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Migranti, l’esperimento Albania

8 Giugno 2024 - di Luca Ricolfi

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Difficile, dopo lo scontro in Albania fra Giorgia Meloni e il segretario di +Europa, discutere di migranti in modo pacato, senza troppa ideologia. Eppure dobbiamo farlo, se non vogliamo che questo problema, nei prossimi anni, finisca per concentrare su di
sé tutta l’attenzione della politica, a scapito dei tanti problemi che affliggono il paese, dai bassi salari alle liste di attesa in ospedale, dai morti sul lavoro alla mancanza di asili nido, dal declino della scuola al modesto tasso di occupazione delle donne.

Intanto, vale forse la pena sottolineare che quello dei migranti è un problema irrisolto non solo sul versante dell’immigrazione irregolare, ma anche su quello dei flussi regolari. È di pochi giorni fa la scoperta di enormi squilibri, specie in alcune regioni
del Sud, fra il numero di contratti di lavoro nominali (connessi ai decreti flussi) e il numero di posti di lavoro effettivamente attivati. Tutto fa pensare che anche i flussi regolari nascondano un ingente traffico di falsi contratti di lavoro, verosimilmente
gestiti dalla criminalità organizzata. Forse è venuto il momento di chiedersi se, oltre a intensificare i controlli, non sia il caso – dopo oltre vent’anni – di porre mano alla legge Bossi-Fini, che come si sa si fonda sulla finzione che il lavoratore che emigra
abbia già – in Italia – un datore di lavoro che lo attende.

Se dai flussi regolari ci volgiamo a quelli irregolari, e in particolare agli sbarchi sulle nostre coste, il dato che non possiamo ignorare è che nessuna fra le politiche adottate fin qui dall’Italia è stata capace di risolvere il problema. Fermare le partenze nei paesi di origine, una politica perseguita in epoche diverse da Berlusconi e da Minniti, si scontra con la instabilità dei governi che dovrebbero bloccare i flussi all’origine, ma anche con la difficoltà di neutralizzare i trafficanti e garantire il rispetto dei diritti
umani nei paesi di partenza. Ma non meno problematica è l’altra linea di condotta, per lo più sponsorizzata dalla sinistra e dai vertici dell’Unione Europea, e che punta sulla cosiddetta redistribuzione (di fatto: dall’Italia agli altri paesi). Contrariamente a
quanto si sente spesso lamentare, quel tipo di politica non è fallita solo per un deficit di solidarietà, imputabile anzitutto all’Ungheria del “cattivo” Orban, ma perché il meccanismo della redistribuzione è intrinsecamente poco efficace, dal momento che non è obbligatorio, e comunque coinvolge solo una modestissima frazione degli sbarcati.

Rispetto a queste due strategie classiche – fermare alla partenza e redistribuire – l’accordo con l’Albania si presenta come un terzo modello di gestione dei flussi irregolari. L’idea è di deviare una parte dei soccorsi in mare verso un paese extra-Ue,
e di espletare lì le pratiche di identificazione e valutazione della domanda di asilo. I vantaggi, rispetto ai due modelli storici, sono principalmente due: primo, si evita la dispersione sul territorio italiano di migranti irregolari, che non hanno diritto all’asilo
e rischiano di entrare in circuiti illegali; secondo, si introduce (o si spera di introdurre) un elemento di deterrenza e freno alle partenze.

Solo il tempo potrà dirci se il modello Albania funzionerà, se i benefici per l’Italia supereranno i costi, e se i diritti dei migranti saranno adeguatamente tutelati. Nel frattempo, è forse il caso di prendere atto che ben 14 paesi dell’Unione europea hanno manifestato interesse per l’idea di coinvolgere paesi extra-Ue, come l’Albania, nella gestione dei flussi migratori. Può darsi che questo inatteso interesse per il modello italiano sia strumentale, ossia dettato da ragioni elettorali: alla vigilia del voto europeo tutti i partiti, che siano al governo o siano all’opposizione, hanno bisogno di dire all’opinione pubblica che non hanno rimosso il problema dell’immigrazione.

Resta il fatto che, sul tema degli ingressi irregolari in Europa, le alternative in campo o sono troppo radicali, come le deportazioni in Ruanda ventilate tempo fa dalla Danimarca, o sono troppo blande, come la mera riproposizione dei recenti, traballanti, accordi di redistribuzione.

In breve, il modello Albania è l’unica idea nuova in campo. Ma più che un’idea, è un esperimento, che subirà molti aggiustamenti, e di cui per ora nessuno è in grado di prevedere accuratamente l’esito. Ecco perché, schierarsi a priori a favore o contro, è irrazionale: di fronte agli esperimenti, l’unico atteggiamento razionale è la curiosità.

[articolo uscito sul Messaggero il 7 giugno 2024]

Aiutarli a casa loro? – Perché non basta un piano Mattei

25 Settembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Chi sono i migranti che sbarcano sulle nostre coste?

Nessuno lo sa con ragionevole precisione, perché su tutto si fanno sondaggi “scientifici” tranne che su chi arriva in Italia dal mare. Certo, di norma sappiamo il paese di provenienza, il sesso, l’età (o meglio l’età dichiarata), ma su tutto il resto siamo costretti a barcamenarci con frammenti di informazione, o a lavorare di fantasia.

È così che si è formata, in parte dell’opinione pubblica, nei media, nel mondo della Chiesa, fra gli scrittori, gli studiosi, gli artisti, un’immagine stereotipata dei migranti, dipinti come disperati, poveri, perseguitati, “costretti a lasciare la propria terra a causa di conflitti armati, di attacchi terroristici, di carestie, di regimi oppressivi” (parole di Papa Francesco).

Va subito detto che una parte dei migranti sono proprio così. Ed è per questo che esiste il diritto d’asilo, e una frazione dei migranti, dopo aver fatto domanda, ottiene lo status di rifugiato, o altre forme di protezione (come quella sussidiaria e quella umanitaria). Ma la domanda è: quanti sono i migranti che corrispondono allo stereotipo?

I dati frammentari di cui disponiamo suggeriscono che siano una minoranza. Vediamo perché. Innanzitutto, le domande di asilo accettate: il loro numero varia considerevolmente nel tempo, ma non ha mai raggiunto il 20%, e in molti anni è stato inferiore al 10%. Anche includendo le forme di protezione più deboli, come quella sussidiaria e quella umanitaria, si resta abbondantemente sotto il 50%. Oggi oltre il 60% dei migranti non ha diritto ad alcuna forma di protezione, e cade quindi nello status di irregolare.

Si potrebbe ipotizzare, nondimeno, che a migrare siano soprattutto gli ultimi, sospinti dalla povertà e dalla fame. Ma anche questo è incompatibile con i dati. Che mostrano invece come una frazione considerevole dei migranti sia costituita da persone che, nel loro paese, appartenevano al ceto medio. Per rendersene conto, basta confrontare il livello medio di istruzione degli immigrati approdati in Italia con quello, enormemente più basso, dei loro connazionali nei paesi di provenienza. Oppure riflettere sul costo del viaggio. Spesso ce ne dimentichiamo, ma il “biglietto di viaggio” che i trafficanti di uomini fanno pagare ai migranti (3-4-5 mila euro) è certo alto per i nostri parametri occidentali, ma è mostruosamente esoso per chi vive in paesi il cui Pil procapite è 5, 10, 20 volte più basso del nostro: chiedere 5 mila euro a un cittadino tunisino, è come chiederne 50 mila a un italiano. Inevitabile porsi la domanda: con questi prezzi, come si fa a pensare che a migrare siano soprattutto i più poveri e disperati?

Il fatto che una parte considerevole dei migranti siano migranti economici, che nei loro paesi appartengono al ceto medio e partono perché aspirano a una vita più libera e meno disagiata, è importante per due motivi, entrambi inquietanti. Il primo è che così le migrazioni tendono a depauperare l’Africa delle sue risorse umane migliori, un po’ come succede all’Italia con il flusso di laureati e diplomati verso paesi più ricchi e meritocratici. Il rischio è che iniziative pur lodevoli, come il piano Mattei, stentino a decollare perché i migliori e più intraprendenti sono già andati via, mentre quelli rimasti continuano a sognare il trasferimento in Europa, quali che siano i progressi – inevitabilmente lenti – delle società di origine.

Il secondo motivo di preoccupazione ha a che fare con il sistema di incentivi alla migrazione. Se è vero che il motore principale del flusso di migranti verso l’Europa  non è la spinta della povertà (del paese d’origine) ma l’attrazione per la ricchezza (del paese d’arrivo), allora non possiamo non vedere che la domanda di ingresso in Europa sarà sempre più elevata, molto più elevata, della disponibilità di posti. E che l’apertura di canali regolari, con conseguente crollo del biglietto di ingresso in Europa, non potrà che ampliare a dismisura lo squilibrio fra domanda e offerta.

Di qui una conclusione amara, ma difficile da evitare: il piano Mattei è un’ottima cosa, ma pensare che “aiutarli a casa loro” possa essere la soluzione è una ingenuità che l’Europa non si può permettere. Forse è giunto il momento di prenderne atto: esistono anche problemi che non hanno soluzione. Conciliare il diritto di chiunque di cambiare paese è incompatibile con il diritto dei popoli di scegliere chi accogliere. Per questo, chiunque governi e qualsiasi cosa faccia, sentiremo sempre che qualcosa di importante è andato perduto.

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