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Sulla degenerazione del discorso pubblico – Il linciaggio di Valditara

27 Novembre 2024 - di Luca Ricolfi

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La vicenda del ministro Valditara, contestato per alcune affermazioni fatte alla inaugurazione della Fondazione Giulia Cecchettin, è a suo modo meravigliosa, preziosa, insostituibile. Raramente, infatti, è dato trovare concentrati in così poco tempo e spazio i peggiori difetti del nostro discorso pubblico, per non dire della nostra democrazia.

Nel suo messaggio videotrasmesso Valditara aveva osato – nel quadro di un ragionamento molto ampio – fare due affermazioni, che gli hanno scatenato addosso un mare di critiche, contestazioni, insulti, nonché la piacevole esperienza di vedere la propria immagine bruciata in piazza.

La prima affermazione è che in Italia il patriarcato non c’è più da tempo, anche se forse non da così tanto tempo come ritiene Cacciari (ossia da due secoli), e che dal punto di vista giuridico è finito nel 1975, con la riforma del diritto di famiglia. Le
reazioni a questa affermazione sono state di scandalo, rabbia, indignazione, come se il ministro avesse detto una bestialità, e tale bestialità fosse oggettivamente offensiva per le donne (un po’ come lo è, per gli ebrei, sentirsi dire che la Shoah non c’è mai
stata). In questo esercizio di demonizzazione (del ministro) e di virtue signalling (degli indignati) si sono cimentati un po’ tutti, comprese legioni di giornalisti, editorialisti, conduttori televisivi. Peccato che la tesi di Valditara sia assolutamente pacifica fra gli scienziati sociali (oltreché fra le persone di buon senso), se non altro perché uno dei tratti distintivi delle società occidentali è precisamente la scomparsa dell’autorità paterna, per non dire la scomparsa di ogni autorità: e un patriarcato senza autorità paterna è una contraddizione in termini. Qui osserviamo una prima malattia del discorso pubblico: anziché ascoltare le ragioni di chi parla, se ne manipolano i contenuti (è la tecnica dello straw man) si reagisce in modo pavloviano, caricando a testa bassa il reprobo di turno.

La seconda affermazione è meglio riportarla per esteso: “occorre non far finta di non vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale”. Ho messo in evidenza gli avverbi ‘anche’, e ‘in qualche modo’ perché sono queste due cruciali specificazioni che sono saltate nella stragrande maggioranza dei resoconti del discorso di Valditara, resoconti il cui prototipo è stato: “i femminicidi sono colpa dell’immigrazione”. Ma Valditara non aveva parlato dei femminicidi, ma più in generale dei reati di violenza sessuale. E i dati del ministero dell’Interno gli danno pienamente ragione: da anni la percentuale di stranieri accusati o incarcerati per tali reati è sensibilmente maggiore della quota di stranieri, ed è enormemente superiore se consideriamo il segmento degli stranieri irregolari.

Le cifre, le fonti, le statistiche si possono discutere, naturalmente, ma il punto è che il ministro non aveva detto quel che gli è stato messo in bocca, e quel che ha effettivamente detto è supportato dai dati, e appare più che plausibile. Di nuovo, non solo il mondo politico, ma anche il mondo dell’informazione e della cultura hanno dato prova di scarsa professionalità e nessuna imparzialità. Le affermazioni di Valditara sono state deformate, le cifre da lui evocate sono state ignorate, o contrastate con cifre mal comprese, o lette faziosamente.

Si parla tanto di fake news e della necessità di contrastarle, ma che cosa è stata – se non una gigantesca fake news – la campagna contro il discorso del ministro dell’istruzione?

Sì, a ben pensarci è stata anche qualcos’altro: è stata una sconfitta della democrazia.

Perché il linciaggio che un ministro della Repubblica ha subito sui media e nelle piazze, con slogan truculenti, minacce di morte e gesti simbolici terribili – prima l’incendio di un fantoccio del ministro, qualche giorno dopo di una sua fotografia – è qualcosa che, come molte altre manifestazioni di violenza degli ultimi mesi, avrebbe meritato una presa di posizione ferma, solenne e unanime dei media, del mondo della cultura, della politica, delle organizzazioni sindacali, delle maggiori istituzioni della Repubblica. Una presa di posizione che, ad oggi, non ci è stato dato ancora di ascoltare.

[articolo uscito sulla Ragione il 26 novembre 2024]

Il fantasma del patriarcato

25 Novembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Domani è la “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne”. Possiamo star certi che, fra gli slogan, non mancheranno quelli contro il patriarcato. Del resto ne abbiamo avuto un assaggio in questi giorni: chiunque neghi l’esistenza del patriarcato
viene guardato con stupefatto rimprovero, come se avesse osato negare la Shoah.

La ragione è semplice: siamo stati talmente martellati dalla tesi che la violenza sulle donne dipende dalla sopravvivenza del patriarcato che, per molti, negare il patriarcato suona come negare la violenza sulle donne.

Eppure, se lasciamo per un attimo gli ardori ideologici dei credenti nel patriarcato, e ci concediamo il minimo sindacale di lucidità, non possiamo non vedere le ottime ragioni dei negazionisti. Che sono tante e solidissime.

La più importante è che, a parte alcune specifiche enclave di cui parlerò fra poco, nelle società occidentali sono scomparsi quasi interamente i tratti distintivi delle società patriarcali: il potere dispotico del capofamiglia, il matrimonio combinato, la
sottomissione dei figli (anche dei figli maschi) all’autorità genitoriale, più in generale il primato dei doveri sui diritti in quasi ogni campo della vita sociale (lavoro, famiglia, guerra). Il processo è durato secoli, ma ha avuto due impulsi fondamentali: l’ascesa del matrimonio d’amore fra Settecento e Ottocento, in epoca romantica, e le rivoluzioni libertarie e anti-autoritarie degli studenti e delle donne negli anni ’60 e ’70 del Novecento. Un aspetto fondamentale di questi processi è l’evaporazione della figura del padre, e più in generale di ogni autorità, tempestivamente annunciata da Alexander Mitscherlich con il suo libro Verso una società senza padre, uscito in lingua tedesca fin dal 1963. Su questo, fra i sociologi, gli psicologi sociali e gli psicoanalisti sussistono ben pochi dubbi.

Di qui un’ovvia domanda: come si fa a parlare di società patriarcale, quando la figura del padre è scomparsa non solo nella famiglia, ma più in generale nella società?

La realtà è che la nostra società è profondamente maschilista, o machista, o basata sul “dominio maschile” (titolo di un importante libro di Bourdieu), a dispetto della scomparsa del patriarca, del padre, di ogni autorità. E anzi, l’ipotesi che dovremmo
prendere seriamente in considerazione è che la violenza di cui le donne sono vittime sia semmai il risultato – controintuitivo e paradossale – della sconfitta del patriarcato.

Sono sempre più numerose le voci che attirano l’attenzione sul fatto che potrebbero essere proprio le grandi conquiste di libertà e di autonomia delle donne negli ultimi 50 anni, combinate con il crescente individualismo, consumismo, ipertrofia dei diritti
– tutti tratti tipici del nostro tempo – ad avere reso gli esautorati maschi sempre più aggressivi, insicuri, fragili, possessivi, e in definitiva incapaci di reggere la minima sconfitta, o di accettare un semplice rifiuto. Insomma: l’odierno maschilismo sarebbe
anche una sorta di contraccolpo a conquiste delle donne per cui i maschi non erano pronti, né disposti a farsi da parte. La violenza maschile non sarebbe il segno della sopravvivenza del patriarcato, ma semmai della sua agonia, e del disordine che da quest’ultima deriva.

Questa linea di pensiero, su cui mi paiono convergere anche importanti settori del femminismo (vedi il recentissimo coraggioso intervento di Marina Terragni sul sito Feminist Post), ha un importante vantaggio concettuale: spiega il “paradosso nordico”, ovvero il fatto – a prima vista sorprendente – che la violenza sulle donne, dagli stupri ai femminicidi, sia maggiore nei paesi più civilizzati (come quelli scandinavi) e che un paese come l’Italia, in cui il gender gap è ancora relativamente ampio, sia fra i meno insicuri del continente europeo.

Ma quali sono le implicazioni pratiche di questo schema interpretativo, che distingue nettamente fra patriarcato e maschilismo?

La prima, e più ovvia, è di combattere il patriarcato ovunque sopravvive davvero, e cioè nelle enclave religiose e culturali che, all’interno delle società occidentali, ospitano famiglie davvero patriarcali, come quella di Saman Abbas, che ha pagato con la vita il suo rifiuto di un matrimonio combinato. I dati del Ministero dell’interno sulle vittime di reati gravissimi, come la costrizione al matrimonio, lo stupro di gruppo, la violenza sessuale, il revenge porn, mostrano con grande nettezza che le ragazze straniere corrono rischi enormemente maggiori di quelli delle ragazze italiane. Forse ci vorrebbe, accanto alla ultra-meritoria “Fondazione Giulia Cecchettin”, anche una “Fondazione Saman Abbas”, che aiuti le ragazze straniere oppresse a liberarsi dei rispettivi patriarchi, della cui nefasta influenza si possono trovare indizi anche nelle scuole, ad esempio ogniqualvolta il tasso di partecipazione ad attività sociali delle ragazze straniere è sensibilmente inferiore a quello delle ragazze italiane.

Ma la implicazione più importante del passaggio dalla lotta al patriarcato alla lotta al maschilismo, è quella di sollecitarci a cercare, individuare e combattere le vere determinanti del maschilismo stesso. Che a me paiono almeno due. Innanzitutto,
l’uso sistematico del corpo delle donne per promuovere la commercializzazione di ogni genere di merce, servizio, evento, spettacolo: una prassi più che gradita ai maschi, ma non di rado assecondata dalle donne stesse, e che solo una parte del
femminismo osteggia. E poi, una determinante più sfuggente, ma forse ancora più impattante: gli eccessi della cultura dei diritti, a partire dal diritto a non soffrire, né patire sconfitte, né subire scacchi, né vivere frustrazioni, né sostenere sacrifici o lunghe attese.

Se il maschio si rivela incapace di reggere un rifiuto, o non sa rinunciare a prendersi con la forza quello che vuole, è anche perché vive in una società nella quale – sul piatto della bilancia – il peso dei diritti è diventato incomparabilmente maggiore di quello dei doveri.

[articolo uscito sul Messaggero il 24 novembre 2024]

A proposito di Elodie – Lotta al patriarcato?

19 Agosto 2024 - di Luca Ricolfi

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Che le foto sexy di Elodie suscitassero un po’ di brusio non è stupefacente. Succede quasi sempre quando qualcuno esce dal seminato. Se una cantante/modella fa l’intellettuale la cosa non passa sotto silenzio. Ma vale anche l’inverso: pensate se
un’illustre magistrata anti-mafia apparisse sulla copertina di Play Boy.

Nel caso di Elodie, quel che ha fatto scalpore è l’accostamento fra alcune immagini di lei seminuda e le reiterate dichiarazioni di femminismo, difesa della libertà delle donne, lotta al patriarcato, eccetera. Il tutto reso più pepato da una dichiarazione ostile verso Giorgia Meloni: “come può non accorgersi di lavorare per gli interessi degli uomini?”.

Trascuro le sofisticate argomentazioni in base alle quali Elodie ritiene che posare per il calendario Pirelli sia un modo di “usare la propria libertà di espressione”, e che questa sia “una lotta giusta” (in effetti lo sarebbe se qualcuno le impedisse di farlo, e sarebbe addirittura eroico se provasse a farlo in Iran o in Afghanistan). Ma lasciamo perdere. Quello che invece vorrei fare qui è raccontare come le cose possono apparire a un sociologo o a uno psicologo sociale.

La prima cosa che salta agli occhi di un sociologo è la credenza che, nelle società occidentali, esista e sia dominante il patriarcato. Se non ci fossero di mezzo la politica e l’ideologia, nessuno studioso serio si azzarderebbe mai a usare una categoria interpretativa così inappropriata e inattuale. È dal 1963, ossia da quando Alexander Mitscherlich pubblicò il suo profetico libro Verso una società senza padre, che sappiamo che le società occidentali sono caratterizzate dalla progressiva estinzione della figura paterna.
Oggi quel processo è ampiamente compiuto. Siamo diventati una società senza padri né maestri, nella quale tutte le figure che incarnavano l’autorità e il comando, dal padre all’insegnante, dal poliziotto al giudice, dal prete al ministro, hanno perso ogni
prestigio e autorevolezza.

Che senso ha, allora, parlare di patriarcato?

La risposta, verosimilmente, è che chi parla di patriarcato in realtà intende qualcos’altro, che trova comodo etichettare in quel modo. Questo qualcos’altro è la permanenza di modelli culturali, abitudini mentali, atteggiamenti e comportamenti che erano tipici dei maschi quando la società era davvero patriarcale, e che oggi sopravvivono a dispetto della scomparsa del padre. Il loro nucleo profondo non è l’autorità padre-padrone (come nell’Islam), ma la concezione della donna, vista come oggetto sessuale che, in ossequio ai gusti maschili, deve conformarsi a determinati standard e modelli di bellezza.

La realtà è che la nostra è diventata, molto più che in passato, una società ossessionata dal sesso, in cui quasi ogni cosa – messaggio, pubblicità, immagini, testi, spettacoli – ruota intorno al corpo femminile e, più o meno esplicitamente, al desiderio maschile. Buona parte della nostra economia si basa, in modo più o meno diretto, sull’esibizione del corpo della donna, formidabile macchina per vendere prodotti, servizi, fantasie e sogni.

Le donne lo sanno meglio di chiunque altro, e più di chiunque altro ne soffrono. Lo ha spiegato bene la sociologa anglo-libanese Catherine Hakim nel saggio Erotic capital (2010), e nel libro Honey Money (2012), che consentono di mettere a fuoco tre cose. Primo, non esistono solo il capitale economico, il capitale culturale e il capitale sociale (come credeva il grande Pierre Bourdieu), ma esiste anche il capitale erotico. Secondo, la maggior parte delle donne sono impegnate nella manutenzione e nell’impiego ottimale del loro capitale erotico. Terzo, il capitale erotico è una delle risorse più iniquamente distribuite.

Ed eccoci al punto. La gestione del capitale erotico è una formidabile fonte di diseguaglianza fra le donne, oltreché un insperato omaggio ai non sempre casti appetiti maschili. Certo, si può ben capire che chi è al top nella scala della bellezza si dia da fare per valorizzarla ulteriormente, anche sul piano economico e del potere.

Ma come non vedere gli effetti collaterali di questi modi di esercitare la propria sacrosanta “libertà di espressione”?

Nell’era dei social e della circolazione delle immagini una ragazza si trova a combattere su due fronti: da un lato, deve fare i conti con i media, che le propongono a getto continuo modelli di bellezza stereotipati e irraggiungibili, dall’altro deve fronteggiare la pressione dei maschi – coetanei e non – che si industriano a farle credere che fare sexting (trasmettere immagini sessualmente esplicite) sia assolutamente normale. Una trappola che può anche gratificare la minoranza fortunata ad elevato capitale erotico, ma alimenta frustrazione e senso di inadeguatezza in tutte le altre. Su questo, grazie soprattutto agli psicologi sociali americani, esiste ormai una evidenza empirica schiacciante, che riguarda tutti i paesi occidentali, compresa l’Italia: la competizione sui social, decollata inesorabilmente a partire dal 2010 (nascita dell’iPhone 4), è una fonte permanente di frustrazione, depressione, ansia, vissuti di inadeguatezza, comportamenti autolesionistici e suicidari che colpiscono innanzitutto le ragazze, e in particolare quelle delle ultime due generazioni (z e alpha).

Tornando a Elodie, non si può non riconoscerle il pieno diritto di usare il suo corpo come meglio crede, e di esporre il capitale erotico di cui la natura l’ha dotata alla vista di tutti, a partire dai maschi, tuttora i più sensibili al “bene effimero della bellezza”, come cantava Fabrizio De André in Bocca di rosa.

Resterebbe solo da girare a Elodie la stessa la domanda che lei ha rivolto a Giorgia Meloni: “come può non accorgersi di lavorare per gli interessi degli uomini?”.

[Articolo uscito sul Messaggero il 18 agosto 2024]

Patriarcato? – Alle radici dei femminicidi

22 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

SocietàSpeciale

Intervento del Prof. Ricolfi a Quarta Repubblica (Min. 29)

Esaurite le lacrime e le indignazioni, chiuso il ciclo degli innumerevoli esercizi retorici che hanno provato a dire il nostro sgomento, sarà il caso – prima o poi – di riflettere anche sui dati che descrivono la violenza sulle donne. Non ce ne sono abbastanza per formulare una diagnosi inattaccabile, ma quei pochi che ci sono bastano a sollevare interrogativi importanti.

Il dato più importante, ben noto agli studiosi da quasi un decennio, è il cosiddetto “paradosso nordico”: come mai i tassi di violenza sulle donne più alti si riscontrano nei paesi considerati più civili, o addirittura in quelli più avanzati in materia di parità di genere?

Non tutti lo sanno, ma nei civilissimi paesi scandinavi, in Germania, in Francia, nel Regno Unito, le donne rischiano la vita più che in Italia. In Europa solo Irlanda e Lussemburgo hanno tassi di uccisione delle donne minori che in Italia. E se allarghiamo lo sguardo alle società avanzate non europee, solo in Giappone le cose vanno meglio che in Italia: paesi come Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Israele, Corea del Sud hanno tutti tassi di uccisione maggiori di quelli italiani.

Come mai?

Qualcuno ipotizza che alla base possa esservi un maggiore consumo di alcol. Altri che il problema possa essere la presenza di immigrati, o di stranieri di fede islamica. Ma i dati non sembrano facilmente conciliabili con queste ipotesi. Se vogliamo capire, dobbiamo cercare altrove.

Questo altrove potrebbe essere la sopravvivenza del patriarcato, come si sente affermare ogni volta che una donna viene uccisa da un partner possessivo. Certo. Ma sfortunatamente, anche questa ipotesi è difficilmente conciliabile con i dati. Qualcuno può plausibilmente sostenere che i paesi scandinavi siano società patriarcali? O che lo sia il Regno Unito? O il civilissimo e ultra-avanzato Canada?

Del resto è il caso stesso dell’Italia a mettere in dubbio la teoria del patriarcato. Diversi dati, dagli stupri ai femminicidi, suggeriscono che la violenza sulle donne sia maggiore nel Centro-nord che nel Sud. Se ne deve dedurre che il patriarcato è in via di estinzione nelle regioni del Mezzogiorno, mentre prospera in quelle centro-settentrionali?

Quando si è affezionati a una teoria, si trova sempre un modo di salvarla, anche contro le evidenze empiriche. Il caso della teoria del patriarcato non sfugge alla regola. Quando si è scoperto che gli stupri dilagavano in Svezia, qualcuno ha provato a spiegare le cose così: proprio il fatto di avere reso il paese molto più civile con riforme dall’alto precoci ha provocato la reazione degli uomini, che non erano pronti ad accettare tanta libertà per le donne. Di qui una sorta di contraccolpo (backlash): la violenza sulle donne sarebbe una sorta di reazione del maschio, spiazzato dalla libertà e intraprendenza femminile dopo le riforme illuminate degli anni ’70 e ’80.

Se si accetta questa lettura, si dovrebbe anche ipotizzare una straordinaria lentezza del maschio del Nord: possibile che cinquant’anni non gli siano bastati per assorbire lo shock della liberazione della donna? Mah…

Eppure esiste anche una spiegazione più semplice, per quanto più difficile da accettare. Una delle radici della violenza sulle donne nelle realtà più avanzate potrebbe essere proprio il loro essere avanzate. Quando si parla del grado di civiltà raggiunto da un sistema sociale, infatti, troppo sovente si dimentica che l’aspetto centrale delle società avanzate è la cultura dei diritti. E la cultura dei diritti è una cosa meravigliosa, ma ha anche effetti collaterali perversi. Ad esempio: l’educazione è permissiva, i genitori iper-proteggono i figli, gli insegnanti si colpevolizzano per gli insuccessi dei ragazzi. Sicché una parte di questi ultimi si convince di avere un fascio di diritti fondamentali, o quasi naturali: successo formativo, abitazione, consumi, status, divertimento, sesso. Naturalmente, succedeva anche prima che si desiderassero tutte queste cose. Ma non erano considerate diritti, bensì conquistepossibili, spesso costose in termini di sforzi, e sempre esposte al rischio di fallimento.

In breve, e detto brutalmente: nelle società “arretrate” i giovani sanno (e accettano) di poter fallire, in quelle avanzate non sono preparati all’eventualità. E il momento più critico è proprio quello della ricerca del partner sentimentale, perché quella è la prima sfida in cui i genitori – per quanto ricchi, potenti, dotati di conoscenze – non possono intervenire, né supplire alle inadeguatezze di un figlio. Per diversi ragazzi, quello di essere rifiutati dalla donna che desiderano può essere il primo vero trauma della loro vita, proprio perché è il primo scacco in cui la rete di protezione familiare è fuori gioco.

Da questo punto di vista, non stupisce che negli Stati Uniti – dove l’iper-protezione dei giovani da parte di genitori, insegnanti, istituzioni culturali ha assunto tratti grotteschi e dimensioni patologiche – per una donna il rischio di essere uccisa sia 7 volte quello dell’Italia.

Così come non stupisce l’inquietante sincronismo con cui, negli ultimissimi anni, sono aumentati sia il numero di donne uccise (quasi + 20% fra l’era pre-Covid e oggi) sia il numero di denunce e arresti di minorenni per omicidi, violenze sessuali, lesioni, percosse, danneggiamenti, risse, rapine in strada, minacce, solo per citare alcuni esempi da un recente rapporto della Polizia criminale.

La mia è solo un’ipotesi, naturalmente, ma non mi sento di escludere che, sotto questi repentini cambiamenti, non vi sia solo un deficit di consapevolezza dei diritti e del valore delle donne (un guaio cui la scuola può tentare di porre rimedio), ma una degenerazione della cultura dei diritti, che ha reso tanti maschi del tutto incapaci di fare i conti con il rischio di fallire.

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