le elezioni del 4 marzo hanno semplicemente reso evidente, per non dire plateale, l’esistenza in Italia di (almeno) due sinistre, fra le quali, che lo voglia o non lo voglia, l’elettorato progressista è chiamato a scegliere.

Questo disvelamento non disturba i Cinque Stelle, che non perdono certo il loro elettorato di destra per il solo fatto di attirare sempre più voti da sinistra: l’adattività del movimento di Grillo, il suo camaleontismo ideologico, sono oramai leggendari. Disturba invece profondamente il Pd, che credeva di avere solo il manipolo di Liberi e Uguali alla propria sinistra, e si trova improvvisamente con un vicino scomodo, molto scomodo, come i Cinque Stelle, una formazione che non si lascia facilmente descrivere in termini di destra e sinistra, ma indubbiamente compete con il Pd per attirare il voto dell’elettorato che “si sente” di sinistra.

Il Pd sembrava, fino a pochi anni fa, essere rimasto l’unico vero partito, organizzato e radicato in tutto il territorio nazionale. Ora che i Cinque Stelle hanno sfondato in tutta la penisola, e la stessa Lega è sbarcata in forze nelle regioni del centro-sud, si trova completamente spiazzato.

Che cosa lo ha ridotto a quello che oggi è? Come è stato possibile, nel volgere di meno di 4 anni, passare dal 40.8% dei consensi alle Europee (2014) al 18.7% delle Politiche?

La risposta facile è: Renzi, solo Renzi, nient’altro che Renzi. E c’è del vero in questa risposta. E’ stato Renzi, in un solo anno, a portare il Pd dal deludente 25.4% di Bersani al 40.8% del trionfo europeo. Ed è stato il medesimo Renzi, da allora, a commettere una serie impressionante di errori politici e comunicativi, a partire dal bullismo mediatico con cui ha condotto la campagna referendaria.

Però sarebbe riduttivo, e alquanto ingiusto, caricare il solo Renzi del disastro del 4 marzo. Non tanto perché, scissionisti a parte, sono stati ben pochi coloro che alle scelte di Renzi si sono opposti, ma perché la crisi del Pd fa parte di una storia molto più grande, e più incisiva, della mera stagione renziana. La crisi del Pd, a mio parere, ha almeno due grandi e lontane radici.

La prima è la progressiva trasformazione del Pci, “partito della classe operaia”, in una sorta di “partito radicale di massa”, un processo che il grande filosofo cattolico Augusto del Noce intravide già una quarantina di anni fa. In questi decenni il partito comunista e i suoi eredi sono divenuti sempre più i rappresentanti dei ceti medi riflessivi, istruiti e urbanizzati, affascinati dalle grandi battaglie sui diritti civili e ben poco interessati ai problemi che angustiano i ceti popolari: povertà, sicurezza, criminalità, immigrazione. Fra le ragioni dell’insuccesso della lista Bonino c’è anche, molto semplicemente, il fatto che un partito radicale ed europeista esisteva già, ed era il Pd renzizzato, imbevuto di retorica dell’accoglienza e di “grandi battaglie di civiltà”.

La seconda radice della crisi del Pd ha a che fare, invece, con l’evaporazione della forma partito. I dirigenti di quel partito paiono non essersi resi conto che, oggi, la rappresentanza politica è sempre meno di classe e di ceto, e sempre di più, semplicemente, di interessi e pretese forti, non importa quanto integrate in un disegno organico, non importa quanto espressione di blocchi sociali omogenei: flat tax, abolizione della legge Fornero, reddito di cittadinanza, reintroduzione dell’articolo 18, stop all’immigrazione irregolare. Questo è il tipo di cose che gli elettori comprendono, questo è il tipo di cose per cui sono pronti a concedere una chance a chi li governerà, senza andare troppo per il sottile riguardo alle alleanze e alle ascendenze ideologiche.

Del Pd si può apprezzare la (relativa) sobrietà dei programmi, anch’essi costosi e irrealistici ma non quanto quelli dei suoi avversari. Ma non si può non notare due tratti inconfondibili, che hanno informato tutta la campagna elettorale: la mancanza di una meta significativa specifica, e un racconto dell’Italia autocelebrativo e iper-ottimistico, del tutto sganciato dalla realtà, specie per i territori e i ceti più periferici.

Questo doppio limite, mancanza di idee e scarso contatto con la realtà, non è certo un’esclusiva della gestione di Renzi: è il marchio di fabbrica della rottamazione, un’operazione che ha portato alla sostituzione di un ceto dirigente mediocre e attempato con un esercito di modesti apprendisti dell’arte politica.

E’ successo, così, che anche il Pd di Renzi finisse per offrire alla sua base la stessa cosa che, da alcuni decenni, il maggior partito della sinistra offre a chi lo vota: identità, autostima, considerazione di sé. Basate sulle certezza di essere la parte migliore del paese, quella che è aperta, razionale, moderna, non teme l’Europa e la globalizzazione, vuole l’accoglienza e si batte per le grandi questioni civili. Una bella offerta, indubbiamente. Che tuttavia, dopo un decennio di crisi, pare interessare ancora intellettuali, artisti, docenti, giornalisti, dipendenti pubblici, “ceti medi riflessivi” in genere, ma a quanto pare non scalda più il cuore dei ceti popolari.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 24 marzo 2018



Due stati

Di una frattura fra Nord e Sud si parla da quando esiste lo Stato italiano, dunque dal 1861. Il modo in cui se ne parla, le modalità con cui la si declina, le linee lungo le quali se ne tracciano i confini, sono invece piuttosto mutevoli.

Fino agli anni ’50 del Novecento, fondamentalmente, il problema è stato pensato come “questione meridionale”, una grande sfida politica che ha appassionato legioni di meridionalisti, fin dalla fine dell’800: da Giustino Fortunato a Francesco Saverio Nitti, da Antonio Gramsci a Pasquale Villari, da Gaetano Salvemini a Pasquale Saraceno. Nel meridionalismo classico il Sud da sostenere e sviluppare coincideva con l’intero Mezzogiorno statistico (inclusi Abruzzo e Sardegna), e arrivava talora ad includere le aree più depresse del Lazio, oggetto anch’esse di attenzione da parte della Cassa del Mezzogiorno. Questo confine fra le due italie sarà poi ribadito e precisato dagli studiosi di scienza politica, che sulla scorta del famoso libro di Robert Putnam sulla “tradizione civica” delle regioni italiane (1993), fisseranno la linea di demarcazione fra l’Italia arretrata, che non ha avuto la civiltà comunale e perciò scarseggia di fiducia interpersonale, e l’Italia civica, in cui la civiltà comunale ha creato le condizioni dello sviluppo, lungo la linea che va dalla foce della Fiora (sud della Toscana) alla foce del Tronto (sud delle Marche). E sarà un politologo italiano, Roberto Cartocci, a mostrare che quel confine coincide con impressionante precisione con quello del voto di scambio, o clientelare, che si concentra a Sud di quella linea ideale.

Questa visione di un’Italia divisa in due, con il Sud (più o meno allargato) da un lato, e il Centro-Nord (più o meno ristretto) dall’altro non è mai venuta meno. Il problema, per gli studiosi, riguardava solo la questione dei confini esatti fra le due italie, perché due regioni, Lazio e Marche, si venivano spesso a trovare “a cavallo” fra il Centro-Nord e il Sud.

Accanto a questo filone di pensiero, sostanzialmente dualista, a partire dagli anni ’60 si è sempre più irrobustito un altro modo di descrivere l’Italia, più legato agli esiti elettorali. Secondo questo modo di vedere l’Italia elettorale era suddivisa in più di due aree relativamente omogenee: almeno quattro secondo alcuni, tre secondo altri. L’elemento comune di queste analisi, dovute soprattutto all’Istituto Cattaneo, ad Arnaldo Bagnasco e a Giorgio Fuà, era di vedere il centro-Nord come un luogo relativamente eterogeneo, suddiviso fra regioni di antica industrializzazione (Piemonte, Lombardia, Liguria), dominate dalla grande impresa, e regioni della terza Italia, dominate dalla piccola impresa, e divise quasi esclusivamente dalla cultura politica, con il Triveneto cattolico contrapposto alle Regioni rosse.

Nel 1992-1994, con la fine della prima Repubblica e la netta vittoria del centro-destra nelle regioni settentrionali, lo schema delle molte italie subisce una nuova e ulteriore torsione: ora la frattura fondamentale pare innanzitutto fra il Nord, produttivo e insofferente per l’oppressione fiscale, e il resto del Paese. E infatti da allora, e per molti anni, si parlerà di “questione settentrionale”, e il federalismo fiscale diventerà nel giro di pochi anni una specie di tema fisso della politica italiana.

Ma che cosa accade il 4 marzo 2018? Che tipo di paese è quello che esce dalle urne?

A mio parere è un paese che torna ad essere spaccato essenzialmente in due, fra il Sud e il resto della penisola, come era risultato nitidamente nel 1992, ultime elezioni della prima Repubblica. Allora il Sud si distingueva dal resto d’Italia perché vi resisteva la Democrazia cristiana, esattamente come oggi il Sud si distingue dal resto d’Italia per l’insediamento dei Cinque Stelle. Ed è impressionante la precisione con cui la carta geopolitica di oggi riflette quella di allora, regione per regione, provincia per provincia: i Cinque Stelle hanno sfondato là dove maggiore era la forza della Dc. L’unica differenza significativa è che oggi le Marche sono, per così dire, annesse al Mezzogiorno grillino, mentre il Lazio è annesso al centro-nord presidiato dal centro-destra e dal Pd.

Abbiamo provato a metterle a confronto, queste due italie che il voto del cinque marzo ci ha consegnato, e l’esito non potrebbe essere più nitido: un abisso le divide in termini di reddito, occupazione, povertà, evasione fiscale, peso dei dipendenti pubblici, infrastrutture, funzionamento della giustizia, partecipazione elettorale, istruzione, asili nido, percentuale di Neet (giovani che non studiano, non lavorano, non stanno imparando un lavoro). Solo su una variabile, l’accesso alla banda larga, il Mezzogiorno appare più avanti del resto del Paese.

*Lazio: valore stimato (dati non definitivi)
Fonte: elaborazioni Fondazione Hume su dati Istat, RGS, Ministero della Giustizia, Ministero dell’Interno, Mise – Piano strategico Banda Ultra Larga,
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Ferrovie dello Stato e CGIA di Mestre

È come se, in Italia, coesistessero due Stati, che in oltre 150 anni non sono riusciti in alcun modo a raggiungere un accettabile livello di convergenza.

Ma se siamo di fronte a due Stati, con economie e strutture sociali radicalmente diverse, forse sarebbe giunto il momento di prenderne atto nel solo modo conseguente, ovvero pensando a due politiche economiche radicalmente diverse per queste due italie. Proprio perché tutto è profondamente diverso, risulta difficile pensare che un’unica ricetta vada bene per tutto il paese. Prendiamo il tema delle tasse. Qualcuno si può stupire che la flat tax non abbia sedotto gli elettori meridionali? Quel problema il Mezzogiorno l’ha risolto da sempre autoriducendosele, le tasse. Il problema, semmai, sono le “condizioni al contorno” dell’attività economica: infrastrutture precarie o incomplete, mancanza di asili nido, una sanità disastrata, una scuola di bassa qualità, una burocrazia inefficiente nonostante l’eccesso di personale. Forse è di qui che una politica per il Mezzogiorno dovrebbe prendere le mosse. Naturalmente il Mezzogiorno ha anche bisogno, e da subito, di più posti di lavoro, proprio per far sì che il reddito minimo (impropriamente chiamato reddito di cittadinanza) sia l’unica prospettiva. Ma come fare?

Un’idea potrebbe essere di riprendere, magari solo per il Mezzogiorno, la proposta del maxi-job che la Fondazione David Hume aveva lanciato nel 2014, e che era stata raccolta sia da Susanna Camusso sia da Giorgia Meloni: azzerare tutti i contributi sociali non già per chi, genericamente, assume, ma per quelle imprese che aumentano l’occupazione e lo fanno con lavori veri, a tempo pieno o quasi pieno (di qui il prefisso maxi, che si contrappone ai mini-job della Germania). Un’altra idea, e in un certo senso una misura complementare ai maxi-job, potrebbe essere di favorire l’occupazione femminile nel Mezzogiorno (dove è a livelli bassissimi) con un grande piano di costruzione di asili nido, che oggi sono drammaticamente scarsi (1 bambino su 9).

Un ragionamento analogo e speculare, probabilmente, meriterebbe di essere fatto per il Centro-Nord. Qui una misura chiave sarebbe disboscare la selva degli adempimenti burocratici, e rendere più rapido il rilascio di permessi e autorizzazioni, specie in ambito edilizio e nel commercio. Quanto ai bilanci delle imprese, più che sul contenimento del costo del lavoro, forse sarebbe meglio puntare direttamente sulla riduzione dell’imposta societaria (Ires e Irap). L’evidenza econometrica suggerisce che, se si vuol accelerare la crescita del Pil, è molto più efficiente puntare sulla riduzione delle tasse sui profitti che ridurre la pressione contributiva, o la pressione fiscale in generale.

Con le risorse degli 80 euro e della decontribuzione (circa 20 miliardi l’anno), anziché sostenere gli stipendi di chi un lavoro già ce l’ha, forse sarebbe stato meglio pensare a una più drastica riduzione dell’imposta societaria, e a un sostegno ai veri poveri, ossia a chi guadagna così poco da non poter usufruire di alcuno sgravio fiscale. Certo, lo si sarebbe dovuto fare mirando alla povertà assoluta, anziché alla povertà relativa, e tenendo conto del livello dei prezzi, come proposto a suo tempo dall’Istituto Bruno Leoni: un sussidio di 500 euro a Caltanissetta pesa molto di più, in termini di potere di acquisto, di un sussidio di 500 euro a Milano.

Se il Pd lo avesse fatto, probabilmente l’economia italiana e l’occupazione avrebbero ricevuto una spinta maggiore, e il Sud, in cui si concentrano la maggior parte dei poveri assoluti, si sarebbe sentito meno solo. Il successo dei Cinque Stelle è anche il frutto di anni di superficialità, omissioni, e slogan vuoti nelle politiche per il Mezzogiorno.

Pubblicato su Panorama il 15 marzo 2018 con il titolo “Le due Italie”.