Occupazione, redditi e produttività – Sostenere il ceto medio?

Che la parola d’ordine della manovra di quest’anno sia “meno tasse al ceto medio” è comprensibile. Sorprendenti, semmai, erano state le manovre precedenti, decisamente sbilanciate nei confronti delle fasce più deboli della popolazione. Dopo un biennio di
politiche di sinistra, è normale che un governo di destra faccia anche qualcosa di destra. Nella prossima manovra, oltre alla conferma delle misure pro ceti bassi, avremo qualche modesta misura a favore dei ceti medi, e forse pure dei ceti alti.

Niente di eclatante, niente di strano. Quel che colpisce, piuttosto, è il ripetersi – da decenni – del medesimo schema: ricerca disperata di “risorse” da ogni rivolo del bilancio pubblico, constatazione che le risorse non bastano a fare quel che si vuol fare, parziale ricorso al deficit per finanziare le misure-bandiera della manovra. Il tutto aggravato, per il futuro, dalla necessità di rispettare impegnativi “piani di rientro” del debito pubblico.

Ma può un governo, un qualsiasi governo, andare avanti così?

Certo che può, e infatti tutti i governi da trent’anni vanno avanti così. La vera domanda è se noi siamo consapevoli che, per questa strada, nessuno dei problemi che tutte le forze politiche denunciano – sanità, scuola, povertà – potrà mai essere risolto, chiunque governi.

L’impressione è che non lo siamo, consapevoli. Se lo fossimo, la smetteremmo di discutere di “politiche palliative”, e ci concentreremmo sulle politiche radicali o “agonistiche” (così le chiama la politologia Chantal Mouffe), ossia su politiche che
provano ad aggredire i problemi alla radice, anche a costo di pagare qualche prezzo in termini di consenso.

Ma qual è la radice dei nostri problemi?

Dipende dalla prospettiva che adottiamo. In astratto la radice è il debito: se il debito fosse al 60% del Pil, anziché al 140%, ogni anno risparmieremmo 40-50 miliardi di interessi sul debito, e con quel “tesorone” potremmo affrontare molti dei nostri
problemi. Peccato che, per arrivare fin lì, ci vorrebbero decenni di austerità, alla fine dei quali potremmo ritrovarci più poveri di oggi.

Se cambiamo angolatura, e diamo il debito come incomprimibile o poco comprimibile, la vera radice dei nostri problemi diventa un’altra. A debito invariato, il nostro guaio è semplicemente il Pil, che è troppo piccolo sia rispetto al debito, sia rispetto al numero di abitanti. Una politica “agonistica”, non meramente palliativa, dovrebbe innanzitutto affrontare il problema del livello troppo basso del Pil pro capite.

Ma perché il nostro Pil pro capite è basso?

Qui è essenziale distinguere due ragioni. La prima è che, da molti decenni, il nostro tasso di occupazione è fra i più bassi dei paesi avanzati. Meno persone che lavorano significa meno redditi che entrano nei bilanci famigliari: la prima causa delle difficoltà economiche di tante famiglie non è il basso livello dei salari orari, ma il fatto che a lavorare sia solo il capofamiglia.

La seconda ragione del nostro basso Pil pro capite è la dinamica della produttività, che ristagna da circa trent’anni. Quando si lamenta che, negli ultimi decenni, i salari reali sono aumentati un po’ dappertutto in Europa, ma in Italia sono rimasti al palo, si
dimentica che la precondizione per l’aumento dei salari orari è l’aumento della produttività del lavoro, che a sua volta dipende in modo cruciale dal progresso organizzativo e dagli investimenti in tecnologie materiali e immateriali.

Rispetto a questi due fattori di crescita del Pil – occupazione e produttività – la situazione del nostro paese è marcatamente asimmetrica. Sul versante occupazionale, le cose vanno benissimo, perché l’occupazione cresce al ritmo annuo di 500 mila
posti, il che significa quasi il 2% all’anno (un risultato particolarmente soddisfacente, perché accompagnato da una riduzione del tasso di occupazione precaria). Sul versante della produttività, comunque la si misuri (produttività totale dei fattori, produttività del lavoro, produttività del capitale), le cose vanno decisamente meno bene: il ritmo di crescita resta ampiamente inferiore a quello degli altri maggiori paesi, con ovvi effetti negativi sulla dinamica salariale.

Se la politica volesse andare alla radice del problema Italia, continuerebbe con le politiche para-keynesiane di sostegno dell’occupazione fin qui adottate, ma le carte residue le giocherebbe sul versante della produttività, con incentivi alle imprese che
innovano e investono in tecnologia. Perché il rischio, se non si agisce anche su questo versante, è che l’aumento dell’occupazione anziché trascinare il sistema nasconda la stagnazione della produttività, che è il nostro vero, troppo spesso dimenticato, tallone
d’Achille.

[articolo uscito sul Messaggero il 1° settembre 2024]




Il grande abbaglio del “modello italiano”. Intervista a Luca Ricolfi

Professore, dal vostro osservatorio della Fondazione Hume continuate ad analizzare i dati sull’andamento dell’epidemia. Come siamo messi a contagi rispetto a marzo scorso?
Il numero attuale di persone contagiose nessuno lo conosce, perché i casi rilevati – oggi come ieri – sono solo la punta dell’iceberg. Io ritengo, basandomi soprattutto sui dati dei ricoveri, che il numero di persone in grado di infettare gli altri possa essere dell’ordine di 1/3 di allora.
Quanto al parametro più importante, la velocità di crescita dei contagi, quella attuale è la stessa dei giorni intorno al 21 marzo, quando venne decretato il vero lockdown, con la proibizione degli spostamenti fra comuni: i nuovi casi raddoppiano ogni settimana. Evidentemente è questa la soglia che induce i politici a risvegliarsi dal loro torpore.

Perché, dovrebbe essercene un’altra?
Certo, la soglia vera non è quando l’epidemia va fuori controllo, ma quando si passa da una crescita lineare a una crescita esponenziale.

E questa seconda soglia quando è stata attraversata?
Dipende dallo strumento che si usa per accorgersi che l’epidemia sta rialzando la testa. Se, come pare siano abituate a fare le autorità sanitarie, si usa il numero di nuovi casi giornaliero, il campanello di allarme era già suonato nell’ultima parte del mese di luglio. Se invece ci si basa su strumenti più sofisticati, il punto di svolta si situa intorno a metà giugno. Come Fondazione Hume abbiamo sollevato il problema precisamente allora (4 mesi fa!), con un’intervista all’Huffington Post in cui notavo che, per salvare il turismo estivo, il nostro governo stava lasciando ripartire l’epidemia.

E a tamponi come stiamo?
Sui tamponi ci sono state varie fasi, ognuna caratterizzata da un diverso tipo di negazionismo.
Nelle prime settimane, il negazionismo governativo era assoluto: i tamponi danneggiano il turismo, facciamoli solo in casi estremi.
Poi, fino all’appello di Lettera 150 promosso da Giuseppe Valditara e Andrea Crisanti (inizio maggio), è stato il tempo del negazionismo relativo: i tamponi servono, e noi ne facciamo più di ogni altro paese, Germania compresa (era falso, ma loro mostravano di crederci).
Infine, dopo un breve periodo in cui anche le autorità sanitarie parevano essersi convinte della giustezza dell’appello di Lettera 150, siamo passati al negazionismo di fatto: sappiamo che dobbiamo fare molti più tamponi, ma di fatto ne facciamo pochi. Giusto per darle un’idea: il numero medio di tamponi settimanali di agosto era ancora ai livelli di maggio.
L’unico cambiamento significativo è intervenuto fra settembre e ottobre, quando finalmente il numero di tamponi è aumentato sensibilmente (di circa il 40% rispetto a fine agosto), se non altro per limitare i danni provocati dai vacanzieri di ritorno. Ma siamo ancora lontanissimi dal livello suggerito da Crisanti, che a fine agosto aveva chiesto di (almeno) triplicare il numero di tamponi, con tanto di piano trasmesso la governo.

Ma non siamo tra quelli che fanno meglio in Europa?
Questo è semplicemente un abbaglio collettivo, qualcosa di cui come sociologo stento a darmi conto. Capisco che chi ci governa non abbia il minimo rispetto per la pietrosa realtà dei dati, e abbia voluto alimentare il mito del “modello italiano” che tutti ci invidierebbero, ma trovo mortificante che – fortunatamente con qualche eccezione – il sistema dei media per mesi abbia accettato acriticamente questa narrazione.

E allora diciamoli questi dati…
Il primo dato, il dato di fondo, da cui qualsiasi analisi dovrebbe partire, è il bilancio complessivo in termini di morti e di caduta del Pil. Ebbene, su 37 società avanzate (paesi Oecd e Unione Europea) solo quattro hanno avuto più morti per abitante di noi. Si tratta di Spagna, Belgio, Regno Unito, Stati Uniti (vedi grafico). Quanto al Pil, le previsioni del Fondo Monetario Internazionale uscite pochi giorni fa, ci dicono che quest’anno solo la Spagna farà peggio di noi (vedi grafico).
Ma non è tutto. Anche se guardiamo esclusivamente alla fase attuale, quella in cui – secondo la narrazione dominante – l’Italia si starebbe comportando meglio degli altri paesi, la realtà è che siamo a metà classifica, un po’ meglio di Francia e Regno Unito, ma molto peggio della Germania. L’illusione di stare molto meglio di Francia e Regno Unito si basa semplicemente su un errore, o ingenuità, di tipo statistico.

Che tipo di errore?
L’errore di basarsi sui nuovi casi giornalieri accertati, senza tener conto del fatto che la capacità diagnostica dei vari paesi è molto diversa, perché diverso è il numero di tamponi per abitante, e diversa è l’efficacia del tracciamento. Tutti i maggiori paesi occidentali, compresa la Francia, da almeno due mesi fanno il doppio o il triplo dei tamponi che facciamo noi, e questo finisce per gonfiare il numero di nuovi casi diagnosticati, permettendo a noi – che di tamponi ne facciamo molti di meno – di cullarci nell’illusione di stare meglio di altri.
Ma c’è un errore ancora più grande, che un po’ tutti hanno commesso.

Quale?
E’ quello di puntare sempre i riflettori su chi stava peggio di noi, anziché su chi aveva fatto molto meglio, con un bilancio di morti (e di caduta del Pil) enormemente più favorevole del nostro. Avremmo dovuto studiare i paesi migliori per cercare di imitarli, anziché auto-rassicurarci con i guai dei paesi che avevano sbagliato strategia.

La riapertura delle scuole, e il successivo svolgimento delle elezioni, hanno avuto un peso sulla crescita dei contagi? O stiamo pagando ancora le vacanze matte di agosto?
La scuola è semplicemente il luogo nel quale, a causa di un livello di attenzione lodevolmente elevato (tamponi), si tocca con mano quanto folle sia stata la nostra estate. Quanto alle elezioni sì, è possibile che, come temeva il prof. Massimo Galli, decine di milioni di italiani alle urne abbiano accelerato la circolazione del virus. Lo dico perché la serie dei decessi ha avuto un repentino innalzamento dopo l’11 ottobre, giusto 20-25 giorni dopo la data del voto, e giusto ieri un nuovo balzo (+83 morti, il doppio del giorno prima).
Ma quello che stiamo pagando davvero, in questi giorni, sono i 5 peccati capitali dei nostri governanti: pochi tamponi; mancato rafforzamento del trasporto pubblico locale; incredibili ritardi nel rafforzamento del servizio sanitario nazionale e della medicina territoriale; deliberata indulgenza su movida, discoteche, assembramenti; nessun serio piano per ridurre il numero di alunni per classe.
E’ ipocrita, e anche un po’ vile, attribuire la responsabilità del dramma attuale alla popolazione, quando si sono passati mesi ad adulare i cittadini per il loro presunto senso di responsabilità, anziché denunciarne le follie estive, e magari provare a far rispettare le regole. La realtà è molto semplice e cruda: la frittata l’hanno fatta i governanti, e adesso tocca a noi toglier loro le castagne dal fuoco. Perché la strategia del governo è sempre quella, ieri come oggi: tergiversare finché i casi sembrano pochi; svegliarsi di colpo quando si profila il collasso del sistema sanitario; e a quel punto terrorizzare l’opinione pubblica perché accetti l’unica cosa che al governo riesce bene, ossia chiuderci tutti in casa.
Ma il dato più terribile è che, oggi come ieri, chi si ammala non riceve alcuna visita a casa, ed è abbandonato nei meandri della burocrazia sanitaria, digitalizzata e senza umanità (una realtà che il caso di Feruccio Sansa riassume fin troppo bene).

Il virologo Andrea Crisanti auspica un nuovo lockdown a ridosso del Natale per frenare il diffondersi del contagio. Cosa ne pensa?
Ho ascoltato l’intervista, ma non mi è sembrato un auspicio, semmai una previsione. Secondo me il prof. Crisanti, per una volta, è fin troppo ottimista: se ci sarà un nuovo lockdown, sarà ben prima di Natale. Il problema dei politici è che sanno benissimo che solo i nostri sacrifici possono rallentare la circolazione del virus, ma non hanno ancora trovato un modo di chiuderci senza dire che ci rinchiudono una seconda volta.

Cosa manca secondo lei per gestire la crisi sanitaria ed economica? Il governo invita tutti al senso della responsabilità
Quel che manca lo sappiamo perfettamente: è tutto quel che il governo avrebbe dovuto fare e non ha fatto. Ora è tardi, quasi tutto quel che andava fatto richiede mesi, e andrebbe attuato in condizioni di quasi-normalità, in cui siamo stati per 4 mesi e ormai non siamo più. Mentre ai primi di marzo, proprio in un’intervista a questo giornale, mi ero permesso di fare un invito alla chiusura immediata, oggi ogni suggerimento mi pare perfettamente inutile: i buoi sono scappati, possiamo solo inseguirli più o meno affannosamente, e con maggiore o minore cialtroneria.

Ma l’Italia si può permettere un nuovo lockdown?  Il Fondo monetario internazionale ha abbassato le stime di crescita del Pil rispetto a quanto fa il governo nei suoi documenti economici e finanziari, non sarebbe un disastro?
Il disastro c’è già stato, purtroppo, e il neo-lockdown che verrà non potrà che aggravarlo. Ma bisogna capire che l’alternativa non è fra salute ed economia. Contrariamente a quel che il senso comune sembra suggerire, la relazione fra salute ed economia è diretta, non inversa. Meno ci si preoccupa della salute oggi, e più si danneggia l’economia domani. E’ da qualche mese che provo ad avanzare questo dubbio, ora uno studio del Fondo Monetario Internazionale pare arrivare alle medesime conclusioni.
Se il Fondo Monetario ha ragione, i difensori estivi dell’economia sono stati i suoi peggiori nemici, perché è precisamente la superficialità con cui si è riaperto durante la stagione calda che sta per regalarci un nuovo lockdown, più o meno mascherato, ora che inizia la stagione fredda.

Siamo a un passo dall’approvazione del nostro piano di utilizzo delle risorse del Recovery Fund. Che gliene pare? Nel 2021 quanta ricchezza recupereremo?
Le risorse del Recovery Fund arriveranno nella seconda metà del 2021, quindi il loro effetto si farà sentire solo nel 2022. Per quanto riguarda il rimbalzo del Pil italiano, sono pessimista: la politica dei bonus e dei sussidi è la ricetta giusta per non far ripartire l’economia. Siamo avviati a diventare una “società parassita di massa”, e in una società basata sull’invadenza dello Stato e il soffocamento del settore privato il Pil non cresce.

 

Intervista di Alessandra Ricciardi a Luca Ricolfi, ItaliaOggi, 16 ottobre 2020




L’economia dimenticata

Se scorriamo i titoli dei giornali e dei telegiornali delle ultime settimane, è inevitabile constatare che tre argomenti hanno ormai monopolizzato l’attenzione dei media e della politica: il processo a Salvini per la vicenda della nave Diciotti, la giustizia, con la questione della prescrizione, e il coronavirus (ora ribattezzato Covid-19).

La questione della prescrizione è arrivata al punto di minacciare la sopravvivenza del governo, mettendo in evidenza la incompatibilità fra Italia Viva e Cinque Stelle.

Il problema del coronavirus ha riacceso le accuse di razzismo e xenofobia che il mondo progressista riversa su chiunque non sposi la linea ufficiale, per la quale il diritto allo studio (niente quarantena preventiva per gli studenti che arrivano dalla Cina) ha la precedenza su quello alla salute. O, se preferiamo dirla in modo più filo-governativo: per le autorità preposte a gestire l’epidemia, i rischi di contagio sono così bassi che possiamo permetterci di correrli.

In tutto ciò, quel che è completamente sparito dalla scena sono i problemi dell’economia. Eppure l’economia batte alle porte.

Ci sono, innanzitutto, i problemi che fino a ieri parevano cruciali, e che ora si preferisce rimuovere. Ricordate il dramma dell’Ilva, che fino a due mesi fa pareva una questione di vita o di morte, per la salute dei cittadini di Taranto come per l’economia del mezzogiorno e dell’intero paese?

E l’Alitalia ? Una vicenda che si trascina da anni e ora è tornata alla ribalta solo perché la magistratura ha deciso di indagare una ventina di dirigenti per presunti favori illeciti a Etihad.

C’è poi la questione della revoca della Concessione ad Autostrade, un problema che si tende ad affrontare in modo ideologico, come se le scelte (o le non scelte) che si compiono non avessero pesanti ripercussioni economiche (la revoca potrebbe costare miliardi alle casse dello Stato, la rinuncia a imporre investimenti al concessionario potrebbe peggiorare ulteriormente lo stato della nostra rete autostradale).

E il MES? Qualcuno ricorda che fino a un paio di mesi sulla riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità volavano le accuse, e anche i più cauti fra gli economisti avanzavano preoccupazioni?

Tutto cancellato, tutto sottotraccia, tutto in sordina, sommerso dalle intemperanze dei politici che si sfidano sul processo al capo della Lega, sulla prescrizione, sulle misure da adottare per contrastare il contagio.

Ma non è tutto. Accanto ai problemi specifici dell’economia italiana ci sono le turbolenze che arrivano da fuori e da lontano. La crescita mondiale sta rallentando, la Brexit sta creando incertezza e instabilità, il commercio con la Cina subirà certamente una frenata.

E in questo quadro arrivano le stime di crescita per il 2020 e il 2021 della Commissione europea, che annunciano un rallentamento dell’Europa in generale, e dell’Italia in particolare. La vera notizia, per noi, è che anche nei prossimi anni, così come in quelli passati, l’Italia occupa l’ultimo posto, dietro paesi come Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda. Tutti i paesi dell’euro, secondo le previsioni, cresceranno più dell’1%, e 10 paesi (su 19) cresceranno fra il 2 e il 4%. Solo per l’Italia la Commissione prevede una crescita prossima a zero (0.3%).

Qualcuno dirà che questa è l’amara eredità del governo populista e del suo capo, quel Giuseppe Conte che aveva profetizzato che il 2019 sarebbe stato “un anno bellissimo”. Qualcun altro obietterà che, nel passaggio da giallo-verde a giallo-rosso, o da Conte 1 a Conte 2, le cose sono addirittura peggiorate, visto che per il terzo trimestre del 2019 l’Istat prevede addirittura una contrazione del Pil (-0.3%).

Ma ad entrambi, e a chi rimpiange gli anni precedenti, vorrei ricordare che il primo segno meno davanti al tasso di crescita del Pil risale al secondo trimestre del 2018, quando il timone dell’economia era ancora in mano al governo Gentiloni. Dunque, facciamocene tutti una ragione: se guardata dal lato dell’economia, l’Italia brilla per la continuità delle sue non-politiche.

Sono anni e anni che, chiunque governi, siamo ultimi in Europa. E sono anni e anni che i nostri nodi veri, dal debito pubblico alla pressione fiscale, dalla produttività all’occupazione, preferiamo non affrontarli. E ogni coronavirus che passa ci fornisce l’insperata occasione di perseverare nella nostra inerzia.

Pubblicato su Il Messaggero del 15 febbraio 2020



Il partito del Pil

A che punto è il cosiddetto partito del Pil, ovvero l’Italia che non si è rassegnata al declino, e vorrebbe tornare alla crescita?

Il tema è stato sollevato con la consueta lucidità da Angelo Panebianco in un articolo sul Corriere della Sera di qualche giorno fa. Di fronte alla disastrosa gestione del caso dell’Ilva, ma soprattutto al perdurare di politiche assistenziali (quota 100 e reddito di cittadinanza) in entrambi i governi Conte, Panebianco suggerisce che ben poco sia cambiato nel passaggio dall’esecutivo giallo-verde a quello giallo-rosso, salvo il fatto che, ora, le deboli e timide istanze pro-crescita della società italiana anziché essere rappresentate dalla Lega vengono rappresentate da una parte del Pd (e, aggiungo io, da Italia Viva, il nuovo partito di Mattero Renzi). E lascia aperta la domanda cruciale: il partito del Pil è minoranza nel paese, o è semplicemente privo di un’adeguata espressione politica?

La mia impressione, ma potrebbe essere un’illusione dettata dallo sconforto, è che fra la gente, e non solo al Nord, il partito del Pil sia molto più forte di quanto suggerisca il balbettio delle forze politiche che, più o meno maldestramente, provano a interpretarne qualche istanza. E che ci siano ragioni ben precise per cui il partito del Pil non riesce a trovare un’espressione di governo adeguata.

La prima ragione è ovvia e strettamente politica: i Cinque Stelle, che sono l’espressione più pura del partito della decrescita, hanno la maggioranza relativa in parlamento, e quindi qualsiasi governo che li includa non può non avere un orientamento prevalentemente assistenziale. Ma ci sono anche altre due ragioni che, a mio parere, soffocano sul nascere la formazione di uno schieramento pro-crescita. Una a che fare con l’economia, l’altra con l’ideologia.

Sul versante dell’economia, è difficile non notare che sia la Lega sia il Pd hanno essi stessi una componente assistenziale molto forte. La Lega l’ha palesata clamorosamente anteponendo quota 100 alla riduzione delle tasse, il Pd la palesa ogniqualvolta (quasi sempre) antepone gli incrementi di spesa alle riduzioni delle tasse sui produttori, o preferisce migliorare le retribuzioni di chi ha già un lavoro piuttosto che rendere possibile la nascita di nuovi posti di lavoro. A questa debolezza dei timidi rappresentanti del partito del Pil si aggiunge un ulteriore handicap: né la Lega né il Pd ci hanno ancora spiegato se l’alleggerimento della pressione fiscale, che entrambi dicono di perseguire, intendono attuarlo facendo nuovo debito pubblico oppure no (al riguardo, la mia sensazione è che la Lega pensi di ridurre le tasse con un condono e portando il deficit vicino al 3%, e che il Pd semplicemente non abbia alcuna seria intenzione di ridurle davvero, le tasse).

Ma supponiamo, per un attimo, che fra Pd e Lega non vi siano differenze significative sulla politica economica, e che questi due partiti si ergano a rappresentanti del partito del Pil. Supponiamo anche che i Cinque Stelle scendano intorno al 10-15% dei consensi. Basterebbe questo a dare spazio al partito del Pil?

Secondo me no, perché nella politica italiana – ma oggi siamo costretti a specificare: nel modo di fare politica del mondo progressista – l’ideologia tende a prevalere su tutto. Per la sinistra, la Lega e il suo leader non sono normali avversari, portatori di un progetto politico alternativo a quello della sinistra. No, la Lega e i suoi alleati (specie Fratelli d’Italia), sono prima di tutto la manifestazione dei più torbidi impulsi della società italiana: razzismo, odio verso gli stranieri, antisemitismo, nostalgie fasciste, tentazioni autoritarie. La destra, oggi con Salvini come ieri con Berlusconi, è culturalmente indigeribile: altroché politica economica e partito del Pil! E’ come se, accecata dall’odio per il non-uomo Salvini, la sinistra avesse perso ogni capacità di discernimento, oltreché ogni rispetto per l’avversario.

Ecco perché penso che, alla fine, nonostante il partito del Pil sia forte nel Paese, non vi sia, attualmente, alcuna realistica possibilità di fornirgli un’espressione politica, anche nel caso i Cinque Stelle e le forze anti-crescita (quelle che plaudono alla chiusura o alla nazionalizzazione dell’Ilva) dovessero subire una severa sconfitta elettorale. La realtà, temo, è che le spinte assistenziali e la tentazione di affrontare i problemi facendo più debito sono fortissime tanto a destra quanto a sinistra. E lo sono perché i due partiti maggiori, la Lega e il Pd, pur non insensibili al “grido di dolore” del partito del Pil, non hanno più, se mai l’hanno avuta, la crescita nel loro DNA.

Da questo punto di vista l’esperienza dei due governi Conte è stata semplicemente illuminante. Non solo perché accomunati dalle due misure più anti-crescita (quota 100 e reddito di cittadinanza), introdotte dal primo e confermate dal secondo (con tanti saluti alla “discontinuità” invocata da Zingaretti), ma perché quel poco che li ha resi diversi è l’opposto di quel che Lega e Pd hanno sempre predicato. Il Conte 1, a trazione leghista, anziché ridurre le tasse ha aumentato la pressione fiscale, dopo un quinquennio di (sia pur modeste) riduzioni attuate dai governi di sinistra (Letta, Renzi, Gentiloni). Il Conte 2, a trazione Pd, dunque in linea di principio ligio alle regole europee, ha esordito facendosi concedere dall’Europa 16 miliardi di spesa in deficit, così interrompendo i sia pur modesti segnali di miglioramento dei conti pubblici emersi durante il breve regno dell’antieuropeo Conte 1.

Che dire?

Anche ammesso che, come sono incline a pensare, il partito del Pil sia maggioranza nel Paese, le due forze principali che dovrebbero rappresentarlo, la Lega e il Pd, non sembrano al momento all’altezza del compito. Non solo perché ferocemente ostili l’una all’altra, ma perché entrambe possedute dai due demoni che insidiano il ritorno alla crescita: l’incapacità di ridurre le tasse sui produttori, e la sempiterna tendenza a comprare il consenso con nuove spese.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 16 novembre 2019



Come va l’economia?

All’insegna della mediocrità

Se avvolgiamo il film all’indietro e ci chiediamo che cosa predicevano i protagonisti della politica un anno fa, quando il governo giallo-verde muoveva i primi passi, dobbiamo rispondere: nessuno ci ha azzeccato.

Ricordate il ministro Savona?

Per lui il Pil sarebbe potuto crescere del 2% nel 2019 e del 3% nel 2020. Quanto al deficit pubblico, il livello del 2.4% (quello sbandierato dai Cinque Stelle dal balcone di Palazzo Chigi) sarebbe stato sostenibile. Meno incauto del suo ministro, il governo ripiegava su stime più caute di crescita del Pil, e fantasticava di investimenti pubblici per decine di miliardi di euro.

E l’opposizione di sinistra, ve la ricordate?

Come Cassandra, prevedeva ogni sorta di sfracelli: una nuova recessione, crollo dell’occupazione, aumento della disoccupazione, spread fuori controllo, crisi finanziarie. Per non parlare del “partito del pop corn”, ingenuamente convinto che per veder cadere rovinosamente questo governo sarebbe bastato aspettare che il disastro si compisse, e gli italiani fossero costretti a prenderne atto.

A un anno di distanza, possiamo invece constatare che nessuna delle mirabolanti previsioni che con tanta sicurezza venivano avanzate si è realizzata. L’economia, a quanto pare, predilige la prosa.

E’ vero, ci sono stati momenti difficili, ma dopo un anno la situazione sul versante finanziario è rassicurante, anche grazie al cambio di orientamento della politica monetaria. Il temuto deficit al 2.4% viaggia invece verso il 2,1%. Le ingenti perdite virtuali registrate sui mercati finanziari nel 2018 (circa 200 miliardi di euro) sono oggi completamente assorbite e hanno lasciato il posto a un leggero saldo positivo. L’occupazione è aumentata di circa 100 mila addetti, la disoccupazione è diminuita di circa 200 mila unità.

Nello stesso tempo non si può non osservare che né la produzione industriale né l’export vanno bene, ci sono circa 160 tavoli di crisi aziendali aperti, gli investimenti pubblici ristagnano, i cantieri restano bloccati, le ore di cassa integrazione straordinaria sono raddoppiate in un anno, con un impatto paragonabile alla perdita di 50 mila posti di lavoro.

Insomma: la situazione non è né eccellente come ci raccontano i governanti, fieri delle molte misure adottate, né catastrofica come cerca pateticamente di convincerci l’opposizione. La situazione è mediocre, semplicemente mediocre.

E in prospettiva? Che accadrà con la Legge di Bilancio?

Anche su questo assistiamo alla consueta divaricazione fra le previsioni. Per le opposizioni le promesse del governo, a partire dalla flat tax e dal non-aumento dell’Iva, costano 40-50 miliardi, e quindi sono destinate a far esplodere i conti pubblici. Per il governo le coperture si troveranno, e l’Europa dovrà consentirci di abbassare le tasse in deficit.

E’ probabile, invece, che la realtà – come è successo finora – smentirà sia gli uni sia gli altri. Per qualche mese assisteremo alla consueta sceneggiata con l’Europa, che si concluderà con un mediocre compromesso (ci lasceranno fare un po’ di deficit, ma molto poco). Quanto alle tasse, le parole d’ordine saranno “rimodulazione” e “riordino”: la parola rimodulazione (delle aliquote Iva) servirà a nascondere che, complessivamente, l’Iva aumenterà. La parola riordino (delle tax expenditures, ovvero delle esenzioni e agevolazioni fiscali) servirà invece a nascondere il fatto che, complessivamente, la pressione fiscale non diminuirà, perché i soldi per varare un assaggio di flat tax si troveranno disboscando la giungla delle agevolazioni.

Insomma: quest’autunno non vedremo né il crollo dell’economia, né la sua ripartenza grazie al carburante di quota cento e reddito di cittadinanza. Ancora una volta, la mediocrità sarà la nostra cifra.

E’ un vero peccato, perché il fatto che le cose non vadano troppo male forse aprirebbe lo spazio per tentare qualche mossa di rilancio della crescita. Mosse che, per essere efficaci, dovrebbero essere non troppo elettorali e non troppo gravose per i conti pubblici. O, ancora meglio, essere a costo zero. A partire dalla mossa che da decenni è il sogno proibito di ogni imprenditore: una riduzione degli adempimenti burocratici che, almeno in questo, ci renda finalmente simili agli altri paesi europei.

Pubblicato su Il Messaggero del 29 luglio 2019