Il cambio di paradigma epocale dell’OMS nella trasmissione degli agenti patogeni respiratori.
Tutte le verità passano attraverso tre stadi. Primo, vengono ridicolizzate. Secondo, vengono violentemente contestate. Terzo, vengono accettate dandole come evidenti. (Arthur Schopenhauer)
All’inizio del turbolento 2020, l’umanità si è trovata a fronteggiare un nemico nuovo, un virus sconosciuto che ha scatenato il panico globale. Nelle prime fasi della pandemia da SARS-CoV-2, ci si è concentrati sui metodi tradizionali di igiene personale e disinfezione delle superfici, nell’illusione che queste pratiche potessero arrestare la diffusione del virus. Eppure, il vero veicolo di contagio si nascondeva nell’aria che respiravamo. La comunità scientifica, guidata da un gruppo di 36 scienziati, ha impiegato mesi per avere dall’OMS una timida apertura sull’importanza cruciale della trasmissione per via aerea nell’epidemiologia del COVID-19. Ma da noi in Italia, le nostre autorità sanitarie hanno continuato inutilmente per oltre due anni (nonostante qualche avvertimento dell’OMS) a sanificare superfici, ad imporre con ritardo l’uso delle mascherine (senza distinzione tra filtri facciali e mascherine chirurgiche), ad applicare unicamente il distanziamento ed il famoso Green Pass come misura preventiva negli ambienti chiusi. La risultante di tutti questi interventi era (ed è) di gran lunga inferiore agli interventi ingegneristici da attuare se avessero accettato la via aerea di trasmissione del COVID-19. Il nostro Comitato Tecnico Scientifico irresponsabilmente non ha applicato il principio di precauzione (che impone misure protettive anche nella semplice ipotesi – non prova – di rischi per la popolazione o l’ambiente) causando decine di migliaia di casi, ricoveri e morti in più, con un sovraccosto economico enorme nella gestione della pandemia. La recente pubblicazione dell’OMS dal titolo “Global technical consultation report on a proposed descriptive framework for the approach to pathogens that transmit through the air” sancisce un cambio di paradigma epocale all’interno della comunità medica: sotto la guida di una ventina di esperti mondiali con competenze multidisciplinari (quelle negate nei tre anni del CTS che ha visto la partecipazione di membri appartenenti alla sola comunità medica e addirittura sbeffeggiate dai nostri virologi) è stata sancita la trasmissione aerea (il famoso vecchio aerosol) come via primaria di trasmissione per tutti gli agenti patogeni respiratori, dal SARS-CoV-2 all’influenza, dal morbillo alla varicella. Questa revisione ha portato alla accettazione da parte dell’OMS del concetto di particelle infettive respiratorie (IRPs), eliminando la vecchia distinzione tra “aerosol” e “droplets” e mettendo in luce l’importanza della ventilazione degli ambienti chiusi nella prevenzione delle malattie respiratorie. Per aiutare questa nuova comprensione della trasmissione virale, l’OMS ha inoltre pubblicato ARIA (Indoor Airborne Risk Assessment), una web app basata su un tool pubblicato dall’Università di Cassino nel 2020 (AIRC, Airborne Infection Risk Calculator), che consente di valutare il rischio di contagio da COVID-19 in base a diversi fattori ambientali e comportamentali. Grazie alla collaborazione interdisciplinare tra esperti di diversa provenienza, è stato possibile integrare i fattori fisiologici, virali ed ambientali ed ogni responsabile di spazi pubblici potrà quantificare il rischio di infezione e identificare le misure ingegneristiche preventive più efficaci per garantire una effettiva protezione dal contagio. Il riconoscimento dell’OMS della trasmissione aerea come modalità principale di contagio rappresenta un importante progresso nella lotta contro le malattie respiratorie, anche se è fondamentale comprendere che non tutti gli agenti patogeni si trasmettono allo stesso modo e che le misure preventive devono essere adattate di conseguenza. Purtroppo, nonostante ci fosse consapevolezza nella comunità scientifica, poco è stato fatto per migliorare la qualità dell’aria negli ambienti chiusi. La maggior parte delle persone continua a trascorrere gran parte del tempo in ambienti con ventilazione insufficiente, esponendosi così a rischi per la salute non solo legati al COVID-19, ma anche ad altre patologie respiratorie e al degrado delle capacità cognitive. Per affrontare questa sfida, è necessario un impegno politico e finanziario, oltre a normative internazionali e nazionali per garantire standard minimi di qualità dell’aria negli ambienti chiusi. Così come abbiamo ottenuto progressi significativi nella sicurezza dell’acqua e nella riduzione dell’inquinamento atmosferico all’aperto, dobbiamo ora concentrarci sul miglioramento della qualità dell’aria negli ambienti chiusi, riconoscendo che questa è una delle sfide più urgenti per la salute pubblica del nostro tempo. La scienza è stata soffocata fin troppo da un dogma delle nostre autorità sanitarie cristallizzato dalla fine dell’800 (i famosi droplets). E nel nome di questo dogma non abbiamo affrontato i rischi degli ambienti chiusi, il vero tallone d’Achille delle nostre società, là dove trascorriamo il 90% del nostro tempo ed avviene la quasi totalità delle infezioni. Ma con l’ostinazione e le motivazioni di chi si sente supportato dal sapere scientifico e dall’esempio di chi ci ha preceduto, la nostra comunità scientifica non ha mai interrotto il tentativo di diffondere e condividere il sapere riuscendo in un risultato fondamentale per affrontare le future pandemie.
[Prof. Giorgio Buonanno Università di Cassino e del Lazio Meridionale Queensland University of Technology, Brisbane, Australia]