Le magnifiche 7

(a proposito di donne e politica)

Che, in tantissimi campi, le donne siano numerose ma le posizioni apicali siano tuttora occupate prevalentemente da uomini è verissimo. E’ vero nell’università, ad esempio, dove solo 7 rettori su 84 sono donne. E pure in politica, almeno in Italia: non abbiamo mai eletto un presidente della repubblica donna, né un presidente del consiglio donna. Perciò non stupisce che, periodicamente, circolino appelli più o meno ben argomentati (di solito pessimamente argomentati) per correggere questa stortura.

Da che cosa dipende la sotto-rappresentazione delle donne?

Dalla sopravvivenza del patriarcato, rispondono non di rado le paladine della causa femminile.  Può darsi, anche se – come sociologo – non posso non osservare che è una pseudo-spiegazione, che si limita a dare un nome a un fenomeno di cui non è in grado di ricostruire i meccanismi.

Se vogliamo capirne di più, è meglio circoscrivere gli ambiti e delimitare il campo. Potremmo, ad esempio, ragionare sulla leadership politica, e chiederci come mai, nei grandi paesi occidentali, negli ultimi 50 anni le donne hanno contato così poco.

Ebbene, se questa è la domanda, è difficile sfuggire a un paio di osservazioni. La prima è che l’accesso delle donne al potere politico è stata assai scarsa fino al 2018, ma a partire dalla metà del 2019 la vera domanda è un’altra: come hanno fatto le donne, nel giro di 3 anni, ad occupare praticamente tutte le posizioni apicali del potere politico-economico in Europa, sbaragliando i concorrenti maschi?

Luglio 2019: Christine Lagarde viene designata a succedere a Mario Draghi al vertice della Banca Centrale Europea; nello stesso mese, Ursula von der Leyen viene eletta Presidente della Commissione europea.

Ottobre 2019: Kristalina Georgieva, economista e politica bulgara, viene nominata direttrice del Fondo Monetario Internazionale.

Gennaio 2022: in seguito alla scomparsa di David Sassoli, la politica maltese Roberta Matsola viene eletta presidente del Parlamento Europeo.

A oggi, nelle grandi istituzioni politico-finanziarie, il potere maschile pare sopravvivere solo al di là dell’Atlantico, dove Donald Trump ha imposto David Malpass a capo della Banca Mondiale e Jerome Powell alla Fed (dove peraltro, fino al 2018, comandava una donna, Janet Yellen).

Ma c’è una seconda osservazione, ancora più interessante per gli studiosi di discriminazione e parità di genere. Se ci chiediamo quante e quali siano le donne che, negli ultimi 50 anni, siano state capaci di diventare leader politici di peso nei principali paesi occidentali scopriamo che sono solo 7, e che c’è un unico tratto che le accomuna.

Le elenco per paese: Margaret Thatcher e Theresa May nel Regno Unito; Marine e Marion Le Pen in Francia; Angela Merkel e Ursula von der Leyen in Germania; Giorgia Meloni in Italia.

Che cosa le accomuna?

Semplice: vengono tutte da destra, come da destra, peraltro, vengono le altre tre donne che negli ultimissimi anni hanno raggiunto posizioni apicali nella Bce, nel Fondo Monetario e al Parlamento europeo (e, sempre da destra, veniva Simone Veil, prima presidente del Parlamento Europeo) .

Dunque, cari amici studiosi di discriminazione ai danni delle donne, la domanda più interessante non è perché così spesso le donne non ce la fanno ma, semmai, perché per farcela devono essere di destra.

Una risposta possibile è che, nei meccanismi che regolano le carriere politiche, a sinistra è ancora dominante la cooptazione, mentre a destra c’è anche un po’ di meritocrazia. Le donne di destra non paiono avere remore a sfidare in campo aperto i rivali maschi (lo ha appena fatto Valérie Pécresse in Francia, che ha battuto il rivale maschio Eric Ciotti), mentre quelle di sinistra troppo spesso paiono attendere la chiamata del capo, umili e ossequiose come le donne di un tempo.

Non è forse un caso che, al di qua come al di là dell’Atlantico, le uniche donne di sinistra arrivate a sfiorare ruoli di comando nazionali – Ségolene Royal e Hillary Clinton – siano state in partita anche in virtù del loro essere “mogli di”, rispettivamente di un segretario di lungo corso del Partito Socialista francese e di un ex presidente egli Stati Uniti.

Quanto al nostro paese, come non notare che il Pd, a parole paladino della parità uomo-donna, non ha indicato alcuna donna come ministro del Governo Draghi? O come non osservare che, per avere due donne capogruppo in Senato e alla Camera, si sia dovuto scomodare il segretario del partito, che le ha imposte dall’alto ai suoi deputati e senatori?

Insomma, visto come sono andate le cose, è difficile sfuggire al dubbio: non sarà che l’esclusione delle donne dal potere è, innanzitutto e non solo in Italia, un problema della cultura progressista?




Dov’è sparita la scuola?

Sono tempi di sparizioni. Sono spariti da un po’ i pomodori col gusto di pomodoro, come aveva scritto Pietro Citati (anche le mele col gusto di mela, per quel che ne penso io). Sono sparite le videocassette, le sarte, il teatro radiofonico, i capelli cotonati, la lacca. Spariscono sempre più i generi letterari, le spiagge (mangiate dal mare), i ghiacciai (mangiati dal caldo). Spariranno forse a breve anche i libri con tutti gli annessi: scrittori, editori, librerie e biblioteche.

E la scuola, è sparita?

No di certo: essendo settembre, è ricominciata.

Sembrerebbe sparita, però. Non se ne parla più. Non se n’è mai parlato così poco, direi. Silenzio assordante. Da mesi e mesi, nel perenne stato di propaganda politica pre e post elettorale in cui viviamo, nessun candidato o leader dei vari movimenti o partiti ha mai fatto nemmeno un accenno, fuggevole, magari per errore, al tema scuola. A parte l’ex ministro Calenda, che ha più volte nominato in pubblico, mostrando grande coraggio, le parole istruzione, libri, lettura e, qua e là, persino la parola cultura. Eroico. Ha tutta la mia ammirazione. È l’unico, mi pare. Per il resto, tema completamente sparito. Non era nelle priorità per il paese, non era nell’agenda dei politici.

E, visto che i politici oggi fanno politica seguendo i like dei loro follower, dovremmo a malincuore dedurne che il tema scuola non interessa agli italiani, cioè a nessuno di noi. Può darsi. O a ben pochi, una componente elettorale tanto irrisoria che si può benissimo ignorare. Sì, è possibile che la maggioranza mandi i figli a scuola per una sorta di inerzia sociale e la consideri di fatto un’incombenza (nel senso che incombe) inutile e uggiosa nella vita dei figli, qualcosa di cui non vale più la pena nemmeno di parlare. Altri i temi scottanti del dibattito, televisivo e non, tutti economici, o al più moraleggianti: le tasse, le pensioni, la disoccupazione, lo spread; gli immigrati, gli sbarchi, l’accoglienza, le ONG.

Ma è settembre, e la scuola, come sempre, è ricominciata. Che dire?

Non sono più un’insegnante in servizio, e guardo ormai la scuola da una lontananza siderale. Per esempio, conosco poco le ultime novità, solo per sentito dire, non avendole esperite: il registro elettronico, l’alternanza scuola-lavoro, i cambiamenti dell’esame di maturità. Ma il tema mi sta sempre molto a cuore. Parlarne può essere di una sconcertante inutilità, lo so. Soltanto parole. Ma il non parlarne è il segno di una battaglia persa per sempre. Le parole non sono irrilevanti, se usate non a vuoto. Le parole sono idee. E senza idee si muore. Dunque, che il mio Paese non abbia più parole, e idee, sulla scuola mi fa un’enorme tristezza. Difficile fondare o rifondare qualcosa se non si parte dall’istruzione, dai libri, dallo studio, dall’esercizio del pensiero. Difficile far andare avanti il mondo se non si pensa a coltivare le menti degli esseri umani fin dalla loro tenera età. Età scolastica, appunto.

Ci sarebbe molto da dire, soprattutto se la scuola così com’è oggi non ci piacesse, se fossimo animati da qualche dubbio sull’ondata tecnologica, per esempio, o sulla dittatura dei test a crocette, e se volessimo che la scuola tornasse a essere un ascensore sociale, che muove i giovani dai piani bassi dove per nascita la sorte li ha collocati, ai piani alti dove un più alto livello di studi potrebbe farli arrivare. Sì, ci sarebbe molto da dire e molto lavoro da fare. Forse si potrebbe pensare, una buona volta, di cambiare drasticamente rotta…

Ma adesso, quest’anno per la prima volta, mi coglie una preoccupazione nuova. Ho letto sui giornali che alcuni insegnanti vogliono fare politica a scuola: insegnare l’antirazzismo, per esempio. L’antifascismo, l’antibullismo… La solidarietà, la convivenza civile, la democrazia…

Grandi valori, non c’è dubbio. Lodevoli propositi. Ma… Avrei qualche non piccola obiezione. Per dire, non credo che l’antirazzismo si possa “insegnare”, ecco. L’amore, la generosità, il rispetto, l’altruismo non s’insegnano. Non funziona in modo così scoperto, letterale, diretto. Non riesco a immaginare corsi per far innamorare qualcuno, o per convincerlo a convivere amorevolmente con una persona di altro colore e di altra cultura. Cioè, non è dicendo che non bisogna essere razzisti, e dicendolo con apposite conferenze di esperti, convegni psico-sociologici o prediche più o meno laiche, che otterremo che la gente non sia razzista. Credo anzi che la lezione morale, inevitabilmente retorica e pedante, possa addirittura in certi casi suscitare l’effetto contrario. Pinocchio, ricordiamolo, prende a martellate il Grillo Parlante.

Capisco la solitudine degli insegnanti, sempre più abbandonati a se stessi, ricattati dalla maleducazione di genitori e allievi, impigliati nella rete frustrante della burocrazia e nella rete tout court, dilacerati tra programmi vetusti e meravigliosi nuovi metodi, nonché ripetutamente gettati nei pentoloni bollenti dei corsi di aggiornamento. Capisco ancor di più che oggi gli insegnanti, di fronte alla decadenza culturale, morale e politica dell’intero nostro Paese, si sentano animati da nobili propositi educativi e vogliano in qualche modo dirigere al meglio gli animi. Migliorare l’umanità, cambiare il mondo, eccetera…

Ma far politica nelle scuole siamo sicuri che sia la via giusta?

Ho fatto il liceo negli anni ’70, e li ho visti da vicino gli insegnanti cosiddetti “politicizzati”. Arrivavano in classe come sul piede di guerra, e accantonando libri e registri cominciavano, infervorati, le loro concioni quasi fossero in piazza con le bandiere. Ne ho avuti alcuni che per tutto il triennio del liceo classico non hanno quasi mai (direi mai, affidandomi ai miei ricordi, ma non vorrei esagerare) fatto lezione. Voglio dire che per tre anni non hanno insegnato la loro materia!

Credo che ritenessero d’aver ben altri compiti, che quello di spiegarci le guerre puniche, le teorie kantiane o le formule di prostaferesi. Troppo banale, semplice, irrilevante.  Avevano materie più scottanti di cui parlarci: la Cina di Mao, i Khmer rossi in Cambogia, gli scioperi, i picchetti, le assemblee, la lotta operaia, gli scontri con i picchiatori fascisti. Probabilmente ritenevano, in buona fede e in ottemperanza alle loro più profonde convinzioni, che fosse molto più importante discutere di attualità e agitare le coscienze, che non insegnare nozioni ai loro occhi vetuste, astratte e atemporali, di matematica, filosofia o storia dell’arte. Hanno preferito fare politica, piuttosto che fare scuola. Usando inevitabilmente parole faziose, non neutre, non imparziali, per influenzare, per plasmare. Per indottrinare!

Non li ho mai perdonati. Perché non è vero che poi, negli anni, uno se le studia comunque, se vuole, le materie che non ha fatto a scuola. Non è vero. Quelle materie per me sono state perse per sempre, un buco irreparabile, una ignoranza che mi ha accompagnato tutta vita, sicuramente impoverendola.

Forse gli insegnanti dovrebbero limitarsi a far lezione. Ma dovrebbero farlo pensando che non sia una limitazione, anzi, dovrebbero pensare che il loro più vero impegno “politico” sia proprio questo: non privare i giovani della cultura, dar loro il massimo delle conoscenze, e al livello più alto possibile, perché questo li renderà “umani”.

Le parole di Inge Feltrinelli mi giungono da un’intervista televisiva, in questi giorni tristi dedicati al suo ricordo: “I libri non sono per imparare, per studiare. Sono per la vita”. Non saprei dirlo meglio. La vita di una persona, in tutta la sua pienezza e complessità, nutrita dai libri, dal sapere che diventa possesso personale, unico. Allora sì, in questo senso, la cultura rende davvero umano un essere umano. La cultura scolastica prima di tutto, che è quella che si acquisisce lentamente, negli anni dell’infanzia e giovinezza. Studiando, sì, le “materie”. Storia, geografia, fisica, arte, matematica, letteratura, chimica, filosofia. Dante, Keplero, Mozart, Van Gogh, Freud, Einstein… È leggendo i libri, è attraverso le opere dei grandi, scrittori, scienziati, artisti, che da studenti impariamo i valori più nobili. Ed è facendo lezione che, da insegnanti, incidiamo nella mente dei ragazzi, insegniamo loro – ma in modo indiretto! – a essere rispettosi, generosi, altruisti, misericordiosi… E non razzisti! Senza bisogno di parole dirette, faziose, predicanti. Parole troppo “piccole”, anguste, limitate: ancorate soltanto alla contingenza del presente.

La cultura apre a orizzonti temporali ben più vasti. È spazio senza confini. È parola non faziosa e non attuale. È libertà assoluta di pensiero.

 … e la poesia?

E la poesia, esiste ancora?

Sì, esiste. Non è vero che è morta. Si pubblicano ancora libri, ci sono collane, editori, autori. E ci sono premi, convegni, persino festival di poesia.

Dunque la poesia esiste.

Sì. Ma mi viene da pensare ai fuochi che si facevano in campagna per bruciare i legni, gli sterpi, i vari rimasugli di una vita contadina, che così come produceva, sapeva anche distruggere il superfluo, il pattume. Ora non c’è più la vita contadina, e comunque i fuochi in campagna sono proibiti. Ciò nonostante ogni tanto qualcuno che abita in campagna, o un po’ ai lati delle periferie, non sapendo cosa farne delle foglie secche, dei rami potati, accende un grosso fuoco. Magari verso sera, o all’alba di certi giorni particolarmente nebbiosi, perché siano poco visibili, perché nessuno se ne accorga.

Così è per la poesia. Non ci sono più le condizioni per cui si possa produrre poesia; non ci sono più lettori, per esempio. E forse non ci sono nemmeno più poeti; poeti grandi, dico, riconosciuti come tali. Ma qualcuno resiste, ai margini; qualche poeta sparuto, grande o piccolo lo sapremo poi o non lo sapremo mai, che se ne vive appartato e che quasi di nascosto scrive i suoi versi che chissà mai chi leggerà. Una o due poesie, o anche un librino vero, se ha fortuna di pubblicarlo, se trova un editore: allora fa un giretto sul palco di qualche festival e magari vince anche qualche piccolo premio.

Ne parlo con una mia grande amica, con cui ho condiviso studi e passioni letterarie per tutta la vita. Prendiamo un caffè, qualche giorno fa, e le chiedo che ne è della poesia, secondo lei, cosa fanno oggi i poeti.

Ci pensa un po’. Mi guarda con i suoi occhi piccoli e scuri, un po’ triangolari, poi risponde:

– Vanno a capo.

Folgorante. Già. La poesia è andare a capo a ogni verso. Ma se diventa soltanto andare a capo?

Non diciamo più niente. Lei mi sorride, io le sorrido. E ci finiamo il caffè.

Pubblicato su Il Sole24Ore del 1 ottobre 2018




Le parole e le cose

Sigmund Freud, padre della psicanalisi, sosteneva che le parole, in quanto suscitano effetti, sono il mezzo generale con cui gli uomini si influenzano reciprocamente. Credo non siano molti i politici ad aver letto Freud, specie fra le nuove generazioni finalmente libere dalla zavorra della cultura, ma in compenso si comportano tutti quanti come se lo avessero letto. È questa la ragione fondamentale per cui le parole, nel discorso pubblico, sono usate in modo sistematicamente improprio. Lo scopo non è aiutarci a capire, ma guidare i nostri sentimenti e le nostre percezioni, per poter pilotare i nostri comportamenti. È questa la ragione fondamentale per cui la politica è inflazionata di due particolari figure retoriche, l’iperbole e l’eufemismo. La funzione della prima è drammatizzare, quella della seconda sdrammatizzare.

L’eufemismo, ad esempio, domina il campo della politica economica, specie quando si tratta di chiedere sacrifici ai cittadini. I tagli a pensioni, stipendi, servizi pubblici, vengono quasi sempre definiti con termini neutri, spesso incomprensibili: razionalizzare la spesa, consolidare il debito, rimodulare le imposte.

Alle volte la ridenominazione assume aspetti curiosi, al limite della comicità: ricordo che molti anni fa, a chi chiedeva a Bertinotti come poteva digerire che nel programma dell’Ulivo ci fossero le liberalizzazioni, venne risposto: ma che problema c’è? basta chiamarle “lotta ai monopoli”. Altre volte, invece, la ridenominazione assume tratti aberranti (e anche un po’ odiosi), come quando pensioni di 4 mila euro vengono qualificate come “pensioni d’oro”. Una sorta di eufemismo al contrario, che anziché cercare un termine per mascherare qualcosa di brutto (i tagli di spesa), cerca un termine per dipingere come brutto qualcosa di normale (le pensioni alte).

L’iperbole, non assente nei discorsi sulla politica economica (ricordate i tagli di spesa denominati “macelleria sociale”?), domina invece i discorsi sui migranti e sulla sicurezza. Può accadere così che la destra presenti come una “invasione” l’afflusso disordinato di migranti sulle nostre coste, e che da sinistra, per meglio far capire che orribile persona sia Salvini, lo si associ al criminale nazista Adolf Eichmann (copyright Furio Colombo).

Ma l’uso fuori luogo delle parole non è un’esclusiva della politica. Giornalisti e conduttori, ad esempio, non resistono mai, di fronte a un fenomeno che secondo loro sta aumentando molto, alla tentazione di parlare di crescita “esponenziale”, mostrando di ignorare che cosa l’aggettivo significhi (una crescita è “esponenziale” se avviene ad un tasso composto costante, e può quindi benissimo essere lentissima, come quella di un conto corrente che dà un interesse dello 0.1% all’anno).

Studiosi, professori universitari, autorità accademiche non sono da meno. Uno dei fenomeni più interessanti degli ultimi anni è l’abuso delle parole “violenza” e “violento”, con la conseguente perdita della distinzione fra aggressioni fisiche e aggressioni verbali, e persino della distinzione fra comportamenti intenzionali e non intenzionali. Accade così che, persino nelle statistiche, la categoria delle violenze sessuali si estenda progressivamente a coprire qualsiasi approccio non gradito o fastidioso, specie se la vittima è donna. La psicologa americana Jean Twenge, autrice di un bellissimo studio sulla generazione Internet (Iperconnessi, Einaudi 2018), racconta con preoccupazione che il concetto di “aggressione” si sia esteso fino al punto di includere, sotto la categoria delle “micro-aggressioni”, qualsiasi comportamento che possa offendere la sensibilità di qualcuno, anche involontariamente (come se dentro la parola “aggredire” non fosse implicita la volontarietà). Può accadere così che un professore perda la cattedra perché i suoi studenti dichiarano di essersi sentiti offesi dai materiali di studio proposti, anche se gli autori di quei materiali erano Mark Twain o Edward Said.

Mi si potrebbe obiettare, naturalmente: “è il linguaggio, bellezza!”. Dopotutto la capacità di evolvere, e di adattarsi a situazioni sempre nuove e diverse, è uno dei pregi fondamentali del linguaggio naturale. È vero, ma ci sono usi appropriati della flessibilità, e ci sono usi fuorvianti, distorsivi, manipolatori.

L’uso sconsiderato delle parole può avere due effetti negativi. Il primo è di fornirci descrizioni errate, spesso antitetiche, della situazione in cui ci troviamo, quando invece quello che serve, quali che siano le nostre idee e i nostri propositi, è innanzitutto una descrizione accurata della situazione com’è. Questa è una differenza cruciale fra le licenze della letteratura e quelle della politica, specie nel ricorso alle metafore. Se un romanziere scrive “il cuore di Pamela sanguinava”, di norma sei in grado di capire se Pamela usciva da uno scontro a fuoco, o se era stata mollata dal fidanzato. Ma se un politico dice “c’è un’invasione dall’Africa”, può esserci qualcuno che la prende come una descrizione sostanzialmente esatta della situazione. Simmetricamente, se un giornalista dice che Salvini è come Eichmann, ossia come un nazista, qualcuno può essere indotto a pensare che dobbiamo reagire come al pericolo nazista. E non sto riferendomi all’eventualità, fortunatamente remotissima, che un neo-partigiano si senta in dovere di organizzare un attentato a Salvini, ma all’eventualità che la lotta politica in Italia precipiti in un baratro di incomprensioni e sopraffazioni reciproche.

Ma forse l’effetto più negativo dell’uso sconsiderato delle parole è ancora un altro, assai più sottile: la banalizzazione delle tragedie. Riservare il medesimo termine, violenza sessuale, a uno stupro e a un complimento sgradito, è profondamente offensivo per le vere vittime, le donne che hanno vissuto la tragedia della violenza sessuale. Così, etichettare come nazista la proposta di censire i rom, è anche un’offesa alla memoria dei rom eliminati da Hitler nelle camere a gas.

Voglio dire che, portata al di là di ogni ragionevolezza, l’equiparazione di fenomeni di natura e gravità del tutto diverse, non solo offende la verità, ma offende le vere vittime. Perché la lodevole intenzione di stigmatizzare anche i peccati veniali finisce per attutire la distinzione fra peccati veniali e peccati mortali. Il linguaggio funziona anche così: a forza di ampliare il territorio di una parola, finiamo per far cadere ogni confine. A forza di dire che anche un insulto è violenza, rischiamo di trattare le vere violenze come semplici insulti. Come fece Pietro Maso che, dopo aver massacrato i genitori per appropriarsi dell’eredità, ebbe a definire il suo gesto “una cazzata”, come se una categoria unica potesse includere bravate e crimini.

Ecco perché il linguaggio conta, e abusarne è pericoloso. Nominando le cose con le parole sbagliate, quel che rischiamo non è solo di non capire la realtà, ma di smarrire la capacità di giudicarla.




Adesso pensiamo alla Povertà

Sono convinto che, alle prossime elezioni politiche, si parlerà soprattutto di tre cose: immigrazione, flat tax, reddito di cittadinanza.

I discorsi sull’immigrazione sono prevedibili. La destra chiederà di fermare il caos degli ingressi, la sinistra dirà che è difficile, e abbiamo il dovere dell’accoglienza. Il copione è quello di sempre, solo i numeri sono radicalmente diversi da quelli del passato.

I discorsi sulla flat tax (stessa aliquota per tutti i redditi), invece, sono meno prevedibili, perché estremamente tecnici. Quel che è prevedibile è che il grande pubblico non riuscirà a capire quali proposte stanno in piedi e quali no. La sinistra dirà che la flat tax è incostituzionale, la destra spiegherà perché non è vero che lo sia. Gli appassionati discuteranno se l’aliquota di equilibrio possa essere il 15%, il 20% o il 25%, ma alla fine, probabilmente, non se ne farà nulla.

Diverso il caso del terzo tema, quello del reddito di cittadinanza. Tutto fa pensare che di questo parleremo a lungo e appassionatamente, per due buoni motivi. Il primo è che qualsiasi proposta di sostegno del reddito suscita interesse e può essere spiegata in modo comprensibile. Il secondo è che il tema è decisamente attuale, se non altro perché diversi partiti (fra cui il Movimento Cinque Stelle) hanno depositato proposte di legge.

Ecco perché è importante capire esattamente di che cosa parleremo, senza farsi ingannare dalle parole. Naturalmente ciascuno è libero di chiamare le cose come vuole, ma – se ci si vuole capire – non è mai una buona idea quella di chiamare in modo eguale cose diverse, o chiamare in modo diverso cose eguali. Meglio attenersi al significato ordinario, e quindi più condiviso, delle parole. Ecco dunque un piccolo glossario.

Per reddito di cittadinanza, o reddito di base, si intende un reddito che è fornito a tutti i cittadini, senza condizioni, e permanentemente. Il reddito di cittadinanza è erogato agli individui, ed è del tutto indipendente dalle condizioni economiche o di lavoro del singolo o della sua famiglia. Lo prende Berlusconi e lo prende il clochard, lo prende il politico e lo prende l’operaio.

Le definizioni più dettagliate di che cosa si debba intendere per reddito di cittadinanza possono differire solo su due punti importanti: da che età lo si percepisce (nascita, maggiore età) e che cosa succede quando si raggiunge l’età della pensione.

La proposta di Grillo di un “reddito di cittadinanza”, come vedremo fra poco, non ha nulla a che fare con il reddito di cittadinanza vero e proprio.

Per reddito minimo, o reddito minimo garantito, si intende invece un reddito riservato a quanti si trovano sul mercato del lavoro e non raggiungono un livello di reddito sufficiente per vivere. La differenza principale con il reddito di cittadinanza è che per usufruire del reddito minimo occorre essere poveri (a livello individuale o familiare) e disponibili ad accettare proposte di lavoro o di formazione. A qualche forma di reddito minimo possono accedere i disoccupati e i sottoccupati, ma non casalinghe, studenti, e più in generale quanti, pur abili al lavoro e in condizione di povertà, non sono disposti ad accettare offerte di lavoro.

La proposta di Grillo di reddito di cittadinanza è, in buona sostanza, una proposta di reddito minimo garantito, anche se con alcune peculiarità.

Il reddito di cittadinanza non esiste in alcun paese del mondo, salvo l’Alaska in cui tuttavia quel che c’è non è un vero reddito di cittadinanza ma un bonus dell’ordine di 150 dollari al mese, largamente al di sotto della soglia di povertà.

Forme di reddito minimo esistono invece in tutti i paesi dell’Unione Europea, salvo la Grecia e l’Italia.

Quel che esiste nel nostro paese è una miriade di forme di sostegno del reddito, che tuttavia sono del tutto prive del requisito dell’universalità, in quanto riservate a specifiche categorie di persone individuate su base lavorativa, settoriale, residenziale, sanitaria. Nel loro insieme queste misure, a differenza di quelle previste dal reddito minimo, non sono sufficienti a proteggere gli individui e le famiglie dal rischio di cadere al di sotto della soglia di povertà. Possiamo chiamare reddito sub-minimo il sistema di sussidi previsto in paesi come l’Italia e la Grecia.

Le differenze fra reddito di cittadinanza e reddito minimo sono almeno tre. La prima è il costo dell’erogazione: in un paese come l’Italia qualsiasi forma di vero reddito di cittadinanza costerebbe circa 300 miliardi e sfascerebbe i conti dello Stato, mentre l’introduzione di qualche tipo di reddito minimo costerebbe fra i 10 e i 20 miliardi (la versione del Movimento Cinque Stelle ne costa 16). La seconda differenza è il costo di gestione: il reddito di cittadinanza, non essendo soggetto a verifiche di alcun tipo, ha un costo di gestione irrisorio, il reddito minimo ha un costo di gestione molto alto, perché inevitabilmente fa crescere un apparato di controlli, funzionari pubblici, scuole di formazione, centri per l’impiego che, rischi di corruzione e abusi di potere a parte, assorbe una frazione notevole delle risorse destinate al reddito minimo. Chi vuol farsi un’idea di quel che può succedere quando un apparato pubblico si occupa del nostro (presunto) benessere può vedere il film di Ken Loach, Io, David Blake, che puntualmente descrive le storture e le aberrazioni dei centri per l’impiego inglesi.

La differenza più importante, tuttavia, è la terza, ed è di natura filosofica. L’idea implicita nel reddito di cittadinanza, ossia di introiti fissi, permanenti e intoccabili, è di sottrarre la scelta di lavorare o meno a calcoli sui sussidi che si potrebbero acquisire o perdere a seconda delle proprie scelte lavorative. Il problema è che il reddito di cittadinanza costa troppo, mentre quello minimo porta inevitabilmente a extra-costi burocratici, nonché a innumerevoli storture e inefficienze.

La sfida è trovare un meccanismo che costi come il reddito minimo, ma funzioni in modo automatico come il reddito di cittadinanza. Sfortunatamente né la proposta Cinque Stelle, che è una proposta di reddito minimo iper-burocratica, né le misure varate dal Governo Renzi, che sono semplici misure di reddito sub-minimo, rispondono all’obiettivo che le politiche contro la povertà dovrebbero porsi: sradicare la povertà, farlo senza alimentare sprechi e comportamenti opportunistici.

Pubblicato su Panorama il 19 gennaio 2017