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A proposito del caso Khelif – Il silenzio delle femministe

7 Agosto 2024 - di Luca Ricolfi

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Credo che molti avranno seguito il caso della nostra pugile Angela Carini, che alle Olimpiadi di Parigi ha abbandonato il ring dopo 46 secondi per la durezza dei colpi ricevuti dall’algerina Imane Khelif, pugile intersessuale affetta (a quel che si è appreso) da iperandrogenismo, che comporta una iperproduzione di ormoni maschili.

La sua storia è interessante e coinvolgente, ma forse ancora più interessante è il modo con cui della vicenda si è parlato sui giornali, sui media, sui social. Intanto, colpisce il fatto che quasi tutti abbiano espresso un’opinione, nonostante nessuno di coloro che sono intervenuti pubblicamente avesse accesso alla cartella clinica dell’algerina, e quasi nessuno avesse le competenze mediche necessarie per formulare valutazioni. Colpisce ancora di più il fatto che il giudizio su una questione così delicata e complessa sia dipeso quasi interamente dai posizionamenti politico-ideologici. Gli esponenti della destra si sono mossi quasi tutti come se fosse evidente che il combattimento era iniquo. Gli esponenti della sinistra si sono mossi quasi tutti come se fosse evidente che il combattimento era equo.

Ma forse l’aspetto più istruttivo di questa vicenda sono i problemi di coerenza logica che sono venuti a galla. Uno su tutti: la natura della distinzione maschi-femmina a livello biologico. Su questo fra gli ideologi della teoria gender coesistono due
posizioni difficilmente conciliabili: da un lato si sostiene che il sesso è un costrutto sociale, e che maschio e femmina sono solo due poli fra i quali esistono infinite gradazioni intermedie, di cui le persone intersessuali sono testimonianza vivente; dall’altro si afferma in modo categorico che la pugile Imane Khelif è una donna, e quindi può senz’altro gareggiare nelle competizioni femminili.

Ma le due affermazioni sono logicamente incompatibili. Se davvero il sesso è un continuum (come l’altezza o il peso), allora è inevitabile dedurne che per trasformare questo continuum in un attributo dicotomico (maschio/femmina) occorrono delle
procedure di misurazione e delle soglie. La questione non è più se Khelif sia o no una donna, ma se si avvicini a sufficienza al polo femminile per essere ammessa in una competizione femminile. E si noti che, se si accetta la teoria del continuum, allora –
in linea di principio – al medesimo test dovrebbero essere sottoposti anche i maschi. Se ad esempio l’unico criterio fosse il testosterone, dovremmo assicurarci che le concorrenti nelle gare femminili non ne abbiano troppo, ma anche che i concorrenti a
quelle maschili ne abbiano a sufficienza.

Come si vede, accettare il principio che il sesso biologico non esiste e che esistono innumerevoli stati intermedi pone più problemi di quanti ne risolva. Sfortunatamente, però, non esistono scorciatoie. Nel momento in cui il peso demografico delle persone
transessuali aumenta, e si prende coscienza dell’esistenza di persone intersessuali, è inevitabile che si ponga il problema dei criteri di inclusione.

Il punto, però, è che questo problema si pone solo su un versante del continuum. Nessun intersessuale e nessun transessuale FtM (maschio transito a femmina) chiede di gareggiare con i maschi. Quindi, di fatto, il problema riguarda solo il lato donne.
Sono le donne-donne, il cui sesso biologico è inequivocabilmente femminile, che pagano il prezzo dell’inclusione. Criteri troppo laschi di ammissione alle competizioni femminili violano il principio sportivo della equità delle gare. Ma criteri
troppo stretti entrano in conflitto con l’ideale dell’inclusione, che ha potentemente informato le Olimpiadi di Parigi.

Come se ne esce?

Secondo la sinistra ideologica e buona parte della lobby LGBT+, l’inclusione è molto più importante dell’equità della gara, e le donne-donne dovranno farsene una ragione. Secondo la destra, la cosa più importante è l’equità della gara, e sono transessuali e intersessuali che dovranno farsene una ragione. In mezzo, per fortuna, ci sono anche posizioni ragionevoli, come quelle di Paola
Concia (ex deputata Pd e attivista LGBT) che, in un’intervista rilasciata nei giorni delle Olimpiadi, deplora che i criteri di ammissione cambino a seconda dei comitati e delle federazioni sportive, e paragona l’eccesso di testosterone al doping, usato in passato dalle atlete sovietiche. E infine conclude: “non è possibile, sull’altare del politicamente corretto e dell’inclusione, sacrificare le donne. Perché poi, alla fine, quelle danneggiate sono le donne. Io dico: va bene, tutto sta cambiando, ci sono casi nuovi, persone trans, intersex, in transizione, ma troviamo un modo per cui alla fine non ci rimettano le donne”.

Già, le donne. È proprio questa la nota dolente. Di fronte alla vicenda delle due pugili, le principali organizzazioni femministe italiane – Se non ora quando e Non Una di Meno – hanno scelto il silenzio. Nessuna dichiarazione, nessuna intervista,
nessun messaggio su internet. Né sostegno a Khelif, né sostegno a Carini, né solidarietà a entrambe.

Come mai?

Forse è stato solo un segno di rispetto. Ma forse è la presa d’atto che, sempre più spesso, inclusione significa invasione degli spazi delle donne: una deriva che piace a poche, ma di cui quasi nessuna trova il coraggio di parlare.

[articolo uscito sulla Ragione il 5 agosto 2024]

A proposito dell’Ultima Cena – Libertà di espressione e indottrinamento

31 Luglio 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Ha suscitato un certo scalpore l’idea degli organizzatori delle Olimpiadi parigine di educarci “alla diversità e all’inclusione” allestendo una parodia dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, con sfilata di drag queen e una (alquanto volgare) esibizione di
un attore nella parte di Dioniso, dio pagano del vino, della festa e della trasgressione.

La cosa ha ovviamente turbato una parte del mondo cristiano, suscitato le ire della destra tradizionalista, nonché attivato varie difese di ufficio da parte progressista. La cosa più divertente, però, sono state le giustificazioni degli organizzatori, e in
particolare del direttore artistico Thomas Jolly.

In un primo tempo, la risposta alle critiche è stata che il messaggio dello spettacolo di ballerine e drag queen era che “in Francia abbiamo diritto di amarci come vogliamo e con chi vogliamo”, un chiaro riferimento al mondo LGBTQ+. Nessuno ha messo in
dubbio che l’esibizione parodiasse l’Ultima Cena, mostrando Gesù e gli apostoli in abiti femminili e piuttosto discinti. Anzi non pochi hanno cominciato a tirare in ballo la libertà artistica, paragonando il caso a quello tragicamente celebre delle caricature
di Maometto pubblicate su Charlie Hebdo, che nel 2015 erano costate la vita a 12 persone, fra cui 4 vignettisti.

Passano 48 ore e, improvvisamente, la versione cambia. Anziché rivendicare la libertà artistica e i diritti LGBT, gli organizzatori fanno una clamorosa quanto tardiva marcia indietro. Il direttore artistico dice che no, è stato tutto un equivoco, lo spettacolo non alludeva all’Ultima Cena, in realtà l’idea era solo di mettere in scena “una grande festa pagana, legata agli dei dell’Olimpo”. E la direttrice della comunicazione, per mettere fine alle polemiche, taglia corto e dichiara: “Se qualcuno è stato offeso, noi ce ne scusiamo”.

L’intera vicenda è estremamente istruttiva, perché consente di mettere in evidenza due clamorose falle logiche del politicamente corretto.

La prima falla è che se, in nome dell’arte o del diritto di critica, teorizzi la libertà di canzonare le religioni, allora non puoi farlo con certe religioni (il cristianesimo) e autocensurarti con altre (l’Islam). Da questo punto di vista, sono stati più coerenti i
vignettisti di Charlie Hebdo, che hanno avuto il coraggio di infrangere il tabù che in occidente protegge l’Islam.

La seconda falla logica è che alcuni dei principi generali della wokeness sono reciprocamente incompatibili. L’idea di poter parodiare una religione senza offenderne i fedeli è chiaramente contraddittoria. Analogamente, se in nome dei diritti di alcune minoranze sessuali ne metti in scena le manifestazioni più controverse e divisive, non puoi – contemporaneamente – sostenere che la comunicazione deve essere inclusiva e non offendere nessuno. Il caso paradigmatico, in proposito, sono i vari Pride e pseudo-Pride, che sono certamente più che legittimi, ma palesemente poco inclusivi. Il problema logico è che si vogliono far coesistere due principi incompatibili: il diritto di alcuni di manifestare sé stessi in totale libertà, e il diritto di altri di non venirne offesi.

Come se ne esce?

A mio parere il nodo fondamentale è di tipo per così dire tecnologico: dobbiamo classificare i messaggi in base al supporto comunicativo, skippabile o non skippabile, su cui usano viaggiare.

Un supporto è skippabile, se permette di sottrarsi al messaggio senza costi significativi. Ad esempio, se sono musulmano posso non andare in edicola a comprare il settimanale Charlie Hebdo. Se sono un po’ bigotto, posso non andare a vedere il gay Pride. Se ho un minimo di buon gusto, posso non guardare programmi tv come Il grande fratello, L’isola dei famosi, o Temptation Island. Se m disturba la pornografia, posso evitare certi siti, certi canali, certi film.

Un supporto, invece, è non skippabile, se per sottrarsi a un messaggio indesiderato mi costringe a rinunciare ad altri messaggi, che invece mi interessano. Tipici esempi le Olimpiadi, il festival di Sanremo, il concertone del 1° maggio, eventi che la gente segue per guardare le gare di atletica e ascoltare le esibizioni, ma che sempre più spesso contengono anche messaggi “pedagogici” che una parte del pubblico può non gradire, o da cui può sentirsi offeso, turbato, o indebitamente indottrinato. Lo stesso discorso, su scala molto minore, vale per i numerosi pop-up che ci balzano addosso mentre leggiamo un articolo o navighiamo in un sito.

Ebbene, se si usa la distinzione fra messaggi skippabili e non skippabili diventa chiaro perché il parallelo fra le caricature di Maometto su Charlie Hebdo e la parodia del cristianesimo alle Olimpiadi parigine non regge. Le vignette su Maometto erano skippabili, anche se potenzialmente virali. La parodia del Cristianesimo era non skippabile perché parte integrante dello spettacolo in cui era stata impiantata. Non solo, ma quella parodia, a differenza delle vignette di Charlie Hebdo, aveva un chiaro intento pedagogico, di indottrinamento e di cosiddetta sensibilizzazione.

È questa la scorrettezza, la mossa subdola cui le direzioni artistiche non riescono più a sottrarsi: approfittare di un grande evento, come possono essere le Olimpiadi o il Festival di Sanremo, per imporre a tutti un messaggio di parte, che finge di voler includere ma offende chi non lo condivide.

[articolo uscito sulla Ragione il 30 luglio 2024]

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