Le parole e le cose

Sigmund Freud, padre della psicanalisi, sosteneva che le parole, in quanto suscitano effetti, sono il mezzo generale con cui gli uomini si influenzano reciprocamente. Credo non siano molti i politici ad aver letto Freud, specie fra le nuove generazioni finalmente libere dalla zavorra della cultura, ma in compenso si comportano tutti quanti come se lo avessero letto. È questa la ragione fondamentale per cui le parole, nel discorso pubblico, sono usate in modo sistematicamente improprio. Lo scopo non è aiutarci a capire, ma guidare i nostri sentimenti e le nostre percezioni, per poter pilotare i nostri comportamenti. È questa la ragione fondamentale per cui la politica è inflazionata di due particolari figure retoriche, l’iperbole e l’eufemismo. La funzione della prima è drammatizzare, quella della seconda sdrammatizzare.

L’eufemismo, ad esempio, domina il campo della politica economica, specie quando si tratta di chiedere sacrifici ai cittadini. I tagli a pensioni, stipendi, servizi pubblici, vengono quasi sempre definiti con termini neutri, spesso incomprensibili: razionalizzare la spesa, consolidare il debito, rimodulare le imposte.

Alle volte la ridenominazione assume aspetti curiosi, al limite della comicità: ricordo che molti anni fa, a chi chiedeva a Bertinotti come poteva digerire che nel programma dell’Ulivo ci fossero le liberalizzazioni, venne risposto: ma che problema c’è? basta chiamarle “lotta ai monopoli”. Altre volte, invece, la ridenominazione assume tratti aberranti (e anche un po’ odiosi), come quando pensioni di 4 mila euro vengono qualificate come “pensioni d’oro”. Una sorta di eufemismo al contrario, che anziché cercare un termine per mascherare qualcosa di brutto (i tagli di spesa), cerca un termine per dipingere come brutto qualcosa di normale (le pensioni alte).

L’iperbole, non assente nei discorsi sulla politica economica (ricordate i tagli di spesa denominati “macelleria sociale”?), domina invece i discorsi sui migranti e sulla sicurezza. Può accadere così che la destra presenti come una “invasione” l’afflusso disordinato di migranti sulle nostre coste, e che da sinistra, per meglio far capire che orribile persona sia Salvini, lo si associ al criminale nazista Adolf Eichmann (copyright Furio Colombo).

Ma l’uso fuori luogo delle parole non è un’esclusiva della politica. Giornalisti e conduttori, ad esempio, non resistono mai, di fronte a un fenomeno che secondo loro sta aumentando molto, alla tentazione di parlare di crescita “esponenziale”, mostrando di ignorare che cosa l’aggettivo significhi (una crescita è “esponenziale” se avviene ad un tasso composto costante, e può quindi benissimo essere lentissima, come quella di un conto corrente che dà un interesse dello 0.1% all’anno).

Studiosi, professori universitari, autorità accademiche non sono da meno. Uno dei fenomeni più interessanti degli ultimi anni è l’abuso delle parole “violenza” e “violento”, con la conseguente perdita della distinzione fra aggressioni fisiche e aggressioni verbali, e persino della distinzione fra comportamenti intenzionali e non intenzionali. Accade così che, persino nelle statistiche, la categoria delle violenze sessuali si estenda progressivamente a coprire qualsiasi approccio non gradito o fastidioso, specie se la vittima è donna. La psicologa americana Jean Twenge, autrice di un bellissimo studio sulla generazione Internet (Iperconnessi, Einaudi 2018), racconta con preoccupazione che il concetto di “aggressione” si sia esteso fino al punto di includere, sotto la categoria delle “micro-aggressioni”, qualsiasi comportamento che possa offendere la sensibilità di qualcuno, anche involontariamente (come se dentro la parola “aggredire” non fosse implicita la volontarietà). Può accadere così che un professore perda la cattedra perché i suoi studenti dichiarano di essersi sentiti offesi dai materiali di studio proposti, anche se gli autori di quei materiali erano Mark Twain o Edward Said.

Mi si potrebbe obiettare, naturalmente: “è il linguaggio, bellezza!”. Dopotutto la capacità di evolvere, e di adattarsi a situazioni sempre nuove e diverse, è uno dei pregi fondamentali del linguaggio naturale. È vero, ma ci sono usi appropriati della flessibilità, e ci sono usi fuorvianti, distorsivi, manipolatori.

L’uso sconsiderato delle parole può avere due effetti negativi. Il primo è di fornirci descrizioni errate, spesso antitetiche, della situazione in cui ci troviamo, quando invece quello che serve, quali che siano le nostre idee e i nostri propositi, è innanzitutto una descrizione accurata della situazione com’è. Questa è una differenza cruciale fra le licenze della letteratura e quelle della politica, specie nel ricorso alle metafore. Se un romanziere scrive “il cuore di Pamela sanguinava”, di norma sei in grado di capire se Pamela usciva da uno scontro a fuoco, o se era stata mollata dal fidanzato. Ma se un politico dice “c’è un’invasione dall’Africa”, può esserci qualcuno che la prende come una descrizione sostanzialmente esatta della situazione. Simmetricamente, se un giornalista dice che Salvini è come Eichmann, ossia come un nazista, qualcuno può essere indotto a pensare che dobbiamo reagire come al pericolo nazista. E non sto riferendomi all’eventualità, fortunatamente remotissima, che un neo-partigiano si senta in dovere di organizzare un attentato a Salvini, ma all’eventualità che la lotta politica in Italia precipiti in un baratro di incomprensioni e sopraffazioni reciproche.

Ma forse l’effetto più negativo dell’uso sconsiderato delle parole è ancora un altro, assai più sottile: la banalizzazione delle tragedie. Riservare il medesimo termine, violenza sessuale, a uno stupro e a un complimento sgradito, è profondamente offensivo per le vere vittime, le donne che hanno vissuto la tragedia della violenza sessuale. Così, etichettare come nazista la proposta di censire i rom, è anche un’offesa alla memoria dei rom eliminati da Hitler nelle camere a gas.

Voglio dire che, portata al di là di ogni ragionevolezza, l’equiparazione di fenomeni di natura e gravità del tutto diverse, non solo offende la verità, ma offende le vere vittime. Perché la lodevole intenzione di stigmatizzare anche i peccati veniali finisce per attutire la distinzione fra peccati veniali e peccati mortali. Il linguaggio funziona anche così: a forza di ampliare il territorio di una parola, finiamo per far cadere ogni confine. A forza di dire che anche un insulto è violenza, rischiamo di trattare le vere violenze come semplici insulti. Come fece Pietro Maso che, dopo aver massacrato i genitori per appropriarsi dell’eredità, ebbe a definire il suo gesto “una cazzata”, come se una categoria unica potesse includere bravate e crimini.

Ecco perché il linguaggio conta, e abusarne è pericoloso. Nominando le cose con le parole sbagliate, quel che rischiamo non è solo di non capire la realtà, ma di smarrire la capacità di giudicarla.




Adesso pensiamo alla Povertà

Sono convinto che, alle prossime elezioni politiche, si parlerà soprattutto di tre cose: immigrazione, flat tax, reddito di cittadinanza.

I discorsi sull’immigrazione sono prevedibili. La destra chiederà di fermare il caos degli ingressi, la sinistra dirà che è difficile, e abbiamo il dovere dell’accoglienza. Il copione è quello di sempre, solo i numeri sono radicalmente diversi da quelli del passato.

I discorsi sulla flat tax (stessa aliquota per tutti i redditi), invece, sono meno prevedibili, perché estremamente tecnici. Quel che è prevedibile è che il grande pubblico non riuscirà a capire quali proposte stanno in piedi e quali no. La sinistra dirà che la flat tax è incostituzionale, la destra spiegherà perché non è vero che lo sia. Gli appassionati discuteranno se l’aliquota di equilibrio possa essere il 15%, il 20% o il 25%, ma alla fine, probabilmente, non se ne farà nulla.

Diverso il caso del terzo tema, quello del reddito di cittadinanza. Tutto fa pensare che di questo parleremo a lungo e appassionatamente, per due buoni motivi. Il primo è che qualsiasi proposta di sostegno del reddito suscita interesse e può essere spiegata in modo comprensibile. Il secondo è che il tema è decisamente attuale, se non altro perché diversi partiti (fra cui il Movimento Cinque Stelle) hanno depositato proposte di legge.

Ecco perché è importante capire esattamente di che cosa parleremo, senza farsi ingannare dalle parole. Naturalmente ciascuno è libero di chiamare le cose come vuole, ma – se ci si vuole capire – non è mai una buona idea quella di chiamare in modo eguale cose diverse, o chiamare in modo diverso cose eguali. Meglio attenersi al significato ordinario, e quindi più condiviso, delle parole. Ecco dunque un piccolo glossario.

Per reddito di cittadinanza, o reddito di base, si intende un reddito che è fornito a tutti i cittadini, senza condizioni, e permanentemente. Il reddito di cittadinanza è erogato agli individui, ed è del tutto indipendente dalle condizioni economiche o di lavoro del singolo o della sua famiglia. Lo prende Berlusconi e lo prende il clochard, lo prende il politico e lo prende l’operaio.

Le definizioni più dettagliate di che cosa si debba intendere per reddito di cittadinanza possono differire solo su due punti importanti: da che età lo si percepisce (nascita, maggiore età) e che cosa succede quando si raggiunge l’età della pensione.

La proposta di Grillo di un “reddito di cittadinanza”, come vedremo fra poco, non ha nulla a che fare con il reddito di cittadinanza vero e proprio.

Per reddito minimo, o reddito minimo garantito, si intende invece un reddito riservato a quanti si trovano sul mercato del lavoro e non raggiungono un livello di reddito sufficiente per vivere. La differenza principale con il reddito di cittadinanza è che per usufruire del reddito minimo occorre essere poveri (a livello individuale o familiare) e disponibili ad accettare proposte di lavoro o di formazione. A qualche forma di reddito minimo possono accedere i disoccupati e i sottoccupati, ma non casalinghe, studenti, e più in generale quanti, pur abili al lavoro e in condizione di povertà, non sono disposti ad accettare offerte di lavoro.

La proposta di Grillo di reddito di cittadinanza è, in buona sostanza, una proposta di reddito minimo garantito, anche se con alcune peculiarità.

Il reddito di cittadinanza non esiste in alcun paese del mondo, salvo l’Alaska in cui tuttavia quel che c’è non è un vero reddito di cittadinanza ma un bonus dell’ordine di 150 dollari al mese, largamente al di sotto della soglia di povertà.

Forme di reddito minimo esistono invece in tutti i paesi dell’Unione Europea, salvo la Grecia e l’Italia.

Quel che esiste nel nostro paese è una miriade di forme di sostegno del reddito, che tuttavia sono del tutto prive del requisito dell’universalità, in quanto riservate a specifiche categorie di persone individuate su base lavorativa, settoriale, residenziale, sanitaria. Nel loro insieme queste misure, a differenza di quelle previste dal reddito minimo, non sono sufficienti a proteggere gli individui e le famiglie dal rischio di cadere al di sotto della soglia di povertà. Possiamo chiamare reddito sub-minimo il sistema di sussidi previsto in paesi come l’Italia e la Grecia.

Le differenze fra reddito di cittadinanza e reddito minimo sono almeno tre. La prima è il costo dell’erogazione: in un paese come l’Italia qualsiasi forma di vero reddito di cittadinanza costerebbe circa 300 miliardi e sfascerebbe i conti dello Stato, mentre l’introduzione di qualche tipo di reddito minimo costerebbe fra i 10 e i 20 miliardi (la versione del Movimento Cinque Stelle ne costa 16). La seconda differenza è il costo di gestione: il reddito di cittadinanza, non essendo soggetto a verifiche di alcun tipo, ha un costo di gestione irrisorio, il reddito minimo ha un costo di gestione molto alto, perché inevitabilmente fa crescere un apparato di controlli, funzionari pubblici, scuole di formazione, centri per l’impiego che, rischi di corruzione e abusi di potere a parte, assorbe una frazione notevole delle risorse destinate al reddito minimo. Chi vuol farsi un’idea di quel che può succedere quando un apparato pubblico si occupa del nostro (presunto) benessere può vedere il film di Ken Loach, Io, David Blake, che puntualmente descrive le storture e le aberrazioni dei centri per l’impiego inglesi.

La differenza più importante, tuttavia, è la terza, ed è di natura filosofica. L’idea implicita nel reddito di cittadinanza, ossia di introiti fissi, permanenti e intoccabili, è di sottrarre la scelta di lavorare o meno a calcoli sui sussidi che si potrebbero acquisire o perdere a seconda delle proprie scelte lavorative. Il problema è che il reddito di cittadinanza costa troppo, mentre quello minimo porta inevitabilmente a extra-costi burocratici, nonché a innumerevoli storture e inefficienze.

La sfida è trovare un meccanismo che costi come il reddito minimo, ma funzioni in modo automatico come il reddito di cittadinanza. Sfortunatamente né la proposta Cinque Stelle, che è una proposta di reddito minimo iper-burocratica, né le misure varate dal Governo Renzi, che sono semplici misure di reddito sub-minimo, rispondono all’obiettivo che le politiche contro la povertà dovrebbero porsi: sradicare la povertà, farlo senza alimentare sprechi e comportamenti opportunistici.

Pubblicato su Panorama il 19 gennaio 2017