A chi interessa la sorte di Satnam Singh?

Possiamo starne certi, nel giro di pochi giorni della sorte di Satnam Singh, ucciso dallo spietato egoismo del suo datore di lavoro, non si parlerà più. Eppure dovremmo renderci conto che quella del lavoro sottopagato e iper-sfruttato nei campi di raccolta
è solo la punta di un iceberg. Qualche anno fa, cercando di descrivere la struttura della “società signorile di massa”, avevo anche provato a contarli, usando la (scarsa) informazione statistica disponibile. Il risultato, stimato per difetto, fu 3.5 milioni di
persone, circa 1 occupato su 7. Era il 2019, il governo giallo-rosso aveva da poco preso il posto di quello giallo-verde.

Questa infrastruttura para-schiavistica non è un mero retaggio del passato, un pezzo della società italiana non ancora “incluso”. Tutto al contrario, è un arcipelago di comparti produttivi, spesso irregolari o illegali, essenziali al funzionamento della nostra società per il resto relativamente benestante quando non opulenta. La cosa sconcertante è che nessuno se ne occupa davvero, salvo protestare, indignarsi, promettere interventi quando un fatto di cronaca estremo costringe a vedere quel che
non si vuol vedere. Ma perché nessuno vuole vedere?

Le ragioni sono tante, e non sono sempre le stesse nei vari comparti. Ma alcuni fattori sono comuni, o preponderanti.
Il più importante, a mio parere, è che solo una parte della infrastruttura paraschiavistica è rimovibile senza chiudere aziende e distruggere attività economiche. Questo, in particolare, è il dramma del comparto agricolo: i prezzi di vendita dei prodotti agricoli, anche a causa delle scelte della PAC (politica agricola comune), non sono in grado di coprire adeguatamente il costo degli input fondamentali (mangimi,sementi, fertilizzanti, fitofarmaci, carburanti agricoli). Di qui una pressione al ribasso sui salari e il largo ricorso al lavoro stagionale in nero, che non si limita a tenere basse le paghe orarie ma permette enormi risparmi sul versante previdenziale e dei diritti dei lavoratori (ferie, malattia, permessi, tredicesima, liquidazione).

Un altro fattore rilevante sono le scelte dei sindacati e dei politici, sotto qualsiasi governo. I primi, comprensibilmente, trovano più facile e conveniente occuparsi di assistenza fiscale, pensionati, operai e impiegati delle imprese grandi e medie (e sconcerta che, in occasione del dramma di Satnam Singh, siano riusciti a indire manifestazioni separate e litigare ferocemente fra loro). Quanto ai politici, per forma mentis e anche qui per convenienza, preferiscono credere che la loro missione sia approvare nuove leggi sulla carta giustissime, piuttosto che garantire l’applicazione delle leggi esistenti attraverso gli strumenti ordinari (ispettorati, magistratura, forze dell’ordine). Forse, prima di chiedersi quali nuove norme introdurre, dovrebbero cercare di capire come mai quelle in vigore restano sistematicamente inapplicate, e questo nonostante quasi sempre le situazioni di iper-sfruttamento e illegalità siano visibili ad occhio nudo.

Sindacati, politici, apparati pubblici, magistrati, forze dell’ordine, nessuno può chiamarsi fuori. L’elenco delle responsabilità, però, non sarebbe completo se non menzionassimo anche noi stessi: società civile, opinione pubblica, mass media. È un fatto che, negli ultimi decenni, la cultura dei diritti ha progressivamente relegato ai margini i diritti sociali classici (a partire da quelli nella sfera lavorativa), concentrando l’attenzione sui diritti civili e di specifiche minoranze degne di protezione, tutela, rispetto. Il concetto di inclusione, che in origine indicava l’imperativo di tutelare i “non garantiti” del mondo del lavoro in quella che stava
diventando una “società dei due terzi” (felice espressione dovuta a Peter Glotz), è stato sempre più declinato in una chiave individualistica, come se i problemi centrali del nostro tempo fossero diventati quelli del riconoscimento, anziché quelli classici
dello sfruttamento capitalistico.

Lo so, conosco l’obiezione: diritti civili e diritti sociali possono avanzare insieme. Ed è vero, almeno in parte. Ma il fatto è che la soluzione dei grandi problemi dipende anche da quanta attenzione, quanta vigilanza, quanto interesse cittadini e mass media
riservano a determinati drammi sociali piuttosto che ad altri. E il nostro più grande dramma, quello di una infrastruttura para-schiavistica gigantesca, che pesa su milioni di lavoratori e sulle loro famiglie, di attenzione ne ha ricevuta sempre di meno. Se a
questo dramma avessimo riservato anche solo un decimo dell’attenzione che siamo abituati a riservare ai diritti delle minoranze sessuali e alle diatribe sul linguaggio politicamente corretto, forse non saremmo al punto in cui siamo.

[articolo uscito sul Messaggero il 30 giugno 2024]




La coerenza non è più una virtù, né tra i politici né tra gli elettori

Negli ultimi 30 anni, come sappiamo, i sondaggi hanno iniziato ad occupare un posto rilevante in tutti gli ambiti, in quello politico come in quello economico, nel marketing come nell’analisi della società. Ma i sondaggi sono infidi, non è semplice né saggio guardare alle stime che vengono prodotte come ad una sorta di oracolo, come a risultati privi di qualsiasi distorsione (o bias), immediatamente rappresentativi delle opinioni della popolazione cui si fa riferimento. Perché esistono molti motivi per osservarli con una certa diffidenza, per non credere (troppo) alle opinioni che vengono espresse in una indagine demoscopica.

Uno di questi motivi, che diventa talvolta cruciale nel campo della comunicazione politica, è quello della mancanza di opinioni “costanti” da parte degli elettori: nell’epoca in cui regnavano incontrastate le ideologie, esisteva una sorta di pensiero esclusivo, opinioni e atteggiamenti pressoché costanti nell’accostarsi ai fenomeni sociali o politici, guidati dalla propria ideologia, dalla
propria visione del mondo, che difficilmente mutavano: parallelamente alla fedeltà di voto, rimaneva fedele anche il modo di vedere le cose, di manifestare la propria adesione quasi incondizionata ad una scelta specifica. Come cantava Giorgio Gaber: “Mio nonno si è scelto una parte che non cambia in ogni momento, voglio dire che c’ha un solo atteggiamento” (Gaber, G., Il
comportamento, 1976). Ma poi, con la fine delle ideologie, con la secolarizzazione, con il costante aumento dei mezzi di
informazione e di comunicazione (soprattutto sul Web), con il progressivo indebolirsi delle tradizionali agenzie di socializzazione primarie e secondarie (famiglia, scuola, fabbrica, ecc.), con la atomizzazione lavorativa e dei rapporti individuali le cose sono cambiate. La frammentazione delle esperienze e l’atomizzazione sociale rendono l’individuo più debole nelle sue certezze più
profonde, e propenso a sperimentare identità e opinioni differenti, in una sequenza sempre più rapida e per forza di cose più superficiale. Così, in questo periodo politico-sociale, le possibili visioni del mondo si fanno sempre più labili, aleatorie, preda della “narrazione”, dello story-telling dei leader politici che, anch’essi, cambiano repentinamente idee e opinioni a seconda delle conseguenze o dei mutati scenari politici.

È forse Matteo Salvini l’emblema più riconosciuto dell’incoerenza nel tempo delle proprie opinioni, l’uomo politico che più si è rimangiato affermazioni apodittiche su molti argomenti. Nel corso dell’ultimo decennio, sono state parecchie le idee da lui espresse su alcuni temi che verranno completamente ribaltate dopo poco tempo. Tra i numerosi ultimi esempi, quello sul
ponte sullo Stretto: pochi anni orsono il segretario leghista si era dichiarato fermamente contrario alla sua costruzione, mentre da qualche mese continua – ai giorni nostri – ad esserne il principale sponsor. Ancora più ravvicinato nel tempo il cambiamento di opinione sull’abbassamento dei limiti di velocità nelle grandi città: giusto un anno fa ha indicato come prima cosa “l’implementazione di zone 30”, al fine di “mitigare le differenze di velocità esistenti tra pedoni e traffico motorizzato”; oggi si scaglia in maniera veemente contro Bologna, in particolare, paradossalmente rea di aver aderito e applicato proprio la sua direttiva. Un comportamento che somiglia molto allo stesso trasformismo della Lega, tempo fa soltanto “Nordista” e con una netta ostilità nei confronti della destra estrema e neo-fascista, oggi coalizzata con tutte le forze politiche europee di quell’area: una “Lega Nazionale”. Ma poi ancora, dopo il recente provvedimento sull’autonomia differenziata, paiono ritornare presenti le “bandiere” regionaliste, in un continuo ribaltamento degli accenti. Ma ammettiamo pure che un leader politico possa mutare opinione su una serie di argomenti, spesso difendendo questo mutamento con l’idea che soltanto gli stolti non cambiano mai idea, il che è tutto da dimostrare, peraltro.

La cosa però interessante, e forse un po’ preoccupante, è che nel tempo anche il suo elettorato tenda poco alla volta ad uniformarsi anch’esso alla “nuova” opinione che professa il suo partito o il suo segretario. Gli esempi che si possono fare sono alquanto indicativi, e non riguardano soltanto Salvini e il suo partito, ma anche molte delle altre forze politiche. Il Partito Democratico, ad esempio, quando nel 2019 venne ratificato il Reddito di Cittadinanza, votò a sfavore con dichiarazioni molto pregnanti e sdegnate, come se fosse un’elemosina di stato; poi nell’ultimo anno, quando il governo Meloni lo abolì, si schierò al contrario contro l’abolizione, anche in questo caso con prese di posizione molto sdegnate. Ebbene, l’elettorato del PD nel corso degli ultimi tre-quattro anni ha progressivamente mutato anch’esso il proprio pensiero, passando da un livello di favore per il reddito di cittadinanza del 25% nel 2020 alla quota del 70% espresso nel momento della sua abolizione del 2023 (Tab.1).

Tab. 1 – GIUDIZIO SUL REDDITO DI CITTADINANZA – ELETTORATO PARTITO DEMOCRATICO

 

 

 

Allo stesso modo, le opinioni prevalenti nell’elettorato Pd qualche settimana dopo l’invasione russa (marzo 2022) parevano nettamente contrarie all’invio di aiuti militari all’Ucraina, mentre oggi la stragrande maggioranza, dopo la costante campagna favorevole del partito, è dell’idea praticamente opposta (tab.2).

Tab. 2 – SOSTENERE LA RESISTENZA UCRAINA FORNENDO AIUTI MILITARI ELETTORATO PD

 

 

 

L’elettorato del Partito Democratico, ovviamente, non è certo il solo a venir condizionato così fortemente dalle giravolte dei vertici di partito. Sempre a proposito della guerra in Ucraina, gli elettori vicini al Movimento 5 stelle erano inizialmente allineati con il resto degli italiani nell’appoggiare l’impegno ucraino nella resistenza contro l’invasione russa (78%); passati alcuni mesi, con la ripetuta presa di posizione di Giuseppe Conte contro il coinvolgimento italiano, la maggioranza dei pentastellati passa in maniera evidente su posizioni “equi-distanti”, molto più favorevoli ad un abbandono delle armi da parte degli ucraini (72%), rispetto al passato.

Ma il caso certamente più eclatante di cambiamento di opinione è quello degli elettori di Fratelli d’Italia, da sempre contrari – con una maggioranza vicina al 65% – a restare nella UE e nell’orbita Euro, ma approdati dopo la svolta atlantista ed europeista di Giorgia Meloni alla rapida accettazione di entrambi gli obiettivi. Una situazione molto simile a quella dei simpatizzanti per il
Movimento 5 stelle, protagonisti di una veloce trasmigrazione dal No-Euro al Sì-Euro, sebbene rimanga ancora qualche remora, nel 20-25% degli attuali votanti di Giuseppe Conte (Tab.3). Per tacere infine sulle opinioni relative alla guerra in Ucraina o sul conflitto tra Israele e Hamas, opinioni mutevoli a volte solamente per avallare mutazioni di convenienza politica.

Tab. 3 – FAVOREVOLI ALLA PERMANENZA DELL’ITALIA NEL SISTEMA DELL’EURO , IN %

 

 

 

Una situazione come si è visto abbastanza paradossale: se i leader politici cambiano spesso idea per motivi più che altro tattici o strategici, non certo per profonde conversioni, rimane piuttosto difficoltoso comprendere queste stesse ri-conversioni in cittadini, uomini e donne, che non sono chiamati a rispondere in prima persona a progetti o alleanze tra le forze politiche che a volte
“impongono” queste micro-rivoluzioni di pensiero. È come se gli elettori non avessero maturato opinioni nel profondo e, solamente, si adeguino a ciò che per loro decidono i loro partiti di riferimento: una volta, si diceva che questi ultimi “dettavano la linea” cui occorreva adeguarsi, rinunciando alle proprie idee, se per caso ci fossero state. Pensiamo ad esempio all’evidente
conflitto sul divorzio che esisteva tra elettori democristiani (ma anche comunisti) e vertici di DC e PCI.
Ma se allora esistevano ancora Weltanscauung, visioni del mondo forti, solide e discriminanti, oggi pare che gli elettorati di (quasi) tutte le forze politiche, senza più grandi ideologie di riferimento, siano in balìa dello storytelling dei propri leader, a volte in perenne mutazione.

Fonte dei dati: Ipsos




La frattura tra ragione e realtà 7 / Il fallimento degli esperti di guerra – Parte prima: Ucraina

Dalla pessima gestione del Covid i governanti occidentali e gli esperti che dovrebbero consigliarli sembrano non avere imparato nulla, tant’è vero che stanno ripetendo gli stessi errori anche nella gestione di altre emergenze cruciali, come le guerre in Ucraina e Palestina, dove, continuando così, rischiamo di far vincere i nostri nemici, con conseguenze disastrose. Alla base di tutto c’è sempre la drammatica frattura tra ragione e realtà che caratterizza il nostro strano tempo e da cui non sembrano essere immuni nemmeno gli esperti di geopolitica e gli stessi vertici militari. Qui parlerò dell’Ucraina, mentre in un prossimo articolo mi occuperò della Palestina.

Covid, una lezione non appresa

La quarta di copertina di Covid, la lezione del Pacifico, libro che ho scritto insieme a Silvia Milone e Loredana Parolisi raccogliendo gli articoli più significativi da noi pubblicati su questo tema nel sito della Fondazione Hume, si chiudeva spiegando che riflettere su quanto era accaduto era importante «non solo per capire gli errori commessi, ma soprattutto per non ripeterli quando dovremo affrontare problemi ben più gravi come quelli ecologici, che potrebbero portare alla fine della nostra civiltà».

Ciò continua ad essere vero e negli ultimi articoli ho iniziato a documentarlo, ma nel frattempo si è aggiunto un altro fattore di rischio allora difficilmente prevedibile: la guerra in Ucraina, a cui negli ultimi mesi si è aggiunta quella in Palestina.

Era invece (purtroppo) prevedibile che anche in questo caso gli esperti o presunti tali non ci avrebbero aiutato, come è puntualmente accaduto, se possibile in misura ancor più ampia che col Covid (con poche lodevoli ma isolate eccezioni, come per esempio Vittorio Emanuele Parsi). Ma che fosse prevedibile non lo rende meno grave, né, soprattutto, meno preoccupante, in particolare per quanto riguarda l’Ucraina: perché in Ucraina (e non in Palestina) ci stiamo giocando la pelle e per quel che si vede sembra che nemmeno ce ne rendiamo conto. È quindi fondamentale cercare di capire cosa sta succedendo nella testa di quelli che dovrebbero aiutarci a fare le scelte giuste e invece continuano a portarci sistematicamente fuori strada.

Premesso che alla base di tutto c’è sempre la frattura tra ragione e realtà a cui è dedicata questa serie di articoli, essa però a seconda delle situazioni si manifesta in modi diversi, che andremo ora a discutere. Tuttavia, per molti aspetti anche nelle due guerre in corso si stanno ripresentando dinamiche già viste con il Covid, la cui lezione evidentemente non è stata affatto appresa.

Gli errori sul Covid sono stati causati essenzialmente da cinque fattori:

1) anzitutto le regole perverse del sistema mediatico, che sceglie i suoi ospiti fissi principalmente in base alla loro disponibilità a spararle grosse e ad alimentare la rissa anziché il dialogo;

2) quindi il desiderio di visibilità, che ha spinto molti pseudo-esperti ad accettare di occuparsi di cose che non conoscevano bene e molti veri esperti a piegarsi alle regole del sistema suddetto;

3) la pessima lettura, quando non addirittura la completa non considerazione, dei dati statistici;

4) la conseguente tendenza a trattare come eventi naturali ineluttabili fenomeni che erano in realtà mere conseguenze delle nostre scelte;

5) infine, la non comprensione del fondamentale principio enunciato da Ricolfi per cui «se vuoi fare qualcosa, più tardi lo fai, più costerà caro a tutti» (La notte delle ninfee, p. 21), che ci ha portato a rincorrere gli eventi anziché anticiparli.

Oggi le stesse perverse dinamiche si stanno ripetendo anche nelle altre crisi che ci troviamo ad affrontare, a cominciare dalla guerra in Ucraina, ma in forme, se possibile, ancor più sconcertanti.

Le assurdità sulla guerra in Ucraina

Per esempio, così come era successo col Covid, anche sull’Ucraina ci sono stati diversi casi di presunti “esperti” che in realtà non erano affatto tali, ma come tali sono stati presentati e hanno detto cose che non stavano né in cielo né in terra. Neanche col Covid, però, ricordo di avere mai assistito a uno spettacolo così assurdo come quello andato in scena il 30 ottobre 2022 a Mezz’ora in più, quando Paolo Garimberti e Duilio Giammaria, presentati da Lucia Annunziata come grandi esperti del tema, hanno candidamente ammesso di non avere la minima idea di quale sia il raggio dell’esplosione di un’atomica tattica (cioè di potenza limitata, anche se la sua esatta definizione è in realtà più complicata: vedi Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta-4-il-grande-spauracchio-parte-prima-il-nucleare-bellico/).

Ora, di questo nessuno avrebbe potuto far loro una colpa, giacché, pur avendo entrambi una grande esperienza come cronisti di politica estera (e Gianmaria anche di guerra), non hanno nessuna preparazione scientifica. È invece una colpa (molto grave) che abbiano accettato di parlare di qualcosa che non conoscevano, senza nemmeno fare lo sforzo di dare un’occhiata a Wikipedia, che almeno un’idea di massima su questo punto te la dà. I due, invece, hanno buttato lì un’ipotesi inventata sul momento, ovviamente del tutto sballata (10 km di raggio, mentre non si arriva neanche a 2: vedi l’articolo appena citato), dopodiché si sono messi a discutere su di essa (cioè sul nulla) per almeno dieci minuti, senza il minimo imbarazzo e senza che la Annunziata avesse nulla da ridire, dichiarandosi anzi grata ed entusiasta della grande competenza (!) da loro dimostrata.

Un caso analogo è quello del recentemente defunto Andrea Purgatori, il quale, durante una puntata del suo programma Atlantide su LA7 (credo quella del 29 marzo 2022, ma non sono sicuro), per illustrare le conseguenze di un possibile incidente nella centrale nucleare di Zaporizhzhya ha trasmesso un documentario in cui si ripeteva per ben due volte che a Chernobyl si era verificata un’esplosione atomica, il che non solo è falso, ma è fisicamente impossibile, perché le centrali nucleari usano un tipo di uranio diverso da quello delle bombe (su ciò si veda Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta-5-il-grande-spauracchio-parte-seconda-il-nucleare-civile/).

Un’altra cosa veramente incredibile – e che la dice lunga su come (non) funziona l’informazione dell’era digitale – l’ho scoperta cercando su Wikipedia notizie sui carri armati. Come d’uso ormai da un po’ di tempo, all’inizio della pagina dei risultati appare automaticamente una “tendina” intitolata Le persone hanno chiesto anche, che si aggiorna, sempre automaticamente, in base a quello che uno sta cercando. In essa al quinto posto compare la domanda: «Chi ha i carri armati più potenti al mondo?», a cui viene data la seguente risposta: «Graduatoria nella quale la Russia guarda tutti dall’alto, Stati Uniti compresi. Non soltanto perché l’esercito del Cremlino è l’unico a disporre di due dei migliori dieci tank al mondo, ma anche perché può contare sul migliore, il mezzo che rappresenta l’eccellenza del settore: il T90-MS».

Sono andato a cercare la fonte e ho scoperto che è un articolo del Messaggero del 22 aprile scorso (https://www.ilmessaggero.it/mondo/carri_armati_russia_classifica_mezzi_piu_potenti_t_14-6651976.html#:~:text=Graduatoria%20nella%20quale%20la%20Russia%20guarda%20tutti%20dall’alto%2C%20Stati,settore%3A%20il%20T90%2DMS.), scritto dal giornalista sportivo (!) Gianluca Cordella, il quale a sua volta afferma di basarsi su «una classifica dei carri armati più potenti al mondo pubblicata da Hot Cars», di cui non conoscevo neanche l’esistenza. Sono andato a cercarla e ho scoperto che si tratta di una rivista online sulle automobili (https://www.hotcars.com/) con tendenza al sensazionalismo, visto che la maggior parte dei suoi articoli sono dedicati a “qual è il più … (qualsiasi cosa) … del mondo”. Insomma, una fonte del tutto inattendibile.

In effetti, pure il giornalista qualche dubbio lo avanza, notando che in Ucraina stanno combattendo principalmente vecchi T-72 di fabbricazione sovietica, mentre questi fantomatici super carri armati russi (dopo due anni) non si sono mai visti. Ma poi si adegua a ciò che afferma la classifica suddetta (fatta non si sa da chi né con quali criteri) secondo la quale gli Abrams americani, cioè il modello di punta prodotto dalla prima superpotenza del pianeta, sono appena al nono posto.

Ora, che un singolo giornalista scriva una stupidaggine è un problema suo, ma che Google la faccia propria e la proponga in evidenza come la risposta migliore trovata dai suoi algoritmi è un problema di tutti. Che diventa ancor più grave se si considera che i suddetti algoritmi sono più o meno gli stessi che stanno alla base dei tanto strombazzati programmi di Intelligenza Artificiale e che, funzionando esclusivamente su base statistica, non ci propongono affatto la risposta migliore, bensì la più frequente tra quelle che si trovano su Internet (giacché per la IA ciò che non è su Internet semplicemente non esiste) o, come in questo caso, quella che usa le parole più simili a quelle della loro ricerca, anche se la risposta in questione è stupida.

Ma ancor più preoccupante è che assurdità colossali sono state dette con allarmante frequenza anche da veri esperti di cose militari.

Ho già citato l’incredibile “show” di Andrea Margelletti a Porta a porta, in cui pretendeva che bastasse una sola atomica tattica per spazzare via l’intero esercito ucraino, dispiegato in una zona grande quanto l’intera pianura padana, quando invece ci vorrebbe almeno un quindicesimo dell’intero arsenale atomico russo (vedi ancora https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta-4-il-grande-spauracchio-parte-prima-il-nucleare-bellico/). Ma non si è certo trattato di un caso isolato. Sul rischio atomico, sia come conseguenza di un possibile uso di armi nucleari che di possibili danni alle centrali nucleari ucraine, è stata detta una quantità di sciocchezze da parte un po’ di tutti (su tutto ciò si veda ancora l’articolo appena citato).

Anche su altre questioni tecniche sono state prese cantonate notevoli. Solo per fare un esempio, per parecchio tempo si è continuato a ripetere che i missili ipersonici Iskander, che all’inizio della guerra hanno effettivamente causato danni gravissimi alle città ucraine, erano praticamente impossibili da abbattere. Invece, è bastato fornire agli ucraini dei sistemi antimissile efficaci e degli Iskander non si è più sentito parlare.

Tutto ciò però non è nulla di fronte ai due clamorosi errori di fondo che abbiamo commesso: la sopravvalutazione della reale forza della Russia e la sottovalutazione della reale entità dell’aiuto da dare all’Ucraina.

La sopravvalutazione del nemico

Fin dall’inizio della guerra c’è stata da parte di tutti, militari compresi, una clamorosa quanto irragionevole sopravvalutazione della reale forza dell’esercito russo, che, inspiegabilmente, dura tuttora, a dispetto di tutte le evidenze contrarie.

Per esempio, il generale Claudio Graziano, già capo di Stato Maggiore dell’esercito italiano nonché presidente del Comitato Militare della UE, intervistato da Lucia Annunziata, ha affermato: «Oggi non abbiamo più paura delle forze convenzionali russe. Se ne avessimo parlato a novembre [del 2021] ne avremmo avuto paura. […] Nessuno si aspettava la resistenza che hanno messo in campo gli ucraini» (Mezz’ora in più, 20/11/2022). E addirittura il generale Ben Hodges, ex comandante delle forze USA in Europa, ha confessato stupito: «Non credevo che la Russia avrebbe fatto così male»(Mezz’ora in più del 06/11/2022).

Ora, come è possibile che perfino quelli che avevano la responsabilità diretta della difesa militare dell’Europa (e che quindi avevano anche accesso alle migliori informazioni disponibili, comprese quelle supersegrete) si siano sbagliati così clamorosamente nel valutare la forza di quello che, nonostante le relazioni relativamente pacifiche che si erano stabilite negli ultimi anni, restava pur sempre, almeno potenzialmente, il nostro più pericoloso nemico?

Oltretutto, non era difficile capire che l’esercito russo era in realtà una tigre di carta e che con solo un po’ di aiuto da parte nostra gli ucraini avrebbero potuto fermarlo. Io, per esempio, senza avere accesso a nessuna informazione riservata, ma con una semplice analisi di pochi dati basilari facilmente reperibili su Internet, lo avevo detto già dopo un paio di settimane (si veda il mio articolo https://www.fondazionehume.it/reality-check/e-se-sulla-no-fly-zone-avesse-ragione-zelensky/). Era infatti evidente che, se l’esercito russo era dieci volte più grande di quello italiano, ma spendeva per il suo mantenimento appena il 50% in più, doveva necessariamente essere obsoleto, dato che la tecnologia avanzata costa.

E non era solo la tecnologia ad essere obsoleta, ma anche la strategia, che era ancora basata su quella messa a punto nell’URSS degli anni Settanta, guarda caso proprio quando Putin serviva come ufficiale del KGB. Quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina ho avuto un fortissimo senso di “dejà vu”, ma non riuscivo a ricordare dove l’avessi visto. E poi ho capito: non era qualcosa che avevo visto, ma qualcosa che avevo letto.

Infatti, il modo in cui l’esercito russo si muoveva sembrava tratto di peso dal libro La terza guerra mondiale, scritto nel 1978 dal generale inglese John Hackett, ex comandante delle Armate del Nord della NATO, insieme ad altri ufficiali e analisti americani ed europei. Benché scritto in forma di romanzo, è in realtà un saggio poderoso (435 pagine), basato su documenti segreti sovietici trafugati dal nostro controspionaggio e pensato per convincere i paesi europei a ridurre il preoccupante gap rispetto all’URSS nelle armi convenzionali (l’obiettivo venne almeno in parte raggiunto e, anche se non lo sapremo mai con certezza, ciò potrebbe essere stato decisivo per dissuadere i sovietici dall’attaccarci).

Nel libro Hackett spiegava come nel 1975 la dottrina militare russa, da sempre incentrata su attacchi in massa di carri armati, a seguito della comparsa di efficaci armi anticarro era stata integrata con «una combinazione di tiro di distruzione di artiglieria e di attacchi aerei al suolo […] e […] azioni ad alta velocità, […] in grado di eliminare, con un attacco preventivo, la minaccia dei missili guidati e dei pezzi controcarro per i carri dell’ondata successiva». Per questo si prevedeva di usare delle colonne miste, composte da carri armati, pezzi di artiglieria leggera e mezzi blindati per il trasporto di unità di fanteria, con un limitato supporto aereo.

Ebbene, l’invasione dell’Ucraina si è svolta esattamente così. Ma questa nuova dottrina non era mai stata testata sul campo e (per fortuna) alla prova dei fatti si è dimostrata inefficace: i russi non sono riusciti a distruggere i missili anticarro nemici in misura significativa e così gli ucraini hanno fatto il tiro al bersaglio sulle lente e pesanti colonne russe, facendole letteralmente a pezzi (non dimentichiamo che il territorio a nord di Kiev è stato interamente liberato dagli ucraini usando solo le armi che già avevano prima dell’inizio della guerra, moderne, certo, ma non modernissime: quelle più avanzate sono arrivate solo alcuni mesi dopo).

Di fronte a questa disfatta, ancor più grave in quanto totalmente inattesa, i russi hanno reagito nel solo modo che conoscono, secondo una tradizione ancestrale che risale addirittura al tempo dei primi Zar: con la forza bruta, triplicando la massa di truppe sul terreno. Per un po’ questo ha funzionato, ma, siccome seguivano sempre la stessa strategia antiquata, non appena abbiamo fornito agli ucraini un po’ di tecnologia davvero avanzata i russi hanno subito un’altra disfatta, ancor più grave, perdendo in pochi giorni, nell’estate del 2022, gran parte dei territori che avevano conquistato in mesi di sanguinosi combattimenti e a prezzo di perdite terribili.

Eppure, incredibilmente, questa irragionevole sopravvalutazione della forza militare della Russia è continuata, così come è continuata questa sorprendente cecità mentale, per cui molti sembrano incapaci di riconoscere per quello che è ciò che sta accadendo proprio sotto il loro naso.

Così, per oltre due mesi, quasi tutti gli esperti di geopolitica e di strategia militare avevano ironizzato sulla controffensiva ucraina “che non partiva mai”, senza rendersi conto che quello a cui stavano assistendo era esattamente lo stesso che avevano fatto gli americani all’esercito di Saddam Hussein durante la prima Guerra del Golfo: prima una lunga opera di distruzione delle infrastrutture logistiche e poi una rapidissima avanzata contro un esercito ormai non più in grado di combattere (anche i tempi, tra l’altro, sono stati abbastanza simili: 5 settimane di bombardamenti e 4 giorni di offensiva terrestre). Ma neanche questo è bastato a smuoverli dalle loro posizioni preconcette.

Per fare solo un esempio particolarmente clamoroso, a un Porta a porta del giugno 2023 (non ricordo esattamente quale) ancora Margelletti, Lucio Caracciolo e Dario Fabbri hanno reiteratamente sostenuto che il prolungamento della guerra favorisce la Russia perché avendo una popolazione più numerosa poteva mettere in campo più soldati e più mezzi di quanti noi possiamo fornire all’Ucraina. E a nulla valeva che un sempre più stranito Bruno Vespa cercasse vanamente di far loro notare come fino ad allora la realtà aveva mostrato esattamente il contrario.

Un altro esempio, molto più recente, è quello di Avvenire online del 22 febbraio scorso. In un articolo introdotto in sommario dalla roboante affermazione che «tra gli analisti c’è una certezza: nessuno potrà mai vincere la guerra in Ucraina», Giorgio Ferrari, che pure ha una lunghissima esperienza come cronista di guerra, sosteneva che «non è solo questione di munizioni, di armamenti, ma di un elementare calcolo che ogni professionista con le stellette sa fare: per ogni colpo sparato dai cannoni ucraini, la Russia ne spara dieci».

Ora, di queste due affermazioni la seconda è vera ma fuorviante, mentre la prima è semplicemente priva di senso. Cosa vuol dire, infatti, quel “mai”? C’è forse qualche legge di natura che lo impedisce? Non c’è nulla di ineluttabile in ciò che sta accadendo in Ucraina. La situazione attuale è stata determinata dalle nostre scelte: cambiandole, cambierà anche la situazione. Il problema è se si vuole cambiarle.

Quanto alla seconda affermazione, per fare il calcolo in realtà basta un bambino delle elementari. Il “professionista con le stellette” servirebbe invece per spiegare che, contrariamente a ciò che pensa Ferrari, il calcolo in questione è irrilevante, perché sparare dieci o anche cento colpi contro uno non serve a niente se il nemico ha cannoni con una gittata di molto superiore ai tuoi e quindi può distruggerti prima ancora che tu possa inquadrarlo nel mirino. Questo è appunto il caso degli Abrams rispetto ai carri armati russi, checché ne pensi Hot Cars. Il problema è che finora di Abrams (e, più in generale, di carri armati moderni) agli ucraini ne abbiamo fornito solo una manciata: se gliene avessimo dati qualche centinaio, la guerra starebbe andando ben diversamente.

Su questa base di pessima comprensione si innesta poi l’articolo di Giuseppe Notarstefano, presidente nazionale della Azione Cattolica, e Sandro Calvani, presidente dell’Istituto Toniolo, due pezzi da novanta del laicato cattolico italiano (https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/dopo-due-anni-di-guerra-in-europa-venuta-lora-di-negoziati-di-pace). Dopo avere anch’essi diligentemente ripetuto il mantra circa il presunto «flusso senza precedenti di aiuti militari occidentali» e avere ribadito che «allo stato attuale delle cose, risulta estremamente improbabile un’affermazione militare di uno dei due contendenti», i due si chiedono che fare (dando per scontato che provare a cambiare “lo stato attuale delle cose” non rientri fra le opzioni). E quale geniale soluzione tirano fuori dal cappello? Ma è ovvio: «L’apertura di negoziati ufficiali presso la sede ONU di Ginevra»! Eh, già, chissà come abbiamo fatto a non pensarci prima…

Dopodiché i due si dilungano a illustrare tutte le meravigliose opportunità che questa «buona pratica» offrirebbe (si noti la terminologia presa di peso dall’insopportabile burocratese politically correct, una “cattiva pratica” che il Covid ha contribuito moltissimo a diffondere). Purtroppo, però, non dicono una sola parola sui mezzi che andrebbero usati a tale scopo, senza la definizione dei quali i fini proposti restano parole vuote (dire che si «potrebbero offrire forti incentivi economici e politici per convincere Russia e Ucraina» non chiarisce nulla, perché sono parole così generiche da risultare anch’esse vuote).

Infine, dopo aver riconosciuto che «forse tali negoziati potrebbero durare anni», concludono che «ciononostante sono sempre preferibili allo status quo, in cui parlano solo le armi», senza però spiegare (anzi, senza neanche chiedersi) che cosa si dovrebbe fare nel frattempo, dato che, quand’anche per miracolo i negoziati iniziassero davvero, fino a quando non si giunga a un accordo continuerebbero comunque a parlare le armi. Se questo è il meglio che sa esprimere il mondo cattolico italiano (e, temo, non solo italiano), siamo davvero messi male…

Ora, anche da questa breve ma abbastanza rappresentativa rassegna mi pare evidente che quello che si continua a non capire (o a far finta di non capire) è che nella guerra moderna la superiorità numerica non conta nulla: quella che conta è la superiorità tecnologica, che per fortuna è ancora a nostro favore. Per capire fino a che punto, possiamo guardare alle ultime guerre “tradizionali” (cioè contro un esercito e non contro la guerriglia) combattute dalla NATO, in particolare la Guerra del Golfo, perché l’esercito iracheno era più o meno delle stesse dimensioni e usava più o meno gli stessi armamenti, in gran parte ancora di fabbricazione sovietica, del contingente russo in Ucraina.

La coalizione guidata dagli americani aveva un numero di soldati (640.000) di poco superiore al mezzo milione schierato da Saddam Hussein e solo 250.000 vennero effettivamente impiegati nella campagna di terra. Ciononostante, l’esercito iracheno venne completamente distrutto nel giro di appena cento ore. La coalizione perse in combattimento meno di 200 uomini, mentre le perdite irachene sono tutt’oggi molto controverse, ma anche secondo le stime più prudenti furono almeno 20.000 e secondo altre arrivarono addirittura a 200.000, con un rapporto che anche nel caso più favorevole è di oltre cento contro uno e in quello più sfavorevole addirittura di mille a uno.

Quanto ai carri armati, in quella che fu la più grande battaglia di mezzi corazzati della storia, nota come 73Easting, gli USA persero appena 36 veicoli, di cui solo 4 Abrams, distruggendo 1350 carri armati iracheni dei circa 2000 mandati da Saddam a combattere nel deserto (perlopiù vecchi T-72 di fabbricazione sovietica, proprio come quelli che agiscono in Ucraina), più migliaia di altri mezzi militari di vario tipo, per un totale di 4193: di nuovo, cento a uno (cfr. Stephen Biddle, Victory misunderstood, https://doi.org/10.2307/2539073).

Comunque la si voglia mettere, è chiaro che non fu una guerra, ma una rapida ed efficiente campagna di annientamento di un nemico del tutto impotente. E più o meno lo stesso rapporto di (almeno) cento a uno lo troviamo anche nel 1999 nella guerra contro la Serbia (1031 morti contro 2) e nel 2003 nell’invasione dell’Iraq (da 30 a 45 mila morti contro 238).

Si obietterà che da allora gli altri paesi hanno fatto dei progressi. Ed è vero. Ma questo non vuol dire che abbiano ridotto le distanze in maniera significativa, perché noi ne abbiamo fatti altrettanti, se non di più. Solo la Cina è riuscita ad avvicinarsi, anche se resta ancora lontana (per fortuna, data la natura criminale del suo regime, che troppo spesso dimentichiamo). Ma non certo la Russia, che è sostanzialmente un paese sottosviluppato: basti dire che il bilancio della NATO del 2023 è stato di 1100 miliardi di dollari (www.nato.int/nato_static_fl2014/assets/pdf/2024/3/pdf/sgar23-en.pdf), che equivale a circa la metà dell’intero PIL russo dello stesso anno.

Di conseguenza, se la guerra fosse davvero troppo costosa per noi, come sostengono i suddetti esperti o presunti tali, lo sarebbe a maggior ragione per la Russia. È vero che, essendo un dittatore, Putin, a differenza di noi, può permettersi di finanziarla anche a costo di affamare il suo popolo, ma le sue risorse sono incomparabilmente minori: neanche usando tutto il denaro dello Stato per la guerra (cosa che, per ovvie ragioni, neppure lui può fare) sarebbe in grado di tenere il nostro passo. Inoltre, non è solo questione di soldi: serve anche tempo. Per ricuperare un ritardo tecnologico come quello accumulato dalla Russia ci vogliono decenni, anche investendo una fortuna.

A questo punto mi immagino che molti si staranno chiedendo come è possibile, se quello che sto dicendo è vero, che la guerra non sia ancora finita.

È una domanda giusta, perché in effetti è esattamente così: la guerra poteva – e quindi doveva – finire già un anno fa, con la totale distruzione dell’esercito russo, la liberazione di tutta l’Ucraina e la caduta (e conseguente morte) di Putin. E allora perché non è successo?

Qui viene in ballo il secondo, gravissimo errore che abbiamo commesso e che, purtroppo, continuiamo a commettere: la sottovalutazione dell’aiuto da dare all’Ucraina.

La sottovalutazione dell’aiuto

La risposta alla domanda di cui sopra è infatti tanto semplice quanto sconcertante: la guerra non è ancora finita perché quella che abbiamo speso finora per l’Ucraina non solo non è affatto una cifra enorme, ma è una cifra semplicemente ridicola.

In genere si ritiene che nei primi due anni di guerra abbiamo fornito aiuti militari per circa 70 miliardi di dollari. Può sembrare tanto, ma si tratta di appena la metà di quanto è costata la Guerra del Golfo (61 miliardi di dollari di allora, equivalenti a 137 miliardi di oggi), che durò solo sei settimane (dal 17 gennaio al 28 febbraio 1991), mentre due anni equivalgono a centoquattro settimane.

Ciò significa che in proporzione abbiamo fornito agli ucraini un aiuto 35 volte inferiore, anche se in realtà sarebbe bastato molto meno, purché dato subito, perché in tal caso la guerra sarebbe stata vinta rapidamente e sarebbe quindi durata molto meno. Pur con questa precisazione, tuttavia, è evidente che gli aiuti che abbiamo fin qui dato all’Ucraina sono di gran lunga insufficienti e a volte addirittura surreali: per esempio, è di questi giorni la notizia che il Belgio si è impegnato a fornirle 30 cacciabombardieri F-16 per… il 2028!

Inoltre, la gran parte di questi soldi (intorno ai 50 miliardi) sono stati messi dagli USA. Considerando che gli altri paesi membri sono 28 (escludendo i neoarrivati Svezia e Finlandia e la Turchia, che nella NATO ormai ci sta solo nominalmente), ciò significa che in due anni ciascun paese membro ha speso in media poco più di 700 milioni, ovvero circa 360 milioni all’anno. E infatti il 28 marzo scorso, durante il question time alla Camera, il Ministro della Difesa Guido Crosetto ha dichiarato che nel 2023 l’Italia ha dato all’Ucraina 417 milioni di euro di aiuti militari (non sono riuscito a trovare il dato del 2022, ma è ragionevole pensare che sia simile). In altre parole, finora per fermare Putin abbiamo speso appena un decimo di quello che ci è costato il reddito di cittadinanza. E gli altri paesi europei hanno fatto più  o meno lo stesso.

Confesso che quando mi sono finalmente deciso, dopo mesi di crescente disagio, ad andare a vedere le cifre ho sperimentato di nuovo lo stesso senso di rabbiosa incredulità che avevo provato quando ero andato a vedere per la prima volta i dati della OMS sul Covid, rendendomi conto che raccontavano una storia diametralmente opposta a quella che ci andava propinando la stessa OMS insieme a (quasi) tutti i governi del pianeta, senza che nessuno sentisse il bisogno di andare a controllare. Ma stavolta è stato anche peggio, perché allora almeno i dati erano molti e qualche calcolo, sia pur elementare, bisognava farlo, mentre in questo caso basta cercare pochi numeri (che si trovano in cinque minuti) e metterli a confronto così come sono, senza nessuna elaborazione, per capire come stanno le cose. Eppure, una volta di più, sembra che nessuno l’abbia fatto né abbia intenzione di farlo.

E così, proprio come col Covid, non guardare i numeri impedisce di capire la reale dimensione delle cose di cui si parla. È chiaro infatti che con cifre del genere i rifornimenti di armi davvero ad alta tecnologia (contro cui i russi sono impotenti, quale che sia la loro superiorità numerica) non possono essere stati molti. Ed è proprio così. Oltre ai sistemi antimissile, gli unici che gli abbiamo finora fornito sono stati i micidiali Himars, missili teleguidati a lungo raggio che hanno permesso agli ucraini di colpire i depositi di armi e munizioni e le linee di rifornimento nelle retrovie russe, consentendo loro di lanciare la spettacolare controffensiva dell’estate 2022, che ha liberato gran parte dei territori conquistati a partire dal 24 febbraio.

Da allora, i russi sono stati costantemente costretti a difendersi e hanno continuato a perdere terreno, anche se molto più lentamente. Come è logico, dato che nel frattempo gli ucraini non hanno più ricevuto nessuna fornitura militare in grado di produrre un nuovo salto di qualità e a causa di ciò i russi hanno avuto il tempo di fortificare a dovere le zone ancora sotto il loro controllo. Solo nelle ultime settimane hanno ricominciato ad avanzare, benché di poco, guarda caso proprio in coincidenza con il blocco degli aiuti USA da parte dei repubblicani.

Ma anche questo dato, come tutto il resto, viene sempre presentato in modo gravemente distorto, perché si parla sempre della percentuale di territorio ucraino oggi controllato dai russi, ma non si spiega mai che gran parte di esso (tutta la Crimea e la maggior parte del Donbass) era già in mano loro prima dell’inizio della guerra, essendo stato annesso nel 2014. Al contrario, di quello che avevano conquistato nella fase iniziale dell’invasione del 2022 gli è rimasto ben poco. Alimentare la confusione su questo punto fa apparire l’azione degli ucraini molto meno efficace di quanto sia, il che induce nella nostra opinione pubblica dubbi ingiustificati sull’utilità degli aiuti militari.

Tutto ciò è stato spiegato molto chiaramente da Garri Kasparov, l’ex campione mondiale di scacchi che dal 2005 è diventato uno dei pochi oppositori democratici di Putin, contro il quale si candidò alle presidenziali del 2008, vedendosi però costretto a rinunciare per le intimidazioni del regime. Recentemente Putin lo ha addirittura inserito nell’elenco dei terroristi (!) ricercati dalla Russia per le sue dichiarazioni che lo incolpavano per la morte di Navalny. In un articolo del 6 novembre  2023 (https://www.lastampa.it/esteri/2023/11/06/news/dallucraina_al_medio_oriente_i_passi_falsi_di_biden_in_politica_estera-13838505/) Kasparov scriveva: «Il temporeggiare dell’Amministrazione Biden ha avuto pesanti conseguenze. Se gli Stati Uniti avessero procurato all’Ucraina il sistema missilistico Atacms, gli F-16 e i carri armati fin dal primo giorno, avrebbero sconfitto l’esercito russo sul campo e vinto la guerra prima che i soldati russi si barricassero. Adesso, dopo due anni di combattimenti e dopo mezzo milione di morti, la Russia si è arroccata in profondità e ogni avanzata ucraina avverrà a carissimo prezzo».

Cionondimeno, è vero, purtroppo, che il prolungarsi della guerra rischia di favorire la Russia, ma per un motivo molto diverso da quello addotto dai presunti (e presuntuosi) “esperti”. Il vero problema è che col passare del tempo il nostro già timido appoggio all’Ucraina sta diventando sempre più timido.

Ora, questo si deve anzitutto a un’opinione pubblica composta in gran parte da persone viziate e immature (la “società signorile di massa” di Ricolfi), abituate ad avere tutto e subito, senza dover mai fare nessun vero sacrificio e ideologicamente avverse all’idea stessa che possa esistere una guerra giusta. Ma ancor di più si deve a discorsi irresponsabili di questo tipo, che inculcano negli ascoltatori l’idea che abbiamo già fatto uno sforzo economico gigantesco che non possiamo più reggere a lungo, onde per cui, se neppure questo è bastato a vincere la guerra, allora vuol dire che ciò non è possibile e che bisogna rassegnarsi a trattare con Putin (benché – piccolo ma non trascurabile dettaglio – lui non abbia nessuna intenzione di trattare con noi).

Parafrasando Agatha Christie, potremmo dire che una previsione sbagliata è solo una previsione sbagliata, due previsioni sbagliate sono solo due previsioni sbagliate, ma tre o più, soprattutto se vengono da fonti ritenute autorevoli, fanno una tendenza. In altre parole, abbiamo qui a che fare con la classica profezia che si autoavvera – o quantomeno rischia di farlo, se andiamo avanti così: l’opinione pubblica diventa sempre più scettica, i governi riducono il loro impegno, le cose sul campo peggiorano, ciò viene addotto come prova che la guerra non si può vincere, e così via, in un cortocircuito logico micidiale che stravolge il corretto rapporto tra teoria e realtà.

E qui c’è un punto su cui dissento in parte da Ricolfi. Condivido pienamente la sua preoccupazione per l’intolleranza che sta crescendo un po’ da tutte le parti, così come sono d’accordo con lui che se si invita qualcuno a parlare in televisione poi non ha senso pretendere che non dica ciò che pensa. Ma il problema è appunto questo: è accettabile che si inviti a parlare in televisione anche chi sostiene idee che se fossimo formalmente in guerra con la Russia verrebbero considerate disfattismo e comporterebbero conseguenze molto pesanti (una volta c’era addirittura la fucilazione)?

È vero che formalmente non siamo in guerra con la Russia e che quindi formalmente ognuno ha il diritto di dire ciò che vuole al riguardo. Però la libertà di pensiero non include il diritto di manifestarlo in televisione, che è invece un privilegio, riservato a pochissime persone e spesso neanche meritatamente. Pertanto, a mio giudizio, diversamente dal Covid, che era un problema scientifico e che perciò richiedeva la discussione critica più ampia possibile, non sarebbe così scandalosa un po’ di censura preventiva nei confronti di chi rischia oggettivamente di favorire un nostro mortale nemico, tanto più, poi, se dice cose manifestamente false. Il problema, semmai, è che, se facessimo davvero così, in televisione rischierebbe di non andarci più nessuno, a cominciare dai conduttori…

Comunque, qualsiasi cosa si pensi di ciò, il punto centrale della questione è che, se perfino aiuti così inadeguati come quelli fin qui forniti agli ucraini sono stati sufficienti a ribaltare completamente il corso della guerra, sarebbe bastato (e basterebbe tuttora) un altro sforzo, relativamente piccolo, per chiuderla del tutto.

Ma allora perché non lo si è ancora fatto?

Perché tutto questo: la politica

Per quanto riguarda i politici, purtroppo, non c’è da stupirsi. Da tempo, infatti, in Occidente c’è un drammatico vuoto: di idee, di leadership, di autorevolezza, di tutto. Per capire quanto siamo messi male basta guardare i due candidati alle prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti: un ultraottantenne mezzo rincoglionito e un quasi ottantenne mezzo matto. È già sorprendente che il suddetto ultraottantenne e gli imbelli leader della (dis)Unione Europea abbiano deciso di aiutare l’Ucraina, sarebbe stato stupefacente se l’avessero fatto anche in modo intelligente.

Non dimentichiamo che quando ci fu l’invasione (a cui fino al giorno prima nessuno credeva – o meglio, nessuno volevacredere, nonostante i continui e dettagliatissimi avvertimenti della intelligence americana), al di là delle solite parole di condanna e della rituale minaccia di sanzioni economiche, che non hanno mai fermato nessun dittatore, non sembrava affatto esserci una reale volontà di sostenere l’Ucraina, anche perché tutti credevano che non ci sarebbe neanche stato il tempo, essendo convinti che la Russia avrebbe vinto nel giro di un paio di settimane.

Biden, in particolare, dopo aver già regalato l’Afghanistan ai Talebani, con le catastrofiche conseguenze che abbiamo sotto gli occhi, era pronto a fare lo stesso con l’Ucraina, offrendo al Presidente Zelensky e al suo governo un esilio dorato negli USA, senza rendersi conto che questo sarebbe stato interpretato da tutti i nostri nemici come un ulteriore invito ad attaccarci, visto che ormai basta fare la faccia cattiva per farci battere in ritirata (non è certo un caso che tutti – ma proprio tutti – i regimi anti-occidentali siano diventati molto più aggressivi dopo la nostra vergognosa fuga dall’Afghanistan).

Le cose cambiarono solo quando Zelensky rifiutò l’offerta con le celebri parole (spero destinate a passare alla storia come l’inizio della fine della minaccia russa in Europa): «Non mi serve un taxi, mi servono armi».

Oltre ad ottenere il sostegno (quasi) convinto degli USA e della UE, per qualche tempo il Presidente ucraino, con il suo mix di coraggio, fermezza ed equilibrio (davvero notevole per uno che rischia la pelle tutti i giorni), riuscì perfino nel miracolo di far sì che quest’ultima si ricompattasse intorno ai suoi valori fondativi, anziché pensare solo ai soldi e accapigliarsi su ridicole questioni ideologiche, tipo l’auto elettrica (ne parleremo presto) o la teoria di gender. Di fatto, oggi Zelensky è l’unico vero leader che abbia l’Occidente e, soprattutto, l’unico che creda ancora «nell’Europa dei popoli e delle culture, dall’Atlantico agli Urali» (per usare due celebri espressioni di Giovanni Paolo II) e non solo nell’Europa dell’euro e della BCE, oltretutto gestita in modo orribile da quando al posto di Draghi è arrivata quella inetta di Christine Lagarde (anche di questo parleremo a breve).

Ma la luna di miele è durata troppo poco. Di fatto, dopo il clamoroso successo della controffensiva del 2022 è diventato presto evidente che i nostri leader credevano (o volevano credere) che ormai gli ucraini potessero farcela da soli. Certo, continuando a rifornirli delle munizioni per le armi che già avevano (impegno, peraltro, anch’esso clamorosamente disatteso, visto che gli abbiamo dato appena il 30% di quanto promesso), senza però bisogno di ulteriori salti di qualità, come la fornitura di carri armati Abrams e cacciabombardieri F-16, più volte richiesti da Zelensky ai suoi riottosi alleati, che non si sono mai mostrati troppo entusiasti dell’idea.

L’Oscar della discussione più delirante sul tema spetta senz’altro alla distinzione tra armi offensive e armi difensive, che semplicemente non esistono. Ciò che rende una guerra difensiva è il fine a cui tende (la liberazione del proprio paese e non la conquista di quello nemico), non i mezzi con cui la si combatte, che sono sempre gli stessi e hanno sempre lo stesso obiettivo: l’uccisione dei nemici e la distruzione dei loro armamenti. Ma provate a dirlo in pubblico e si scatenerà il finimondo (in effetti, molti europei non ritengono nemmeno che abbiamo dei nemici). Che non si riesca neanche più a riconoscere l’elementare verità che le armi servono a uccidere e che a volte ciò è purtroppo necessario la dice lunga sul livello di alienazione dalla realtà a cui siamo arrivati.

Tuttavia, va anche detto che questa in gran parte è una scusa, con cui i nostri governi cercano di nascondere i veri motivi di tale resistenza a fornire armamenti avanzati in grandi quantità, che sembrano essere essenzialmente due.

Anzitutto, lo si giudica un costo eccessivo, senza rendersi conto di quanto maggiormente ci costerebbe, non solo in termini di soldi, ma anche di devastazioni e di vite umane, una vittoria russa in Ucraina. In secondo luogo, molti temono che una vittoria troppo netta degli ucraini possa indurre Putin a usare le armi nucleari, senza rendersi conto di quanto improbabile sia in realtà questo rischio (vedi ancora il mio già citato https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta-4-il-grande-spauracchio-parte-prima-il-nucleare-bellico/) e di quanto più plausibile e più grave sia invece il rischio che la vittoria ucraina non sia abbastanza netta da provocare la caduta di Putin. O, peggio ancora, che non ci sia una vittoria ucraina.

Tuttavia, queste motivazioni sono forse più comprensibili di quella ufficiale, ma non meno preoccupanti, perché questo errore rischiamo di pagarlo carissimo. E benché stavolta la colpa sia innanzitutto dei politici, non per questo gli esperti ne escono innocenti: quasi tutti, infatti, hanno giustificato questa scellerata decisione ricordandoci che in ogni caso per addestrare adeguatamente i piloti di questi mezzi ci vorrebbe un anno. Peccato solo che la guerra stia andando avanti ormai da due anni, per cui se glieli avessimo forniti subito sarebbero entrati in azione già un anno fa.

Ma la cosa più assurda è che aver commesso questo errore fatale all’inizio del conflitto viene spesso usato come giustificazione per continuare a ripeterlo. Se, per esempio, questi armamenti glieli avessimo forniti l’anno scorso, al posto delle poche decine di vecchi carri armati che gli abbiamo elemosinato di malavoglia, certo si sarebbe dovuta rimandare la controffensiva di primavera (che peraltro non ha dato risultati troppo brillanti, proprio per la carenza di mezzi adeguati), ma almeno adesso gli ucraini sarebbero adeguatamente equipaggiati e non dovremmo temere che i russi possano tornare a prendere il sopravvento. Ora, come si possa pensare che l’Ucraina (o qualunque altro paese) possa vincere una guerra senza aerei e senza carri armati, è un mistero.

O forse no. Perché in effetti molto spesso si è avuta l’impressione che anche queste siano scuse e che in realtà i nostri cari leader non vogliano affatto che l’Ucraina vinca e che, invece di levarsi dai piedi Putin una volta per tutte, preferirebbero indurlo ad accettare (benché – sempre lo stesso fastidioso dettaglio – nessuno sappia come) una qualche sorta di spartizione dell’Ucraina stile guerra fredda, in cui lui si prenderebbe la Crimea e parte del Donbass, come anche la maggior parte degli esperti da sempre suggerisce. Perché mai, però, una soluzione del genere dovrebbe convenirci più dell’altra, che porterebbe alla sua eliminazione, è a sua volta un mistero.

Una spiegazione, che qualcuno ha effettivamente proposto, potrebbe essere che i nostri governi non trovino molto tranquillizzante l’idea di dover convivere in futuro con una Ucraina col morale alle stelle per la vittoria sulla Russia e dotata, grazie al nostro aiuto, di un esercito tecnologicamente all’altezza di quelli delle principali potenze europee, ma di essi molto più numeroso e agguerrito.

Non mi sento di escludere questa ipotesi, ma, se è vera, allora significa che i nostri governanti sono ancora più stupidi di quel che sembrano. Dopo una guerra del genere, infatti, l’ultima cosa che potrebbe venire in mente agli ucraini sarebbe minacciare o anche solo infastidire i loro alleati, di cui continuerebbero ad avere bisogno a lungo, sia per ricostruire il paese, sia per mantenere in efficienza gli armamenti che gli avremo fornito, che ancora per molto tempo non saranno in grado di produrre e riparare da soli. I loro sforzi militari sarebbero invece concentrati nel tenere a bada la Russia, onde evitare che possa cercare una rivincita, il che converrebbe a tutti.

Converrebbe agli USA, che avrebbero finalmente all’interno della NATO un alleato politicamente fedele, militarmente forte e geograficamente collocato nella posizione più strategica che si possa immaginare, sicché per molti decenni potrebbe fare, molto meglio degli imbelli paesi europei, da “cane da guardia” nei confronti della Russia, ma anche di un eventuale tentativo turco o cinese di espandersi nelle repubbliche ex sovietiche attualmente controllate da Putin.

Ma converrebbe ancor di più a noi, che di spendere i nostri soldi o (non sia mai!) le nostre vite per difenderci proprio non ne abbiamo nessuna voglia: meglio quindi lasciare che se ne occupino i più battaglieri ucraini. Eppure, non pare che sia questo il modo in cui ragionano i nostri leader politici, sia di maggioranza che di opposizione.

Un’altra ipotesi, avanzata ancora da Kasparov, è che gli Stati Uniti «temevano il caos potenziale di una sconfitta della Russia più di quanto temessero la distruzione dell’Ucraina». Ma, se è così, allora gli americani sono stati ancora più stupidi di noi, giacché in questo modo «stanno ottenendo proprio quello che paventavano maggiormente: dittatori ringalluzziti e caos dilagante » (si veda ancora l’articolo citato in precedenza, così illuminante che consiglio a tutti di leggerlo per intero: https://www.lastampa.it/esteri/2023/11/06/news/dallucraina_al_medio_oriente_i_passi_falsi_di_biden_in_politica_estera-13838505/).

Ma forse la spiegazione più vera del comportamento ondivago e incerto dei nostri leader va cercata, ancora una volta, nella tragicomica vicenda del Covid. Infatti, la “legge di Ricolfi” («se vuoi fare qualcosa, più tardi lo fai, più costerà caro a tutti») non vale solo per le pandemie, ma per tutte le situazioni di crisi, compresa questa. Se avessimo fatto subito quello che andava fatto, certamente ci sarebbe costato più caro sul momento, ma la guerra sarebbe stata vinta rapidamente e quindi il saldo finale sarebbe stato ampiamente positivo, da tutti i punti di vista. Ma purtroppo, come già ai tempi del Covid, sembra proprio che questo i politici non riescano a capirlo. E così, ancora una volta, invece di anticipare gli eventi, li rincorrono.

Speriamo solo che la piega preoccupante che stanno prendendo gli eventi serva a dar loro la sveglia e che gli aiuti necessari per vincere la guerra vengano forniti al più presto, ovviamente insieme ad altri aiuti più urgenti che servono per consolidare il fronte in attesa che i mezzi più moderni siano pronti a entrare in azione. Lo sblocco degli aiuti americani è già qualcosa, ma è ancora ben lungi dall’essere sufficiente. Timor Dei initium sapientiae, dicevano gli antichi: a volte la paura può anche essere buona consigliera…

Perché tutto questo: gli esperti

Più difficile è capire perché non solo gli pseudo-esperti, ma anche gli autentici esperti di cose militari continuino a ripetere come un disco rotto le assurdità che abbiamo visto e molte altre ancora. È mai possibile che davvero non si rendano conto che sono assurdità? Oppure ci sono altre spiegazioni?

Certamente anche qui, come già col Covid, pesa molto l’indisponibilità a riconoscere i propri errori. Praticamente tutti, all’inizio, avevano previsto che la Russia avrebbe vinto facilmente e ora sembra quasi che molti sperino che ci riesca, solo per avere l’amara soddisfazione di dimostrare che avevano ragione (mentre ad altri, più modestamente, sembrerebbe bastare che la Russia, se proprio non può vincere, almeno non perda). Capire fin dove arriva la malafede e in che misura invece si tratta di una vera e propria incapacità di abbandonare convinzioni troppo radicate è probabilmente impossibile e sicuramente inutile: quale che sia il motivo, infatti, resta che si sta facendo prevalere la teoria sulla realtà e che questo rappresenta la negazione più radicale che si possa immaginare del metodo scientifico e, più in generale, di qualsiasi forma di conoscenza degna di tal nome.

Ma c’è anche un altro fattore da tenere in conto, che col Covid non era molto rilevante, mentre qui, trattandosi di guerra, lo è: il peso delle motivazioni ideologiche, che condizionano anche gli esperti. E ciò accade assai più spesso di quanto sembra. Non dimentichiamo, infatti, che il più efficace metodo di propaganda consiste nel travestire le proprie opinioni soggettive da previsioni oggettive.

Così, se uno ritiene che non si debba aiutare l’Ucraina in nome del pacifismo, per difendere gli interessi dei nostri imprenditori che esportano in Russia o, peggio ancora, perché sotto sotto parteggia per Putin, anziché manifestare apertamente le proprie idee, che difficilmente sarebbero accettate, potrebbe trovare più conveniente cercare di convincere i suoi interlocutori che aiutare gli ucraini è inutile o addirittura contro il loro stesso interesse, perché servirebbe solo a prolungare le loro sofferenze senza impedire la “inevitabile” vittoria finale russa. Discorsi del genere si sono effettivamente sentiti molte volte (soprattutto nella prima parte della guerra, quando le cose andavano peggio, ma anche dopo) e venivano sempre da persone che notoriamente condividevano l’una o l’altra delle suddette posizioni ideologiche.

L’ideologia più micidiale di tutte, però, non ha un preciso colore politico, anche se storicamente è figlia del comunismo, ma ormai ha contagiato un po’ tutti: è quella del dialogo-che-risolve-tutti-i-problemi (cfr. Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/politica/la-frattura-tra-ragione-e-realta-3-marx-e-vivo-e-lotta-dentro-a-noi-dodici-idee-comuniste-a-cui-credono-anche-gli-anticomunisti/). Essa infatti, mescolandosi al sempre più dilagante (e sempre più delirante) complottismo, ha già convinto milioni di persone che l’unica via di uscita dalla guerra sono le mitiche “trattative di pace” e che se queste non sono ancora iniziate è solo perché “manca la volontà politica”, con il che in realtà si intende che manca la nostra volontà politica, perché secondo questa mentalità per definizione i “cattivi” siamo noi.

Questa idea, inoltre, è condivisa anche da molti “liberal” non di sinistra e perfino da molti “comunitari” (destra più frange di marxisti ortodossi; per questa distinzione vedi l’articolo appena citato), che ne respingono la versione “buonista” di cui sopra, tipica della sinistra e del mondo cattolico, ma ne accettano un’altra che proclamano essere una semplice questione di realismo: siccome le guerre, come qualsiasi altra cosa, sono dovute agli interessi (ultimamente economici) delle parti in causa, l’unico modo di farle finire è mettere da parte le questioni morali e trovare un bilanciamento degli interessi in gioco che lasci tutti ugualmente soddisfatti (o tutti ugualmente insoddisfatti, secondo la celebre battuta di Henry Kissinger).

Ora, nessuno più di me è favorevole al realismo, ma già a priori è evidente che questo ragionamento è piuttosto una forma di cinismo amorale. Il realismo autentico, infatti, consiste nel cercare di seguire le indicazioni della realtà, per cui già il fatto in sé di identificarlo a priori con una specifica soluzione è contraddittorio. Inoltre, è falso che le guerre (o qualsiasi altra cosa) siano sempre dovute a questioni di interesse, come ho cercato di illustrare ancora nell’articolo sulle Dodici idee comuniste, a cui perciò rimando.

Ma, soprattutto, la storia dimostra che (tranne quando, come per esempio nella guerra Iran-Iraq, i contendenti giungono contemporaneamente all’esaurimento delle forze) non è mai l’inizio delle trattative a determinare la fine della guerra, ma è piuttosto la fine della guerra (determinata dalla vittoria di una parte e dalla sconfitta dell’altra) a permettere l’inizio delle trattative. Ed è facile capirne il motivo.

Nessuno, infatti, neppure un dittatore psicopatico come a suo tempo Hitler e oggi Putin o i capi di Hamas, inizia una guerra a cuor leggero, se non altro perché non può farla da solo e ha quindi bisogno che almeno un certo numero di persone lo sostengano per convinzione e non solo per paura, perché la guerra può fare più paura di qualsiasi dittatore. Inoltre, una guerra si può perdere e quando a perderla è un dittatore ciò in genere ne determina la caduta e spesso anche la morte. La guerra, quindi, è certamente una tragedia, ma non è affatto una follia, come continua purtroppo a ripetere Papa Francesco, evidentemente anche lui molto mal consigliato dai suoi “esperti” (una volta o l’altra dovrò scrivere qualcosa sulle stranissime idee del cattolicesimo contemporaneo circa la politica internazionale), bensì una scelta accuratamente ponderata che ha sempre una sua logica, perfino quando è la logica di un folle.

La famosa frase di Von Clausewitz per cui «la guerra non è altro che la continuazione della politica con altri mezzi» non è soltanto una battuta brillante e un po’ cinica, ma una precisa descrizione di ciò che accade. Alla guerra, infatti, si arriva quando almeno una delle parti in causa ritiene che la situazione che si è creata non le permetta più di raggiungere i propri obiettivi attraverso le vie della politica: perché mai, quindi, tale parte dovrebbe accettare di tornare a trattare prima che qualcosa di sostanziale sia cambiato? Pretendere poi che ciò possa accadere addirittura il giorno dopo l’apertura delle ostilità (come quasi tutti hanno fatto, sia per l’Ucraina che per Gaza) non è soltanto ingenuo, ma semplicemente stupido.

Ma forse c’è anche un altro motivo, stavolta non ideologico, anche se si tratta comunque di un pregiudizio infondato. Ed è che dopo l’11 settembre tutti gli scontri tra noi e le varie dittature nostre nemiche non sono avvenuti nella forma di guerre tradizionali, bensì di “guerre asimmetriche” contro la guerriglia, a parte la seconda guerra con l’Iraq (che però si è presto trasformata anch’essa in una guerra di questo tipo) e l’intervento in Serbia (troppo breve per fare testo).

Questo tipo di guerra, infatti, riduce notevolmente il peso della nostra superiorità tecnologica, creando la sensazione che i nostri nemici siano diventati più forti e che anche in uno scontro tradizionale avremmo delle difficoltà a spuntarla. Ma questa è, appunto, solo una sensazione, priva di qualsiasi fondamento nella realtà dei fatti. In Ucraina non si combatte tra le montagne, ma in una vastissima pianura quasi completamente priva di ripari naturali, che rappresenta lo scenario ideale perché le nostre armi ad alta tecnologia possano dispiegare tutto il loro potenziale. E, di fatto, così è già accaduto con quelle che fin qui abbiamo dato agli ucraini. Non c’è quindi nessuna ragione di pensare che le cose vadano diversamente con quelle che (si spera) gli daremo in futuro.

Ciò che è sorprendente è che questa falsa impressione abbia contagiato anche buona parte degli analisti e degli stessi vertici militari. Eppure, è accaduto. E forse non è neanche tanto sorprendente.

Siamo noi, infatti, che tendiamo a mitizzare gli esperti, come se fossero persone dotate di una razionalità superiore e immuni alle debolezze della gente comune. Ma in realtà studiosi di geopolitica, professori universitari, politici e generali (sì, anche loro) sono esseri umani come noi, anch’essi figli del nostro tempo. Un tempo in cui l’apparenza e l’emotività tendono a prevalere sulla conoscenza e sulla razionalità, fino al punto di generare delle vere e proprie forme di “bispensiero” orwelliano, per cui si è convinti che una certa cosa è vera, eppure al tempo stesso si nutre anche una convinzione contraddittoria con la prima, senza nemmeno accorgersi che è contraddittoria.

E tuttavia dobbiamo accorgercene. Perché se non lo faremo al più presto, liberandoci di queste forme sbagliate di pensiero, in Ucraina finirà col vincere Putin. Che non si fermerà certo lì: e allora, oltre ai soldi, dovremo metterci anche i soldati. Che però non abbiamo, perché da noi nessuno ha più voglia di morire per la libertà (o per qualsiasi altra cosa).

Molto meglio per noi, quindi, che a fare il lavoro sporco siano gli ucraini, che non sono ancora così rammolliti e, soprattutto, hanno ancora abbastanza senso della realtà da capire che le pallottole non si fermano con le chiacchiere.

Se non per generosità, aiutiamoli almeno per egoismo.