Rubrica A4 – Crisi della democrazia e retoriche moraliste

Si sprecano le analisi—o meglio sarebbe dire le lamentationes—sulla crisi della democrazia ma raramente ne vengono individuate le cause reali. La mentalità illuministica, ormai divenuta per gli europei e gli occidentali, una seconda natura–specie dopo la sconfitta del totalitarismo nazifascista che si richiamava al culto irrazionale delle radici–non riesce a darsi pace dinanzi allo spettacolo di antichi paesi civili e democratici lacerati da incompatibili visioni del mondo, della politica e dell’etica. L’intolleranza, la violenza non solo verbale, la trasformazione sistematica dell’avversario in nemico, la gogna, non solo mediatica ,per chi non la pensa come noi, vengono ascritte a una malattia morale che non si sa bene cosa sia ma che si pensa di curare recuperando il rispetto dell’altro, la buona vocazione, la disponibilità al dialogo. Tutto ciò fa pensare a certi vecchi articoli del Reader’s Digest in cui si consigliava ai depressi di pensare che la vita è bella e il mondo pieno di attrattive.

In realtà, l’Occidente ha contratto la quartana in seguito allo svuotamento simbolico e ideale della comunità politica—di cui lo stato nazionale è stato l’ultima incarnazione istituzionale. Se non ci si sente più parte di una ‘grande famiglia’, gli interessi e i valori che contrappongono individui e classi sociali inducono a chiedersi: ma perché debbo convivere con chi sente, pensa diversamente da noi e si batte per cause che non condividiamo? E’ solo all’interno della dimensione Gemeinschaft (famiglia, patria) che il ‘legame di parentela’ può diventare più forte delle differenti (e spesso non condivise) scelte di vita.
Beninteso, nell’idea di nazione non sono iscritte né la libertà, né la democrazia, né il rispetto dei diritti umani—il nazionalismo sarà pure la pecora nera ma appartiene allo stesso genus della nazione. I suoi critici implacabili hanno ragione nel farlo rilevare anche se poi , come gli apologeti, restano sul piano dei giudizi di valore (per loro è un male ciò che per gli altri è un bene). La verità è che la nazione è una risorsa oggettiva come l’ambiente, l’economia, l’alfabetizzazione, l’apparato militare etc.:è una sorta di conto in banca al quale possono attingere i governi quando dalla società civile debbono estrarre troppe risorse.

Sentirsi parte di un tutto ed essere pronti a sacrificargli tempo, denaro e persino la vita significa mettere a disposizione dei governi—per quelli democratici e liberali come per gli autoritari e dittatoriali— una risorsa incalcolabile. È un’arma spirituale che, allo stesso modo delle armi materiali in dotazione agli eserciti, può impiegarsi a qualsiasi scopo. I soldati giapponesi ,che continuarono a combattere senza sapere che la guerra era finita, appartengono a un’altra species rispetto all’esercito di Franceschiello, pronto a squagliarsi davanti a un migliaio di camice rosse. Gli abiti di obbedienza e di fedeltà che ci ha mostrato il grande film di Clint Eastwood, Lettere da Iwo Jima, resero implacabile la macchina da guerra del Mikado ma, nel dopoguerra,
(proprio come in Germania) servirono a ricostruire un paese devastato e a farne una delle potenze industriali del pianeta. Come tutte le armi, la risorsa nazione può essere impiegata nel bene come nel male ma pensare che il suo tramonto renda il mondo migliore è una pia illusione. Il suo tramonto renderà solo meno governabili gli Stati dai quali dipendono i destini del pianeta.

Forse sarebbe il caso di meditare sulla lezione del più grande scienziato politico del suo tempo, Samuel P. Huntington, sulla perdita del ‘credo americano’.




Rubrica A4 – Crisi della nazione e wokismo

La cancel culture, il wokismo (l’<ideologia che esorta a stare all’erta verso tutti quei comportamenti discriminatori nei confronti delle minoranze, di qualsiasi genere esse siano>), i cortei a sostegno di Hamas, le Università dei ricchi americani che gettano fango sull’Occidente e sui suoi valori hanno ispirato miriadi di commenti non soltanto ai soliti columnists e Catoni in s.p.e. ma, altresì, a studiosi della più varia estrazione—archeologi, scienziati, teologi—che, sconvolti dalle guerre che si combattono oggi in Medio Oriente e in Ucraina, non hanno mancato di far sentire la loro voce accorata e sgomenta. Qualcuno, Federico Rampini sul ‘Corriere della Sera’, ha ricordato ai giovani contestatori, per i quali essere ricchi è una colpa, che “senza la nostra Rivoluzione industriale, quella cosa orribile che ha insozzato il pianeta, oggi non sarebbero vivi tre miliardi di cinesi e indiani, o un miliardo e mezzo di africani: è la nostra agricoltura moderna a base di fertilizzanti e macchinari a consentire la loro alimentazione; è la nostra medicina ad avere ridotto la mortalità e allungato la longevità”. Sono rilievi giusti ma scontati e che, a ben riflettere, non
spiegano per quale motivo l’universalismo illuminista—di questo invero si tratta, del sentimento della radicale unità del genere umano che porta a condannare ogni tipo di violenza nei confronti di quanti sono titolari di inalienabili ‘diritti umani’—si stia rovesciando, come una valanga, sulla nostra civiltà, che delle sue radici, l’eredità greco-romana, il cristianesimo, i Lumi, sembra fedele solo alla terza.

A mio avviso, sfugge il nesso tra il declino dell’idea di nazione e la messa sotto accusa dell’Occidente e ciò in virtù della demonizzazione che si continua a fare dell’appartenenza a una comunità politica, riguardata come privilegio, esclusione, discriminazione. In realtà, la nazione, come la famiglia, è una ‘comunità di destino’: può essere buona o cattiva ma è l’unico tramite che, quando è buona, ci lega per empatia agli altri. Ripudiarla per le pagine nere della sua storia comporta il pericolo di smarrire il senso delle pagine luminose che pure ha scritto.

La cultura woke è quella di individui cosmopoliti che non sono persone, segnate da appartenenze e tradizioni, ma fondamentalisti del mondialismo, incapaci di riconoscere le luci e le ombre che caratterizzano ogni istituzione, dalla Famiglia allo Stato. Non è casuale che nei paesi in cui è ancora sentito il legame patriottico la storia non venga messa sotto accusa, a meno che non sia quella degli altri segnata da violenza e da ipocrisia—consistente, quest’ultima, nel richiamarsi a idealità che poi vengono calpestate. Le conquiste civili sono sempre conquiste di uno stato, di un popolo, di una nazione particolare. L’Uomo, che l’immortale de Maistre diceva di non aver incontrato da nessuna parte, non crea nulla, anche se viene ogni volta arricchito da ciò che gli uomini in carne e ossa hanno di volta in volta prodotto.