Requiem per il terzo polo

Sarà magari una coincidenza, ma certo colpisce che i più clamorosi successi di queste elezioni europee siano tutti al femminile: grazie al successo dei rispettivi partiti, Ursula Von del Leyen, Giorgia Meloni, Marine le Pen, Elly Schlein avranno un ruolo
decisivo nei futuri assetti dell’unione Europea.

Ma anche in Italia l’esito del voto premia esclusivamente le liste a traino femminile: non solo Giorgia e Elly, ma anche la lista Verdi-Sinistra condotta a un clamoroso risultato (quasi il 7%) dalla candidatura di Ilaria Salis.

Ciascuno a suo modo, i tre risultati sono eccezionali. Il 28.8% di Meloni, in quanto il suo governo è l’unico fra quelli dei grandi paesi europei ad uscire vincente, per di più in un momento (elezioni intermedie) di solito non favorevole ai governi in carica. Il
24% di Elly Schlein, in quanto il Pd è l’unico partito (insieme a AVS) che aumenta i consensi anche in termini assoluti, e ci riesce a dispetto dei voti in libera uscita temporaneamente sottratti al Pd per sostenere la causa della Salis. Il 6.8% della lista AVS, perché – secondo i sondaggi – il superamento della soglia del 4% non era per niente sicuro.

Fra i tre risultati, tuttavia, quello più impattante è stato quello della Salis. In un colpo solo, la pasionaria della lista Verdi-sinistra è riuscita nel miracolo di escludere dal Parlamento Europeo sia la lista di Renzi-Bonino (Stati Uniti di Europa) sia, verosimilmente, quella di Calenda (Azione). È facile immaginare, infatti, che – in assenza del magnete Salis – molti dei voti AVS sarebbero finiti su quelle due liste, consentendo ad almeno una delle due di raggiungere il 4%. L’extra-risultato di Salis
si aggira infatti intorno al 3%, mentre i voti mancanti a Stati Uniti d’Europa sono pari appena allo 0.2 %, e quelli mancanti ad Azione allo 0.7%: due divari colmabili con 1/3 dei consensi che Salis ha portato a Bonelli e Fratoianni.

Visto da questa angolatura, il risultato di AVS è probabilmente il più influente sul futuro del nostro sistema politico. Dopo il flop europeo, sembra estremamente difficile che Renzi e Calenda riescano a mettere insieme i cocci del Terzo polo, che pure aveva guadagnato un non disprezzabile 7.8% alle elezioni politiche. Le recriminazioni reciproche, scattate subito dopo il voto, testimoniano dei limiti caratteriali e strategici dei due leader, e annunciano un futuro non proprio allegrissimo per il centro-sinistra. Se non interverrà qualche invenzione, o qualche nuovo imprenditore della politica, i cosiddetti elettori di centro, che pure esistono, e valgono più o meno il 15% del corpo elettorale, non avrà altra strada che rivolgersi alla neo-resuscitata Forza Italia, il cui leader Tajani da tempo ripete che “occupiamo lo spazio fra Giorgia Meloni e Elly Schlein”. Una simmetria che fino a ieri,
sussistendo i partiti di Renzi e Calenda, poteva apparire artificiosa e pure un po’ furbesca, ma che ora, implosi quei due partiti, suona piuttosto come una constatazione di realtà.

Così il successo di AVS rivela la sua duplice valenza. Da un lato consolida il patto d’acciaio fra PD e AVS, due forze sempre più simili tra loro, e sancisce la perifericità dei Cinque Stelle rispetto ai due partiti di sinistra-sinistra. Dall’altro scava un baratro
fra la sinistra e il centro, fornendo a Tajani le praterie di cui ha bisogno per espandere Forza Italia. Verso il 20%, dice lui. Ma anche il 15% basterebbe ad assicurare buona salute al partito che fu di Berlusconi, e lunga vita alla maggioranza di governo.

Meloni ringrazia.

[Articolo uscito sulla Ragione il 12 giugno 2024]




Rifondazione democratica – La forza del passato

Ha suscitato qualche sconcerto la notizia che, vincendo l’iniziale esitazione, la segretaria del Pd Elly Schlein si sia infine risolta a firmare il referendum contro il Jobs Act, promosso dalla Cgil. Prima di lei avevano già firmato i dioscuri Bonelli e Fratoianni, leader dell’Alleanza Verdi-Sinistra, e prima ancora l’astuto Giuseppe Conte, che con questa mossa ha segnato un punto nella corsa alla guida del centro-sinistra. Non si sa ancora quanti, fra gli innumerevoli esponenti del Pd che a suo tempo (2014-2016) avevano entusiasticamente appoggiato il Jobs Act e i suoi decreti legislativi, metteranno a loro volta la firma sul referendum di Landini.

La scelta di Elly Schlein è perfettamente comprensibile, viste le posizioni su cui si è candidata alla segreteria del Pd. E non mi stupirei che, in un impeto di coerenza, domani promuovesse una qualche iniziativa contro l’altra bestia nera del nuovo Pd,
ovvero la politica migratoria dell’era Renzi-Minniti. Come se, dopo gli anni di “Rifondazione comunista”, reazione nostalgica alla dissoluzione del PCI, agli eredi di quel partito toccasse ora promuovere una sorta di “Rifondazione democratica”, nel
segno di una sinistra più “vera” e della memoria di Enrico Berlinguer.

Difficile non vedere, tuttavia, le conseguenze che questa deriva politica inevitabilmente implacabilmente porta con sé. La prima è una sorta di rimodulazione radicale della geometria interna del centro sinistra: mai come oggi sono state grandi le distanze fra il Pd e il trio riformista Azione-Italia Viva-Più Europa, e mai come oggi sono state piccole, per non dire inesistenti, le distanze programmatiche fra Pd, Cinque Stelle, Verdi e Sinistra Italiana. Mai come oggi, soprattutto, è stata evidente la sudditanza del Pd al Movimento Cinque Stelle e a Giuseppe Conte, che non perde occasione per mettere in imbarazzo la leader del Pd, oggi sulla politica economico-sociale, con la tempestiva firma del referendum contro il Jobs Act, ieri sulla questione morale, lucrando sugli scandali che hanno coinvolto il Pd a Bari e Torino.

C’è anche un’altra conseguenza, però. La scelta di rinnegare il passato del Pd, rende ancora più difficile un’alleanza strategica con la sinistra riformista, che ora – grazie all’involuzione massimalista e giustizialista del Pd – non include solo i partiti di Renzi e Calenda, ma anche quello di Emma Bonino. L’ultima super-media dei sondaggi rivela che Pd e alleati sono fermi al 40%, mentre i tre partitini riformisti sono vicini al 9%. Difficile pensare che, alle prossime elezioni, quel 40% del “campo giusto” possa miracolosamente tramutarsi in un 50%, necessario per competere vittoriosamente con il centro-destra.

Si potrebbe obiettare che la forza del fronte progressista (e anti-riformista) sta nella correttezza della sua analisi sociale, e che con il tempo l’elettorato capirà. In effetti ci sono parecchie cose che non vanno bene in Italia, dalla sanità alla scuola, dai bassi
salari alla precarietà di tanti contratti, dal ristagno della produttività all’immane peso del debito pubblico, dai morti sul lavoro ai suicidi in carcere. Il problema, però, è che molto di quel che non va ha radici nel passato, e in questo passato ci sono tutti:
governi politici e governi tecnici, governi di destra e governi di sinistra, governi con i Cinque Stelle e governi senza i Cinque Stelle.
Il debito pubblico è una voragine con cui nessun governo ha mai avuto la forza di fare davvero i conti. I bassi salari sono la conseguenza della stagnazione trentennale della produttività, frutto di decenni di riforme mancate. La distruzione della scuola è
un’impresa comune, cui hanno contribuito tutti, governanti e cittadini. L’indebolimento del sistema sanitario nazionale è iniziato una quindicina di anni fa, ben prima del Covid. Quanto allo stato penoso della finanza pubblica, che rende
difficilissimo fronteggiare le innumerevoli emergenze del paese, come non vedere che è anche il risultato del super-bonus, una misura voluta dagli stessi partiti che oggi denunciano la drammaticità di quelle emergenze?

In queste condizioni, una politica economico-sociale credibile non può cavarsela ripartendo le colpe fra il presunto liberismo dei governi riformisti passati e il presunto fascismo del governo in carica. È la forza del passato, con i suoi errori e le sue
avventatezze, il vero macigno che pesa su chiunque si proponga di cambiare l’Italia. Chi è al governo lo sa, perché lo sperimenta a proprie spese. Chi al governo spera di arrivarci con le prossime elezioni politiche, non può far finta di non saperlo, se vuole portare dalla propria parte la maggioranza dei cittadini.

Luca Ricolfi

[articolo uscito sul Messaggero il 10 maggio 2024]




Gli indistinguibili – A proposito del “campo largo”

“Non accettiamo lezioni da nessuno” è una frase che, ciclicamente, sentiamo ripetere un po’ da tutte le forze politiche, quando una inchiesta della magistratura scoperchia malefatte dei politici, qualche volta presunte, qualche volta vere. È successo pochi giorni fa con il Pd a Bari e Torino; è successo con Fratelli d’Italia in Sicilia; ed è successo pure con il Movimento Cinque Stelle a Roma (anche se di questo si è parlato pochissimo). Quindi è vero che nessuno può dare lezioni, ma solo perché nessun partito è senza peccato.

Questo non vuol dire, tuttavia, che su questione morale e dintorni non vi siano differenze importanti. I partiti di destra non hanno mai rivendicato una superiorità morale. Il Pd e i suoi predecessori l’hanno sempre rivendicata, fin dai tempi di Berlinguer. Il Movimento Cinque Stelle ne ha fatto addirittura una questione identitaria, una sorta di biglietto da visita che lo rendeva una forza politica speciale, diversa da tutte le altre. Poco stupisce, quindi, che Conte – alla prima avvisaglia di difficoltà dell’alleato – abbia colto la palla al balzo, assumendo il ruolo di censore e giudice, in paziente attesa che i reprobi facciano pulizia in casa loro.

Per certi versi la mossa di Conte è comprensibile: le elezioni europee sono alle porte, e l’occasione per scavalcare il Pd e diventare il primo partito dell’opposizione è troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. E i primi sondaggi dopo gli scandali sembrano dare ragione al leader Cinque Stelle: il vantaggio del Pd si sta riducendo, e potrebbe persino annullarsi (o cambiare di segno) se nuovi scandali dovessero riversarsi sul Partito Democratico, lasciando indenne il suo maggiore alleato.

C’è anche un’altra ragione, tuttavia, meno opportunistica e più politica, che rende non irragionevole la scelta di Conte. Ed è che, in questo momento, la “questione morale” è l’unico terreno su cui i Cinque Stelle hanno qualche possibilità di differenziarsi dal Pd non solo oggi, in occasione delle elezioni europee, ma anche più in là, quando sarà il momento delle elezioni politiche (2027).

E le differenze sulla guerra? si potrebbe obiettare; e quelle sul reddito di cittadinanza?; e quelle sulla magistratura? e quelle sui migranti?

In realtà, oggi nessuna delle classiche differenze fra i due partiti ha qualche consistenza. Sulla guerra, al momento di candidarsi al governo del paese non potranno che assumere un atteggiamento comune, come hanno dovuto fare i partiti di centro-destra, neutralizzando le gravi perplessità di Berlusconi e Salvini.

Sul reddito di cittadinanza, è impensabile che il Pd – dopo aver governato con i Cinque Stelle e difeso a spada tratta il reddito – recuperi le posizioni critiche e anti-assistenziali che aveva un tempo. Sulla magistratura, le intercettazioni, il potere dei giudici, la libertà dei giornalisti, è inevitabile che prevalgano le posizioni giustizialiste dei Cinque stelle, se non altro come antidoto al presunto eccesso di potere della destra. Stesso discorso sui migranti, anche se qui sono stati i Cinque Stelle – scottati dall’esperienza di governo con Salvini – a omologarsi alle posizioni del Pd.

Quanto agli altri grandi temi, ad esempio diritti civili e transizione green, è arduo immaginare anche un solo punto su cui i due partiti siano in grado di differenziarsi in modo significativo.

In breve, Pd e Cinque Stelle ormai si somigliano troppo per poter chiedere il voto in base a differenze programmatiche percepibili. E certo non aiuta il fatto che il terzo soggetto del cosiddetto campo largo – l’Alleanza Verdi-Sinistra (AVS) – sia a sua volta un’entità quasi indistinguibile dai due partiti principali della sinistra.

Ecco perché la scelta di Conte ha una sua logica. Con l’avvento di Elly Schlein e la sconfitta dell’ala riformista del Pd, con il convinto ripudio dell’era Renzi, con l’alleanza organica con Landini e la sua Cgil, le tre forze portanti del centro-sinistra – Pd, Cinque Stelle, AVS – hanno perso la capacità di spiegare in che cosa ciascuna di esse è veramente diversa dalle altre. Con un’unica particolarità, tutta a favore dei Cinque Stelle: che loro, almeno, possono provare a riesumare il marchio di fabbrica, “onestà e legalità”.

Resta solo da vedere se gli elettori vorranno prenderli in parola.

[uscito su La Ragione il 16 aprile 2024]




Salvate il soldato Schlein

Quando, poco meno di un anno fa, Elly Schlein espugnò il Pd, una delle prime cose che disse fu che il male era anche dentro il Pd, che c’era molto da fare dentro il partito, e che non voleva più vedere né “stranezze nei tesseramenti”, né “cacicchi” né “capibastone”.

Non so se fosse consapevole di quanto antiche fossero quelle pratiche nel mondo post-comunista, o se ricordasse che a evocare per la prima volta l’espressione “cacicchi” per stigmatizzare le correnti del partito era stato – un quarto di secolo fa – nientemeno che Massimo D’Alema, allora segretario del Pds, il partito erede del Partito Comunista, e secondo anello della catena Pci-Pds-Ds-Pd.

Né so se la neo-segretaria si rendesse conto che, ai membri del suo partito, quelle parole avrebbero potuto ricordare quelle pronunciate da Renzi pochi anni fa, dopo aver lasciato il Pd: “il mio errore più grande è stato non ribaltare il partito. Non entrarci con il lanciafiamme come ci eravamo detti. In alcuni casi il Pd ha funzionato, in altre zone è rimasto un partito di correnti. Ritengo che le correnti siano il male del partito”.

Soprattutto, non so se Elly Schlein, quando ebbe a pronunciare quelle parole di rinnovamento e di speranza, avesse contezza dell’enormità dell’impresa che si accingeva a compiere. Perché, dieci mesi dopo le fatidiche parole contro i cacicchi, l’impressione è che la guerra la stiano vincendo proprio loro, i signori delle tessere, i notabili locali, ma soprattutto i capi delle correnti.

E non sto pensando solo alle guerre sulle candidature, per le elezioni Regionali come per le Europee. O agli episodi che hanno visto i membri del Pd dividersi (cioè votare diverso) sia in Europa, sia nel Parlamento italiano: è successo nei giorni scorsi sulle armi all’Ucraina, ed è successo sull’abolizione del reato di abuso di ufficio.

Quello che più mi colpisce non è l’incapacità della segretaria di imporre a tutti la disciplina di partito, come accadeva ieri nel Pci e accade oggi nel centro-destra, ma è la sua incapacità di sciogliere i nodi politici di fondo. Hai un bel dire che è bello stare in un partito in cui si discute, o trastullarsi sulle pochissime cose su cui non c’è dissenso (salario minimo legale e più soldi alla sanità), il vero problema è tutto il resto. Sulle cose che contano, il Pd è diviso fra quanti la pensano come i Cinque Stelle, e quanti la pensano – se non come Renzi e Calenda – come il Pd prima del governo giallo-rosso.

Quali sono queste cose che contano?

Sono almeno cinque: l’atlantismo e la guerra; l’assistenzialismo e il reddito di cittadinanza; la riforma della giustizia; il mercato del lavoro; la patrimoniale e le tasse.

Su questi temi la segretaria, finora, non ha ancora saputo assumere una posizione chiara e netta. Detto in termini classici, non ha saputo scegliere fra massimalismo e riformismo. O forse sarebbe più esatto dire: in cuor suo ha scelto, ma non ha la forza di esplicitare e imporre la sua linea al partito.

È anche questo, a mio parere, il motivo per cui i cacicchi (e le cacicche) prosperano, e  della guerra contro le correnti non si scorge traccia. Se non scegli, se non dici per andare dove invochi il diritto di decidere, non fai che alimentare il brodo in cui prosperano le fazioni, le cordate, le piccole alleanze di potere.

È un peccato, soldato Schlein. Si può preferire la tua linea o quella di Bonaccini, ma era sano che chi – con le sue idee – era salito sul ponte di comando, poi quelle medesime idee avesse la forza, la volontà e la possibilità di farle vivere. Ed è insano che, chi la battaglia delle idee l’aveva vinta, debba restare intrappolato nella palude, vittima delle imboscate dei suoi stessi commilitoni.

Perché di una cosa si può stare sicuri: se non osa combattere la battaglia per le proprie idee, e rinuncia a debellare le correnti, alla prima difficoltà i cacicchi del suo partito faranno quello che hanno fatto con tutti i segretari. E non ci sarà nessun commando a salvare il soldato Elly (o la soldata Elly?).




Italia Oggi intervista Luca Ricolfi

Professore, in Francia, grazie ai voti di Rn e senza la sinistra, è stata approvata una legge che inasprisce le misure contro l’immigrazione irregolare e rende più facile anche revocare i permessi di soggiorno. Macron è più a destra del governo di destra italiano?

Per quel che capisco, il punto è che Macron non dispone di una maggioranza autonoma, e quindi è in balia delle opposizioni, di destra e di sinistra. Ma forse la riflessione che la vicenda di questa legge suggerisce è anche che abbiamo un po’ troppo idealizzato il sistema francese, e che dobbiamo compiacerci di non averlo preso come modello per la riforma del nostro sistema. Tra l’altro, trovo stupefacente che un primo ministro – in questo caso la semisconosciuta Mme Élisabeth Borne – sia costretta a varare una legge dicendo che probabilmente è incostituzionale. Almeno, in Italia le accuse di incostituzionalità provengono da chi le leggi non le ha votate…

Quanto alla sostanza del problema, credo che la chiave sia molto semplice: fra 6 mesi si vota per il Parlamento europeo, e i politici stanno capendo che l’opinione pubblica – oggi più che mai – vede gli immigrati come un problema, più che come una risorsa.

Non è strano per i politici di destra e centro-destra, ma è una novità per quelli di sinistra, che sono spaccati fra chi comincia a capire il nesso fra immigrazione e criminalità e chi resta abbarbicato alle vecchie parole d’ordine cosmopolite.

Perché l’immigrazione irregolare è diventata tema così sentito anche nell’elettorato di sinistra?

Non è una novità assoluta, il problema è sentito a destra almeno da 30 anni. Quel che è nuovo, forse, è che ormai anche i progressisti si rendono conto che c’è un conflitto insanabile fra imperativo dell’accoglienza e sicurezza dei cittadini. In Italia è chiarissimo: gli immigrati sono meno del 9% della popolazione, ma commettono circa il 40% dei reati, compresi quelli più odiosi, come le aggressioni in strada e gli stupri. E, a giudicare dagli ultimi dati ufficiali e consolidati (fermi al 2022), dopo il Covid i minorenni stranieri stanno dando un apporto sempre maggiore alla criminalità.

Alcuni le risponderebbero che se ci sono più minori stranieri che delinquono rispetto agli italiani è perché non siamo stati capaci di fare abbastanza integrazione. Siamo noi a essere inadeguati.

Certo, in astratto è così. Ma vale in tutti i campi. C’è sempre qualcosa che la società avrebbe potuto fare per evitare centinaia di emergenze sociali. Avremmo potuto mettere più medici e infermieri negli ospedali, più insegnanti nelle scuole, più alloggi popolari nelle periferie, più badanti nelle case, più psicologi alle calcagna di ogni sbandato, più cultura e meno violenza/sesso/droga nei media, più sport e meno telefonini, più concerti e meno trapper, più scienziati e meno influencer, ma la domanda è: con quali risorse, con quali priorità, con quali restrizioni alla nostra libertà?

Più specificamente: la precondizione di un’accoglienza riuscita è la possibilità di regolare il flusso degli ingressi sulle risorse disponibili per accoglienza e integrazione. È illogico teorizzare il diritto di entrare liberamente in Europa, e poi stupirsi se le condizioni di vita di una parte degli immigrati non sono degne di un paese civile.

L’accoglienza diffusa dei migranti resta uno dei cavalli di battaglia del Pd di Elly Schlein. Quanto vale elettoralmente questa posizione?

A occhio, direi che vale un -10% di consensi, che poi è precisamente quel che manca alla sinistra per diventare maggioranza.

Romano Prodi è tornato a evocare la necessità di un federatore per il campo del csx. Conte ha subito replicato che forse servirà per le correnti del Pd. Che cosa si giocano i due partiti alle prossime Europee?

Come partiti, non si giocano molto. Avranno comunque il 35% dei seggi europei destinati all’Italia, e difficilmente si assisterà a un trionfo di Schlein su Conte, o di Conte su Schlein. La vera posta in gioco dell’appuntamento europeo, a mio parere, non è il destino di Pd e Cinque Stelle, ma il colore della prossima Commissione, che potrebbe – per la prima volta – escludere o marginalizzare i socialisti. Quanto a Conte e Schlein, ho l’impressione che non saranno né lei né lui a federare il centro-sinistra alle prossime elezioni. Mi aspetto che, di qui al 2027 emergano altre figure, un po’ meno scialbe.

Certo, è anche possibile che a cavare le castagne dal fuoco dello schieramento progressista non sia l’apparizione di un federatore (o di una federatrice), ma che ci pensi il governo in carica, che potrebbe inciampare in qualche guaio così grosso da far rimpiangere il Pd e i Cinque Stelle. Ma se questo non dovesse accadere, ai progressisti resterebbe il problema di trovare un leader o una leader in grado di reggere il confronto con Giorgia Meloni. E secondo me è più verosimile che un leader nuovo e carismatico emerga dal mondo Cinque Stelle piuttosto che dalla nomenklatura del Pd.

Quindi lei pensa a uno schieramento di sinistra-centro in cui a federare sia il M5s?

No, penso che anche la mia ipotesi sia improbabile, ma non così improbabile come l’ipotesi che dai 20 capicorrente del Pd miracolosamente salti fuori un leader capace di controllare il partito e imporre la propria guida anche ai Cinque Stelle.

Sta formulando una specie di endorsement dei Cinque Stelle?

Per niente. La mia opinione sui Cinque Stelle resta negativa, se non altro perché hanno scassato i conti pubblici (se Giorgia Meloni dovrà remare tutta la Legislatura per tentare di varare qualche straccio di riforma economico-sociale, è solo perché i Cinque Stelle hanno devastato la finanza pubblica).

In realtà la mia apertura – possiamo chiamarla così? – verso i Cinque Stelle nasce da una considerazione sociologica: il problema del centro-sinistra è recuperare i ceti popolari, e i Cinque Stelle sono l’unica forza politica (nominalmente) di sinistra ancora in grado di attirarne i voti. Il compito storico del Pd è tenersi i voti dei ricchi e dei “ceti medi riflessivi”, cosa per la quale Elly Schlein è fin troppo attrezzata con le sue idee sul green, la transizione energetica, i diritti LGBTQIA+ (ho dimenticato qualche lettera?). Il compito dei Cinque Stelle è riportare a sinistra nuovi segmenti dell’elettorato popolare.

Sarebbe la fine della centralità del Pd…con quali effetti sul csx?

Malefici, se i Cinque Stelle non riusciranno a liberarsi del qualunquismo e della superficialità che si portano dietro dall’origine. Benefici, se la cultura politica dei Cinque Stelle evolvesse, e dovesse riuscire a sinistra quel che, negli ultimi 10 anni, Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia hanno fatto a destra: convogliare verso di sé una parte dei voti popolari così cospicua da rompere l’egemonia del partito più grande (Forza Italia) e del leader più ingombrante (Berlusconi).

A più di un anno dall’insediamento del governo Meloni, come è cambiata la politica italiana? Le esperienze dei governi tecnici sono alle spalle?

Direi proprio di sì. Se si farà, la riforma presidenzialista renderà impossibile la formazione di “governi del Presidente” (che poi questo sia un bene, è tutto da vedere, anche se è difficile negare che è stato proprio un certo abuso del potere presidenziale a legittimare il cambio di assetto istituzionale). Quanto ai mutamenti della politica italiana nell’era Meloni, direi che sono essenzialmente due, strettamente interdipendenti: poche riforme economico-sociali (perché le risorse sono state prosciugate dallo sciagurato bonus del 110%), e conseguente spostamento dell’asse dell’azione di governo sul teatro internazionale. Dove, a quanto pare, Meloni ha una marcia in più.