PD: stupefacente è quanti lo votano ancora

Per molti versi i risultati dei ballottaggi non fanno che confermare quelli del primo turno. L’elettorato si è spostato decisamente a destra, il movimento Cinque Stelle non riesce a replicare il successo delle politiche, la sinistra arranca. Se però si osservano le cose più da vicino, si possono notare anche altri elementi.

Il primo è che in diversi comuni i risultati hanno ribaltato le previsioni della vigilia, o hanno contraddetto i trend nazionali. In Sicilia, il Movimento di Grillo ha perso Ragusa, che governava da cinque anni; ma in Puglia il centro-sinistra, sconfitto alle Politiche del 4 marzo, ha vinto 10 ballottaggi su 11. E gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Si potrebbe osservare che la mobilità dell’elettorato italiano non è una novità, perché risale almeno ai primi anni ’90. Ma l’impressione è che ora si sia davanti a un salto di qualità. Con l’affermazione del tripolarismo, e la formazione di un’alleanza di governo del tutto inedita, gli elettori sono diventati pronti a capovolgere le proprie scelte ad ogni appuntamento elettorale, non di rado in una logica essenzialmente punitiva. Al modello della “fedeltà leggera” (cambiamenti di partito all’interno del medesimo schieramento), descritto da Paolo Natale ormai molti anni fa, sembra essere subentrato un modello che si potrebbe chiamare di “infedeltà repentina”, per cui l’elettore non si sente minimamente vincolato ad alcuna appartenenza, sia pur definita in senso lato.

E qui incontriamo il secondo elemento saliente di queste ultime tornate elettorali: la perdita, da parte del principale partito della sinistra, di molte sue roccaforti delle regioni rosse, in particolare in Toscana (emblematico il caso di Siena).

Ora il gruppo dirigente del Pd si interroga sul perché dell’ennesima sconfitta, tanto più sorprendente se si pensa che, dopo l’alleanza dei Cinque Stelle con la Lega, per i delusi di sinistra è diventato molto più difficile di prima punire il partito di Renzi votando quello di Grillo. Quel che stupisce, tuttavia, non è la sconfitta della sinistra, ma che essa sia arrivata così tardi. Personalmente trovo miracoloso che, nonostante il carattere elitario della cultura di sinistra, i ceti popolari abbiano pazientato così a lungo prima di abbandonare il partitone in cui quella cultura si incarnava. Anzi, in un certo senso, trovo che – per quel che è diventato – il Pd abbia ancora troppi voti.

Provo a spiegare queste due affermazioni, volutamente provocatorie (ho ancora un lumicino di speranza che qualcuno le provocazioni le raccolga).

La ragione per cui trovo stupefacente che la sinistra abbia mantenuto i suoi consensi fino a poco fa ha un nome e un cognome: Giorgio Guazzaloca. Ve lo ricordate? Il 27 giugno 1999 (esattamente 19 anni fa) veniva eletto sindaco di Bologna, primo sindaco non comunista della città rossa. Nella vittoria di Guazzaloca un posto centrale occupava il tema della sicurezza, che giusto in quegli anni emergeva anche in altre città del Nord (ad esempio a Torino, a Padova), e nel 2001 avrebbe contribuito non poco al trionfo elettorale del centro destra (2° punto del “Contratto con gli italiani”). Ebbene quella vittoria, avvenuta nel cuore dell’Emilia rossa, era un campanello d’allarme chiarissimo, e perciò difficilissimo da ignorare. E invece la classe dirigente del maggior partito di sinistra, con pochissime eccezioni, ci riuscì benissimo. Allora come oggi, di fronte ai timori della gente, la parola d’ordine della cultura di sinistra è sempre rimasta la stessa: dimostrare alla gente che le sue paure sono infondate. L’ho sentito ripetere ancora pochi giorni fa, in una trasmissione radiofonica, da uno dei più autorevoli giornalisti progressisti: il dovere della sinistra è “smontarle”, le paure della gente. Perciò la mia domanda non è: perché il Pd perde? Ma semmai: perché i suoi elettori hanno resistito così a lungo?

La ragione per cui trovo che il Pd abbia ancora troppi voti ha anch’essa un nome e un cognome: Emma Bonino. Così come Berlusconi non è mai riuscito a costruire un partito liberale di massa (Forza Italia è stato di massa, ma non è mai stato liberale), così Emma Bonino (con e senza Marco Pannella) non è mai riuscita a costruire un partito radicale di massa (le liste Bonino-Pannella sono state radicali, ma non di massa). Quel che non è riuscito ai radicali, tuttavia, è riuscito perfettamente al Pd: oggi il Pd è un perfetto partito radicale di massa. Se pensate ai temi su cui, specie in questa legislatura, il Pd ha puntato per definire la sua identità, trovate: unioni civili, testamento biologico, riforma carceraria, reato di tortura, ius soli, accoglienza dei migranti, Europa (ricordate lo slogan? ci vuole “più Europa”). E che cosa sono questi temi? Sono i temi tipici di un partito radicale di massa, assai più attento ai diritti civili che a quelli sociali. Ecco perché dico che il bicchiere del Pd può essere visto come mezzo vuoto ma anche come mezzo pieno. Il Pd è un partito ormai piccolo, se continuiamo a pensarlo come l’erede unico del Pci, ma è un grande partito se lo pensiamo come la realizzazione del sogno radicale.

Che queste, al di là della provocazione, possano essere in realtà due facce della medesima medaglia lo aveva perfettamente capito il grande filosofo Augusto del Noce, che nel 1978, giusto 40 anni fa, in un libro significativamente intitolato “Il suicidio della rivoluzione“, aveva coniato quella definizione, intuendo quel che il Pci sarebbe diventato: non il partito della rivoluzione (e del popolo) ma il partito della borghesia, attento alle aspirazioni individualiste e libertarie dei ceti medi.

Non c’è niente di male nell’essere un partito radicale (quasi) di massa, paladino dei diritti individuali, aperto alla globalizzazione e ai flussi migratori. Quel che stride è credersi quel che più non si è, ovvero un partito popolare, paladino dell’eguaglianza, attento ai poveri e ai diritti sociali (nel marxismo si chiama falsa coscienza, in filosofia autoinganno). Perché gli elettori possono metterci più tempo dei filosofi a cogliere i grandi cambiamenti, ma prima o poi li riconoscono.




Gli italiani non sono razzisti. Intervista a Luca Ricolfi

Vorrebbero buonsenso nella gestione dell’immigrazione

Gli italiani non sono diventati razzisti. Semplicemente vorrebbero più buonsenso nella gestione dell’immigrazione. Ecco perché «la linea di Salvini è vincente nei consensi». L’analisi è di Luca Ricolfi, sociologo, docente di Analisi dei dati all’Università di Torino e responsabile scientifico della Fondazione David Hume. Che spiega: «Oggi sinistra e popolo sono due opposti: il popolo vota Salvini e Di Maio, i benpensanti preferiscono rifugiarsi nella nicchia identitaria offerta dal Pd».Domanda. Secondo un recente sondaggio sette elettori su dieci sono a favore della linea dura del ministro dell’interno e leader leghista, Matteo Salvini, sull’immigrazione e sugli sbarchi. Gli italiani si sono scoperti razzisti e di destra?

“No, gli italiani pensano che non si può continuare a non fare nulla sul problema dell’immigrazione. L’aumento della povertà in Italia è anche dovuto al fatto che non riusciamo a dare un lavoro a tutti quelli che entrano. Di fronte alle continue operazioni di salvataggio, gli italiani hanno la sensazione che i naufraghi ce li andiamo a prendere, per mettere delle stellette sul petto dei salvatori, ma poi non siamo capaci di gestirli. Chi dice che gli italiani sono diventati razzisti non capisce la differenza fra razzismo e buon senso.”

Lei teorizza uno scontro in atto tra utopie, quella cosmopolita e quella comunitaria. Può spiegarsi meglio?

“Credo che solo la sinistra radicale (non parlo di LeU, ovviamente, ma di pensatori come Jean Claude Michéa o Slavoj iek, ad esempio) abbia capito quali sono le vere forze in campo, al di là dei vecchi steccati idelogici. Da una parte ci sono le forze dell’apertura, che vogliono più circolazione di tutto (merci, capitali, informazioni, persone), e sognano un mondo unificato, in cui tutti hanno i medesimi diritti e sono sottoposti a un unico ordine mondiale. Questa è l’utopia cosmopolita, che piace ai capitalisti ma anche al pensiero liberal. Dall’altra ci sono le forze della chiusura, anti-sistema e anti-Europa, che si oppongono alla globalizzazione, e sperano di risuscitare gli stati nazionali, contro le minacce del mondo globalizzato.”

Forze che hanno lo stesso obiettivo, ma sono collocate a due estremi, destra e sinistra.

“Vero, e la cosa interessante è che, in questo momento, in alcuni paesi europei le forze della chiusura, che altrove sono non alleabili, proprio perché vengono percepite come estrema destra ed estrema sinistra, sono riuscite a coagularsi e andare al governo. È successo qualche anno fa con il governo rosso-nero in Grecia, risuccede oggi con il governo giallo-verde in Italia.”

Un terzo di quanti si dicono favorevoli alla linea di Salvini ha votato per il Pd. Come se lo spiega? Siamo davanti a un cambio culturale, sociale della sinistra?

“Sì, ma è un cambio che è iniziato almeno 40 anni fa, come ho cercato di raccontare in Sinistra e popolo, uscito per Longanesi nel 2017. Negli ultimi decenni la sinistra è diventata sempre più l’espressione dei ceti medi istruiti e delle élites che si vergognano della loro condizione, anche quando essa non è il risultato di privilegi ma semplicemente del talento o della buona sorte. L’innamoramento per le virtù del mercato e l’incapacità di capire i rischi della globalizzazione hanno fatto il resto. Oggi sinistra e popolo sono due opposti: il popolo vota Salvini e Di Maio, i benpensanti preferiscono rifugiarsi nella nicchia identitaria offerta dal Pd.”

Questo spiega perché per esempio lavoro e pensioni risuonano più forti nel programma di M5s che non in quello del Pd?

“In termini concreti alla sinistra i diritti civili, compresi quelli dei migranti, interessano molto di più dei diritti sociali. Come aveva previsto Augusto del Noce molti decenni fa (parlando del Partito Comunista), il destino della sinistra italiana è diventare un partito radicale di massa, ovvero pannellizarsi/boninizzarsi sempre più, fino a deporre del tutto quelle che un tempo erano le sue ragioni.”

La linea del governo, ribadita anche dal premier Conte con la Merkel, è che in tema di accoglienza l’Italia vuole la modifica del trattato di Dublino per la quale hanno lavorato anche i governi Renzi e Gentiloni. I modi rudi del nuovo governo serviranno a portare a casa il risultato?

“Non lo so ma non posso che augurarmelo. L’unica cosa certa è che i modi educati dei predecessori di Salvini non hanno portato a nulla, nemmeno alla più volte sventolata redistribuzione dei rifugiati.”

Il leader della Lega ha anche annunciato un censimento dei rom in Italia, salvo poi rettificare dopo il coro di proteste, anche dei pentastellati. L’uscita di Salvini è un errore di percorso o risponde invece a una precisa strategia?

“Non lo so, ma secondo me Salvini fa malissimo a canalizzare l’esasperazione della gente su un’etnia particolare. Questo davvero rischia di alimentare, se non il razzismo, l’ennesima caccia alle streghe. Se fossi al posto di Salvini, prima di prendermela con i rom, farei una bella visita, con i carabinieri e gli ispettori del lavoro, nei campi della raccolta del pomodoro, in cui i migranti sono trattati come schiavi.”

Il problema è la legalità?

“Il vero problema sono i territori, non le etnie. Ci sono interi quartieri, per non dire intere zone del Paese, in cui la legge non esiste, al Nord come al Sud. È a partire da lì che si dovrebbe agire. Il male di questi anni è stato di pensare che, se l’illegalità è mescolata alla povertà, al degrado, all’emarginazione sociale, allora è buona e va tollerata: nelle campagne, negli alloggi popolari, nell’occupazione degli spazi pubblici.”

Il ministero dell’interno potrebbe essere per Salvini il trampolino di lancio per diventare primo partito del centrodestra?

“Se Salvini si impegnerà per ristabilire la legge ovunque sia calpestata, senza guardare in faccia alcuna etnia o alcun clan, avrà il consenso degli italiani. Se invece si accanirà contro specifici gruppi sociali, allora, prima o poi, vedrà evaporare i consensi che ha acquistato in questi mesi. Non capire questo significa credere che gli italiani siano razzisti e xenofobi, mentre sono semplicemente stufi.”

Secondo un sondaggio Swg, la Lega è già il primo partito nazionale, ha superato, seppure di poco, il Movimento5stelle, 29,2 contro il 29%. Come si spiega questo trend a poche settimane dall’insediamento del governo?

“Non credo che il sorpasso della Lega su M5s sia già avvenuto, ma non mi stupirei che avvenisse più avanti. La spiegazione che più mi convince è assai semplice: Salvini è l’unico politico italiano che, insieme a non pochi difetti, tra cui semplicismo e volgarità di linguaggio, possiede due virtù cruciali: la chiarezza e la concretezza.”

Quanto contano nel calo dei consensi del Movimento e nella crescita della Lega le rispettive leadership?

“Molto nel caso di Salvini. Poco nel caso di Luigi Di Maio, che sconta semplicemente il risveglio dell’elettorato di sinistra: votando Cinque Stelle credevano di scegliere una sinistra più idealista e più pura, si stanno accorgendo di aver votato Lega. Come stupirsi se qualcuno si rifugia nell’astensione o medita di tornare alla casa madre?”

M5s e Lega sono forze destinate ad oggi a essere coalizione o a rappresentare il nuovo bipolarismo?

“Bella domanda… Non lo so. E tendo a pensare che non lo sappia nemmeno Salvini: se il governo dovesse andare bene, potrebbe nascere un’alleanza stabile, contro le forze dell’apertura, e dunque Pd e Forza Italia. Se invece andasse male, Salvini potrebbe tornare a guidare il centro-destra e sfidare i Cinque Stelle, accusandoli di aver sabotato il «contratto di governo». In quel caso sarei curioso di sapere che cosa farebbe il Pd, ammesso che non fosse nel frattempo scomparso.”

Già, il Pd. Secondo il sondaggio Swg, il Pd resiste al 18,8, mentre Forza Italia è sotto al 10% . Vede segnali di ricostruzioni per le due opposizioni?

“Per ora vedo solo segnali di suicidio. Forza Italia, o meglio Silvio Berlusconi, pare non aver capito che senza un cambiamento spettacolare, parlo di nuovo nome, nuovo leader, nuovo programma, nuove regole di democrazia interna, non tonerà mai ai fasti del passato. Il Pd, che pure sta recuperando voti grazie ai grillini pentiti, sta facendo di tutto per mettersi fuori gioco. Nessuna analisi coraggiosa degli errori del passato. Nessuna diagnosi seria sui mali del Paese. Nessuna comprensione dei sentimenti e dei pensieri degli italiani.”

Non pensa che l’attuale dirigenza democratica stia ferma in attesa degli errori del governo giallo-verde?

“Basare la propria strategia sulla speranza, o la scommessa, che prima o poi il governo Conte vada a sbattere è una vera sciocchezza. Non perché il governo Conte non possa benissimo andare a sbattere. Ma perché, se ciò dovesse accadere, non saranno certo Matteo Renzi e i suoi a raccoglierne i cocci.”

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi per Italia Oggi



L’Italia del dopo voto, intervista a Luca Ricolfi

Doveva nascere la terza repubblica e sembriamo tornati alla prima?

Non direi, nella prima non c’erano tre poli, ma un polo e mezzo (Pentapartito e PCI, con divieto di andare al governo).

Si intravede la possibilità di un governo di transizione con tutti dentro tranne il M5s, che ne pensa?

Che sarebbe un regalo ai Cinque Stelle.

Quali le urgenze da risolvere per questo nuovo esecutivo?

Produttività e occupazione, ovvero tornare a una crescita annua del 2-3%.

Che legge elettorale ci vorrebbe?

Tutto sommato, la meno peggio forse sarebbe una legge a turno unico, in cui la coalizione che prende più voti ottiene almeno il 51% dei seggi. Però qualsiasi legge elettorale, per funzionare bene, dovrebbe abolire il Senato, o quanto meno consentire un riparto dei seggi senatoriali su base nazionale, anziché regionale.

In alte parole: una legge elettorale decente non si può fare se prima non si ritocca la Costituzione. Su questo Renzi ha ragioni da vendere.

Ma quando si vota secondo lei?

Non lo so, ma penso che molto dipenda dal duo Salvini-Di Maio.

Perché l’accordo M5s-centrodestra non ha funzionato?

Perché Di Maio, come buona parte del popolo di sinistra, ritiene che Berlusconi sia radioattivo.

Si è palesato anche un esecutivo M5s-Pd e lei ha detto che si rischiava la secessione?

Non la secessione, che è ovviamente impossibile, ma un ritorno di spinte secessioniste, specie sul piano fiscale. E dato che i ceti produttivi stanno non solo al Nord ma anche nelle cosiddette regioni rosse, dove danno ancora il loro voto al Pd, mi aspetto che la risposta a un governo di “sinistra qualunquista” (quale io considererei un esecutivo Pd-Cinque Stelle) potrebbe vedere in piazza non solo il centro-destra ma anche quella parte del Pd che non vuole veder nascere un governo neo-assistenziale.

Cosa pensa del ritorno di Renzi?

Su Renzi sono ambivalente. Per certi versi continuo a non apprezzare la presunzione, il semplicismo, la mancanza di autocritica, nonché numerose scelte passate, come l’accoglienza indiscriminata, il bonus da 80 euro e le altre mance. Per altri versi, mi pare che, con pochissime eccezioni, il gruppo dirigente del Pd sia di levatura così modesta che persino un leader che, come Renzi, ha evidenti limiti di carattere e di comprensione della realtà, finisce per apparire come un gigante. Al momento, l’unico che mi pare aver qualche chance di risollevare le sorti del partito mi pare Matteo Richetti, su cui però so troppo poco per poter esprimere un’opinione meditata.

Quanto all’eventuale ritorno di Renzi credo sia prematuro. Se tornasse ora, ci sarebbe una mezza rivolta nel partito. Secondo me Renzi può tornare sulla scena solo in due modi: facendo un suo partito, o aspettando che il Pd, divorato dalle lotte intestine, lo richiami come salvatore della patria (un po’ come accadde a Veltroni anni fa, ma il precedente dovrebbe consigliare prudenza).

Il Pd è morto o solo tramortito? Che strada dovrebbe prendere e con chi?

Sicuramente è tramortito, ma molto difficilmente morirà in fretta. Sulla strada da prendere, molto dipende dagli obiettivi. Per conservare il potere, la strada maestra è una alleanza stabile con i Cinque Stelle: potrebbero aspirare al ruolo di “secondo partito della sinistra”.

Per conservare l’identità, invece, dovrebbero rinnovarsi molto, trovando il coraggio di cambiarla questa benedetta identità di sinistra. Per fare questo, però, ci vorrebbe un certo coraggio, perché al giorno d’oggi non è possibile né riproporre i modelli del passato remoto (come fanno i dinosauri di Leu), né i modelli del passato prossimo (la “Terza via” di Tony Blair). Fra il tempo della Terza via e oggi, infatti, ci sono state la Cina, internet, la crisi economica, l’esplosione dei flussi migratori, i progressi dell’automazione. Se non sa fare i conti con queste cose, la sinistra è morta.

E il centrodestra a trazione Salvini come lo vede?

Lo vedo in salute, ma penso che il declino di Forza Italia sia dannoso per il centro-destra. Se Forza Italia si lascia risucchiare dalla Lega, il consenso complessivo al centro-destra incontrerà inevitabilmente un limite connesso al fatto che ci sono ceti e individui che non voterebbero mai Lega, ma sarebbero pronti a sostenere un partito di destra classico, liberale e/o conservatore.

Il problema è che anche Forza Italia è sempre meno adatta a intercettare questo tipo di elettorato. In un certo senso Forza Italia ha il medesimo problema del Pd: se non vuole ridursi all’irrilevanza deve affrontare una lunga stagione di rinnovamento e autocritica.

Le Lega sembra l’unico partito ad affrontare il tema dell’immigrazione, come mai continua questo tabù sia per i problemi di integrazione sia per quelli di criminalità?

Perché tutti i partiti temono di urtare la Chiesa, il Papa, e più in generale il mondo delle persone “di buona volontà”, che sempre insorgono ogniqualvolta dalla rivendicazione dei diritti si passa all’indicazione dei doveri, specie se si osa pretendere che anche gli ultimi, o i presunti ultimi, rispettino le regole.

Analizzando il programma del M5s li trovava statalisti e ora ha detto che Di Maio ha perso voti dando l’impressione di equiparare Lega e Pd e di voler andare al governo a tutti i costi. Non sono loro il futuro della sinistra?

No, i Cinque Stelle sono una formazione qualunquista, che però effettivamente può evolvere in una specie di Podemos o di Syriza, cioè in una sinistra post-moderna, assistenziale e anti-mercato. Vedremo.

Mattarella ha detto che la disoccupazione giovanile è troppo elevata e che al sud la mancanza di lavoro ha proporzioni inaccettabili. Come inquadra questi problemi ed è sanabile la differenza nord-sud?

Non ci voleva Mattarella a dire quel che risulta da tutte le statistiche.  Quanto al divario Nord-Sud, se non l’abbiamo superato in più di 150 anni, una ragione ci sarà pure. E temo che quella ragione faccia parte delle cose che si possono pensare, ma è meglio non dire in pubblico: i cittadini del Sud hanno un’altra cultura, un’altra mentalità, altri valori, e quindi non vogliono vivere come noi del centro-nord. Io li capisco, e un po’ li invidio. Credo che la soluzione, l’unica vera e duratura soluzione, sia concedere piena autonomia al Sud. Nessuna secessione delle regioni del Nord, ma creazione di una grande area con istituzioni proprie, un fisco proprio, una politica economica propria. Culturalmente, ma anche sul piano dell’organizzazione economico-sociale, il centro-Italia è più simile al Nord che al Sud, dunque tanto vale che vi siano due italie libere di governarsi come desiderano, quella del Centro-Nord e quella del Sud, finalmente liberata dal giogo dell’unità nazionale.

Intervista a cura di Francesco Rigatelli pubblicata su Libero il 07 maggio 2018



Attenti alla rabbia secessionista: intervista a Luca Ricolfi

Professor Ricolfi, riprendendo la mappa giallo-blu (grillini e centrodestra) dell’Italia uscita dalle elezioni del 4 marzo, balza agli occhi che se andasse in porto l’ipotesi di un governo giallo-rosso (M5S-Pd) un pezzo del Paese rischierebbe di essere tagliato fuori, è così?

Sì, il Nord si sentirebbe ulteriormente tosato, e prenderebbe assai male qualsiasi cosa che venisse battezzata “reddito di cittadinanza”. Anche perché i calcoli statistici mostrano che circa l’80% dei sussidi ai poveri finirebbero a due soli gruppi sociali: i cittadini meridionali e gli immigrati.

Secondo la Lega non solo sarebbe esclusa la coalizione che ha preso più voti, un centrodestra che per la verità ora appare diviso, ma il Nord Italia ribollirebbe. E’ una minaccia concreta?

Sì, un governo Pd-Cinque Stelle farebbe resuscitare istanze anti-fiscali e separatiste.

Quale governo potrebbe dare risposte più consone a quelle che lei giudica le priorità politico-economiche del Paese?

Il governo meno dannoso per l’Italia sarebbe un governo che promuovesse una rivoluzione liberale, soprattutto in campo fiscale, e al tempo stesso non spaventasse l’Europa e i mercati finanziari. In termini politici: un governo di grande coalizione destra-sinistra, come in Germania, con la destra che guida la politica economica e la sinistra che le impedisce di esagerare.
Peccato che una simile alternativa, pur avendo più numeri di tutte le altre (a parte ovviamente il governo di tutti senza il Pd), sia l’unica che il nostro Presidente della Repubblica non pare avere alcuna intenzione di esplorare.

Andando con ordine, dal punto di vista fiscale se venisse archiviata l’ipotesi Flat tax e, al contrario, si procedesse nella direzione del reddito di cittadinanza che ripercussioni ci sarebbero per il Settentrione?

Un po’ più di tasse, e tanta rabbia di chi il reddito se lo guadagna lavorando duramente.

Il reddito di cittadinanza è destinato al fallimento come per esempio è successo in Finlandia?

No, può benissimo essere varato, purché l’Italia accetti di continuare sul sentiero di declino su cui è avviata da 25 anni: “dimagrire insieme, dimagrire tutti” potrebbe essere la nuova frontiera. Ci piace una prospettiva del genere?

Salvini, che nelle regioni locomotiva del Paese, tocca punte percentuali tra il 30 e il 40%, ha sbagliato secondo lei a smorzare le ragioni autonomistiche a vantaggio di una politica nazionale?

No, egoisticamente ha fatto benissimo, era l’unico modo per non restare un partito territoriale. Il problema è che, con un governo Pd-Cinque Stelle, le ragioni autonomistiche del Nord sono destinate a risorgere da sé, senza bisogno di una Lega che le promuova.

Le regioni del Nord registrano un Pil pro capite medio superiore alla media europea. Moody’s ha appena confermato il rating della Lombardia su un gradino superiore a quello dell’Italia. Perché siamo ancora alla Questione meridionale, mentre anche la Spagna ci supera?

Perché la Questione meridionale abbiamo sempre preteso di affrontarla con poco Stato dove serviva (mafia, criminalità, evasione fiscale, assenteismo, inefficienza della sanità e della scuola), e con troppo Stato dove era meglio farne a meno (sussidi, clientele, finti posti di lavoro).

Popolo delle partite Iva e piccole imprese contro dipendenti pubblici. E’ ancora corretto pensare all’Italia spaccata a metà sulla base di queste categorie produttive?

No, non è corretto. Adesso la frattura sanguinosa sarà fra chi lavora e chi vive del lavoro altrui.

Un patto di governo grillino-leghista potrebbe mettere assieme le esigenze del Nord e del Sud o non è realistico?

Non lo si può escludere a priori, perché comunque il Sud ha le sue ragioni e il Nord pure, però ci vorrebbero De Gasperi e Di Vittorio, non Di Maio e Salvini.

Il Pd, che da Roma in giù il 4 marzo non ha vinto nemmeno una sfida diretta, sarebbe secondo lei malvisto dagli elettori del Sud nell’ipotesi di governo giallo-rosso?

No, credo che in tal caso il Pd sarebbe visto meglio di oggi, ma solo perché accodato ai Cinque Stelle, ossia all’unico partito che ha mostrato di prendere sul serio le rivendicazioni dei cittadini meridionali. In compenso verrebbe cancellato dalla geografia politica del Centro-Nord.

Intervista a cura di Marcella Cocchi pubblicata su QN Quotidiano Nazionale il 26 aprile 2018



Pd e Forza Italia, verso l’estinzione?

Secondo gli ultimi sondaggi, Cinque Stelle e Lega, ossia i vincitori di queste elezioni, stanno accrescendo ancora i loro consensi. Simmetricamente, Pd e Forza Italia li stanno riducendo. Il Pd sta scendendo pericolosamente verso la soglia del 15%, mentre Forza Italia sta scivolando addirittura verso quella del 10%, oltre la quale si entra inesorabilmente nel regno dei partitini.

È vero che, dopo un successo elettorale, c’è sempre un po’ di effetto band-wagon, ovvero “salita sul carro del vincitore”, ma è anche vero che, da qualche tempo, in Europa, i cambiamenti di umore degli elettorati sono diventati repentini e molto ampi. Un partito o un leader possono affermarsi in un baleno, come Macron in Francia, ma pure, altrettanto rapidamente, sparire dalla scena, come Hollande e il partito socialista (sempre in Francia). Non siamo, in altre parole, in tempi di lenti declini o graduali ascese, bensì in tempi di improvvisi e drammatici uragani politici. Ecco perché, forse, non è fuori luogo porci la domanda: la crisi del Pd e di Forza Italia è una parentesi passeggera, o è l’inizio di un processo irreversibile, che li condannerà presto all’irrilevanza?

Credo che questa domanda sia importante non solo in sé (dopotutto stiamo parlando delle due forze politiche che hanno dominato la vita politica nella seconda Repubblica), ma perché, se non ce la poniamo, diventa difficile capire tutte le mosse che i partiti stanno mettendo in atto in questa tormentata fase di ricerca di una maggioranza e di un accordo di governo. Le mosse dei vincitori (Cinque Stelle e Lega) sono dettate dall’ovvio desiderio di accrescere il proprio potere, ma quelle dei perdenti (Pd e Forza Italia) non possono non essere dettate anche da un istinto ben più basico, quello della pura e semplice sopravvivenza. Perché, che lo riconoscano o lo neghino più o meno sdegnosamente, questo l’hanno capito sia i dirigenti del Pd che quelli di Forza Italia: fra qualche anno i loro partiti potrebbero scomparire (è appena successo a Ncd e a Scelta civica), o precipitare nel limbo dei partiti piccoli e marginali.

Ma veniamo al nocciolo della questione: ce la possono fare a sopravvivere, o addirittura a tornare sopra il 20% dei consensi?

La mia impressione è che, se nulla cambia, la risposta sia negativa. Con queste classi dirigenti, con questo immobilismo culturale, con questa mancanza di idee nuove, non ce la possono fare. Per salvarsi, entrambi dovrebbero attuare una sorta di rivoluzione nei rispettivi mondi, rivoluzione che, per definizione, l’establishment di un partito non può essere portato a fare.

Non è solo questo, però. Sia Forza Italia, sia il Pd, scontano anche altri due fattori di debolezza. Il primo è il rischio di frammentazione legato alla nascita di un nuovo governo. Se ci sarà un accordo Di Maio-Salvini, è possibile che una parte di Forza Italia non ci stia (Brunetta lo ha già annunciato esplicitamente, parlando di sé). Se ci sarà un governo Cinque Stelle – Pd, è praticamente certo che una parte del Pd non ci starà (il che creerà degli enormi problemi di governabilità, visti i numeri in Senato). Per non parlare della ferita che si aprirebbe nel Pd ove, grazie ai suoi voti, si dovesse formare un governo di centro-destra.

Ma il fattore di debolezza maggiore, e il rischio di estinzione più serio, viene da un altro fronte ancora, e cioè quello dell’elettorato. Può piacerci o no (a me non piace), ma sta di fatto che, in una parte molto rilevante dell’elettorato, Movimento Cinque Stelle e Lega sono visti come declinazioni più pure, più chiare, più comprensibili di quel che partiti come Pd e Forza Italia dovrebbero rappresentare. Per molti elettori il Movimento Cinque Stelle, con il suo impegno contro la povertà, il suo giustizialismo, il suo moralismo anti-casta, il suo anti-berlusconiano, è una sorta di sinistra più sana, più genuina, meno innamorata del potere. E, specularmente, per molti elettori la Lega, con il suo programma radicale contro l’immigrazione irregolare, contro la legge Fornero, per una flat tax ultra-piatta (aliquota unica al 15%), è una sorta destra più netta, più chiara, meno disposta al compromesso.

Se Pd e Forza Italia saranno fagocitati da Cinque Stelle e Lega sarà per tanti motivi, compresi gli incredibili errori e le sorprendenti inadeguatezze delle rispettive classi dirigenti, ma verosimilmente sarà innanzitutto per l’ultima ragione di cui abbiamo parlato: l’incapacità di essere, ma forse sarebbe meglio dire di apparire, una vera sinistra e una vera destra.