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La coerenza non è più una virtù, né tra i politici né tra gli elettori

25 Giugno 2024 - di Paolo Natale

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Negli ultimi 30 anni, come sappiamo, i sondaggi hanno iniziato ad occupare un posto rilevante in tutti gli ambiti, in quello politico come in quello economico, nel marketing come nell’analisi della società. Ma i sondaggi sono infidi, non è semplice né saggio guardare alle stime che vengono prodotte come ad una sorta di oracolo, come a risultati privi di qualsiasi distorsione (o bias), immediatamente rappresentativi delle opinioni della popolazione cui si fa riferimento. Perché esistono molti motivi per osservarli con una certa diffidenza, per non credere (troppo) alle opinioni che vengono espresse in una indagine demoscopica.

Uno di questi motivi, che diventa talvolta cruciale nel campo della comunicazione politica, è quello della mancanza di opinioni “costanti” da parte degli elettori: nell’epoca in cui regnavano incontrastate le ideologie, esisteva una sorta di pensiero esclusivo, opinioni e atteggiamenti pressoché costanti nell’accostarsi ai fenomeni sociali o politici, guidati dalla propria ideologia, dalla
propria visione del mondo, che difficilmente mutavano: parallelamente alla fedeltà di voto, rimaneva fedele anche il modo di vedere le cose, di manifestare la propria adesione quasi incondizionata ad una scelta specifica. Come cantava Giorgio Gaber: “Mio nonno si è scelto una parte che non cambia in ogni momento, voglio dire che c’ha un solo atteggiamento” (Gaber, G., Il
comportamento, 1976). Ma poi, con la fine delle ideologie, con la secolarizzazione, con il costante aumento dei mezzi di
informazione e di comunicazione (soprattutto sul Web), con il progressivo indebolirsi delle tradizionali agenzie di socializzazione primarie e secondarie (famiglia, scuola, fabbrica, ecc.), con la atomizzazione lavorativa e dei rapporti individuali le cose sono cambiate. La frammentazione delle esperienze e l’atomizzazione sociale rendono l’individuo più debole nelle sue certezze più
profonde, e propenso a sperimentare identità e opinioni differenti, in una sequenza sempre più rapida e per forza di cose più superficiale. Così, in questo periodo politico-sociale, le possibili visioni del mondo si fanno sempre più labili, aleatorie, preda della “narrazione”, dello story-telling dei leader politici che, anch’essi, cambiano repentinamente idee e opinioni a seconda delle conseguenze o dei mutati scenari politici.

È forse Matteo Salvini l’emblema più riconosciuto dell’incoerenza nel tempo delle proprie opinioni, l’uomo politico che più si è rimangiato affermazioni apodittiche su molti argomenti. Nel corso dell’ultimo decennio, sono state parecchie le idee da lui espresse su alcuni temi che verranno completamente ribaltate dopo poco tempo. Tra i numerosi ultimi esempi, quello sul
ponte sullo Stretto: pochi anni orsono il segretario leghista si era dichiarato fermamente contrario alla sua costruzione, mentre da qualche mese continua – ai giorni nostri – ad esserne il principale sponsor. Ancora più ravvicinato nel tempo il cambiamento di opinione sull’abbassamento dei limiti di velocità nelle grandi città: giusto un anno fa ha indicato come prima cosa “l’implementazione di zone 30”, al fine di “mitigare le differenze di velocità esistenti tra pedoni e traffico motorizzato”; oggi si scaglia in maniera veemente contro Bologna, in particolare, paradossalmente rea di aver aderito e applicato proprio la sua direttiva. Un comportamento che somiglia molto allo stesso trasformismo della Lega, tempo fa soltanto “Nordista” e con una netta ostilità nei confronti della destra estrema e neo-fascista, oggi coalizzata con tutte le forze politiche europee di quell’area: una “Lega Nazionale”. Ma poi ancora, dopo il recente provvedimento sull’autonomia differenziata, paiono ritornare presenti le “bandiere” regionaliste, in un continuo ribaltamento degli accenti. Ma ammettiamo pure che un leader politico possa mutare opinione su una serie di argomenti, spesso difendendo questo mutamento con l’idea che soltanto gli stolti non cambiano mai idea, il che è tutto da dimostrare, peraltro.

La cosa però interessante, e forse un po’ preoccupante, è che nel tempo anche il suo elettorato tenda poco alla volta ad uniformarsi anch’esso alla “nuova” opinione che professa il suo partito o il suo segretario. Gli esempi che si possono fare sono alquanto indicativi, e non riguardano soltanto Salvini e il suo partito, ma anche molte delle altre forze politiche. Il Partito Democratico, ad esempio, quando nel 2019 venne ratificato il Reddito di Cittadinanza, votò a sfavore con dichiarazioni molto pregnanti e sdegnate, come se fosse un’elemosina di stato; poi nell’ultimo anno, quando il governo Meloni lo abolì, si schierò al contrario contro l’abolizione, anche in questo caso con prese di posizione molto sdegnate. Ebbene, l’elettorato del PD nel corso degli ultimi tre-quattro anni ha progressivamente mutato anch’esso il proprio pensiero, passando da un livello di favore per il reddito di cittadinanza del 25% nel 2020 alla quota del 70% espresso nel momento della sua abolizione del 2023 (Tab.1).

Tab. 1 – GIUDIZIO SUL REDDITO DI CITTADINANZA – ELETTORATO PARTITO DEMOCRATICO

 

 

 

Allo stesso modo, le opinioni prevalenti nell’elettorato Pd qualche settimana dopo l’invasione russa (marzo 2022) parevano nettamente contrarie all’invio di aiuti militari all’Ucraina, mentre oggi la stragrande maggioranza, dopo la costante campagna favorevole del partito, è dell’idea praticamente opposta (tab.2).

Tab. 2 – SOSTENERE LA RESISTENZA UCRAINA FORNENDO AIUTI MILITARI ELETTORATO PD

 

 

 

L’elettorato del Partito Democratico, ovviamente, non è certo il solo a venir condizionato così fortemente dalle giravolte dei vertici di partito. Sempre a proposito della guerra in Ucraina, gli elettori vicini al Movimento 5 stelle erano inizialmente allineati con il resto degli italiani nell’appoggiare l’impegno ucraino nella resistenza contro l’invasione russa (78%); passati alcuni mesi, con la ripetuta presa di posizione di Giuseppe Conte contro il coinvolgimento italiano, la maggioranza dei pentastellati passa in maniera evidente su posizioni “equi-distanti”, molto più favorevoli ad un abbandono delle armi da parte degli ucraini (72%), rispetto al passato.

Ma il caso certamente più eclatante di cambiamento di opinione è quello degli elettori di Fratelli d’Italia, da sempre contrari – con una maggioranza vicina al 65% – a restare nella UE e nell’orbita Euro, ma approdati dopo la svolta atlantista ed europeista di Giorgia Meloni alla rapida accettazione di entrambi gli obiettivi. Una situazione molto simile a quella dei simpatizzanti per il
Movimento 5 stelle, protagonisti di una veloce trasmigrazione dal No-Euro al Sì-Euro, sebbene rimanga ancora qualche remora, nel 20-25% degli attuali votanti di Giuseppe Conte (Tab.3). Per tacere infine sulle opinioni relative alla guerra in Ucraina o sul conflitto tra Israele e Hamas, opinioni mutevoli a volte solamente per avallare mutazioni di convenienza politica.

Tab. 3 – FAVOREVOLI ALLA PERMANENZA DELL’ITALIA NEL SISTEMA DELL’EURO , IN %

 

 

 

Una situazione come si è visto abbastanza paradossale: se i leader politici cambiano spesso idea per motivi più che altro tattici o strategici, non certo per profonde conversioni, rimane piuttosto difficoltoso comprendere queste stesse ri-conversioni in cittadini, uomini e donne, che non sono chiamati a rispondere in prima persona a progetti o alleanze tra le forze politiche che a volte
“impongono” queste micro-rivoluzioni di pensiero. È come se gli elettori non avessero maturato opinioni nel profondo e, solamente, si adeguino a ciò che per loro decidono i loro partiti di riferimento: una volta, si diceva che questi ultimi “dettavano la linea” cui occorreva adeguarsi, rinunciando alle proprie idee, se per caso ci fossero state. Pensiamo ad esempio all’evidente
conflitto sul divorzio che esisteva tra elettori democristiani (ma anche comunisti) e vertici di DC e PCI.
Ma se allora esistevano ancora Weltanscauung, visioni del mondo forti, solide e discriminanti, oggi pare che gli elettorati di (quasi) tutte le forze politiche, senza più grandi ideologie di riferimento, siano in balìa dello storytelling dei propri leader, a volte in perenne mutazione.

Fonte dei dati: Ipsos

Sinistre in fuga dal centro

17 Giugno 2024 - di Dino Cofrancesco

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Le elezioni europee dell’8-9 giugno hanno confermato la crisi profonda in cui versa la democrazia italiana: che si tratti di ’mal comune mezzo gaudio’ non consola molto, dimostrando solo come il nostro abbia reazioni sempre più simili a quelle degli altri paesi dell’area euro-occidentale.

Quali sono i sintomi più gravi della malattia? Ne elenco solo due.

Il primo è la spaccatura profonda che da anni divide ormai le nostre società civili. In Italia alla coalizione di centro-destra, egemonizzata da un partito postfascista che ha espresso una sincera adesione ai valori della democrazia liberale, e si trova a Palazzo Chigi, grazie a due alleati, Forza Italia – una formazione centrista della cui anima liberale nessuno potrebbe dubitare – e la Lega Salvini – un composito movimento populista che non ha affatto tradito le sue origini, come attestano le sue battaglie per le autonomie differenziate; corrisponde una coalizione egemonizzata da un PD, quello di Elly Schlein, sempre più lontana da una filosofia riformistica e costantemente tentata da un’alleanza, più o meno organica col Movimento 5 Stelle, che al suo qualunquismo (né destra/né sinistra) dovette i suoi inaspettati successi elettorali, e che oggi, con Giuseppe Conte, fa pensare a un neo-peronismo giustizialista. Ancora più a sinistra si colloca l’Alleanza Verdi Sinistra (vicina a un non trascurabile 7%) che con
il liberalismo classico non ha alcun rapporto (non è, a mio avviso, una colpa).

Le sinistre unite hanno retto all’onda lunga della destra grazie anche ai grandi quotidiani, che un tempo si dicevano dei padroni’, come quelli del Gruppo Gedi («Stampa», «Repubblica» etc.) e a una stampa furiosamente antigovernativa, tipo «Domani» e «Il Fatto quotidiano». Partiti, stampa, movimenti di protesta, finte associazioni ecologiche – che, in realtà riversano sul nemico di sempre, il capitalismo, le loro apprensioni per gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici – centri sociali vari, associazioni LGBT, pacifisti scatenati contro il sionismo, minoranze universitarie emule del ’68, aficionados di Ilaria Salis, parrocchie ribelli: è, questo, un mondo vario e composito che attesta che la sinistra è viva e vegeta e nulla ha perso delle sue caratteristiche d’antan.     È una constatazione, la mia, che non ha nulla di moralistico: il mondo è pieno di valori in conflitto e la loro dialettica è il sale della democrazia. E tuttavia, ci si chiede, può una democrazia ‘a norma’ sopravvivere quando gli attori principali in competizione trovano consensi elettorali allontanandosi dal centro? È una buona notizia che i riformisti e gli ex margheritini del PD siano destinati ad essere emarginati? Che le sinistre parlino con la voce di Claudia Fusani, di Daniela Preziosi, di Massimo
Giannini, di Ezio Mauro? Che le ali mediane del sistema politico, Azione di Carlo Calenda o Stati Uniti di Europa del duo Emma Bonino/Matteo Renzi non abbiano alcun potere di riassestare verso il centro l’asse della politica italiana? (Negli ultimi tempi della campagna elettorale, va pur detto, le loro critiche al governo erano così spietate da portare acqua al mulino di Elly Schlein, allontanando potenziali elettori, pur lontani dalla Meloni, ma vicini a un’opposizione corretta e non delegittimante).

L’altro dato emerso dalle urne è anch’esso poco rassicurante.

«In queste elezioni, ha scritto Augusto Minzolini – la politica estera, in presenza di due guerre, ha pesato come non mai in passato». Verissimo, ma fa sorridere l’analisi l’editorialista del «Giornale» quando parla di Un voto contro Putin (ma in quale beato paradiso caraibico vive Minzolini?) e giudica la più grave sconfitta di un partito di governo che si sia verificata dal dopoguerra a oggi – quella subita in Francia da Macron e in Germania da Scholz – il prezzo pagati per “qualche fuga in
avanti” (sic!). In realtà, la difesa a oltranza dell’Ucraina e gli Stati Uniti d’Europa sono stati i cavalli di battaglia di columnists e di scienziati politici dei grandi quotidiani ma non hanno toccato nessun cuore. Ma di quale Europa stiamo parlando se gli stati del vecchio continente sono tutti appiattiti (ammettiamo pure, con qualche buona ragione) sulle direttive di Washington e della Nato,
se nelle guerre che si stanno svolgendo sotto le nostre case i rappresentanti degli stati europei si sono astenuti da ogni iniziativa autonoma, da ogni tentativo di contribuire al farsi degli eventi, sia pure a fianco della Casa Bianca? Stati Uniti d’Europa! Siamo europei! ma davvero si poteva credere che, con queste genericità retoriche, si sarebbero ottenuti i voti dell’uomo della strada?     In un esemplare editoriale del «Corriere della Sera» dell’8 giugno u.s., L’Europa non è solo un’idea, Ernesto Galli della Loggia ha fatto rilevare: «le élite europee hanno finito per credere (…) che per radicarsi e legittimarsi nella coscienza dei propri cittadini, bastassero i grandi principi e i vantaggi concreti assicurati dall’Unione. Ma nessun corpo politico è stato mai tenuto insieme solo
da queste cose».

Non mi sembra che questa saggezza storica faccia parte della political culture dei Calenda, dei Renzi, dei Della Vedova. Il contrappeso centrista e moderato al trionfo della sinistra tendenzialmente illiberale è affidato alle mani di attori politici moralmente e intellettualmente affetti dal morbo di Parkinson.

[commento elettorale uscito su Paradoxa-Forum il 13 giugno]

Onda nera e dilemma migratorio

13 Giugno 2024 - di Luca Ricolfi

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A guardarle da lontano, le elezioni europee forniscono un risultato molto chiaro: indietro liberali, verdi, socialisti, avanti tutte e tre le destre: Popolari di Ursula von der Leyen, Riformisti di Giorgia Meloni, Identitari di Marine Le Pen. E altrettanto
chiaro, anche se non a tutti, è il triplice messaggio che è stato recapitato a Bruxelles: non ci convince la velocità (eccessiva) della transizione green, non ci va l’inconcludenza in materia di flussi migratori irregolari, non ci piace il politicamente
corretto dei burocrati europei.

Complessivamente, gli equilibri politici si sono spostati verso destra, in alcuni casi in modo clamoroso: in Francia è crollato il partito di Macron, e quello di Marine Le Pen ha toccato la quota stratosferica del 32%; in Germania sono crollati i
Socialdemocratici del cancelliere Scholtz, superati dalla AFD (Alternative für Deutschland), un partito di destra così estrema da essere stato espulso da Identità e Democrazia, il gruppo più a destra del Parlamento Europeo. Tutto ciò ha suggerito ai
commentatori più pittoreschi di parlare di un’onda nera che starebbe sommergendo le fragili istituzioni europee.

A guardarle più da vicino, ovvero paese per paese, le elezioni europee raccontano una storia assai meno univoca, forse più interessante. Ci sono paesi, anche importanti, in cui i socialisti sono cresciuti sensibilmente: in Francia sono rinati, dopo essere quasi scomparsi nelle elezioni del 2022; in Italia, con il 24% del Pd, hanno ottenuto il miglior risultato dai tempi dell’exploit di Renzi, che rialse a dieci anni fa (41% alle Europee del 2014).

Anche il mito dell’onda nera andrebbe ridimensionato. Se, ad esempio, prendiamo i due paesi scandinavi (Finlandia e Svezia), attualmente governati da coalizioni di destra, non mancano le sorprese: in entrambi i paesi i partiti di estrema destra (Veri
Finlandesi e Democratici svedesi) hanno ottenuto risultati elettorali pessimi, a fronte di buoni risultati delle forze progressiste.

I casi più interessanti, però, a mio parere sono quelli della Danimarca e della Germania. Questi due paesi, infatti, illustrano bene quanto cruciale sia, per gli equilibri elettorali della sinistra, il modo in cui viene affrontato il tema migratorio.

In Danimarca, nel 2022, la premier socialdemocratica Mette Frederiksen aveva vinto le elezioni politiche su una linea securitaria, ventilando addirittura il trasferimento dei migranti irregolari in Ruanda, sulla linea del premier britannico Rishi Sunak. Il
risultato, però, è stato che due anni dopo, alle elezioni Europee, il suo partito è stato scavalcato dall’Alleanza di sinistra, un partito di sinistra-sinistra.

La vicenda è interessante perché ricalca, in un arco di tempo molto più breve, quel che in Italia è capitato al Pd nel decennio 2014-2024. La svolta riformista impressa da Renzi e Gentiloni con il Jobs Act e la linea dura sull’immigrazione (ministro Minniti) hanno innescato una progressiva crisi di rigetto, con la scissione di Leu, i tormenti del dopo-Renzi, la riconquista della “ditta” da parte di Bersani e compagni, la sconfitta di Bonaccini, l’ascesa finale di Elly Schlein, coronata dal successo alle Europee. La
differenza con il caso danese è che lì la reazione alla sinistra moderata e riformista è stata rapida e affidata a un a partito più a sinistra dei socialdemocratici, mentre da noi è stata lunga e affidata alla scalata interna al Partito Democratico.

In Germania le cose sono andate in un modo ancora più inedito. Qualche mese fa, di fronte alla irresolutezza dei socialdemocratici in tema di migranti, e al connesso deflusso di voti popolari verso l’AFD, Sahra Wagenknecht, politica proveniente dalla Linke (il partito più a sinistra della Germania), ha deciso di fondare un partito al tempo stesso di sinistra e anti-migranti. Alla prima prova elettorale, le Europee dei giorni scorsi, il suo partito nuovo di zecca ha totalizzato il 6.2%, che sommato al 15.9% della AFD porta oltre il 22% la quota di elettori che hanno espresso un voto innanzitutto anti-immigrati.

Il caso tedesco e il caso danese illustrano nel modo più chiaro la crucialità che, per la sinistra di governo, assume il dilemma migratorio. Snobbare o negare il problema aliena le simpatie dei ceti popolari, e finisce per ingrossare le file dei partiti di
estrema destra. Prenderlo su di sé, rende meno ardua la conquista del governo, ma alla lunga crea divisioni nel campo progressista, alimentando la crescita della sinistra-sinistra. Anche di questo, prima o poi, dovrà farsi carico Elly Schlein.

[articolo uscito sul Messaggero il 12 giugno 2024]

Requiem per il terzo polo

13 Giugno 2024 - di Luca Ricolfi

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Sarà magari una coincidenza, ma certo colpisce che i più clamorosi successi di queste elezioni europee siano tutti al femminile: grazie al successo dei rispettivi partiti, Ursula Von del Leyen, Giorgia Meloni, Marine le Pen, Elly Schlein avranno un ruolo
decisivo nei futuri assetti dell’unione Europea.

Ma anche in Italia l’esito del voto premia esclusivamente le liste a traino femminile: non solo Giorgia e Elly, ma anche la lista Verdi-Sinistra condotta a un clamoroso risultato (quasi il 7%) dalla candidatura di Ilaria Salis.

Ciascuno a suo modo, i tre risultati sono eccezionali. Il 28.8% di Meloni, in quanto il suo governo è l’unico fra quelli dei grandi paesi europei ad uscire vincente, per di più in un momento (elezioni intermedie) di solito non favorevole ai governi in carica. Il
24% di Elly Schlein, in quanto il Pd è l’unico partito (insieme a AVS) che aumenta i consensi anche in termini assoluti, e ci riesce a dispetto dei voti in libera uscita temporaneamente sottratti al Pd per sostenere la causa della Salis. Il 6.8% della lista AVS, perché – secondo i sondaggi – il superamento della soglia del 4% non era per niente sicuro.

Fra i tre risultati, tuttavia, quello più impattante è stato quello della Salis. In un colpo solo, la pasionaria della lista Verdi-sinistra è riuscita nel miracolo di escludere dal Parlamento Europeo sia la lista di Renzi-Bonino (Stati Uniti di Europa) sia, verosimilmente, quella di Calenda (Azione). È facile immaginare, infatti, che – in assenza del magnete Salis – molti dei voti AVS sarebbero finiti su quelle due liste, consentendo ad almeno una delle due di raggiungere il 4%. L’extra-risultato di Salis
si aggira infatti intorno al 3%, mentre i voti mancanti a Stati Uniti d’Europa sono pari appena allo 0.2 %, e quelli mancanti ad Azione allo 0.7%: due divari colmabili con 1/3 dei consensi che Salis ha portato a Bonelli e Fratoianni.

Visto da questa angolatura, il risultato di AVS è probabilmente il più influente sul futuro del nostro sistema politico. Dopo il flop europeo, sembra estremamente difficile che Renzi e Calenda riescano a mettere insieme i cocci del Terzo polo, che pure aveva guadagnato un non disprezzabile 7.8% alle elezioni politiche. Le recriminazioni reciproche, scattate subito dopo il voto, testimoniano dei limiti caratteriali e strategici dei due leader, e annunciano un futuro non proprio allegrissimo per il centro-sinistra. Se non interverrà qualche invenzione, o qualche nuovo imprenditore della politica, i cosiddetti elettori di centro, che pure esistono, e valgono più o meno il 15% del corpo elettorale, non avrà altra strada che rivolgersi alla neo-resuscitata Forza Italia, il cui leader Tajani da tempo ripete che “occupiamo lo spazio fra Giorgia Meloni e Elly Schlein”. Una simmetria che fino a ieri,
sussistendo i partiti di Renzi e Calenda, poteva apparire artificiosa e pure un po’ furbesca, ma che ora, implosi quei due partiti, suona piuttosto come una constatazione di realtà.

Così il successo di AVS rivela la sua duplice valenza. Da un lato consolida il patto d’acciaio fra PD e AVS, due forze sempre più simili tra loro, e sancisce la perifericità dei Cinque Stelle rispetto ai due partiti di sinistra-sinistra. Dall’altro scava un baratro
fra la sinistra e il centro, fornendo a Tajani le praterie di cui ha bisogno per espandere Forza Italia. Verso il 20%, dice lui. Ma anche il 15% basterebbe ad assicurare buona salute al partito che fu di Berlusconi, e lunga vita alla maggioranza di governo.

Meloni ringrazia.

[Articolo uscito sulla Ragione il 12 giugno 2024]

Rifondazione democratica – La forza del passato

10 Maggio 2024 - di Luca Ricolfi

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Ha suscitato qualche sconcerto la notizia che, vincendo l’iniziale esitazione, la segretaria del Pd Elly Schlein si sia infine risolta a firmare il referendum contro il Jobs Act, promosso dalla Cgil. Prima di lei avevano già firmato i dioscuri Bonelli e Fratoianni, leader dell’Alleanza Verdi-Sinistra, e prima ancora l’astuto Giuseppe Conte, che con questa mossa ha segnato un punto nella corsa alla guida del centro-sinistra. Non si sa ancora quanti, fra gli innumerevoli esponenti del Pd che a suo tempo (2014-2016) avevano entusiasticamente appoggiato il Jobs Act e i suoi decreti legislativi, metteranno a loro volta la firma sul referendum di Landini.

La scelta di Elly Schlein è perfettamente comprensibile, viste le posizioni su cui si è candidata alla segreteria del Pd. E non mi stupirei che, in un impeto di coerenza, domani promuovesse una qualche iniziativa contro l’altra bestia nera del nuovo Pd,
ovvero la politica migratoria dell’era Renzi-Minniti. Come se, dopo gli anni di “Rifondazione comunista”, reazione nostalgica alla dissoluzione del PCI, agli eredi di quel partito toccasse ora promuovere una sorta di “Rifondazione democratica”, nel
segno di una sinistra più “vera” e della memoria di Enrico Berlinguer.

Difficile non vedere, tuttavia, le conseguenze che questa deriva politica inevitabilmente implacabilmente porta con sé. La prima è una sorta di rimodulazione radicale della geometria interna del centro sinistra: mai come oggi sono state grandi le distanze fra il Pd e il trio riformista Azione-Italia Viva-Più Europa, e mai come oggi sono state piccole, per non dire inesistenti, le distanze programmatiche fra Pd, Cinque Stelle, Verdi e Sinistra Italiana. Mai come oggi, soprattutto, è stata evidente la sudditanza del Pd al Movimento Cinque Stelle e a Giuseppe Conte, che non perde occasione per mettere in imbarazzo la leader del Pd, oggi sulla politica economico-sociale, con la tempestiva firma del referendum contro il Jobs Act, ieri sulla questione morale, lucrando sugli scandali che hanno coinvolto il Pd a Bari e Torino.

C’è anche un’altra conseguenza, però. La scelta di rinnegare il passato del Pd, rende ancora più difficile un’alleanza strategica con la sinistra riformista, che ora – grazie all’involuzione massimalista e giustizialista del Pd – non include solo i partiti di Renzi e Calenda, ma anche quello di Emma Bonino. L’ultima super-media dei sondaggi rivela che Pd e alleati sono fermi al 40%, mentre i tre partitini riformisti sono vicini al 9%. Difficile pensare che, alle prossime elezioni, quel 40% del “campo giusto” possa miracolosamente tramutarsi in un 50%, necessario per competere vittoriosamente con il centro-destra.

Si potrebbe obiettare che la forza del fronte progressista (e anti-riformista) sta nella correttezza della sua analisi sociale, e che con il tempo l’elettorato capirà. In effetti ci sono parecchie cose che non vanno bene in Italia, dalla sanità alla scuola, dai bassi
salari alla precarietà di tanti contratti, dal ristagno della produttività all’immane peso del debito pubblico, dai morti sul lavoro ai suicidi in carcere. Il problema, però, è che molto di quel che non va ha radici nel passato, e in questo passato ci sono tutti:
governi politici e governi tecnici, governi di destra e governi di sinistra, governi con i Cinque Stelle e governi senza i Cinque Stelle.
Il debito pubblico è una voragine con cui nessun governo ha mai avuto la forza di fare davvero i conti. I bassi salari sono la conseguenza della stagnazione trentennale della produttività, frutto di decenni di riforme mancate. La distruzione della scuola è
un’impresa comune, cui hanno contribuito tutti, governanti e cittadini. L’indebolimento del sistema sanitario nazionale è iniziato una quindicina di anni fa, ben prima del Covid. Quanto allo stato penoso della finanza pubblica, che rende
difficilissimo fronteggiare le innumerevoli emergenze del paese, come non vedere che è anche il risultato del super-bonus, una misura voluta dagli stessi partiti che oggi denunciano la drammaticità di quelle emergenze?

In queste condizioni, una politica economico-sociale credibile non può cavarsela ripartendo le colpe fra il presunto liberismo dei governi riformisti passati e il presunto fascismo del governo in carica. È la forza del passato, con i suoi errori e le sue
avventatezze, il vero macigno che pesa su chiunque si proponga di cambiare l’Italia. Chi è al governo lo sa, perché lo sperimenta a proprie spese. Chi al governo spera di arrivarci con le prossime elezioni politiche, non può far finta di non saperlo, se vuole portare dalla propria parte la maggioranza dei cittadini.

Luca Ricolfi

[articolo uscito sul Messaggero il 10 maggio 2024]

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