Rifondazione democratica – La forza del passato

Ha suscitato qualche sconcerto la notizia che, vincendo l’iniziale esitazione, la segretaria del Pd Elly Schlein si sia infine risolta a firmare il referendum contro il Jobs Act, promosso dalla Cgil. Prima di lei avevano già firmato i dioscuri Bonelli e Fratoianni, leader dell’Alleanza Verdi-Sinistra, e prima ancora l’astuto Giuseppe Conte, che con questa mossa ha segnato un punto nella corsa alla guida del centro-sinistra. Non si sa ancora quanti, fra gli innumerevoli esponenti del Pd che a suo tempo (2014-2016) avevano entusiasticamente appoggiato il Jobs Act e i suoi decreti legislativi, metteranno a loro volta la firma sul referendum di Landini.

La scelta di Elly Schlein è perfettamente comprensibile, viste le posizioni su cui si è candidata alla segreteria del Pd. E non mi stupirei che, in un impeto di coerenza, domani promuovesse una qualche iniziativa contro l’altra bestia nera del nuovo Pd,
ovvero la politica migratoria dell’era Renzi-Minniti. Come se, dopo gli anni di “Rifondazione comunista”, reazione nostalgica alla dissoluzione del PCI, agli eredi di quel partito toccasse ora promuovere una sorta di “Rifondazione democratica”, nel
segno di una sinistra più “vera” e della memoria di Enrico Berlinguer.

Difficile non vedere, tuttavia, le conseguenze che questa deriva politica inevitabilmente implacabilmente porta con sé. La prima è una sorta di rimodulazione radicale della geometria interna del centro sinistra: mai come oggi sono state grandi le distanze fra il Pd e il trio riformista Azione-Italia Viva-Più Europa, e mai come oggi sono state piccole, per non dire inesistenti, le distanze programmatiche fra Pd, Cinque Stelle, Verdi e Sinistra Italiana. Mai come oggi, soprattutto, è stata evidente la sudditanza del Pd al Movimento Cinque Stelle e a Giuseppe Conte, che non perde occasione per mettere in imbarazzo la leader del Pd, oggi sulla politica economico-sociale, con la tempestiva firma del referendum contro il Jobs Act, ieri sulla questione morale, lucrando sugli scandali che hanno coinvolto il Pd a Bari e Torino.

C’è anche un’altra conseguenza, però. La scelta di rinnegare il passato del Pd, rende ancora più difficile un’alleanza strategica con la sinistra riformista, che ora – grazie all’involuzione massimalista e giustizialista del Pd – non include solo i partiti di Renzi e Calenda, ma anche quello di Emma Bonino. L’ultima super-media dei sondaggi rivela che Pd e alleati sono fermi al 40%, mentre i tre partitini riformisti sono vicini al 9%. Difficile pensare che, alle prossime elezioni, quel 40% del “campo giusto” possa miracolosamente tramutarsi in un 50%, necessario per competere vittoriosamente con il centro-destra.

Si potrebbe obiettare che la forza del fronte progressista (e anti-riformista) sta nella correttezza della sua analisi sociale, e che con il tempo l’elettorato capirà. In effetti ci sono parecchie cose che non vanno bene in Italia, dalla sanità alla scuola, dai bassi
salari alla precarietà di tanti contratti, dal ristagno della produttività all’immane peso del debito pubblico, dai morti sul lavoro ai suicidi in carcere. Il problema, però, è che molto di quel che non va ha radici nel passato, e in questo passato ci sono tutti:
governi politici e governi tecnici, governi di destra e governi di sinistra, governi con i Cinque Stelle e governi senza i Cinque Stelle.
Il debito pubblico è una voragine con cui nessun governo ha mai avuto la forza di fare davvero i conti. I bassi salari sono la conseguenza della stagnazione trentennale della produttività, frutto di decenni di riforme mancate. La distruzione della scuola è
un’impresa comune, cui hanno contribuito tutti, governanti e cittadini. L’indebolimento del sistema sanitario nazionale è iniziato una quindicina di anni fa, ben prima del Covid. Quanto allo stato penoso della finanza pubblica, che rende
difficilissimo fronteggiare le innumerevoli emergenze del paese, come non vedere che è anche il risultato del super-bonus, una misura voluta dagli stessi partiti che oggi denunciano la drammaticità di quelle emergenze?

In queste condizioni, una politica economico-sociale credibile non può cavarsela ripartendo le colpe fra il presunto liberismo dei governi riformisti passati e il presunto fascismo del governo in carica. È la forza del passato, con i suoi errori e le sue
avventatezze, il vero macigno che pesa su chiunque si proponga di cambiare l’Italia. Chi è al governo lo sa, perché lo sperimenta a proprie spese. Chi al governo spera di arrivarci con le prossime elezioni politiche, non può far finta di non saperlo, se vuole portare dalla propria parte la maggioranza dei cittadini.

Luca Ricolfi

[articolo uscito sul Messaggero il 10 maggio 2024]




Cacciari filosofo superiore?

Vogliono mettersi fuori di sé stessi e allontanarsi dall’umano. La loro è una follia; invece di trasformarsi in angeli, si trasformano in bestie, invece di innalzarsi si abbassano (…) Abbiamo un bel montare sui trampoli, ma anche sui trampoli bisogna camminare con le nostre gambe. Anche sul più alto trono del mondo, non siamo seduti che sul nostro culo

Montaigne

Con quell’empirica saggezza inglese detta anche common sense, il poeta Wystan H. Auden ha detto una volta che quando ci si dedica alla critica si dovrebbe, per onestà e chiarezza, dichiarare le proprie personali preferenze a proposito del mondo nel quale si vorrebbe vivere. Il critico dovrebbe dirci quale tipo di paesaggio, di clima, di governo, di architettura, di mezzi di trasporto e di comunicazione vorrebbe nel suo mondo ideale. Auden umoristicamente eccede per quantità di dettagli richiesti. Eppure la sua britannica stravaganza ha qualche utilità.

Avendo deciso di dedicarmi a giudicare Metafisica concreta di Massimo Cacciari, pubblicato nella Biblioteca Filosofica Adelphi (che contiene quaranta volumi di cui ben ventiquattro solo di Heidegger e Severino) sento il concreto bisogno di adottare almeno in parte il metodo di Auden. L’eventuale lettore di questo articolo potrà perciò farsi un’idea della distanza che c’è fra le singolari predilezioni filosofiche di Cacciari, professore e cultore della materia, e le mie preferenze filosofiche di dilettante. Mentre il professor Cacciari, ex sindaco di Venezia e ex deputato del Partito Comunista Italiano, ha una passione per la metafisica più astratta e per una politica personale piuttosto concreta, i miei saltuari e non professionali interessi vanno invece alla filosofia della conoscenza o gnoseologia, e alla filosofia morale, o teoria delle virtù e studio dei comportamenti. In fondo, più che la filosofia pura, mi attira la storia delle idee, meglio se un po’ mescolata con la storia sociale. La metafisica, intesa come “filosofia prima”, la considero viceversa una filosofia seconda o secondaria, che rischia sempre di trasformarsi in una illusoria immaginazione o in una truffa verbale, dato che si sottrae all’uso di concetti empirici. Della metafisica, in particolare quella eventualmente praticata oggi a imitazione degli antichi, credo che si debba diffidare fortemente a causa dei problemi gnoseologici e morali che crea, o dovrebbe presupporre. Che genere di conoscenza è quella proposta dal discorso metafisico? Su quale esperienza si fonda? Esiste, è possibile una conoscenza metafisica in forma filosofica? O invece la sola via di accesso alla metafisica è una via puramente contemplativa, più precisamente una gnosi supermentale e sovrasensibile?

Quanto alla filosofia politica, non ha o non dovrebbe avere nessuna autonomia, ma essere considerata solo un ramo e uno sviluppo della filosofia morale. Una vita politica giusta è concepibile solo come risultato di comportamenti individuali moralmente giusti. Le cosiddette virtù politiche, una volta separate dalle virtù morali, producono soltanto astuzie e sopraffazioni, passione per il comando e inganni. Personalmente diffido del tipo umano del politico. Non pochi geniali politici sono stati dei dittatori, dopo essere stati leader carismatici.

Volendo essere precisi, una metafisica può e dovrebbe essere considerata reale, più che concreta. Un principio metafisico può avere, in quanto causa, degli effetti concreti, ma non è concreto, trascende le dimensioni spazio-temporali e sensibili: può essere razionalmente, ma non empiricamente concepibile. Cacciari e la Biblioteca Filosofica Adelphi hanno scelto di ignorare la tradizione della filosofia inglese e americana, cioè l’illuminismo empirista di Locke e Hume, l’utilitarismo di Mill e il pragmatismo di James e Dewey. Come si fa a essere “concreti” se si cancellano i pensatori morali da Montaigne in poi e i filosofi che hanno studiato forme e limiti sia dell’intelletto umano che della natura umana? L’ontologia del “Dasein” di Heidegger è una filosofia di fantasmi inventata per eludere l’esistenza come esperienza conoscitiva e attiva.

Interessante, per chi fosse interessato alla carriera del Cacciari filosofo, è il suo punto di partenza, il cosiddetto “pensiero negativo” degli antihegeliani Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, nonché il suo punto di arrivo teologico-metafisico. La passione di Cacciari per il lessico greco e tedesco infesta e polverizza il suo linguaggio rendendolo lessicalmente asfittico. Da grandi saggisti come Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche e dal loro antihegelismo non ha imparato niente. In ognuno di loro sono chiare le ragioni personali del filosofare. Ma del perché Cacciari ci parli di metafisica non si viene a sapere niente. La sua non è una prosa filosofica vera e propria. Mentre i tre suddetti pensatori negativi erano anzitutto filosofi morali e per loro Hegel e Schelling erano ipocriti sofisti e impostori, Cacciari ha per la filosofia morale una specie di fobia, teme il moralista proprio perché potrebbe smascherare il suo filosofismo. Evidente è in lui la miseria linguistica della filosofia, usata come una solenne maschera geroglifica che nasconde il puro esibizionismo, l’inconsistenza argomentativa e l’ingorgo citazionistico. La sua prosa è senza forma né misura né ritmo né tono.

Una citazione a caso anche se esemplare (il libro infatti procede a caso): “Il Logos che parla in verità e che perciò ci è dato comprendere e comunicare senza tradirlo, questo è il Logos dell’Età presente, di questa Ora che non sa concepirsi come destinata a passare, Aiòn, Età che sempre più dichiara insuperabili e fino alla fine del tempo stesso, forme e significati della propria vita. Questo è Logos giudicante poiché esso discrimina chi sa da chi ignora, poiché a Lui, fin dall’origine, che lo si intenda trascendente, en archei, o immanente e agente in ogni momento del cosmo, tutto il Divino è stato comunicato. Senza il suo manifestarsi, il Divino continuerebbe a restarci ignoto, mentre ora possiamo goderne in verità. Gaudio, letizia che possono venire soltanto dal saperci nella sequela del Logos, dal sentircene membri, espressione necessaria della sua stessa sostanza, ‘guariti’ dal dubbio, forti di un credere inconfutabile, un credere che diviene irresistibilmente fede riposta nella potenza dello stesso sapere (…) È intorno a questo problema, più che a qualsiasi altro, che occorre intendere il dramma del nesso tra Atene e l’Europa o Cristianità” (pp. 12-13).

Qual è il problema? Il problema non è uno, sono almeno due: 1) il modo di scrivere di Cacciari, fatto per ostacolare se non impedire la lettura, e 2) la scelta della metafisica come tema inesauribile perché inaccessibile. Proprio quello che Cacciari cerca per non darsi una regola espositiva e una misura.

Poco rispettoso della filosofia accademica e del suo rimuginare su una tradizione plurisecolare, una volta Max Horkheimer disse che la metafisica è come il chewing-gum, che si può masticare all’infinito senza ricavarne né sapore né nutrimento. Nel caso di Cacciari c’è poi il fatto che il parlare di metafisica permette di non costruire una sintassi di concetti e di argomentazioni. La prosa dell’intero libro non è neppure una prosa, tantomeno una prosa filosofica. Oltre a essere una modalità del pensiero e della conoscenza (non l’unica), la filosofia è anche un genere letterario. In Italia se ne accorse e se ne fece un dovere Giacomo Leopardi all’inizio dell’Ottocento, curando la sua Crestomazia della prosa italiana e scrivendo le Operette morali. Antimetafisico e antiplatonico come era, nella sua affinità con David Hume, il più radicale degli empiristi, Leopardi vedeva e praticava la filosofia in forma di filosofia morale, di riflessione sulla forma del vivere individuale e sociale. Secondo lui la cultura italiana aveva bisogno di una buona e nuova prosa filosofica, senza la quale è impossibile una buona filosofia. Per Schopenhauer era metafisica niente di meno che la volontà di vivere, il rapporto con il proprio corpo e la sua energia cieca. Per Kierkegaard erano filosofici anche il suo amore per Regina Olsen e il suo disprezzo per il vescovo Mynster. Nel suo frullato di autori, di problemi, argomenti e terminologie, Cacciari tira avanti il libro per più di quattrocento pagine senza fare un passo né avanti (si può fare a meno della metafisica?) né indietro (dobbiamo tornare alla mistica?). Il suo solito metodo è evitare di fare citazioni abbastanza ampie da commentare e su cui riflettere: le sue sono soprattutto criptocitazioni da tutto e da chiunque. Riscrive e si appropria, non permettendo a chi legge di distinguere tra quello che Cacciari pensa e quello che cita o ruba, spezzetta e riusa. La sua è una specie di dislessia citazionistica che continuamente echeggia gran parte dell’intera tradizione filosofica: escludendo naturalmente gli ultimi secoli di pensiero antimetafisico, dall’umanesimo scettico all’illuminismo empiristico e materialistico, alle vere filosofie dell’esistenza e dell’esperienza, di cui Heidegger si è appropriato svuotandole di contenuto reale con i mantra del suo gergo ontologico. Metafisica concreta è un tentativo non riuscito di prendersi e tenersi tutto, l’astratto e il concreto, l’intuizione ontologica e una impropria teologia razionale, o meglio sonoramente raziocinante. Secondo il metodo di Socrate, si dovrebbe exetazein ton logon, cioè esaminare il discorso, il linguaggio di chi parla, come Cacciari, di un oggetto paradossale e insieme inconsistente come una metafisica che sia fuori di spazio e tempo, come ogni metafisica, ma nello stesso tempo sia dotata di contingenza e di attributi accessibili all’esperienza. Ma questo può accadere solo nella mistica, in cui un’esperienza concreta supermentale della metafisica la fa non essere più metafisica.

Cacciari punta tutto su una inguaribile dissipazione parafilosofica. Quando parla di politica, per quel tanto che conta, Cacciari si fa capire abbastanza. Quando entra invece nell’habitat filosofico perde la testa, si inebria, non connette più, o connette tutto con tutto, cita ed esalta perfino, non so perché, i Cantos di Ezra Pound, il più clamoroso e penoso fallimento poetico del secolo scorso. Più che un mistico in estasi sembra un professore intossicato di lessico filosofico. Mastica e rimastica ciò che cerca di dire e non dice. Ma l’indicibile è impossibile dirlo, si può solo sperimentarlo e non comunicarlo attraverso le parole.

Il problema è qui uno solo: perché il professor Cacciari sceglie la metafisica per fare filosofia? Perché si presenta come chi va oltre i confini della filosofia? Vorrebbe essere o apparire una mente così superiore da non poter abitare se non in un linguaggio che sfugga alla comprensione? La passione predominante di Cacciari è per la “filosofia prima”, teologia nonché escatologia o dottrina delle cose ultime. Si tratta insomma di quel forsennato e ridicolo snobismo culturalistico che aspira solo a frequentare i piani più alti e inaccessibili della realtà e del pensiero, lì dove abita solo Dio. Purtroppo però Cacciari non parla mai della sua fede in Dio e neppure del nesso che c’è fra metafisica e gnosi mistica. Quello della metafisica è un sapere assolutamente speciale che si fonda non sulla logica e sul discorso ma su un’esperienza supermentale. Si tratta di un sapere supremo raggiungibile solo da individui sommamente dotati di virtù contemplativa. Una filosofia dell’essere puro in quanto essere non è più una filosofia logica, ma il culmine di una filosofia morale, moralmente ascetica. Per “toccare” mentalmente l’essere, che non è un concetto ma una super-realtà, c’è almeno bisogno di essere onesti. Invece Cacciari manca proprio di onestà filosofica. In Occidente la metafisica è stata messa in discussione e onestamente respinta dai filosofi dell’Illuminismo, soprattutto da quello empiristico inglese, e infine da Kant. Se il termine “metafisica” viene da Aristotele, la sua origine concreta non è filosofica, è (come ha spiegato Giorgio Colli) dei “sapienti” presocratici, in particolare Parmenide, al quale il professor Emanuele Severino, rivale e simile di Cacciari, ripeteva che fosse necessario tornare, allo scopo di salvare l’Occidente dalla sua “follia”, la fede nel divenire. Solo che il divenire non è una fede, come diceva Severino, è un’esperienza.

Come si può intuire dagli stessi titoli dei suoi tre libri più ambiziosi, Dell’inizio (1990), Della cosa ultima (2004) e questo conclusivo Metafisica concreta, le ambizioni di Cacciari sono sia smisurate che vane. Il suo stile dell’eccesso copre un vuoto, una “vanità” filosofica, dato che presuppone un sapere dell’alfa e dell’omega, una conoscenza assoluta di un oggetto assoluto: l’impensabile essere in quanto essere. Dell’inizio e della cosa ultima, di una metafisica che sia anche concreta, non sapremo filosoficamente mai nulla, e la pretesa di farne una filosofia dell’impossibile peggiora ulteriormente la situazione di Cacciari. Il quale ha da giocare una sola carta: il mito di sé stesso come filosofo superiore e in quanto tale non socializzabile. Ecco, questo dell’essere o sentirsi o mostrarsi superiore è la caratteristica che lo accomunò a Roberto Calasso e gli aprì le porte della Adelphi, trasformando il seguace dell’operaista gentiliano Mario Tronti in una specie di allievo di Elémire Zolla. Cosa che mi fa pensare non tanto a grandi metafisici o a mistici dell’antichità e del Rinascimento, ma piuttosto a un intellettuale del Novecento che Cacciari ha molto caro, cioè Carl Schmitt, giurista nazista, o per essere più concreti presidente dell’associazione dei giuristi del Terzo Reich. Dopo la caduta del regime hitleriano, Schmitt fu arrestato, processato e assolto, ma comunque costretto a ritirarsi a vita privata. Il fatto che avesse teorizzato come fondamento della Costituzione il Fuhrer lo rendeva infatti sospetto anche come eventuale docente di diritto e dottrina dello Stato. Quando Schmitt, al processo di Norimberga, fu interrogato come testimone dalla Pubblica Accusa, si espresse così:

“Sentendomi superiore, intendevo dare un senso mio personale al termine nazionalsocialismo”.

Pubblica Accusa: “Hitler aveva un nazionalsocialismo e lei ne aveva un altro?”.

Schmitt: “Mi sentivo superiore”.

Pubblica Accusa: “Si sentiva superiore ad Adolf Hitler?”.

Schmitt: “Infinitamente, dal punto di vista intellettuale. Il personaggio è così privo di interesse che preferisco non parlarne”.

Dire che Hitler è il fondamento dello Stato e dire nello stesso tempo che di Hitler è preferibile non parlare, ritrae alla perfezione l’ipocrita “uomo superiore” Carl Schmitt. Lo fa anche assomigliare molto a un altro idolo filosofico di Cacciari e della Adelphi: Martin Heidegger. Il quale, sentendosi anche lui superiore, si rifiutò sempre di nominare il nazismo e Hitler, pur avendolo fin dall’inizio esaltato come fondamentale evento storico nel destino della Germania. Schmitt e Heidegger sono le ombre sinistre che sembrano avere insegnato la superiorità a Cacciari; una superiorità astratta, vuota, metafisica e pure concreta. Altro che maestri del “pensiero negativo” come Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche, filosofi passionalmente autobiografici e in quanto tali ben presenti nelle loro opere. Nei libri di Cacciari l’autore pensante, l’io Massimo, non c’è, è assente e mai concreto. Troppo oltre per essere presente. Invece di essere onestamente presente nelle pagine della propria filosofia preferisce recitare da impaziente uomo superiore nei talk show.




Il declino dell’Occidente. Se spariscono critica e dubbio si uccide la liberal-democrazia

Ferdinando Adornato e  Rino Fisichella hanno dialogato, in un libro pubblicato da Rubbettino (a cura di Gloria Piccioni), sul problema cruciale del nostro tempo, La libertà che cambia. Dialoghi sul destino dell’Occidente. ”Mi sono chiesto, scrive Adornato, quale sia il vero senso delle riflessioni raccolte in questo volume. Ebbene, credo si possa dire che siamo entrambi andati alla ricerca dei motivi che possano rimotivare una grande alleanza tra la fede e la ragione. Tra il pensiero cristiano”. Insomma, il vecchio progetto che ispirò la nascita del ‘Multino” prima che diventasse una delle tante riviste del pensiero unico della sinistra.

Dico subito la dimensione etico-teologica del saggio mi sembra non poco problematica. Quando leggo  certe riflessioni–”.. se la libertà non avesse relazione con la verità, come potrebbe, anche un non credente, decidere cos’è il Bene e cos’è il Male? In base a quale ordine di valori si potrebbe decidere che Hitler o Stalin sono il Male? Chi ha stabilito, infatti, che uccidere o fare del danno agli altri è peccato se non le Tavole della Legge oppure, se si preferisce, i precetti dell’ordine naturale? In base a quale altro criterio di verità un essere umano potrebbe definire la propria e l’altrui libertà?”–mi vengono in mente non solo le parole di Ponzio Pilato,”quid est veritas?’ma, altresì, il   libro di un filosofo del diritto analitico, Etica senza verità. In politica non ci sono verità ma valori in conflitto di cui dobbiamo essere realisticamente consapevoli. Per citare Joseph A. Schumpeter: “Rendersi conto della validità relativa delle proprie convinzioni, eppure difenderle senza indietreggiare, è ciò che distingue un uomo civile da un barbaro”. Parlare di una scienza del bene e del male significa, in ultima istanza, ignorare che l’essenza della democrazia sta nel registrare le cose che i cittadini, di volta in volta ,ritengono buone  o cattive.

Più convincente, invece, è la critica (sia pur non nuova) dell’individualismo dei diritti che sta inaridendo le società occidentali.” In sostanza, scrive Adornato, a partire dalla fine degli anni Sessanta, si è fatto strada un convincimento generale che ha assunto quasi le sembianze di verità di fede. E cioè l’idea che il benessere di una democrazia sia direttamente proporzionale all’estensione dei diritti individuali. Più diritti per l’individuo=più democrazia. Da allora in poi, sulla base di questa equazione, ogni provvedimento teso a far prevalere “diritti di comunità” (o soltanto norme di tutela collettiva) sui “diritti individuali” è stato letto come un “attentato alla democrazia”. Ed è logico: se la bontà del sistema viene vista unicamente nella realizzazione di un’illimitataespansione dell’individuo, qualsiasi proposta che punti a perseguire un equilibrio tra valori comunitarie diritti individuali non può che essere ritenutaantidemocratica. Lungo questa strada laicista, però,non viene colpita soltanto la morale cattolica: vienemessa fuori gioco qualsiasi nozione di etica pubblica. Escluso, ovviamente, il precetto della totale soddisfa-zione esistenziale” <L’esasperata ricerca della soddisfazione del diritto individuale—gli fa eco Fisichella—sta distruggendo il diritto sociale>.

 Sulle cause di questo oscuramento dell’intelligenza occidentale, gli autori però non vanno a fondo: non c’è traccia nel libro dell’imponente letteratura che, sulle due rive dell’Oceano, ha analizzato il nesso tra il declino della comunità politica (lo stato nazionale) e l’affermazione di quell’universalismo etico, giuridico ed economico inteso a delegittimare tutto ciò che si riferisce al ‘particolare’—dalla famiglia alla nazione. Penso ad autori come Pierre Manent, Pierre-André Taguieff, Yael Tamir, Margaret Canovan, lo stesso Yoram Hazony.

Adornato, in particolare, che pure stila una sorta di catalogo del conservatore, entra in polemica con una sinistra—ormai sparita–che al liberismo etico unirebbe stranamente uno statalismo economico, impensabile oggettivamente senza sovranismo. E’ come se  le analisi di Luca Ricolfi sulle metamorfosi della sinistra fossero cadute nel vuoto. In realtà, quella odierna è una sinistra europeista, globalista, iperatlantista (George Soros non è certo un simbolo di destra) che non dovrebbe dispiacere ad Adornato, che citando <una (per lui) felice espressione di Biagio de Giovanni> parla dell’emergere di uno <scontro tra ’potere orientale’(Russia, Cina, India, Iran) e ’potere occidentale’>che vede esploso nella guerra russo-ucraina. E’il  leit motiv di ‘Repubblica’, della ’Stampa’ etc.

 Nel suo iperatlantismo, Adornato arriva a prendersela con Papa Bergoglio che agli inizi del conflitto  sarebbe stato <troppo equidistante>.<La presunta la colpa della Nato di aver ‘abbaiato ai confini della Russia’> gli è sembrata <un’opinione geopolitica infondata>.Sennonché era pure l’opinione di George Kennan, di Harry Kissinger, di John Mearsheimer, il più grande scienziato politico statunitense dopo la morte di Samuel P. Huntington! A scanso di equivoci, ritengo anch’io che l’Europa, la Nato, il dovere di prestare aiuto a un paese aggredito come l’Ucraina rientrino nel bagaglio ideologico del democratico liberale. Credo, però, nel diritto di esaminare liberamente e criticamente le decisioni riguardanti la politica internazionale. Siamo alleati consapevoli e responsabili degli Stati Uniti o siamo gli ascari della Grande Arméeatlantica? Le colpe di Putin sono evidenti e indelebili ma come mai nel libro non c’è alcun accenno agli Accordi di Minsk, su cui aveva richiamato l’attenzione Matteo Renzi, deprecandone il mancato rispetto? <Certo, scrive Fisichella, si potrebbe discutere all’infinito se quei determinati confini siano ucraini o russi, ma nel momento in cui la comunità internazionale li riconoscesse come ucraini, quella dovrebbe essere accettata come l’identità di una nazione>. Se la comunità internazionale, quindi, decide che il Lombardo-Veneto è territorio austriaco, la guerra contro Francesco Giuseppe diventa  un attentato all’indipendenza degli stati sovrani? Forse va recuperato il senso della complessità insuperabile delle vicende umane.




Il caso Venezi

Marzo 2021. Beatrice Venezi, al Festival di Sanremo, dichiara che preferisce essere chiamata direttore d’orchestra (piuttosto che direttrice o direttora). Laura Boldrini, ex presidente della Camera, trova il tempo e la voglia di montare una polemica: la presa di posizione della Venezi “è un problema serio”, e “dimostra poca autostima”.

Che dire?

Se uno pensa a quanti e quali problemi veri ha l’Italia, viene il mal di mare a constatare che ci sia qualcuno, a sinistra, che pensa che il fatto di preferire direttore a direttrice costituisca un “problema serio”. Quanto alla scarsa autostima, vien da ridere: la Boldrini ha visto il curriculum della Venezi? Si è accorta che è la più giovane direttrice d’orchestra italiana?

Ma andiamo avanti. 10 luglio 2023, Beatrice Venezi, incorre nell’ira di 14 associazioni (sedicenti) democratiche e anti-fasciste francesi. Alla fine del 2023 dovrebbe dirigere l’orchestra filarmonica per i tradizionali balletti di Natale e per il concerto di Capodanno. Ma le associazioni democratiche e anti-fasciste non ci stanno, e lanciano una petizione in cui chiedono al sindaco di Nizza e al direttore generale dell’Opera Nice Côte d’Azur di annullare l’invito. Motivi: le idee politiche di Venezi, la sua partecipazione alla Convention di Fratelli d’Italia la primavera dell’anno scorso, il suo ruolo di consigliere del ministro della Cultura Sangiuliano.

Non è finita. Due giorni dopo, il 12 luglio, a Lucca si svolge il Summer Festival dedicato al centenario pucciniano. Venezi dirige l’orchestra e include fra i brani l’Inno a Roma di Puccini, scritto nel 1919, ma successivamente usato dal fascismo e dal Movimento Sociale Italiano. Per protesta, diversi membri del Comitato promotore delle celebrazioni pucciniane, fra cui alcuni sindaci e un presidente di provincia, disertano l’evento (peraltro dimenticandosi che il medesimo inno, cantato da Bocelli al Colosseo due anni fa, non aveva suscitato la benché minima protesta o contestazione).

Beatrice Venezi giustamente tiene il punto, e rivendica l’assoluta autonomia dell’arte rispetto alla politica (lo stesso, peraltro, dovrebbe valere per scienza, letteratura, sport). Respinge fermamente l’idea che un’opera o un autore possano essere cancellati per il solo fatto che sono piaciuti ai soggetti sbagliati. L’esempio di Richard Wagner è perfetto: non dovremmo più ascoltare la musica del grande compositore tedesco solo perché quella musica piaceva a Hitler?

Poi respinge l’accusa di essere neo-fascista, o che lo sia l’attuale governo. E accusa i suoi accusatori di misoginia, perché attaccano una giovane donna per le idee del padre (che era stato dirigente di Forza Nuova).

Tutto ineccepibile, ma forse manca qualcosa. Venezi è stata troppo soft. La petizione in cui si chiede di toglierle la direzione dei concerti di fine anno a causa delle sue idee politiche andrebbe considerata per quel che è: un incitamento a compiere un atto di discriminazione.

Sia nella Costituzione italiana (art. 3), sia nel diritto europeo (art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; art. 14 della CEDU), le idee politiche sono indicate esplicitamente fra le ragioni sulla base delle quali è inammissibile effettuare discriminazioni.

Viste le cose da questa angolatura, diventa del tutto irrilevante stabilire quali siano le idee politiche di Beatrice Venezi. Perché il punto non sono le sue convinzioni, ma come mai, nel 2023, una parte della sinistra considera normale, anzi dovuto, discriminare una giovane donna a causa delle sue idee.

Non era, la lotta contro ogni discriminazione, uno dei cardini del politicamente corretto?




Scontro magistrati-politici: anche la politica ha le sue colpe

Che, negli ultimi 30 anni, la magistratura sia esondata, andando molto al di là del ruolo che le assegna la Costituzione, non è una opinione, ma una constatazione che a nessuno storico del futuro parrà controversa. Che la politica voglia mettere fine a questo stato di cose, che mina l’autonomia del potere legislativo e del potere esecutivo, è perfettamente comprensibile, e più che ragionevole.

Quello che, invece, non mi pare adeguatamente compreso, è come si è arrivati a questa situazione, e quale sia il modo di uscirne. A dar retta ai detrattori della magistratura, pare quasi che la propensione di una parte dei Pm e dei giudici a venir meno ai doveri di neutralità e imparzialità, sia stata il frutto di una sorta di deviazione o degenerazione interna.

Ma non è andata così. O meglio: non è andata solo così. Se vogliamo guardare i fatti della nostra storia con un minimo di obiettività, è difficile non vedere che la degenerazione di una parte della magistratura ha anche cruciali cause esterne, anche molto remote nel tempo.

La prima sono le inadempienze della politica e, a dirla tutta, pure quelle della società civile. Quando si rimproverano i magistrati di “fare politica”, si dimentica che l’invadenza e l’arroganza del potere giudiziario sono anche il risultato di nostre mancanze, e di una sorta di delega che noi stessi abbiamo conferito. Se per tanta parte dell’opinione pubblica i magistrati sono diventati delle specie di giustizieri, è anche perché alla magistratura è stata affidata una sorta di funzione di supplenza nei confronti degli altri poteri pubblici. L’incapacità di fare i conti con la mafia, la corruzione, gli appalti truccati, l’evasione fiscale, lo spreco di denaro pubblico, hanno alimentato, in una parte dell’opinione pubblica, la speranza che la magistratura potesse fare quel che la politica non sapeva o non voleva fare.

C’è però anche una seconda causa, che ha reso abnorme il potere dei magistrati, e in particolare quello dei Pubblici ministeri: il modo in cui la politica è solita reagire alle inchieste e agli avvisi di garanzia nei confronti di propri esponenti. Quando un politico viene colpito dal sospetto, si assiste invariabilmente alla medesima commedia. Politici (e spesso giornalisti) della sua parte politica si sperticano in dichiarazioni di garantismo. Ma, dall’altra parte dello steccato che divide destra e sinistra, gli esponenti della parte avversa, dopo la rituale dichiarazione di garantismo, innocenza fino a prova contraria, auspicio che la giustizia faccia “piena luce”, pronunciano la parola chiave, quella che ribalta tutto e vanifica il garantismo: “però…”. E giù sospetti, allusioni, commenti alle notizie di stampa, fino al passaggio cruciale: l’invito a fare “un passo indietro” (anche se innocenti) in nome della “opportunità politica”. In sostanza, la richiesta di dimissioni.

In breve: qualsiasi avviso di garanzia a un esponente politico dà luogo, inesorabilmente, a una campagna di stigmatizzazione (e talora di odio) da parte della parte avversa, con conseguente e automatico coinvolgimento di tutti i maggiori media.

Ebbene, come non rendersi conto che questo è un formidabile assist alla magistratura?

Come non capire che è proprio la reazione pavloviana della politica a conferire ai magistrati un potere spropositato?

Come non vedere che, senza la certezza di quella reazione, nessun magistrato potrebbe perseguire la celebrità a colpi di avvisi di garanzia indirizzati al bersaglio grosso?

Se tutti i politici, come regola generale, si comportassero da veri garantisti chiunque sia sotto inchiesta, i media si darebbero una calmata, e la politica sarebbe al riparo dalle incursioni della magistratura.

Sarebbe un modo, per i politici, di garantirsi un’autoassoluzione permanente e automatica?

No, sarebbe il contrario. Non solo perché comunque le inchieste farebbero il loro corso, ma perché, evitando di gridare ogni volta “al lupo al lupo”, ci si metterebbe in condizione di essere creduti quell’unica o rara volta in cui il lupo c’è davvero. Se la richiesta di dimissioni cessasse di essere un rito consunto che non emoziona nessuno, ma fosse un evento eccezionale, che segnala la gravità di un comportamento, la politica diventerebbe più, e non meno, in grado di autodisciplinarsi. E ne guadagnerebbe non poco in termini di autorevolezza.