Hume PageHume Page

Sui limiti della libertà di espressione – Le parole sono importanti

23 Dicembre 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Non ricordo un periodo in cui si sia parlato così tanto, e così costantemente, di libertà di espressione. Il caso di Tony Effe, di cui tanto si è parlato nei giorni scorsi, è infatti solo l’ultimo episodio di una serie di controversie che, in un modo o nell’altro, hanno coinvolto ogni sorta di soggetti: politici, ministri, scrittori, docenti, giornalisti, comuni cittadini. Giusto per fare alcuni esempi: la presidente della Camera Laura Boldrini che denuncia i suoi detrattori in rete; l’università di Milano che sospende il prof. Marco Bassani per aver condiviso (su Facebook) una vignetta sarcastica su Kamala Harris; Giorgia Meloni che querela il prof. Canfora per averla definita “neo-nazista nell’animo”; gli scrittori sgraditi silenziati dai contestatori al Salone del Libro di Torino; lo scrittore Saviano disinvitato da un programma Rai per i contenuti anti-governativi di un suo discorso sul 25 aprile. Eccetera.

Apparentemente, in molti di questi casi, ci troviamo di fronte a un dilemma: da una parte la libertà di espressione, dall’altra qualche principio altrettanto alto (la dignità umana, l’anti-fascismo, ecc.), che però confligge con la prima. È questo il motivo per cui, in ultima analisi, è praticamente impossibile stabilire in modo chiaro, univoco e condiviso i limiti della libertà di espressione.

E tuttavia…

Tuttavia c’è almeno una cosa che potremmo fare per regolare in modo ragionevole queste controversie: non forzare il senso delle parole. Morettianamente, ricordarci sempre che “le parole sono importanti”. Usarle a sproposito porta a fraintendimenti e inutili conflitti.

La parola censura, ad esempio. Censura è quando un’autorità vieta la circolazione di un testo, o impedisce a un cittadino di esprimere le sui opinioni, non quando un autore o un artista (o persona che tale si sente), non viene invitato a un evento, o a una trasmissione, o a esprimersi su una piattaforma. Il potere culturale, editoriale, letterario esiste, talora favorisce gli autori di destra, talora (più di frequente) quelli di sinistra, ma quella non è censura. È esercizio, più o meno partigiano, più o meno illuminato, di un potere costitutivamente arbitrario. San Remo non è un concorso universitario, e il direttore artistico ha tutto il diritto di invitare chi vuole, perché a lui è staro delegato quel potere. Possiamo criticare Carlo Conti se esclude Patty Pravo o Al Bano, ma non gridare alla censura. Lo stesso vale per i tanti che si sentono esclusi dalla programmazione Rai, o da un talk show, o da un concorso letterario. Possiamo parlare di “amichettismo”, circuiti privilegiati, cerchie che escludono e cerchi magici che includono. Ma di censura no, se non altro per rispetto verso i veri censurati sotto le dittature e i regimi dittatoriali.

Un altro esempio è la parola pensiero. Gli insulti, le offese, le ingiurie, non sono manifestazioni della libertà di pensiero, anche quando usate nell’ambito di un ragionamento politico. Si può discutere, caso per caso, dell’opportunità di querelare per diffamazione (un reato che è stato rilanciato dalla depenalizzazione dell’ingiuria), ma non si può invocare la libertà di pensiero per giustificare un’offesa, o teorizzare che le querele vanno ritirate se c’è squilibrio di potere fra querelante e querelato.

Soprattutto non si possono usare due pesi e due misure: se Laura Boldrini faceva bene a denunciare i suoi odiatori (per lo più anonimi), altrettanto bene fa Giorgia Meloni con i propri detrattori (per lo più ben protetti dall’establishment culturale).

Un altro esempio ancora sono le parole dissenso, contestazione, critica usate per giustificare chi impedisce materialmente lo svolgimento di una manifestazione, di un incontro, di un convegno, di un evento culturale. Qui gli esempi – in parte già richiamati – sono tantissimi e molto diversi fra loro. Studenti che, in diverse università, impediscono di parlare a Maurizio Molinari e David Parenzo in quanto ebrei. Contestatori che impediscono a Eugenia Roccella di parlare al Salone del libro e agli Stati generali della natalità. Attivisti che impediscono il volantinaggio ad attivisti di diverso credo politico. Manifestazioni di piazza per impedire altre manifestazioni. Presentazioni di libri soppresse per l’argomento del libro (l’ebrea Golda Meir). Sempre ogni volta in nome del sacrosanto diritto al dissenso e alla manifestazione del pensiero, tutelati dagli articoli 17 e 21 della Costituzione. È il caso di notare che quel che questi esempi hanno in comune non è l’uso della violenza, perché in diversi casi si tratta di manifestazioni pacifiche, che ottengono il risultato voluto (il silenzio altrui) senza ricorrere all’uso della forza, talora anzi adoperando mezzi creativi: liberare decine di migliaia di grilli in una sala per impedire un evento culturale sgradito (è successo anche questo) può essere più efficace di un picchettaggio o di un’irruzione di massa.

Ebbene, anche in questi casi le parole sono usate a sproposito. Impedire a qualcuno di parlare non è né dissenso, né contestazione, né critica. Semmai è privare qualcuno di un suo diritto, quello di manifestare il proprio pensiero in pubblico. Ma come si chiama questa cosa?

Ed ecco il problema: per questa cosa, in particolare quando non è violenta, non solo non abbiamo un reato, ma nemmeno una parola. Anzi, forse non abbiamo il reato precisamente perché ci manca la parola per dire la cosa. Usiamo la parola dissenso, ma il dissenso è il motivo dell’azione, non l’azione stessa. Per quest’ultima abbiamo solo concetti approssimativi: silenziare, zittire, oscurare, sopraffare (grillare?).

Peccato, perché “le parole sono importanti”.

[articolo uscito sul Messaggero il 22 dicembre 2024]

Il maschilismo è anche in noi donne?

28 Novembre 2024 - di Paola Mastrocola

In primo pianoPoliticaSocietà

Se vivessimo in un sistema patriarcale, noi donne saremmo tutte chiuse in casa. A pranzo e a cena serviremmo i nostri mariti e parleremmo solo se interrogate. Invece andiamo ogni giorno dove ci pare e parliamo ovunque e a chiunque, dicendo quel che pensiamo.

Se vivessimo in uno stato fascista, saremmo costretti ad andare alle adunate e, se ci opponessimo al regime verremmo incarcerati, torturati e uccisi. Invece mi pare che godiamo ancora e ampiamente di libertà di azione, di pensiero e di parola (sempre che la parola non ce la tolgano dei facinorosi invasati: ma questo è un altro discorso).

Stiamo attenti a usare bene le parole. Se le cause per cui vogliamo combattere sono giuste, non vanifichiamo le nostre lotte usando le parole sbagliate, perché le parole sbagliate rischiano di inficiare la giustezza delle nostre cause.

Se al bell’articolo di Viola Ardone, apparso su La Stampa tre giorni fa, sostituiamo la parola patriarcato con la parola maschilismo, tutto torna. Se non la sostituiamo, in alcuni di noi lettori può insinuarsi qualche perplessità. Per una semplice e banale ragione lessicale, e cioè perché nella parola patriarcato c’è sì la parola àrchein che vuol dire detenere il potere, comandare; ma c’è anche la parola pater. E se c’è una cosa che è sparita da decenni nel nostro mondo, è proprio il potere del padre. Già
solo andando a una sessantina d’anni fa, se penso a mio padre, non mi viene in mente la parola patriarcato. Mio padre, abruzzese, figlio di contadini, emigrato a Torino e poi grazie alle scuole serali ragioniere assunto alla Fiat, non m’impediva né di uscire né di parlare. Mi imponeva di tornare a mezzanotte, questo sì. Non era un patriarca, però faceva il padre. Un padre severo che educa i figli ponendo delle regole, ovvero insegnando loro l’esistenza di un limite: se lo oltrepassi, avrai un rimprovero o una punizione. Punto e basta. Allora esistevano i padri. Oggi fior di studiosi e psicanalisti ci avvertono da tempo che la figura del padre è evaporata. E questo è, semmai, uno dei problemi che affligge la nostra attuale società.

Che certe frange di patriarcato ancora esistano, in qualche anfratto del mondo occidentale e quindi anche da noi in Italia, non si può negare. Certamente esiste un macroscopico patriarcato nel mondo islamico, e quindi nelle famiglie di origine islamica che vivono da noi in Italia. Ed è terribile che non stiamo facendo niente per contrastarlo. È la loro cultura, diciamo. Quindi, in nome del nostro illuminato multiculturalismo, lasciamo imperterriti che certe atrocità dei maschi contro le donne si compiano sotto i nostri occhi. Imperterriti. Indifferenti. E, aggiungerei, ipocriti.

Di maschilismo invece è sacrosanto parlare. Non solo, è sacrosanto combatterlo.

Il maschilismo è un concetto più sfuggente e sottile, legato anche, a fattori naturali insiti nell’essere umano. È il risultato di una combinazione complessa di tratti storici, psicologici, sociali, ma anche biologici. E introdurre nel dibattito il fattore natura non ci piace. Preferiamo pensare che la civiltà sia un fatto solo di cultura. Anzi, che la cultura consista proprio nel riuscire a debellare quei rimasugli di natura che ancora restano in noi.

Maschilismo è l’idea che l’uomo debba essere virile, forte, dominante.

Da cui la violenza sulle donne, ma anche certa avversione o fastidio, ancora ahimè serpeggiante, verso il mondo omosessuale che palesemente contravviene a tale modello.

Combattiamo dunque il maschilismo. Ma in che modo?

Siamo sicure, noi donne, di combatterlo sempre e in ogni forma?

Penso alla nostra accettazione passiva di fronte ai messaggi pubblicitari che inondano ogni giorno le nostre vite, attraverso la televisione, i giornali e i social su cui passiamo tanto amenamente ore intere. Lì domina un’immagine della donna inequivocabile: femmina oggetto delle brame maschili, dove strumento primo e unico della seduzione è la bellezza, intesa in senso univoco e totalizzante, una bellezza dove giocano un ruolo principale il trucco, gli abiti, il corpo esposto. È un’immagine che portiamo
stampata dentro durante la nostra giornata, quando siamo al lavoro, a scuola, a casa, al bar, in palestra. Ovunque. Un modello a cui, forse inconsapevolmente, aderiamo in molte, un modello che abbiamo introiettato e a cui non ci sogniamo minimamente di opporci. Noi ci adeguiamo a quel modello, lo facciamo nostro. Se no perché mai decideremmo di uscire, di andare al cinema, al ristorante o a un convegno, truccandoci per ore, mettendo i tacchi 12, e scegliendo abiti con spacchi e scollature?

Non mi si venga a dire che lo facciamo per piacere a noi stesse. Non ci mettiamo i tacchi 12 per stare tutto il giorno in casa da sole a leggerci un libro. Lo facciamo per piacere agli altri, maschi o femmine che siano. E questo va benissimo, s’intende. La cosa deleteria è che pensiamo che, per piacere agli altri, occorra uniformarsi al modello femminile imperante. Eccolo, l’impero del maschio, il dominio maschile, il maschilismo: che è prima di tutto in noi donne.

Se volessimo combattere il maschilismo, ci sarebbe una strada più facile e ben più efficace che scendere in piazza con gli striscioni contro il patriarcato riempiendoci la bocca di slogan. Sarebbe uscire vestite come ci pare, senza ogni volta comporre (mettendoci quanto tempo e denaro!) il quadro artefatto di una bellezza omologata, così come la vuole il maschio dominante. Sarebbe l’idea che la bellezza vera di una donna passa attraverso ben altro, è infinitamente più composita, misteriosa. E potente.

Non sarebbe una grande rivoluzione?

Articolo uscito su La Stampa il 27/11/2024

image_print
© Copyright Fondazione Hume - Tutti i diritti riservati - Privacy Policy