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Protesta studentesca e libertà di parola – Davide contro Golia?

27 Aprile 2024 - di Luca Ricolfi

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Diversi osservatori si sono compiaciuti delle mobilitazioni studentesche pro-Gaza, perché esse mostrerebbero che i giovani non sono apatici e indifferenti come talora vengono dipinti, bensì impegnati e sensibili ai destini del mondo. Qualcuno ha pure evocato una sorta di nuovo ’68, come se l’idealismo della gioventù pacifista di oggi fosse una riedizione di quello di ieri contro la guerra del Vietnam.

Nessuno può sapere come le cose evolveranno, ma per ora – a mio parere – le differenze prevalgono sulle analogie. La differenza più evidente è che, per ora, le proteste degli studenti sono molto circoscritte e, anche per questo, significativamente infiltrate da soggetti esterni, sia negli Stati Uniti sia in Italia. Ma esiste anche un’altra differenza, di cui si parla poco: la complessità ideologica dell’oggetto del contendere.

Negli anni ’60 il nucleo della protesta, specie negli Stati Uniti, era l’opposizione a una guerra che coinvolgeva direttamente gli Stati Uniti, e che rischiava di ripercuotersi sugli studenti universitari, in quanto potenzialmente arruolabili. Sul piano politico, l’alternativa era relativamente semplice: si potevano condividere o viceversa contestare le ragioni dell’intervento americano nel sud-est asiatico. Due posizioni chiare e ben difendibili, da entrambe le parti.

Oggi le cose sono molto più complicate. Il conflitto che scalda gli animi dura da quasi 80 anni, ossia dalla nascita dello stato di Israele nel 1948. Nel tempo ha coinvolto direttamente o indirettamente numerosi stati e popolazioni, dando luogo a una catena di guerre più o meno esplicitamente dichiarate, con alleanze variabili fra i soggetti coinvolti. Come non bastasse, al centro del conflitto si sono trovati gli ebrei, ovvero le vittime principali del nazismo, e diverse popolazioni di fede musulmana, ostili alla nascita di uno stato ebraico in Palestina. Un vero groviglio, che ha dato luogo a una lunghissima partita, suddivisa in una decina di “tempi”, di cui quello iniziato il 7 ottobre 2023 è solo l’ultimo.

Queste peculiarità della questione palestinese rendono terribilmente difficile dipanare la matassa ideologica del conflitto. Se si parla tra persone informate e non troppo faziose, nessuno si sente di schierarsi nettamente da una delle parti in conflitto, perché è impossibile non vedere la sequenza di tragici errori compiuti da entrambi i lati. Si può, più o meno istintivamente, sentirsi più solidali con gli uni o con gli altri, ma è difficile non vedere le immani responsabilità della parte per cui si parteggia.

Non così a livello di massa. A livello di massa prevalgono le semplificazioni manichee proprio perché la vicenda è troppo intricata. Il bisogno di prender posizione, ammirevole in quanto rifiuto di ogni indifferenza e apatia, si scontra con l’impossibilità di farlo senza cancellare ingenti porzioni della storia reale del conflitto. Ed ecco la soluzione: costruire un racconto a senso unico giocando sulla asimmetria fondamentale del conflitto, che vede da una parte uno dei popoli più martoriati della terra, dall’altro una delle nazioni più ricche e potenti dell’occidente. Una sorta di riedizione della sfida fra Davide e Golia, con Israele nella inedita parte del cattivo gigante Golia, e il popolo palestinese in quella del buono e coraggioso pastorello Davide.

Questo racconto partigiano, naturalmente, non ha alcuna possibilità di uscire indenne da un confronto storico-critico informato, che consideri tutta la storia del conflitto, e non nasconda le spaventose responsabilità delle classi dirigenti arabe (specie nei primi 20 anni del conflitto) e israeliane (specie negli ultimi 20 anni). Ed ecco spiegato come mai non accade quel che recentemente ha auspicato Massimo Cacciari: ossia che le università diventino luoghi di confronto, riflessione e dialogo nei modi ad esse appropriati, ossia con seminari, convegni, dibattiti, corsi di studio sulla storia del conflitto. La ragione per cui tutto ciò non accade, né potrà mai accadere, è che un dialogo aperto e senza censure farebbe sciogliere come neve al sole il rozzo racconto degli attivisti anti-Israele, per questo fermamente decisi a non fare i conti con tutta la complessità del groviglio medio-orientale.

Ma la debolezza storico-ideologica del racconto degli attivisti studenteschi spiega anche un altro tratto della protesta attuale: la sua vocazione intimidatoria, che si è manifestata in tanti episodi recenti, come le contestazioni degli ebrei David Parenzo e Maurizio Molinari, o l’espulsione dal corteo del’8 marzo della ragazza che ricordava gli stupri di Hamas. L’attivismo studentesco di oggi, a differenza di quello di ieri, ha assoluto bisogno di limitare la libertà di parola altrui, perché quella libertà ne metterebbe a repentaglio il racconto. In un confronto aperto non tutte le ragioni starebbero dalla parte dei palestinesi, e non tutti i torti dalla parte degli israeliani. È questo che impedisce agli studenti di lasciare il comodo terreno dei cortei e delle piazze per avventurarsi in mare aperto, dove l’unica forza che conta è quella delle idee.

(uscito sul Messaggero il 25 aprile 2024)

Dissenso e libertà di parola

30 Marzo 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

La libertà di parola è sacra, sentiamo dire spesso. Guai impedire a qualcuno di parlare. Ma quando a qualcuno viene impedito di parlare, altrettanto spesso sentiamo replicare: anche il diritto al dissenso è sacro.

Questo schema, nelle ultime settimane, si è ripetuto molte volte. A Firenze, la giornalista e scrittrice Elisabetta Fiorito è stata contestata al grido Free Palestine, perché colpevole di presentare un libro su Golda Meir (socialista sì, ma ebrea israeliana). All’università di Napoli il direttore di Repubblica Maurizio Molinari non ha potuto parlare, in quanto colpevole di essere ebreo. Stesso trattamento all’università di Roma, e per il medesimo motivo (la colpa di essere ebreo), è toccato a David Parenzo. Sempre a Roma, alcuni giovani di Forza Italia, muniti di fotografie delle vittime delle Br, hanno interrotto una lezione della prof.ssa Donatella Di Cesare per protesta contro un suo post, non abbastanza critico sulla stagione del terrorismo.

Non è la prima volta che succede, nelle università, nelle librerie, al Salone del libro. E non è la prima volta che gli “interrotti” parlano di squadrismo, attacco alla libertà di espressione, violenza, intolleranza, e gli “interrompenti” replicano: è la democrazia, bellezza! non potete sopprimere il dissenso e la contestazione.

Di qui un problema importante: qual è il confine? Fino a che punto contestare un oratore, o più in generale qualcuno che espone le sue idee, è un diritto, e da quando in poi diventa una prevaricazione?

Molti, a queste domande, rispondono: il confine è la violenza, in una società democratica la violenza non è mai accettabile.

Io non sono tanto sicuro che sia una risposta soddisfacente, almeno finché per violenza si intenda solo la violenza in senso stretto, ossia l’aggressione fisica nei confronti di chi parla (o di chi lo sta ascoltando). In realtà, molto spesso a chi parla viene impedito di parlare semplicemente fischiando, tamburellando, urlando, producendo suoni in modo più o meno tecnologico. È questo il modo in cui, negli ultimi anni, sono state interrotte e impedite innumerevoli lezioni, conferenze, dibattiti. Talora fino al punto di costringere i relatori invisi ad andarsene, o ad autolicenziarsi (è il caso, solo per fare un esempio, della prof.ssa Cathleene Stock, dell’università del Sussex).

Dunque qual è il confine?

Io rispondo con un esempio laterale, ma secondo me illuminante, quello del teatro. Qual è, a teatro, il confine?

A teatro ci sono due diritti speculari, quello di applaudire e quello di fischiare. Ma di norma, dentro lo spettacolo, entrambi vengono esercitati per intervalli di tempo brevi, che consentono la prosecuzione: non si applaude così a lungo da impedire allo spettacolo di andare avanti e, per il medesimo identico motivo, non si fischia così a lungo da annullare la performance in corso. È anche una questione di rispetto degli spettatori, che hanno tutto il diritto di fruire interamente dello spettacolo per cui hanno pagato un biglietto.

In breve: il dissenso non diventa inaccettabile solo nel momento in cui ricorre alla violenza, ma già quando impedisce l’espressione. È la cancellazione della parola, non l’impiego brutale della forza, a segnare il confine invalicabile.

Che cosa cambia?

Apparentemente poco, in realtà moltissimo. Se adottiamo il criterio della cancellazione della parola, risultano inammissibili le contestazioni a Elisabetta Fiorito, a Maurizio Molinari, a David Parenzo, ma anche le passate contestazioni a Capezzone (alla Sapienza), alla ministra Roccella (al Salone del libro), tutti casi in cui il dissenso ha impedito a uno o più oratori di prendere la parola. Al tempo stesso, diventa ammissibile una contestazione come quella dei giovani di Forza Italia alla prof.ssa Di Cesare, perché l’interruzione – per la sua brevità e compostezza – non ha impedito di portare a termine la lezione.

Ma c’è anche un’altra cosa che cambia, se adottiamo il criterio della cancellazione della parola: fra i nemici della libertà di parola dobbiamo annoverare anche la maggior parte dei conduttori di talk show, che permettono sistematicamente che gli ospiti si parlino uno sull’altro, impedendo a chi (in teoria) avrebbe la parola di completare il suo pensiero. Questa pratica, con cui ci si ripromette di alzare gli ascolti, è palesemente intenzionale, come si deduce dal fatto che viene abbandonata solo nel momento in cui la gazzarra dei politici e giornalisti presenti raggiunge livelli di rumore tali da rendere inascoltabile il programma.

A quanto pare, i nemici della libertà di parola non sono solo i collettivi studenteschi con le loro bandiere e i loro slogan.

(uscito sul Messaggero il 29 marzo 2024)

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