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Intervista di Tommaso Rodano (Il Fatto Quotidiano) a Luca Ricolfi – Il follemente corretto e la sinistra

24 Ottobre 2024 - di fondazioneHume

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1. Luca Ricolfi, dopo dieci anni di indagine sul tema ha messo a punto un termine: “follemente corretto”. Cosa intende?
In prima approssimazione si potrebbe direi che il follemente corretto è la “malattia senile” dei politicamente corretto, la sua estrema degenerazione. Ma in realtà una definizione rigorosa è impossibile, perché il vero tratto distintivo del follemente corretto è il suo meccanismo di propagazione, che si fonda sul potere intimidatorio: nell’era dei social tutti possono diventare censori indignati, ma tutti sono, al tempo stesso, potenziali vittime, esposti al rischio di venire lapidati da censori ancora più fanatici.

2. Il suo elenco degli orrori del pensiero “woke” è notevole. Personalmente, sono rimasto impressionato dalla tabella dei nuovi pronomi di genere: “ve”, “xe”, “ze”, ma quali sono gli episodi che l’hanno colpita di più mentre lavorava al libro? 
Difficile fare una graduatoria, anche perché le follie sono molto eterogenee. Ci sono follie che impattano drammaticamente, come l’ammissione dei trans biologicamente maschi nei reparti femminili delle carceri, e follie che fanno semplicemente ridere, come Lufthansa che proibisce ai piloti di dire “gentili signore e signori benvenuti a bordo” perché qualcuno potrebbe non sentirsi né signora né signore.                                                                                                                                                                                       Comunque, come persona che per mestiere scrive e insegna, forse l’episodio che più mi dà da pensare è la pretesa di ripulire l’opera di Roald Dahl, un caso in cui coesistono sia la gravità della cosa (attacco alla libertà di espressione), sia la ridicolaggine (gli interventi effettuati sul testo sono bigotti e demenziali).

3. La sua tesi è che il politicamente corretto sia uno strumento di lotta di classe al contrario: invece di combattere le disuguaglianze, crea nuove élite. Quali?
Ne menzionerei tre: le vestali della Neolingua, ossia l’esercito di comunicatori che, nelle burocrazie, nelle università, nei media, nelle aziende, si occupa di ripulire il linguaggio; le lobby del Bene, ovvero le potentissime organizzazioni, soprattutto LGBT+, che
interferiscono quotidianamente con le attività di aziende e istituzioni; infine quelle che io chiamo le “guardie rosse della diversity” ossia gli staff che, nelle università e nelle aziende, si occupano di “sensibilizzare” dipendenti e opinione pubblica, e di garantire che le politiche siano inclusive, attente alla diversità, eccetera.

4. Sì è parlato tanto di schwa sui giornali, tra gli intellettuali e tra i politici, ma nei fatti non la usa quasi nessuno. E se va al mercato, sarà difficile trovare qualcuno che si ponga il problema del pronome o delle parole da usare con chi appartiene a una minoranza sessuale. Non pensa che la preoccupazione sul politicamente corretto stia diventando a sua volta una paranoia? 
In effetti di certi aspetti del follemente corretto la gente comune se ne infischia, e nessuno la redarguisce o la penalizza per questo. Il problema è che, non appena una persona comune prova a fare capolino in ambienti culturali/intellettuali/politici, la non padronanza del linguaggio corretto tende a diventare fonte di stigma ed emarginazione.
Riguardo a quel che succede nei mercati le do pienamente ragione: sono il posto più libero del pianeta, anche perché di norma i paladini del follemente corretto non ci mettono piede (tutt’al più ci mandano la servitù, eufemisticamente chiamata “personale di
servizio”).

5. Sono peggio le forzature ridicole del “follemente corretto” o quelle speculari, a destra, del politicamente scorretto a tutti i costi? Mi vengono in mente alcuni esempi di successo, da Vannacci alle flatulenze radiofoniche della Zanzara. 
Non so se sono speculari, perché il follemente corretto è per lo più raffinato, anzi fin troppo raffinato, mentre il politicamente scorretto estremo è semplicemente volgare: sono fenomeni diversi, più che opposti. Diciamo che, se devo scegliere, preferisco il follemente corretto, perché almeno fa ridere. Mentre la satira di destra, spesso, non è affatto divertente.

6. Il follemente corretto, scrive lei, è un problema della sinistra italiana. Crede che possa condizionare anche le elezioni americane?
Tantissimo. Sono in molti a ritenere che, nel 2016, Trump abbia vinto le elezioni anche perché una parte della società americana non ne poteva più del politicamente corretto. Adesso la storia rischia di ripetersi: non prendendo le distanze dalle istanze LGBT più estreme, Harris mette a repentaglio l’elezione. Diverse femministe hanno minacciato di votare Trump, o perlomeno di non votare Harris, se la candidata democratica non prenderà esplicitamente le distanze da obbrobri come l’utero in affitto e le terapie precoci di cambio di sesso/genere, basate su ormoni e talora su operazioni chirurgiche.

7. Che ne sarà del “follemente corretto”? É destinato a cambiare i connotati alla società italiana o a sgonfiarsi nel tempo?
Penso che si sgonfierà, ma non è detto. La sinistra potrebbe essere così stupida e autolesionista da continuare a difenderlo. Su alcuni temi, come quello dei pronomi o della schwa, si può anche pensare che, dopotutto, non cambiano la vita delle persone. Ma su altre cose, come l’utero in affitto, o la difesa degli spazi femminili, perseverare nella difesa delle istanze LGBT+ potrebbe rivelarsi un azzardo.

Scuole americane e libri all’indice – Censura bipartisan

2 Ottobre 2024 - di Luca Ricolfi

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La storia della censura è singolare. Negli anni ’50 e ’60, in Italia, i limiti alla libertà di espressione venivano soprattutto dalla destra e dai poteri clericali, che altro non facevano che applicare – piuttosto strettamente – l’articolo 21 della Costituzione, il
cui comma 6 recita: “Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”.

Questo regime è tramontato progressivamente, fra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, semplicemente perché il concetto di “buon costume”, come peraltro quello di “comune senso del pudore”, sono mutati radicalmente sotto la spinta del ’68 e
soprattutto del femminismo. Probabilmente l’ultimo atto significativo di censura dall’alto è il sequestro, alla fine del 1976, del romanzo Porci con le ali, di Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice.

Poi, praticamente nulla: libri, film e spettacoli teatrali cominciano a circolare liberamente. La satira in tv, specie nel quindicennio 1985-2001, conosce una stagione di allegria e meravigliosa scanzonatezza (da Quelli della notte, 1985, a L’ottavo nano, 2001), mai eguagliata dopo di allora. Certo, gli episodi di censura ci sono ancora, ma sono circoscritti e strettamente politici, nel senso che scattano se, e solo se, viene toccato un politico in posizione apicale (Craxi, Berlusconi).

Non così nel nuovo secolo, infestato dal politicamente corretto e dalla cosiddetta cancel culture. Inizia una nuova censura, molto diversa da quella del passato: è di sinistra anziché di destra, e procede dal basso anziché dall’alto. Inutile ricordare qui le migliaia di opere di ogni tipo – dalla Divina Commedia a Dumbo, dai dipinti di Gauguin alle musiche di Debussy – cadute sotto la scure dell’attivismo woke, specie negli Stati Uniti e in molti paesi di lingua inglese.

Quello su cui forse vale la pena richiamare l’attenzione, però, è quel che, da qualche tempo succede nelle scuole americane, e in particolare nelle biblioteche interne agli istituti scolastici. Qui da alcuni anni si stanno moltiplicando i tentativi da parte di
genitori, loro organizzazioni, ma anche attivisti esterni e autorità politiche locali, di bandire libri considerati “inappropriati”, ma la matrice dominante delle spinte censorie, a differenza di quel che da molti anni succede nelle università e nelle grandi
istituzioni della società americana, non è di sinistra.

La progressione del fenomeno è attentamente monitorata da varie associazioni di difesa del libro e della libertà di lettura. Ad esempio: l’associazione di scrittori Pen America, l’associazione dei librai American Library Association (ALA), Amnesty
International. Ebbene, i dati raccolti negli ultimi anni segnalano una esplosione del numero di libri di cui viene richiesto il bando. Secondo ALA, che raccoglie dati da più di 20 anni, le richieste di censura di libri erano 729 nel 2021, ma erano salite a 1269 nel 2022 (+74.1% in un solo anno). Secondo Pen America, che non lavora sugli anni solari ma sugli anni scolastici, nel 2021-22 le contestazioni erano state 2532, salite a 3362 nell’anno scolastico successivo (2022-23), e a oltre 10 mila nell’anno
scolastico appena concluso (2023-24).

Se si va a vedere di che libri si tratta e quali sono le ragioni delle richieste di bando, si scopre che, pur non mancando esempi paradossali, o difficili da collocare politicamente (la Bibbia, 1984 di Orwell), i contenuti più contestati ricadono in poche
categorie: oscenità e pornografia; violenza, sesso esplicito; storie LGBTQIA+; personaggi di colore; schiavismo e colonialismo.

Scavando più a fondo, emerge abbastanza chiaramente che la matrice delle contestazioni più frequente è di tipo conservatore e anti-woke (anche se non mancano contestazioni di segno opposto), e che non di rado la contestazione poggia su norme
introdotte dall’alto negli stati a maggioranza repubblicana, come Texas, Florida, Iowa, Utah, South Carolina, Tennessee.

Se teniamo conto del fatto che il fenomeno, pur presente da decenni, è decollato nel 2021 e ha preso vigore negli anni successivi, non sembra azzardato leggerlo (anche) come una reazione del mondo repubblicano alla sconfitta di Trump alle elezioni presidenziali del 2020.

Naturalmente ognuno può giudicare come preferisce l’esplosione delle richieste di censura dei libri delle biblioteche scolastiche: inaccettabile limitazione della “libertà di lettura”, o salutare reazione all’indottrinamento woke in atto in tante scuole
americane?

Resta il fatto che, almeno nelle scuole americane, la cancel culture non è più un monopolio della sinistra.

[articolo uscito sulla Ragione il 1° settembre 2024]

A proposito dell’Ultima Cena – Libertà di espressione e indottrinamento

31 Luglio 2024 - di Luca Ricolfi

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Ha suscitato un certo scalpore l’idea degli organizzatori delle Olimpiadi parigine di educarci “alla diversità e all’inclusione” allestendo una parodia dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, con sfilata di drag queen e una (alquanto volgare) esibizione di
un attore nella parte di Dioniso, dio pagano del vino, della festa e della trasgressione.

La cosa ha ovviamente turbato una parte del mondo cristiano, suscitato le ire della destra tradizionalista, nonché attivato varie difese di ufficio da parte progressista. La cosa più divertente, però, sono state le giustificazioni degli organizzatori, e in
particolare del direttore artistico Thomas Jolly.

In un primo tempo, la risposta alle critiche è stata che il messaggio dello spettacolo di ballerine e drag queen era che “in Francia abbiamo diritto di amarci come vogliamo e con chi vogliamo”, un chiaro riferimento al mondo LGBTQ+. Nessuno ha messo in
dubbio che l’esibizione parodiasse l’Ultima Cena, mostrando Gesù e gli apostoli in abiti femminili e piuttosto discinti. Anzi non pochi hanno cominciato a tirare in ballo la libertà artistica, paragonando il caso a quello tragicamente celebre delle caricature
di Maometto pubblicate su Charlie Hebdo, che nel 2015 erano costate la vita a 12 persone, fra cui 4 vignettisti.

Passano 48 ore e, improvvisamente, la versione cambia. Anziché rivendicare la libertà artistica e i diritti LGBT, gli organizzatori fanno una clamorosa quanto tardiva marcia indietro. Il direttore artistico dice che no, è stato tutto un equivoco, lo spettacolo non alludeva all’Ultima Cena, in realtà l’idea era solo di mettere in scena “una grande festa pagana, legata agli dei dell’Olimpo”. E la direttrice della comunicazione, per mettere fine alle polemiche, taglia corto e dichiara: “Se qualcuno è stato offeso, noi ce ne scusiamo”.

L’intera vicenda è estremamente istruttiva, perché consente di mettere in evidenza due clamorose falle logiche del politicamente corretto.

La prima falla è che se, in nome dell’arte o del diritto di critica, teorizzi la libertà di canzonare le religioni, allora non puoi farlo con certe religioni (il cristianesimo) e autocensurarti con altre (l’Islam). Da questo punto di vista, sono stati più coerenti i
vignettisti di Charlie Hebdo, che hanno avuto il coraggio di infrangere il tabù che in occidente protegge l’Islam.

La seconda falla logica è che alcuni dei principi generali della wokeness sono reciprocamente incompatibili. L’idea di poter parodiare una religione senza offenderne i fedeli è chiaramente contraddittoria. Analogamente, se in nome dei diritti di alcune minoranze sessuali ne metti in scena le manifestazioni più controverse e divisive, non puoi – contemporaneamente – sostenere che la comunicazione deve essere inclusiva e non offendere nessuno. Il caso paradigmatico, in proposito, sono i vari Pride e pseudo-Pride, che sono certamente più che legittimi, ma palesemente poco inclusivi. Il problema logico è che si vogliono far coesistere due principi incompatibili: il diritto di alcuni di manifestare sé stessi in totale libertà, e il diritto di altri di non venirne offesi.

Come se ne esce?

A mio parere il nodo fondamentale è di tipo per così dire tecnologico: dobbiamo classificare i messaggi in base al supporto comunicativo, skippabile o non skippabile, su cui usano viaggiare.

Un supporto è skippabile, se permette di sottrarsi al messaggio senza costi significativi. Ad esempio, se sono musulmano posso non andare in edicola a comprare il settimanale Charlie Hebdo. Se sono un po’ bigotto, posso non andare a vedere il gay Pride. Se ho un minimo di buon gusto, posso non guardare programmi tv come Il grande fratello, L’isola dei famosi, o Temptation Island. Se m disturba la pornografia, posso evitare certi siti, certi canali, certi film.

Un supporto, invece, è non skippabile, se per sottrarsi a un messaggio indesiderato mi costringe a rinunciare ad altri messaggi, che invece mi interessano. Tipici esempi le Olimpiadi, il festival di Sanremo, il concertone del 1° maggio, eventi che la gente segue per guardare le gare di atletica e ascoltare le esibizioni, ma che sempre più spesso contengono anche messaggi “pedagogici” che una parte del pubblico può non gradire, o da cui può sentirsi offeso, turbato, o indebitamente indottrinato. Lo stesso discorso, su scala molto minore, vale per i numerosi pop-up che ci balzano addosso mentre leggiamo un articolo o navighiamo in un sito.

Ebbene, se si usa la distinzione fra messaggi skippabili e non skippabili diventa chiaro perché il parallelo fra le caricature di Maometto su Charlie Hebdo e la parodia del cristianesimo alle Olimpiadi parigine non regge. Le vignette su Maometto erano skippabili, anche se potenzialmente virali. La parodia del Cristianesimo era non skippabile perché parte integrante dello spettacolo in cui era stata impiantata. Non solo, ma quella parodia, a differenza delle vignette di Charlie Hebdo, aveva un chiaro intento pedagogico, di indottrinamento e di cosiddetta sensibilizzazione.

È questa la scorrettezza, la mossa subdola cui le direzioni artistiche non riescono più a sottrarsi: approfittare di un grande evento, come possono essere le Olimpiadi o il Festival di Sanremo, per imporre a tutti un messaggio di parte, che finge di voler includere ma offende chi non lo condivide.

[articolo uscito sulla Ragione il 30 luglio 2024]

Kamala Harris versus Donald Trump – Elezioni americane e politicamente corretto

29 Luglio 2024 - di Luca Ricolfi

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In un solo giorno è cambiato tutto. Prima della rinuncia di Biden, nessuno avrebbe scommesso sulla vittoria dei Democratici alle presidenziali di novembre. Dopo le sue dimissioni, nessuno esclude che, con Kamala Harris, i Democratici possano vincere e
restare alla Casa Bianca.

I sondaggi concordano su un solo punto: lo scarto fra Trump e Harris è modesto e dello stesso ordine di grandezza dell’errore statistico. E a questa incertezza si aggiunge quella sui vice. Harris non ha ancora scelto il suo vice, né potrebbe essere diversamente, visto che non ha ancora ottenuto l’investitura ufficiale come candidata dei Democratici. Quanto a Trump, ha già fatto un errore: scegliere il proprio vice (J.D. Vance) senza sapere ancora chi sarà il suo avversario. C’è chi dice che, se avesse saputo che a sfidarlo sarebbe stata una donna, avrebbe scelto come vice un’altra donna (verosimilmente la sua ex acerrima rivale Nikki Haley).

Alcuni dei temi in campo sono i soliti: economia, immigrazione, diritti. Altri sono nuovi: guerra in Ucraina, guerra a Gaza. Ma è verosimile che, ad infiammare la competizione, saranno soprattutto due temi generali: la gestione dell’immigrazione
(in particolare del confine con il Messico); la questione dei diritti riproduttivi, delle minoranze sessuali, e più in generale della cultura woke.

Su questi due versanti Harris e Trump hanno, entrambi, punti deboli e punti forti.

Sull’immigrazione, Trump non potrà maramaldeggiare troppo perché Harris non è certo stata una paladina delle frontiere aperte, ha anzi più volte preso posizioni che in Italia siamo abituati ad associare a Salvini e Meloni: non venite, vi aiuteremo a casa
vostra, no al traffico di esseri umani, esternalizzazione delle richieste di asilo in paesi terzi (il nostro modello Albania). Trump potrà anche accusarla di non aver fatto abbastanza, ma non certo di aver spalancato i confini. Semmai, le critiche a Kamala
Harris potrebbero arrivare dalla sinistra del partito democratico (Bernie Sanders e Alexandria Ocasio Cortez), schierata su posizioni aperturiste. Insomma, in materia di immigrazione Kamala Harris si è comportata in modo moderato, se non di destra.

In termini diametralmente opposti stanno le cose sul tema dei diritti. Qui Kamala può vantare un non ambiguo posizionamento pro aborto e pro diritti LGBT+, una linea che la colloca nel cuore della cultura woke. Ma proprio questo suo radicalismo in
materia di diritti rischia di farne il bersaglio perfetto della guerra contro il wokismo dichiarata da Trump e dal suo vice. Una guerra che, in America, è molto più vasta e coinvolgente che da noi. E che non è detto trovi donne, neri, ispanici, compattamente schierati a sostegno della candidata democratica. Kamala Harris, ad esempio, ha l’ostilità del movimento Black Lives Matter, che non ha gradito la sua antidemocratica investitura dall’alto. Quanto alle donne, la maggioranza apprezza la difesa dell’aborto, ma una parte delle femministe non gradisce l’appoggio alle istanze dei transessuali, in particolare dei trans MtF (da maschio a femmine), accusati di invadere gli spazi tradizionalmente riservati alle donne.

E poi c’è il tema forse più importante: il politicamente corretto e più in generale la mentalità woke. Una etichetta che un tempo significava solo politica degli eufemismi (sostituire donna di sevizio con colf), ma negli ultimi anni – proprio negli Stati Uniti
– ha enormemente allargato il suo significato, ben al di là del semplice bon ton linguistico. In nome della correttezza politica i campus studenteschi si sono trasformati in campi di rieducazione, migliaia di professori hanno subito sanzioni o perso il posto, la selezione dei candidati e le promozioni hanno sempre più punito le maggioranze “normali” (maschi e femmine bianchi eterosessuali) a favore di minoranze etniche o sessuali, specie se politicamente impegnati in cause ritenute giuste e prioritarie: anti-razzismo, giustizia sociale, inclusione.

Più in generale si è enormemente allargata la frattura fra due mondi: da una parte l’establishment istruito, che occupa le posizioni chiave nell’economia, nella cultura, nell’arte, nello spettacolo, nel mondo della comunicazione, e in virtù della sua adesione alle istanze woke si sente portatore di una superiorità etica; dall’altra i ceti popolari a bassa istruzione, perennemente alle prese con le asperità della vita quotidiana, e del tutto insensibili alle sottili questioni linguistiche e giuridiche che appassionano l’élite colta. Questo è il terreno di scontro ideale per i Repubblicani, perché permette loro di presentarsi come paladini della libertà di espressione (contro la censura) e della meritocrazia (contro la politica delle quote). Già nel 2016 l’insofferenza per gli eccessi del politicamente corretto aveva aiutato l’elezione di Trump. Se vuole vincere, Kamala Harris farà bene a non scordare quella lezione.

[Articolo uscito sul Messaggero il 28 luglio 2024]

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