La verità sulla crescita dell’occupazione in Italia

Luca Ricolfi  sul «Messaggero» di oggi riconosce che il numero totale di occupati in Italia ha avuto una crescita importante dal 2013 al 2016. Ma, per provare la sua tesi che non è detto che il Jobs Act abbia avuto rilevanti effetti positivi, egli aggiunge che il numero totale di occupati in Italia è cresciuto assai meno che negli altri grandi Paesi europei. La conclusione di Ricolfi è ingannevole: non perché dice una cosa falsa, ma perché racconta solo una parte della verità. Ciò è facilmente dimostrabile affidandoci ai dati ufficiali Eurostat.

Il numero totale di occupati, tra il 2013 e il 2016, è cresciuto del 2% in Italia, 1,3% in Francia, 6,3% Spagna, 3,1% Germania, 5,6% Regno Unito. Quindi è vero: l’occupazione da noi è cresciuta meno che altrove. Ma se si vuol tracciare una valutazione seria degli effetti delle riforme del lavoro realizzate nel nostro Paese, non è corretto fornire solo questo dato. Questo dato va paragonato a quanto è cresciuto il pil reale dei vari Paesi nel periodo considerato: tra il 2013 e il 2016 il pil reale è salito del 2,1% in Italia, 3,2% Francia, 8,3% Spagna, 5,7% Germania, 7,4% Regno Unito.

Confrontando queste due serie di dati, emerge chiaramente un fatto di non poco conto: l’Italia è di gran lunga, tra i grandi Paesi europei, quello col miglior rapporto tra crescita del pil reale e crescita dell’occupazione. In altri termini, il “contenuto occupazionale della crescita” è stato da noi più alto che negli altri Paesi esaminati. Perché è stato più alto? Perché, è evidente, le riforme del mercato del lavoro fatte hanno dato risultati significativi, pur in presenza di una crescita del pil ancora contenuta.

Certo, siamo ancora indietro, specialmente per quanto riguarda la crescita (su cui pesano fortemente l’elevato debito pubblico e l’alto carico fiscale che di esso è conseguenza) e il tasso di occupazione giovanile (da noi è il 60%, in Francia 75%, Spagna 68%, Germania 80%, Regno Unito 82%). Pertanto è indubbio che resta tantissimo da fare. Ma, se si vuol dare un giudizio equo sulle riforme del lavoro degli ultimi anni, l’andamento del contenuto occupazionale della crescita è una variabile da cui non si può prescindere.

La risposta di Luca Ricolfi all’Onorevole Parrini

Grazie, innanzitutto, per le sue riflessioni, sicuramente utili per arricchire la discussione sul mercato del lavoro.

Lei ha perfettamente ragione a sottolineare che non conta solo quanti posti di lavoro nuovi si formano, ma anche quanto è grande il loro “contenuto occupazionale”. Da questo punto di vista l’Italia ha fatto meglio di quasi tutti gli altri paesi europei: solo la Grecia ha fatto ancora meglio di noi.

La Grecia?

Sì, proprio la Grecia. Questo dovrebbe fare riflettere sul significato dell’indicatore che lei propone di utilizzare. Il numero di posti di lavoro (o di ore lavorate) per unità di Pil, infatti, non è altro che l’inverso della produttività del sistema-paese. Un paese che aumenta il “contenuto occupazionale” del Pil sta semplicemente riducendo la sua produttività.

        Fonte: elaborazioni FDH su dati Oecd

Come si può vedere dal grafico qui sopra, l’intensità di lavoro e la produttività del lavoro sono semplicemente le due facce, speculari ed entrambe veritiere, della medesima medaglia: se aumenta l’una non può che diminuire l’altra, e viceversa.

Naturalmente possiamo discutere (è una vecchia ma sempre attuale controversia) se sia meglio una crescita ad alto o a basso contenuto di occupazione, ma il problema, a mio parere, si pone in modo effettivo solo per i paesi che, avendo una crescita della produttività elevata (o quantomeno vicina alla media degli altri paesi), possono scegliere se puntare le loro carte su politiche di sostegno dell’occupazione o su politiche che promuovano la competitività sui mercati internazionali.

La mia opinione è che, sfortunatamente, l’Italia non possa permettersi di scegliere: siamo, insieme al Belgio, l’unico paese avanzato la cui produttività ristagna da vent’anni.  E questo è, insieme a quello del debito pubblico, uno dei problemi capitali del sistema-Italia. Ecco perché, pur rallegrandoci dei nuovi posti di lavoro, non possiamo considerare una buona notizia il fatto che la dinamica dell’occupazione ecceda quella del Pil.

La buona notizia sarebbe che, pur crescendo i posti di lavoro a un ritmo soddisfacente, il Pil crescesse a un ritmo ancora maggiore, rafforzando la nostra competitività.

 

 

 




Mercato del lavoro, l’eredità della crisi

Come spesso succede nei divorzi fra coniugi, anche nell’imminente, e a quanto pare ineluttabile, divorzio fra il Pd e le tre sigle della Sinistra Purosangue (Mdp, Si, Possibile), le ragioni vere, le ragioni ultime della separazione, non si conoscono con certezza: antipatie personali? disaccordi sulla suddivisione dei seggi in Parlamento? dissensi politici sui programmi?

Una cosa però la sappiamo con sicurezza: le ragioni dichiarate, quelle che riempiono i telegiornali e le pagine dei quotidiani, vertono essenzialmente sul mercato del lavoro. La Sinistra Purosangue attacca frontalmente le politiche occupazionali di questi anni, a partire dal Jobs Act; il Pd non solo non si sogna di rinnegare quelle politiche, ma attribuisce ad esse il merito di aver creato un milione di posti di lavoro.

Temo che nessuna di queste due posizioni regga a un’analisi fredda. Tuttavia penso che vi sia un’asimmetria: il punto debole della Sinistra Purosangue sono le proposte, quasi tutte penalizzanti per le imprese e melanconicamente ispirate a un mondo che non c’è più; il punto debole della sinistra riformista, invece, è la descrizione, il racconto di questi anni. Un racconto che, con il comprensibile obiettivo di difendere quel che si è fatto, rischia di non vedere né quel che realmente è accaduto, né quel che si sarebbe potuto fare, di più e di meglio.

Che cosa è accaduto, fra il 2014 e oggi?

Sì, è vero, i posti di lavoro dipendente sono aumentati di circa 1 milione. Ma questo non prova che ciò sia avvenuto grazie alle politiche del governo: senza un’analisi statistica accurata, che al momento manca (e probabilmente è inattuabile, con i dati di cui si dispone), si potrebbe altrettanto bene sostenere che il merito è della ripresa dell’economia europea, che a sua volta sarebbe merito della Bce e del Quantitative Easing. Giusto qualche giorno fa Draghi è sembrato dire proprio questo, quando ha messo in relazione la politica monetaria e i 7 milioni di nuovi posti di lavoro creati nell’Eurozona negli ultimi 4 anni.  E se proprio volessimo farci un’idea, rozza e approssimativa, degli eventuali meriti delle politiche attuate in Italia, quel che dovremmo fare non è certo confrontare gli ultimi quattro anni (di lenta ripresa) con i precedenti quattro (di crisi profonda), ma semmai chiederci come è andata nel resto d’Europa. Ebbene, se lo facciamo, il risultato è desolante: fra il 2013 e il 2016 gli occupati sono cresciuti del 2.2% in Italia, ma del 3.8% (quasi il doppio) in Europa. A fronte del +2.2% dell’Italia, la Francia ha fatto +2.7, la Germania +3.9%, il Regno Unito +5.2, la Spagna: +6.9. Solo 8 paesi (fra cui Grecia e Cipro) hanno fatto peggio di noi, mentre ben 24 su 33 hanno fatto meglio.

Fonte dati Eurostat-Elaborazioni Fondazione David Hume

Se poi andiamo a vedere la composizione di questi nuovi posti di lavoro, il quadro si fa ancora più allarmante. Il tasso di occupazione precaria era all’11% a metà degli anni ’90, è cresciuto di un paio di punti nel ventennio successivo, ma poi, in soli tre anni, fra il 2014 e il 2017, ha fatto un ulteriore balzo di altri 2 punti: oggi è al massimo storico, oltre la soglia del 15%. E questo record si mantiene anche se teniamo conto della riduzione del numero delle collaborazioni, ossia del tipo di contratti che il Jobs Act e la decontribuzione si preoccupavano di disincentivare.

Fonte dati ISTAT-Elaborazioni Fondazione David Hume

Questo dato sembra contrastare con le cifre che vengono spesso presentate a difesa delle politiche di questi anni, cifre da cui risulta che l’incremento di posti di lavoro è equidistribuito: mezzo milione di posti di lavoro permanenti (stabili), mezzo milione di posti di lavoro temporanei (precari). Ma è una trappola statistica, e non è un buon argomento a favore delle politiche che si vogliono difendere. La realtà è che il tasso di occupazione precaria in Italia, anche dopo i record negativi macinati nel triennio 2015-2016-2017, resta relativamente contenuto: il 15% è più o meno la media europea, un dato analogo a quello della Germania, e migliore di quelli di Francia e Spagna.

Fonte dati Eurostat-Elaborazioni Fondazione David Hume

Ma un paese che ha “solo” il 15% di lavoratori a termine, se vuole evitare che il tasso di precarietà salga, è costretto ad assumere a tempo indeterminato almeno l’85% dei nuovi dipendenti. Se ne assume a tempo indeterminato solo il 50%, inevitabilmente registrerà un aumento del tasso di occupazione precaria. Ecco perché hanno ragione sia quanti si rallegrano che metà dei nuovi posti di lavoro siano stabili, sia quanti deplorano che il tasso di precarietà sia in continua ascesa.

Parlando di record negativi, ce n’è purtroppo anche un altro che abbiamo conquistato in questi anni: nel 2016 l’Italia è diventata il paese con il tasso occupazione giovanile più basso d’Europa. E’ vero che è da molti anni che siamo agli ultimi posti, ma non era mai successo che fossimo il fanalino di coda.

Fonte dati Eurostat-Elaborazioni Fondazione David Hume

Quanto al tasso di occupazione complessivo, nonostante i progressi degli ultimi anni, siamo ancora al di sotto dei livelli pre-crisi, ma anche qui è importante distinguere: il tasso di occupazione degli italiani è ancora sotto di un punto, quello degli stranieri di quasi 10. E questo non perché gli stranieri abbiano conquistato più posti degli italiani, ma per la ragione opposta: nel decennio della crisi gli italiani hanno perso più di 1 milione di posti di lavoro, gli stranieri ne hanno conquistati quasi 800 mila, ma il loro tasso di occupazione è crollato lo stesso perché l’afflusso di stranieri è stato eccessivo rispetto alle capacità di assorbimento del mercato del lavoro.

Fonte dati Istat-Elaborazioni Fondazione David Hume

Qual è il bilancio, dunque?

Se proviamo a sgombrare il campo dalle controversie ideologiche mi pare piuttosto semplice. In questi ultimi quattro anni, sul versante del lavoro, le cose sono andate meglio di prima, ma peggio che nella maggior parte degli altri paesi europei. Ed è normale che sia così, perché noi non abbiamo ancora risolto il problema del debito pubblico (che anzi si è un po’ aggravato), né rimosso le grandi strozzature, tasse e burocrazia innanzitutto, che impediscono al Pil di crescere a un ritmo sufficiente. Possiamo fare tutte le leggi che vogliamo per regolare o deregolare il mercato del lavoro, ma il problema di fondo resta sempre quello: se il Pil non cresce almeno a un ritmo del 2-3% l’anno, è impossibile garantire sia un flusso cospicuo di nuovi posti di lavoro, unico modo sano di dare un po’ di ossigeno alle famiglie, sia un aumento della produttività, unico modo per essere competitivi sui mercati internazionali. Anche il problema del tasso di precarietà dipende in modo cruciale dalla dinamica del Pil: finché il Pil ristagna, o cresce poco, è normale che le imprese temano che la domanda che oggi c’è domani non ci sia più, e si cautelino con i contratti a termine. Pensare che il trend si possa invertire aumentando i vincoli e i costi delle imprese è semplicemente ingenuo.

Questo, mettere le imprese in grado di creare posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, è il nodo vero. Ma è un nodo che, in quanto passa per una significativa riduzione del debito pubblico, nessuna forza politica è in grado di affrontare sul serio.

Pubblicato su Il Messaggero



Più tardi in pensione, meno posti per i giovani?

La domanda aleggia ormai da una decina d’anni, ovvero da quando ci si è resi conto che, alla lunga, il nostro sistema pensionistico non sarebbe stato in grado di erogare pensioni decenti, o perlomeno pari a quelle attuali, alla totalità dei futuri pensionati. La domanda è: siamo sicuri che mandare in pensione sempre più tardi i lavoratori anziani ancora occupati non finisca per penalizzare i giovani, che un’occupazione la cercano ma non la trovano, o la trovano solo a tempo determinato?

Il dubbio è stato sollevato più volte, specie in occasione delle riforme che hanno progressivamente spostato in avanti l’età della pensione, e l’anno agganciata in modo pressoché automatico alla speranza di vita. Un percorso che ha inciso soprattutto sulle donne lavoratrici, che hanno progressivamente perso il diritto di andare in pensione prima dei lavoratori maschi.

Ma il massimo della tensione e del dubbio si è toccato nelle ultime settimane, quando l’Istat, che l’anno scorso aveva annunciato una (lieve) riduzione della speranza di vita (registrata nel 2015), ha invece confermato la tendenza all’aumento, e che il picco, o l’anomalia, del 2015 era stata riassorbita, dando così il via libera ad uno spostamento in avanti dell’età della pensione. Dal 2019, ha annunciato il governo, fatte salve alcune eccezioni (lavori usuranti), si andrà in pensione tutti quanti, uomini e donne, all’età di  67 anni, ovvero qualche mese dopo il limite attuale. Peccato che nei medesimi giorni l’ultima rilevazione Istat sulle forze di lavoro, relativa al mese di settembre, annunciasse un calo dell’occupazione giovanile, un dato che non faceva che allungare l’elenco delle cattive notizie degli ultimi anni: l’occupazione giovanile ristagna, i nuovi posti di lavoro occupati dai giovani sono quasi sempre a termine, l’emigrazione dei giovani verso l’estero pare un fiume inarrestabile.

Ecco perché, sempre più insistentemente, ci si chiede: ma siamo sicuri che a forza di trattenere al lavoro i vecchi, non stiamo creando un “tappo” che impedisce ai giovani di entrare sul mercato del lavoro? Non sarebbe meglio lasciare andare in pensione i vecchi e fare spazio ai giovani?

Messa così, l’obiezione pare convincente. Molti economisti, tuttavia, pensano che sia un’obiezione sbagliata. In estrema sintesi, le contro-obiezioni sono tre.

Primo, nei paesi in cui si va in pensione più tardi il tasso di occupazione dei giovani non è affatto più basso che negli altri, anzi mediamente è un po’ più alto.

Secondo, se si ritarda l’innalzamento dell’età pensionabile diventerà inevitabile alzare i contributi sociali, una misura che potrebbe costare assai cara ai giovani stessi sotto forma di minore occupazione e buste paga più leggere.

Terzo, spesso i posti di lavoro lasciati liberi dagli anziani potrebbero semplicemente sparire (quante aziende hanno tutt’ora forza di lavoro in eccesso!), o non essere facilmente ricopribili da lavoratori giovani, cui spesso mancano le conoscenze e l’esperienza dei lavoratori più anziani.

La prima obiezione è molto debole, perché dimostra solo che, da qualche parte, è stato possibile dare un lavoro a tutti, vecchi e giovani. La seconda è molto forte, perché nessuno sa come tamponare la voragine che il mancato adeguamento dell’età pensionabile alla speranza di vita aprirebbe nei conti pubblici.

Ma l’obiezione veramente interessante è la terza, secondo cui anziani e giovani non sarebbero intercambiabili, in quanto dotati di competenze troppo diverse. Qui, per sapere come stanno veramente le cose, occorrerebbe una ricerca, molto approfondita e inevitabilmente più costosa delle poche indagini che finora si sono avvicinate a questa delicata questione. E’ scontato che una parte dei posti occupati da anziani in prossimità della pensione non sono occupabili da giovani, o lo sarebbero solo dopo un più o meno lungo tirocinio, ma la questione cruciale non è “se” questo sia vero, ma “quanto” lo sia. Nessuno sa se i posti di questo tipo siano, poniamo, il 20% o l’80%. Il che fa una differenza enorme.

Io tendo a pensare che siano parecchi, ma non siano la stragrande maggioranza, e che quindi un po’ di vero ci sia nell’idea che – in qualche misura – i vecchi sottraggano posti di lavoro ai giovani. E’ possibile, in altre parole, che gli economisti sopravvalutino un po’ il grado di segmentazione del mercato del lavoro, o i costi di strategie volte a rendere più comunicanti i vasi del sistema.

E’ questa, del resto, un’abitudine mentale contratta in anni e anni di battaglie per negare che gli immigrati portino via il posto di lavoro agli italiani. Anche in quel caso, nessuno sa con precisione in che misura i posti di lavoro occupati da stranieri riguardino lavori che gli italiani rifiuterebbero, o non accetterebbero alle medesime condizioni. E tuttavia colpisce quanto stereotipati siano gli esempi addotti per sostenere la tesi che i due mercati del lavoro non comunichino: muratori, braccianti impegnati nella raccolta del pomodoro, badanti, facchini, colf. Raramente si pensa, ad esempio, all’esercito dei commessi, spesso alle dipendenze di medie e grandi aziende, ai dipendenti pubblici, ai portieri di albergo, agli addetti delle pompe di benzina, ai fattorini, per non parlare dell’arcipelago delle partite Iva. Tutte posizioni abbondantemente occupate, e spesso più che meritoriamente conquistate, da lavoratori stranieri, ma non certo invise ai lavoratori italiani, specie nel Mezzogiorno.

Insomma: certe affermazioni, un po’ perentorie, sulla segmentazione del mercato del lavoro forse meriterebbero qualche analisi empirica in più. Quando si parla di vecchi e di giovani, ma anche quando si parla di italiani e di stranieri.

Pubblicato sul numero di Panorama del 9 novembre 2017



I giovani: futuri pensionati poveri? Intanto facciamoli lavorare

Il futuro dei giovani preoccupa molto gli adulti, forse ancora di più dei giovani stessi, a giudicare dalle sempre più frequenti esternazioni in materia. Curiosamente, però, le preoccupazioni degli adulti che, a vario titolo, si occupano di giovani, più che sul presente dei giovani, fatto di precariato e mancanza di lavoro, si concentrano sul loro futuro remoto: sui giovani non in quanto oggi giovani, ma in quanto dopodomani pensionati poveri. I giovani di oggi, si dice, alla fine della carriera lavorativa finiranno per percepire pensioni da fame e, complice il probabile innalzamento dell’età pensionabile, saranno costretti ad andare in pensione a un’età molto avanzata. Il nostro sistema pensionistico, infatti, prevede che l’aumento della speranza di vita trascini con sé un aumento dell’età dopo la quale si matura il diritto alla pensione.

Di qui alcune proposte che sono circolate negli ultimi giorni. Ad esempio, bloccare l’aumento automatico dell’età pensionabile. O riconoscere gli anni universitari ai fini pensionistici, naturalmente a carico dello Stato. Si tratta, in entrambi i casi, di misure assai discutibili, anche se per ragioni in parte diverse.

Il blocco dell’aumento dell’età pensionabile (ammesso che tale aumento abbia luogo: in Italia la speranza di vita sta scendendo, anziché aumentare) ha un ovvio costo per il sistema previdenziale, di cui qualcuno dovrà farsi carico. Quanto al riscatto degli anni di studio, non solo ha un costo ingente, ma è una misura fortemente inegualitaria. Gli studenti che conseguono la laurea sono ancora, in Italia, una piccola minoranza dei giovani, e nella maggior parte dei casi provengono dai ceti alti. Non si vede perché la collettività debba conferire un ulteriore vantaggio a questo gruppo sociale, e a spese di chi.

Qualsiasi cosa si pensi di queste proposte, il problema giovanile comunque resta in piedi, in tutta la sua dura realtà. Ed è così grave che qualcuno comincia a pensare che sia un problema epocale, intrinsecamente irrisolvibile, almeno per le economie occidentali. Il rallentamento della crescita provocato dalla crisi e l’avanzare dei processi di automazione, basati sull’intelligenza artificiale, le macchine, i robot, renderebbero sempre più difficile garantire un lavoro a tutti. E poiché i giovani, per definizione, sono quelli che nel sistema devono ancora “entrare”, ecco pronta la diagnosi: per loro non c’è spazio, e non ce ne sarà mai, perché i posti nuovi scarseggiano e chi un posto ce l’ha se lo tiene stretto.

Questa visione delle cose, che spesso si manifesta nel registro dell’indignazione, ha anche un’importante funzione autoconsolatoria, che diventa autoassolutoria quando ad esprimerla sono persone con responsabilità di governo. Se questo è il destino delle nostre società, c’è ben poco da fare, e comunque la colpa non è di nessuno. Così va il mondo…

A ben guardare, tuttavia, questa diagnosi è incompatibile con i dati. E non lo è per la semplice ragione che il dramma giovanile non è affatto universale. Anche restando nel mondo occidentale, anche restringendo il nostro campo di osservazione all’Europa, o limitandoci ai paesi europei a noi più comparabili (Francia, Spagna, Germania, Regno Unito), quel dramma non emerge affatto. O meglio emerge come caratteristico di certi paesi, ma non di altri.

Sia prima sia dopo la crisi, a fronte di paesi con un tasso di occupazione bassissimo (Turchia, Grecia, Italia), vi sono molti paesi con tassi di occupazione giovanile che superano l’80%, e in alcuni casi sfiorano il 90%. E non si tratta affatto dei paesi più arretrati, risparmiati dal progresso tecnico e dall’automazione, bensì di alcune fra le più moderne economie dell’Europa occidentale: Francia, Regno Unito, Irlanda, Austria, Svizzera, Norvegia, Svezia, Finlandia, Olanda, Belgio, per limitarci ai casi più significativi. Lì i giovani un lavoro lo trovavano ieri, prima della crisi, e lo trovano oggi, dopo il grande shock subito dalle economie occidentali nel 2007-2011.

Ma, si potrebbe obiettare, la crisi ha comunque ridotto le chances occupazionali dei giovani. Questo in parte è vero, perché in media, in Europa, il tasso di occupazione giovanile (nella fascia 25-34 anni) fra il 2008 e il 2016 ha perso 2.6 punti percentuali. Quel che è interessante, tuttavia, è che questa riduzione ha riguardato poco più della metà dei paesi europei, mentre per gli altri le possibilità di trovare lavoro dei giovani sono aumentate. Questo vale soprattutto per diversi paesi dell’Est, ma vale anche per alcuni paesi occidentali, come il Regno Unito, l’Austria e, soprattutto, la Germania, l’unico paese occidentale importante che, prima della crisi non era nel gruppetto di testa dei paesi con tasso di occupazione giovanile superiore all’80%.

E l’Italia? Nel 2007 era penultima in Europa, solo la Turchia (complice la cultura islamica, che non favorisce certo l’ingresso delle donne sul mercato del lavoro), faceva peggio di noi. Oggi siamo ultimi: facciamo peggio della Grecia, della Turchia, della Spagna.

Forse, anziché considerare inevitabile che i giovani vivano alle spalle degli adulti, dovremmo chiederci perché questo succede solo in alcuni paesi. E come mai, fra questi paesi, il nostro è quello in cui succede di più.

Pubblicato su Panorama il 14 agosto 2017



La Terza Società

Quando si parla del sistema sociale e delle sue divisioni si fa per lo più riferimento a due tipi di fratture sociali fondamentali.

La prima è quella dei livelli di reddito, che permette di suddividere la popolazione in strati più o meno numerosi, dai poveri assoluti fino all’élite dei super-ricchi, passando per la vasta area dei ceti medi. E’ in questo filone che si collocano le indagini campionarie sui bilanci familiari, come quelle dell’Istat e della Banca d’Italia.

Il secondo tipo di frattura riguarda i rapporti sociali, e conduce a suddividere la popolazione in grandi classi sociali. Un filone che nel mondo anglosassone deve molto agli studi di Golthorpe, e che in Italia era stato inaugurato da Sylos Labini, con il suo famoso Saggio sulle classi sociali.

Oggi entrambi gli approcci precedenti mostrano limiti piuttosto severi. L’approccio in termini di livelli di reddito, inevitabilmente condotto a partire dalle condizioni economiche della famiglia, finisce per cancellare le differenze, storicamente sempre più importanti, fra percettori di reddito e membri mantenuti o sussidiati. L’approccio in termini di grandi classi sociali, a sua volta, deve fare i conti con lo svuotamento tendenziale delle grandi classi sociali del passato, come la classe operaia e i contadini.

Ma la difficoltà fondamentale di un’analisi attuale delle divisioni sociali sta nel fatto che oggi nel luogo centrale che genera le differenze sociali, ossia il mercato del lavoro, opera ormai una minoranza della popolazione (circa 25 milioni di persone su 60, nel caso italiano), minoranza al cui interno i capifamiglia che lavorano costituiscono, a loro volta, una ancor più esigua minoranza (circa 12 milioni di persone su 60).

Il fenomeno centrale del nostro tempo, almeno in un paese come l’Italia, è la formazione di un segmento sociale che, pur facendo parte della popolazione potenzialmente attiva (in quanto disponibile a lavorare) vive nondimeno una condizione di grave e radicale esclusione dal circuito del lavoro regolare. In un precedente Rapporto della Fondazione David Hume abbiamo denominato questo segmento “Terza società”, in contrapposizione alla “Prima società” (la società dei garantiti) e alla “Seconda società” (o società del rischio” (Vedi FDH 2005, Ricolfi 2007).

In questo Dossier approfondiamo l’analisi di questo segmento di esclusi, o outsider, da tre prospettive:

  1. la sua evoluzione nel tempo;
  2. la sua ampiezza in Italia, in confronto ad altri paesi avanzati;
  3. il suo orientamento politico.

Per ricostruire gli orientamenti politici dei membri della Terza Società abbiamo commissionato un’apposita indagine demoscopica alla Società Ipsos.

Terza società