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A proposito dell’agguato mediatico a Zelensky – La politica come spettacolo

5 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

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Fra le accuse che più frequentemente, e più impietosamente, vengono rivolte ai leader europei, vi è quella di non aver mai preso un’iniziativa diplomatica per fare cessare la guerra fra Ucraina e Federazione Russa. Dal primo giorno della guerra, l’unica preoccupazione dell’Europa è stata di respingere l’invasione russa, ristabilendo la legalità internazionale (ossia i confini precedenti allo scoppio della guerra). Di qui l’assoluta latitanza della diplomazia: l’obiettivo di punire Putin ha sempre sovrastato quello di fermarlo.

Ora l’agguato teso da Trump a Zelensky, con il plateale litigio davanti alla stampa e alle tv, ha fatto ulteriormente precipitare le cose, mettendo fuori gioco ogni possibile diplomazia e ricerca di un ragionevole compromesso.

Ok, questo è successo, e si capisce perfettamente che tutti i maggiori editorialisti esternino il loro sgomento per questa rottura, per il cattivo gusto di Trump e Vance, per la violazione plateale delle regole minime dell’ospitalità, dell’educazione, del rispetto reciproco. Insomma, quella che è andata in onda nello Studio Ovale sarebbe una inaccettabile, orribile, disgustosa spettacolarizzazione della politica, che rompe – per la prima volta nella storia – convenzioni e preziose ipocrisie da tempo vigenti nei rapporti internazionali, tanto più quando coinvolgono questioni militari e strategiche. Non a caso le espressioni più usate per descrivere quel che è successo sono “senza precedenti” e “storico”. Come a dire: è inaudito, non era mai successo, è un punto di non ritorno.

In un certo senso è proprio così. Mentre leggevo questi commenti, però, in me è riaffiorato un ricordo. Il ricordo di quel che pensavo e provavo nei primi mesi della guerra. Ebbene, io ricordo che ero semplicemente sbalordito. E, non intendendomi di questioni di guerra, ho sempre pensato che fossi io a non capire.

Che cosa mi sbalordiva?

Mi sbalordiva, innanzitutto, che nel giro di pochi giorni un normale capo di stato fosse stato trasformato dalle autorità europee in una autentica star mediatica. Collegamenti in diretta con i parlamenti, ovazioni delle assemblee collegate, partecipazioni ad incontri che normalmente si svolgono a parte chiuse fra pochi potenti, persino un surreale dibattitto sulla necessità che Zelensky leggesse un messaggio al Festival di Sanremo. Tutto ciò mi sembrava folle, e incompatibile con l’eventuale aspirazione dell’Europa a svolgere un ruolo di mediazione e moderazione. Come era possibile, mi chiedevo, che la politica europea sulla guerra si formasse non nelle segrete stanze della diplomazia, ma attraverso eventi mediatici e spettacolari? Come avrebbero mai potuto, i parlamenti e i governi europei, dibattere serenamente e prendere decisioni ponderate, se tutto veniva discusso enfaticamente, in presenza di una parte in causa, e con toni da comizio?

Insomma, la prima cosa che voglio dire è che la spettacolarizzazione delle questioni internazionali l’abbiamo iniziata noi europei, non certo gli Stati Uniti di Trump.

Ma c’è anche una seconda cosa che mi ha sempre lasciato interdetto, anche qui non capendo se ci fosse qualcosa che mi sfuggiva. Come mai il tema della guerra è sempre stato affrontato, in Europa ma anche negli Stati Uniti di Biden, come un tema etico? Ovvero come un episodio dell’eterna lotta del Bene contro il Male? Come mai questa ossessiva, martellante e acritica retorica dell’aggressore e dell’aggredito? È vero che la eticizzazione del conflitto era il presupposto logico che rendeva possibile inscenare lo spettacolo della santificazione dell’eroe Zelensky, ma come non vedere che nel conflitto ucraino, come in innumerevoli altri conflitti condotti in nome del Bene, nessuna delle parti in conflitto era esente da responsabilità e colpe (nel caso di Zelensky,  per fare un solo esempio, il mancato rispetto degli accordi di Minsk)?

Sul conflitto ucraino, come su quello israeliano, si possono avere, ovviamente, le opinioni più diverse. Nessuno, fra noi comuni cittadini, è adeguatamente informato, e alla fine a guidarci sono l’istinto politico e le nostre passioni. Ma, tornando all’Europa, quel che mi resta incomprensibile è come l’Europa possa dolersi di non avere un ruolo al tavolo della pace, avendo sempre e senza esitazioni parteggiato per una delle parti in campo, e avendolo fatto nel modo più plateale e spettacolare possibile. Se vuoi fare l’arbitro, non puoi giocare tutta la partita con una delle due squadre in campo. Quello che a noi europei appare solo come un tradimento (il brusco voltafaccia di Trump) è anche un modo di indossare la maglietta dell’arbitro. Una maglietta che, se tre anni fa non avessimo sconsideratamente inaugurato la politica-spettacolo con la star Zelensky, oggi potremmo provare a indossare noi stessi.

[articolo uscito sulla Ragione il 4 marzo]

Il pluralismo preso sul serio. Una riflessione sulla cultura politica italiana

26 Febbraio 2025 - di Dino Cofrancesco

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Nel recente saggio L’incanto del mondo. Un’introduzione al pluralismo (Ed. Meltemi), il filosofo del diritto Mauro Barberis–un profondo conoscitore del liberalismo ottocentesco e autore di importanti studi che si collocano tra la filosofia morale, il diritto, la storia e la politica—ha scritto che :”la maggioranza detta ‘America profonda”, raccolta attorno al Partito repubblicano spesso formata da autentici psicolabili che però ignorano di esserlo, si riconosce in Trump, altro psicopatico che si ritiene normale”. Considerando che il libro è destinato anche (se non soprattutto) agli allievi del suo corso di ‘Teoria del diritto in ambito filosofico’ e che le parole citate si trovano nel capitolo V, “Pluralismo”, ci si chiede se Barberis sia sempre consapevole del fatto che la divisione tra i giudizi di fatto e i giudizi di valore—alla base del pluralismo conoscitivo, che registra appunto i fatti—debba precedere ogni discorso sul tema in questione. Si possono avere tutte le riserve possibili su Donald Trump e la maggioranza degli americani che lo ha votato ma il dovere dello studioso non è quello di riaprire i manicomi a chi non la pensa come lui bensì quello di capire quali valori, bisogni, interessi abbiano inciso su quel voto. Sine ira ac studio, come dicevano gli antichi. Nella celebre lectio, La scienza come professione (1918), Max Weber aveva scritto: “Nell’aula, ove si sta seduti di faccia ai propri ascoltatori, a questi tocca tacere e al maestro parlare, e reputo una mancanza del senso di responsabilità approfittare di questa circostanza — per cui gli studenti sono obbligati dal programma di studi a frequentare il corso di un professore dove nessuno può intervenire a controbatterlo–per inculcare negli ascoltatori le proprie opinioni politiche invece di recare loro giovamento, come il dovere impone, con le proprie conoscenze e le proprie esperienze scientifiche. ”.

Non si possono buttare lì, en passant, opinioni politiche, in privato più che legittime, come se fossero verità autoevidenti. Gli allievi di Barberis debbono leggere gli articoli di Federico Rampini per capire il ‘trumpismo’ e le ragioni del suo successo? Chi vuole studiare seriamente il fascismo non lo farà, certo, leggendo Mussolini il capobanda (2022) di Aldo Cazzullo ma l’imponente opera di Renzo De Felice su Mussolini. Analogamente non sono i furtivi, provocatori, cenni di Barberis a liqui-
dare Trump e quello che ha rappresentato e rappresenta per l’America d’oggi.

ALLE ORIGINI DI UNO STILE

Alle origini di questo stile di pensiero’, c’è un fraintendimento—incomprensibile in uno studioso che da anni legge gli scritti di Berlin– di ciò che significa ’pluralismo’. Nel nostro paese, questo termine, rinvia a valori buoni—quelli della tradizione liberale e democratica—che talora possono confliggere e che dovrebbero, pro bono pacis, trovare un qualche bargaining. Contro la faciloneria di chi mette insieme tutte le cose buone, Norberto Bobbio aveva fatto rilevare in Presente e avvenire dei diritti dell’uomo nell’Età dei diritti (Ed. Einaudi, Torino 1990): “Quando dico che i diritti dell’uomo costituiscono una categoria eterogenea, mi riferisco al fatto che, dal momento che sono stati considerati come diritti dell’uomo anche i diritti sociali, oltre ai diritti di libertà, la categoria nel suo complesso contiene diritti tra loro incompatibili, cioè diritti la cui protezione non può essere accordata senza che venga ristretta o soppressa la protezione di altri. Si fantastichi pure sulla società insieme libera e giusta, in cui siano globalmente e contemporaneamente attuati i diritti di libertà e i diritti sociali; le società reali, che abbiamo dinanzi agli occhi, nella misura in cui sono più libere sono meno giuste e nella misura in cui sono più giuste sono meno libere. Tanto per intenderci, chiamo ‘libertà’ i diritti che sono garantiti quando lo stato non interviene, e ‘potere’ quei diritti che richiedono un intervento dello stato per la loro attuazione. Ebbene: spesso libertà e poteri non sono, come si crede, complementari, bensì incompatibili. Per fare un esempio banale, l’aumentato potere di acquistare l’automobile ha diminuito sin quasi a paralizzarla la libertà di circolazione. Un esempio un po’ meno banale: l’estensione del diritto sociale di andare a scuola sino a quattordici anni ha soppresso in Italia la libertà di scegliere un tipo di scuola piuttosto che un’altra. Ma forse non c’è bisogno di fare esempi: la società storica in cui viviamo, caratterizzata dalla sempre maggiore organizzazione per l’efficienza, è una società in cui acquistiamo ogni giorno un pezzo di potere in cambio di una fetta di libertà. Questa distinzione tra due tipi di diritti umani, la cui attuazione totale e contemporanea è impossibile, è consacrata, del resto, dal fatto che anche sul piano teorico si trovano di fronte e si contrastano due concezioni diverse dei diritti dell’uomo, la concezione liberale e quella socialista”.

LA LEZIONE DI BOBBIO

Parole da meditare quelle di Bobbio—” le società reali, che abbiamo dinanzi agli occhi, nella misura in cui sono più libere sono meno giuste e nella misura in cui sono più giuste sono meno libere”–. specie se si considera che il filosofo rimase sempre legato alla political culture di ‘Giustizia e Libertà’ e agli ideali di Carlo Rosselli e del Partito d’Azione che a lui si ispirava. L’onestà intellettuale gli precludeva facili sintesi ma non di vedere nella libertà e nell’ eguaglianza i valori più alti del nostro tempo. Sennonché, per chi abbia meditato a fondo la lezione di Isaiah Berlin, al di là del conflitto tra libertà ed eguaglianza, ve n’è uno che si riferisce a valori che la cultura politica—si direbbe ‘l’ideologia italiana’—non riconosce come tali. Per citarne qualcuno: l’Autorità, la Nazione, la Tradizione, la Fede, la Famiglia etc.

IL PLURALISTA DIMEZZATO

Il pluralista dimezzato prende in considerazione solo l’area dei valori buoni: i due citati e quelli che contrappongono dimensioni sociali ed etiche talora in guerra—Antigone e Creonte, la Morale e il Diritto, il Mercato e lo Stato—valori presenti in ogni società civile. Il pluralista imparziale– lettore dei magistrali studi di Berlin sul romanticismo politico, su Herder, su Hamann, sui tradizionalisti francesi, studi, peraltro, che inducevano Bobbio a mettere in discussione la qualifica di liberale data al suo pensiero– al contrario, sa che “anche se ne aborriamo le teorie, consideriamo Torquemada, Giovanni di Leida o Stalin–inquisitori e sterminatori– non semplice-mente come agenti umani di questo o quel grado di importanza nel causare cambia-menti storici, ma come esseri umani a cui riconosciamo un valore morale (e politico) positivo, in virtù della sincerità e comprensibilità dei loro motivi” (v. Berlin Isaiah, Tra filosofia e storia delle idee. La società pluralistica e i suoi nemici, Intervista auto-biografica e filosofica, Ed. Ponte alle Grazie,1994). Per il pluralista dimezzato, Autorità Tradizione, Radici, Destino sono la spazzatura della storia. E’ il vaglio della ragione che decide cosa (quel poco) del passato può essere conservato. Immanuel Kant, nello scritto Che cos’è l’Illuminismo del 1784, aveva decretato: “L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità, che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza. Questo è il motto dell’Illuminismo.” Ciò significava che quanto di irrazionale i secoli avevano depositato nella società e nelle istituzioni doveva venir senz’altro rimosso. Sennonché tutti i fini umani fanno riferimento a valori che sono un’eredità non una acquisizione: quelli che riguardano la comunità non sono universalizzabili–ovvero condivisi da tutti in virtù della loro razionalità– ma non per questo sono meno ‘valori’. Come scriveva ancora Berlin, “Tutti i fini sono fini. Il fatto è che non sono mai riuscito a capire la nozione di un fine razionale|… la nozione di un fine razionale| di cui parlano tutti—uno scopo razionale è un concetto filosofico ben noto: esisteva già ai tempi di Platone è per me incomprensibile. Penso che i fini siano semplicemente fini. La gente cerca di ottenere quello che vuole ottenere. Naturalmente non una varietà infinita di fini, ma un numero limitato”.

Pensando alle categorie classiche Gemeinschat/Gesellschaft (Comunità/Società) mirabilmente fissate da Ferdinand Toennies, si può dire che il pluralista dimezzato vede valori solo nella Gesellschaft e ricaccia tra le deità infernali tutto ciò che ha a che fare con la Gemeinschaft. E poiché il punto di approdo della comunità è ritenuto  universalmente—ma discutibilmente– il fascismo (sono le radici che portano al Lager) tutto ciò che ne proviene diventa una figurazione—sempre diversa nel tempo—del Male. Se si obietta che anche il razionalismo illuministico degenerato in ingegneria sociale porta al Gulag, la risposta è che il secondo processo nasce da un ‘errore fatale’ mentre la degenerazione della comunità ne rappresenta un esito naturale.

INTENDERE I MOVIMENTI TOTALITARI

Non è casuale che, nel nostro paese, l’area culturale più vicina al neo-illuminismo sia quella meno attrezzata intellettualmente per intendere il fascismo e, in genere, i movimenti totalitari. Non li vede come vini andati a male ovvero vini tramutati in aceto per colpa di classi dirigenti liberali incapaci di cogliere i bisogni di sicurezza e di identità dei popoli, per colpa di assetti internazionali di potere che non facevano spazio, crollati i grandi imperi nel 1918 ,alle autodeterminazioni nazionali, per colpa di un’intellighèntzia desiderosa di mettersi a capo della riforma morale e intellettuale dei connazionali (riforma che il liberale Benedetto Croce demolì in un memorabile passo delle Pagine sulla guerra mostrandone le potenzialità illiberali): li vede come malattie mortali, che minacciano la fine del genere umano. Per la cultura che, si richiama al pluralismo senza intenderne a fondo lo spirito, il problema è quello delle masse “psicolabili che, però, ignorano di esserlo” e si riconoscono in psicopatici che si ritengono normali, per citare Barberis. La rebelión de las masas (ma non nel senso del grande Josè Ortega u Gasset il cui libro è più citato–per il titolo–che letto) è il passe-partout che consente di comprendere tutto ciò che, in qualche modo, viene collocato al fuori della ‘società aperta’, nazionalisti e populisti, postfascisti e vannacciani, tradizionalisti politici e fondamentalisti religiosi, meloniani e salviniani. Il neo-illuminismo, insomma, fa di tutte le erbe ed erbacce un solo fascio: non è questa la lezione del grande Isaiah Berlin.

Rubrica A4 – Sentire le due campane sì, ma che non siano stonate

7 Gennaio 2025 - di Dino Cofrancesco

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In Italia si assiste a una proliferazione di talk show, di dibattiti televisivi sulle questioni politiche interne e internazionali che fanno pensare a una maturità civica e a un interesse per la cosa pubblica invidiabili. In qualche canale, dopo il tg, finita una tavola rotonda, ne comincia subito un’altra, spesso con gli stessi attori protagonisti. In genere, la formula ‘vincente’ (sic!) è: ‘tutte le ragioni, tutte le opinioni’ ma a, ben riflettere, si dovrebbe dire: “tutte le opinioni, tutte le fazioni”. E’ un notevole passo avanti che vengano invitati tutti, in omaggio al dovere di ‘sentire sempre le due campane’, senonché quel principio finisce spesso per diventare l’occasione di risse da bar insopportabili. Ciò dipende dal fatto che, in mancanza dei grandi intrattenitori e comici televisivi   d’antan, gli insulti, le accuse di malafede, le insinuazioni sul piano personale degli attori in  scena ‘fanno spettacolo’, indipendentemente da quel che dicono o si dicono. Il curatore della trasmissione, onestamente, non nasconde affatto da che parte sta ma questo finisce per essere irrilevante. Ciò che conta, invece, è che politici e giornalisti, quasi sempre incompetenti, grazie alla comparsata televisiva ottengono visibilità e ..’prestigio’ (chiamiamolo così). Quanto dicono sono fesserie per chi non condivide le loro opinioni ma sono perle di saggezza per gli altri. E alla fine—ed è ciò che davvero importa—, per citare Mcluhan,”il medium è il messaggio”, e il contenuto del messaggio non è l’elemento decisivo nella comunicazione. Chi prenderebbe in considerazione certe Erinni della carta stampata o certe passionarie della politica o certi residuati bellici del 68, se non comparissero regolarmente sul teleschermo? “Con quella bocca possono dire tutto ciò che vogliono” giacché ogni scarafone ha diritto a dire la sua e l’importante, poi, è che milioni di telespettatori stiano lì a sentirlo (il fatto che il conduttore della trasmissione tv mostri il suo  disaccordo è ininfluente).

Siamo seri, almeno con l’anno nuovo! Meno politica spettacolo e più informazione attendibile e controllata. Si riducano, una buona volta, gli spazi del battibecco politico e, anche se al di fuori delle opere di maggiore ascolto, si faccia conoscere quanto sta avvenendo in Ucraina, nel Medio Oriente, a Gaza, nelle città europee e americane vittime del terrorismo islamico.  Specialmente in area anglosassone, non mancano riviste di relazioni internazionali che mostrano la realtà prismatica di quanto accade nel mondo, nè mancano studiosi (di diverse aree politiche e culturali) che si sono dedicati alla ricerca e che possono dire cose interessanti sulla politica, sull’economia, sulla cultura dei paesi in guerra. Non dico di stare a sentire ‘soltanto’ John J. Mearsheimer (rimasto dopo la morte di Samuel P. Huntington il più prestigioso political scientist degli Stati Uniti) : le sue idee, infatti, fanno a pezzi le interpretazioni dei conflitti in corso riportate dai grandi quotidiani nazionali; si invitino anche quegli storici e quegli scienziati politica che non la pensano come lui ma che hanno scritto articoli e saggi notevoli, in grado di mostrarci ogni volta ‘l’altra faccia della medaglia’.

 Non è possibile che quando, per caso, sul piccolo schermo appare un sociologo come Marzio Barbagli—o  un giurista del prestigio di Sabino Cassese- si debba pensare: ”finalmente il parere  di un esperto!”. Nelle trasmissioni dedicate alla politica, infatti, dovremmo sempre ascoltare i ‘compe-tenti’, affiancati da giornalisti seri, in grado di porre domande intelligenti e pertinenti. E, nel caso delle guerre in corso, occorrerebbero documentari (anche storici) delle due parti che ci aiutino a capire, da angolazioni diverse, quanto sta accadendo nel mondo e le cause alle origini dei vari conflitti.

Conoscere le opinioni politiche dei direttori dei grandi quotidiani o dei loro vice o caporedattori può avere qualche interesse ma quale contributo conoscitivo reale possono dare, ad es., al problema dell’Azerbaigian o della Georgia? All’estero i direttori—di Le Monde, del NYT, di Die Zeit etc.- intervistano (e con indubbia professionalità) ma non vengono intervistati giacché, nei paesi avanzati dell’Occidente, la divisione del lavoro rimane una regola inviolabile.

Un tempo, per farci conoscere il bel paese, la RAI produceva inchieste affidate a scrittori come Mario Soldati o a grandi giornalisti come Sergio Zavoli che rappresentano, tuttora ,documenti di straordinaria utilità  per chi intenda studiare il nostro recente passato. Non si potrebbe pensare, dove è possibile, a fare la stessa cosa per le guerre in corso, organizzando una bella scuola di documentaristi e di corrispondenti di guerra, diretta semmai, da vecchi, rispettabili, giornalisti come Domenico Quirico? E se non se ne hanno i mezzi, non si potrebbero acquistare dagli Stati Uniti filmati che non siamo in grado di produrre noi? In tal modo, non sentiremmo più l’intervistato del Bar di Casal di Principe che vorrebbe annullare la sentenza palermitana che ha assolto Matteo Salvini per ‘conflitto di interessi’ (l’avv. Bongiorno milita nella Lega, il partito dell’imputato!). ‘Tutte le ragioni, tutte le opinioni!” Ma possiamo risparmiarci almeno quelle degli imbecilli? O meglio, per essere politicamente corretti, quelle dei ‘diversamente intelligenti”?

A proposito del caso Khelif – Il silenzio delle femministe

7 Agosto 2024 - di Luca Ricolfi

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Credo che molti avranno seguito il caso della nostra pugile Angela Carini, che alle Olimpiadi di Parigi ha abbandonato il ring dopo 46 secondi per la durezza dei colpi ricevuti dall’algerina Imane Khelif, pugile intersessuale affetta (a quel che si è appreso) da iperandrogenismo, che comporta una iperproduzione di ormoni maschili.

La sua storia è interessante e coinvolgente, ma forse ancora più interessante è il modo con cui della vicenda si è parlato sui giornali, sui media, sui social. Intanto, colpisce il fatto che quasi tutti abbiano espresso un’opinione, nonostante nessuno di coloro che sono intervenuti pubblicamente avesse accesso alla cartella clinica dell’algerina, e quasi nessuno avesse le competenze mediche necessarie per formulare valutazioni. Colpisce ancora di più il fatto che il giudizio su una questione così delicata e complessa sia dipeso quasi interamente dai posizionamenti politico-ideologici. Gli esponenti della destra si sono mossi quasi tutti come se fosse evidente che il combattimento era iniquo. Gli esponenti della sinistra si sono mossi quasi tutti come se fosse evidente che il combattimento era equo.

Ma forse l’aspetto più istruttivo di questa vicenda sono i problemi di coerenza logica che sono venuti a galla. Uno su tutti: la natura della distinzione maschi-femmina a livello biologico. Su questo fra gli ideologi della teoria gender coesistono due
posizioni difficilmente conciliabili: da un lato si sostiene che il sesso è un costrutto sociale, e che maschio e femmina sono solo due poli fra i quali esistono infinite gradazioni intermedie, di cui le persone intersessuali sono testimonianza vivente; dall’altro si afferma in modo categorico che la pugile Imane Khelif è una donna, e quindi può senz’altro gareggiare nelle competizioni femminili.

Ma le due affermazioni sono logicamente incompatibili. Se davvero il sesso è un continuum (come l’altezza o il peso), allora è inevitabile dedurne che per trasformare questo continuum in un attributo dicotomico (maschio/femmina) occorrono delle
procedure di misurazione e delle soglie. La questione non è più se Khelif sia o no una donna, ma se si avvicini a sufficienza al polo femminile per essere ammessa in una competizione femminile. E si noti che, se si accetta la teoria del continuum, allora –
in linea di principio – al medesimo test dovrebbero essere sottoposti anche i maschi. Se ad esempio l’unico criterio fosse il testosterone, dovremmo assicurarci che le concorrenti nelle gare femminili non ne abbiano troppo, ma anche che i concorrenti a
quelle maschili ne abbiano a sufficienza.

Come si vede, accettare il principio che il sesso biologico non esiste e che esistono innumerevoli stati intermedi pone più problemi di quanti ne risolva. Sfortunatamente, però, non esistono scorciatoie. Nel momento in cui il peso demografico delle persone
transessuali aumenta, e si prende coscienza dell’esistenza di persone intersessuali, è inevitabile che si ponga il problema dei criteri di inclusione.

Il punto, però, è che questo problema si pone solo su un versante del continuum. Nessun intersessuale e nessun transessuale FtM (maschio transito a femmina) chiede di gareggiare con i maschi. Quindi, di fatto, il problema riguarda solo il lato donne.
Sono le donne-donne, il cui sesso biologico è inequivocabilmente femminile, che pagano il prezzo dell’inclusione. Criteri troppo laschi di ammissione alle competizioni femminili violano il principio sportivo della equità delle gare. Ma criteri
troppo stretti entrano in conflitto con l’ideale dell’inclusione, che ha potentemente informato le Olimpiadi di Parigi.

Come se ne esce?

Secondo la sinistra ideologica e buona parte della lobby LGBT+, l’inclusione è molto più importante dell’equità della gara, e le donne-donne dovranno farsene una ragione. Secondo la destra, la cosa più importante è l’equità della gara, e sono transessuali e intersessuali che dovranno farsene una ragione. In mezzo, per fortuna, ci sono anche posizioni ragionevoli, come quelle di Paola
Concia (ex deputata Pd e attivista LGBT) che, in un’intervista rilasciata nei giorni delle Olimpiadi, deplora che i criteri di ammissione cambino a seconda dei comitati e delle federazioni sportive, e paragona l’eccesso di testosterone al doping, usato in passato dalle atlete sovietiche. E infine conclude: “non è possibile, sull’altare del politicamente corretto e dell’inclusione, sacrificare le donne. Perché poi, alla fine, quelle danneggiate sono le donne. Io dico: va bene, tutto sta cambiando, ci sono casi nuovi, persone trans, intersex, in transizione, ma troviamo un modo per cui alla fine non ci rimettano le donne”.

Già, le donne. È proprio questa la nota dolente. Di fronte alla vicenda delle due pugili, le principali organizzazioni femministe italiane – Se non ora quando e Non Una di Meno – hanno scelto il silenzio. Nessuna dichiarazione, nessuna intervista,
nessun messaggio su internet. Né sostegno a Khelif, né sostegno a Carini, né solidarietà a entrambe.

Come mai?

Forse è stato solo un segno di rispetto. Ma forse è la presa d’atto che, sempre più spesso, inclusione significa invasione degli spazi delle donne: una deriva che piace a poche, ma di cui quasi nessuna trova il coraggio di parlare.

[articolo uscito sulla Ragione il 5 agosto 2024]

Rifondazione democratica – La forza del passato

10 Maggio 2024 - di Luca Ricolfi

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Ha suscitato qualche sconcerto la notizia che, vincendo l’iniziale esitazione, la segretaria del Pd Elly Schlein si sia infine risolta a firmare il referendum contro il Jobs Act, promosso dalla Cgil. Prima di lei avevano già firmato i dioscuri Bonelli e Fratoianni, leader dell’Alleanza Verdi-Sinistra, e prima ancora l’astuto Giuseppe Conte, che con questa mossa ha segnato un punto nella corsa alla guida del centro-sinistra. Non si sa ancora quanti, fra gli innumerevoli esponenti del Pd che a suo tempo (2014-2016) avevano entusiasticamente appoggiato il Jobs Act e i suoi decreti legislativi, metteranno a loro volta la firma sul referendum di Landini.

La scelta di Elly Schlein è perfettamente comprensibile, viste le posizioni su cui si è candidata alla segreteria del Pd. E non mi stupirei che, in un impeto di coerenza, domani promuovesse una qualche iniziativa contro l’altra bestia nera del nuovo Pd,
ovvero la politica migratoria dell’era Renzi-Minniti. Come se, dopo gli anni di “Rifondazione comunista”, reazione nostalgica alla dissoluzione del PCI, agli eredi di quel partito toccasse ora promuovere una sorta di “Rifondazione democratica”, nel
segno di una sinistra più “vera” e della memoria di Enrico Berlinguer.

Difficile non vedere, tuttavia, le conseguenze che questa deriva politica inevitabilmente implacabilmente porta con sé. La prima è una sorta di rimodulazione radicale della geometria interna del centro sinistra: mai come oggi sono state grandi le distanze fra il Pd e il trio riformista Azione-Italia Viva-Più Europa, e mai come oggi sono state piccole, per non dire inesistenti, le distanze programmatiche fra Pd, Cinque Stelle, Verdi e Sinistra Italiana. Mai come oggi, soprattutto, è stata evidente la sudditanza del Pd al Movimento Cinque Stelle e a Giuseppe Conte, che non perde occasione per mettere in imbarazzo la leader del Pd, oggi sulla politica economico-sociale, con la tempestiva firma del referendum contro il Jobs Act, ieri sulla questione morale, lucrando sugli scandali che hanno coinvolto il Pd a Bari e Torino.

C’è anche un’altra conseguenza, però. La scelta di rinnegare il passato del Pd, rende ancora più difficile un’alleanza strategica con la sinistra riformista, che ora – grazie all’involuzione massimalista e giustizialista del Pd – non include solo i partiti di Renzi e Calenda, ma anche quello di Emma Bonino. L’ultima super-media dei sondaggi rivela che Pd e alleati sono fermi al 40%, mentre i tre partitini riformisti sono vicini al 9%. Difficile pensare che, alle prossime elezioni, quel 40% del “campo giusto” possa miracolosamente tramutarsi in un 50%, necessario per competere vittoriosamente con il centro-destra.

Si potrebbe obiettare che la forza del fronte progressista (e anti-riformista) sta nella correttezza della sua analisi sociale, e che con il tempo l’elettorato capirà. In effetti ci sono parecchie cose che non vanno bene in Italia, dalla sanità alla scuola, dai bassi
salari alla precarietà di tanti contratti, dal ristagno della produttività all’immane peso del debito pubblico, dai morti sul lavoro ai suicidi in carcere. Il problema, però, è che molto di quel che non va ha radici nel passato, e in questo passato ci sono tutti:
governi politici e governi tecnici, governi di destra e governi di sinistra, governi con i Cinque Stelle e governi senza i Cinque Stelle.
Il debito pubblico è una voragine con cui nessun governo ha mai avuto la forza di fare davvero i conti. I bassi salari sono la conseguenza della stagnazione trentennale della produttività, frutto di decenni di riforme mancate. La distruzione della scuola è
un’impresa comune, cui hanno contribuito tutti, governanti e cittadini. L’indebolimento del sistema sanitario nazionale è iniziato una quindicina di anni fa, ben prima del Covid. Quanto allo stato penoso della finanza pubblica, che rende
difficilissimo fronteggiare le innumerevoli emergenze del paese, come non vedere che è anche il risultato del super-bonus, una misura voluta dagli stessi partiti che oggi denunciano la drammaticità di quelle emergenze?

In queste condizioni, una politica economico-sociale credibile non può cavarsela ripartendo le colpe fra il presunto liberismo dei governi riformisti passati e il presunto fascismo del governo in carica. È la forza del passato, con i suoi errori e le sue
avventatezze, il vero macigno che pesa su chiunque si proponga di cambiare l’Italia. Chi è al governo lo sa, perché lo sperimenta a proprie spese. Chi al governo spera di arrivarci con le prossime elezioni politiche, non può far finta di non saperlo, se vuole portare dalla propria parte la maggioranza dei cittadini.

Luca Ricolfi

[articolo uscito sul Messaggero il 10 maggio 2024]

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