La lezione di Örebro: non sono le armi che uccidono, ma le persone (disperate)
In primo pianoPoliticaSocietàQuella avvenuta nella scuola Risbergska della cittadina svedese di Örebro non è solo la peggiore strage mai avvenuta in Svezia: è anche l’ultima di una serie (che sembra purtroppo destinata ad allungarsi) di stragi analoghe che negli ultimi tempi si sono verificate nei paesi scandinavi.
Non intendo qui occuparmi delle miserabili strumentalizzazioni dei soliti servi sciocchi del politically correct, che hanno subito fatto a gara nell’attribuirne la responsabilità al “razzismo”, alimentato (ovviamente) dalla “destra”, per definizione fonte di ogni male. È chiaro, infatti, che quando qualcuno compie un’azione del genere le sue “motivazioni” esplicite contano ben poco, essendo soltanto un pretesto per sfogare un disagio psichico che ha origini ben diverse: se non fosse stato il razzismo, il signor Rickard Andersson ne avrebbe trovato un altro. Perciò anche la lezione da trarre da questa tragica vicenda (e dalle altre che l’hanno preceduta) è un’altra.
Fino ad oggi stragi di questo tipo sono sempre state ritenute una “specialità” degli Stati Uniti e la loro causa è sempre stata identificata con l’estrema facilità con cui chiunque negli USA può procurarsi non solo armi leggere per la difesa personale, ma anche veri e propri arsenali di armi da guerra. Ma ora che stragi simili hanno cominciato a verificarsi con preoccupante frequenza anche nei paesi scandinavi, dove questa libertà di armarsi non esiste, questo giudizio va per forza rivisto.
Anzitutto, infatti, ciò dimostra che per fare una strage avere armi pesanti certamente aiuta, ma non è indispensabile: si possono fare moltissime vittime anche con armi leggere o addirittura senza armi, come è accaduto in alcune stragi in cui sono stati usati camion lanciati contro la folla.
È vero che finora questo sistema è stato usato solo a fini terroristici, ma nulla vieta che possa essere adottato anche da persone che vogliono uccidere per ragioni personali. Anzi, in un certo senso ciò è già accaduto, dato che le motivazioni addotte dall’autore della strage al mercatino di Natale di Magdeburgo dello scorso 19 dicembre sono molto più vicine a quelle del signor Andersson che a quelle di un terrorista tradizionale.
Questo non fa che riportarci a una verità in fondo banale, ma ormai quasi dimenticata: non sono le armi a uccidere, come molti (tra cui, ahimè, anche Papa Francesco) si ostinano a ripetere, ma le persone. Ne segue che limitare l’accesso alle armi è certamente auspicabile, ma non servirà a molto, perché chi vuole davvero fare una strage troverà sempre il modo di farla.
La seconda verità banale ma essenziale che dobbiamo ricuperare è che chi compie queste azioni è sempre mentalmente disturbato, ma raramente le sue sono tare psichiche innate: in genere si tratta di problemi causati da soprusi che la persona ritiene di aver subito. Tuttavia, la reazione è talmente sproporzionata all’offesa che evidentemente la ragione di fondo dev’essere un’altra.
Questa ragione è la disperazione, cioè l’incapacità di trovare un senso per la propria vita, che ingigantisce tutti i problemi, trasformando qualsiasi contrarietà, anche la più piccola, in un macigno da cui la persona si senta schiacciata. Perciò, se vogliamo evitare che fatti come questi si ripetano e, più in generale, limitare la violenza irrazionale, che si sta diffondendo sempre più, soprattutto fra i giovani, quello che ci serve non sono leggi più severe, bensì ridare speranza alla gente.
E questo ci porta alla terza e ultima lezione. I paesi nordici, infatti, appaiono sempre in testa alle classifiche internazionali che tentano di misurare la qualità della vita o, addirittura, la “felicità”. Eppure, da sempre hanno un numero di suicidi molto superiore alla media e negli ultimi tempi hanno anche avuto un numero di omicidi e femminicidi molto più alto del nostro. Ora che cominciano ad avere anche un numero di stragi superiore alla media, forse è il caso di mettere in discussione gli “indicatori” che vengono usati in queste indagini (che in realtà non “indicano” un bel niente) e riscoprire un’ultima banale ma essenziale verità: la felicità non si può misurare.